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Internazionale

RANIERO LA VALLE AGLI EBREI DELLA DIASPORA

Carissimi Ebrei della Diaspora,
vi scriviamo per parteciparvi una duplice angoscia che cresce in noi a partire da quel 7 ottobre del 2023, quando un’efferata azione dei palestinesi di Hamas fece scempio di un gran numero di ebrei di Israele e di molti non israeliani sui bordi della “striscia” di Gaza.

Insieme al dolore per le vittime e alla esecrazione per la brutalità dell’aggressione, la prima di tali angosce ha tratto origine dalla percezione che le conseguenze di quella azione, con tutto il male che portava con sé, sarebbero ricadute sulla intera popolazione di Gaza e sul popolo palestinese in quanto tale, ovunque situato, nei territori colonizzati della Cisgiordania come nei Paesi vicini.

L’altra angoscia è sorta, ed è cresciuta nel tempo, dalla considerazione che le conseguenze della spietata ritorsione intrapresa dagli Ebrei delle Israel Defence Forces, con tutto il male che porta con sé, ricadranno sull’intero popolo ebraico, sia privando di ogni sicurezza, ad onta di ogni possibile difesa, i cittadini dello Stato di Israele, sia mettendo a repentaglio, con risultati imprevedibili, il popolo ebraico della Diaspora in quanto tale.

A questa duplice angoscia si aggiunge quella per ciò che può accadere a causa dell’allargamento del conflitto al Libano e all’Iran, e per le conseguenze che ne possono derivare per tutto il Medio Oriente e la residua pace del mondo. Ciò che ci accomuna di fronte a questi eventi, è la nostra condizione di terzietà che ci fa trovare con voi dalla stessa parte sia al cospetto delle attuali condotte dello Stato di Israele, che sono in odore di genocidio, sia delle reazioni violente e illegittime dei suoi antagonisti, sia della responsabilità che tutti abbiamo in ordine alla “questione palestinese”.

Il nostro coinvolgimento in questa tragedia è determinato anche dal fatto che essa non investe direttamente solo i due popoli in lotta, né è solo un evento di portata locale, ma investe tutti i popoli e gli Stati ed ha una portata di carattere mondiale. Se, non risolvendosi questo conflitto, esso lasciasse dietro di sé due popoli irrimediabilmente nemici, la cui spinta vitale fosse la distruzione l’uno dell’altro, così ogni altro popolo potrebbe cadere nella stessa sindrome di annientamento reciproco, in modo tale che l’unità della famiglia umana sarebbe rotta e il mondo non potrebbe sussistere.

Perciò, e non solo per molte altre ragioni di cui si potrebbe parlare, noi sentiamo il vostro problema come nostro, e vi scriviamo non per darvi moniti e consigli che non abbiamo l’autorità di darvi e che voi potreste non trovare alcuna ragione di accogliere,
ma perché siamo convinti che insieme dobbiamo farci carico di questa sfida e insieme immaginare e cercarne la soluzione sul piano effettuale e politico. Se siamo, come si dice, a un “cambiamento d’epoca”, tutti noi contemporanei ne siamo responsabili e autori.

Un’altra ragione per farlo, senza che questo voglia dire un’interferenza in una questione che è solo vostra, è il fatto che come noi comprendiamo ed è di dominio comune, alla radice di questa terribile vicenda c’è una realtà di fatto che non è solo dello Stato di Israele, che in oltre 70 anni non è riuscito a dare soluzione al problema del rapporto sulla stessa terra con un gran numero di residenti che hanno altra origine, storia, lingua, religione e cultura, ma è anche e sempre più potrà diventare un problema anche nostro; e ciò in ragione delle correnti migratorie, regolari e irregolari, che affluiscono nei nostri Stati e che le nostre politiche sembrano non in grado di fronteggiare. La differenza sta nel fatto che mentre gli Ebrei sono gli “altri” sopraggiunti a sostituire una popolazione già esistente, i nostri Stati sono la popolazione esistente a cui si aggiungono gli “altri” che arrivano sempre più numerosi, provocando in essa inevitabili cambiamenti. Se i nostri Stati affrontassero il problema del rapporto con i migranti nella prevalente preoccupazione di una “identità” e invarianza da preservare, il rischio sarebbe di vivere “la questione migratoria” con la stessa ambascia con cui lo Stato di Israele fin dall’inizio ha avvertito “la questione palestinese”. E sarebbe una catastrofe se noi volessimo difendere la “nazione” e i valori nazionali, ben oltre la chiusura delle frontiere e dei porti, in modo corrispondente alla perentorietà con cui lo Stato di Israele rivendica e tutela la propria identità nella sua Legge fondamentale. Tale Legge, adottata per iniziativa del premier Netanyahu ma con l’opposizione del Presidente di Israele Reuven Rivlin il 19 luglio 2018, com’è noto definisce Israele come “Stato Nazione del Popolo Ebraico”, la Terra di Israele (più volte identificata in Israele con la terra che si stende dal mare al Giordano) come “la patria storica del popolo ebraico in cui lo Stato di Israele si è insediato” e “Gerusalemme integra e indivisa” come la capitale -di Israele.

Si può obiettare che l’identità che rende così tipico e coeso il popolo ebraico è ben più forte e storicamente sperimentata di quella che unisce i cittadini dei nostri Stati, che sono ormai inclusi in società per larga parte multietniche e pluraliste, legittimate da ordinamenti democratici, a differenza dello Stato di Israele in cui la citata Legge fondamentale riserva i diritti di natura politica “esclusivamente al popolo ebraico”. Ma se si rifiuta di cogliere la “differenza ebraica” nella specificità razziale, che è stata usata a fondamento della perversione dell’antisemitismo (“razziali” si chiamavano le leggi che l’hanno promosso) si deve cercare altrove il cemento di questa unità e specificità del popolo cui appartenete; e noi lo troviamo nella storia di Israele, nella sua fede, nel
suo riferimento alla tradizione biblica e talmudica, (“la Legge e i Profeti”!), e nella solidarietà nel dolore determinata dall’esperienza e dalla memoria delle persecuzioni subite.

Ma allora di nuovo si scopre quanto abbiamo in comune e come sia anche nostro il problema delle politiche e della figura attuali dello Stato di Israele.

Prima di tutto ci sembra che il riferimento alla fede e alla tradizione religiosa di Israele apra uno spazio fecondo di alterità tra voi, popolo ebraico della Diaspora, e i vostri fratelli ebrei dello Stato di Israele. Diverso infatti nei due casi ci appare questo rapporto. I cittadini anche non credenti della società israeliana, in larga parte secolarizzata (non diversamente dalle altre società dell’Occidente) vi fanno riferimento e le professano fedeltà come fondamento e garanzia dello Stato, che fin dall’origine ha scelto di stabilire in essa la propria legittimazione; infatti essa è implicitamente riconosciuta dalla comunità internazionale che correntemente si riferisce ad Israele come allo “Stato ebraico”. Questo però comporta una lettura del patrimonio spirituale dell’ebraismo in termini temporali e politici, non sempre prudenti, che distorcono agli occhi degli osservatori esterni il significato della fede ebraica e che nei momenti di crisi sono accentuati dai governanti di Israele per difendere le loro scelte e ottenere una sorta di insindacabilità delle loro politiche, mettendo in carico all’antisemitismo le riserve e le critiche che vengono loro rivolte. Il danno di questo uso strumentale dei tesori dell’ebraismo ci è apparso ingigantito nel corso di questa crisi, per il frequente ricorso che vi ha fatto il premier Netanyahu, rivendicando una filiazione diretta delle sue scelte dai comandi di Mosè e dalle gesta di Giosuè, stabilendo una continuità di fatto tra le azioni distruttive di oggi e gli stermini di ieri dei popoli vinti da Israele nell’epica conquista della Terra promessa, interpretando settariamente l’effetto della presenza di Israele sulla “mappa” del mondo in termini di benedizione e maledizione, presentando lo Stato di Israele nella forma di un messianismo realizzato e rompendo con la comunità delle Nazioni in una rinnovata contrapposizione tra Ebrei e “Gentili”. Una linea di governo che si è manifestata bollando l’Organizzazione che le riunisce, l’ONU, come una “palude di antisemitismo”, non risparmiando la vita dei suoi operatori umanitari, attaccandone i militari in missione di pace, dichiarando persona non grata il suo massimo rappresentante e sdegnando le pronunzie i moniti e le accuse dei suoi organi istituzionali e giudiziari. Siamo particolarmente raccapricciati e appare blasfema la pratica di uccidere i nemici uno per uno e promettere di ucciderli tutti invocando il nome di Dio, avendo in premio la luce e l’entusiastico consenso di Biden.

Vogliamo rendervi atto che molto diversa è la testimonianza dei valori dell’ebraismo e della fede di Israele che si sprigiona dal vasto mondo degli Ebrei della Diaspora. Anche tra voi ci sono credenti e non credenti, e senza dubbio è ragione di arricchimento per
tutti la presenza e l’integrazione degli Ebrei della Diaspora nelle nostre società laiche e nella costruzione di autentiche democrazie. Ma se teniamo conto della ricca varietà di posizioni espresse in seno all’ebraismo, vediamo come una gran parte dei sapienti d’Israele e dell’ebraismo rabbinico ha respinto nel passato, e in notevole misura lo fa anche oggi, una interpretazione del messianismo in senso politico e mondano, professando come riservata a Dio l’attuazione delle promesse messianiche, ha giurato di “non forzare la fine”, si è dissociata da una versione del sionismo in un suo intreccio perverso con lo Stato, rivendica il valore della vita ebraica “nel differimento” della redenzione e nell’esilio, legge in modo non fondamentalista il libro sacro e ha parole di vita riguardo a molte altre cose. Grande perciò, dal nostro punto di vista, sarebbe l’importanza di una crescita del dialogo e del confronto tra il mondo della Diaspora e gli Ebrei dello Stato di Israele, in vista di un cambiamento e di una rettifica degli errori commessi (denunciati perfino dagli Stati Uniti) e anche ai fini di un contenimento e di un antidoto al risorgente mostro dell’antisemitismo o, come è stato chiamato anche da autorevoli Ebrei, al “suicidio di Israele”.
La seconda realtà chiamata in causa dal riferimento alla fede e alla tradizione biblica di Israele è quella dell’Occidente, il quale non a caso è collocato, da un luogo comune di cui molti ignorano la vera portata, nella filiazione dalla tradizione “ebraico-cristiana”.

Se questo è vero, si pone un problema molto grave per noi, al di là delle opzioni di fede di ognuno. A questa nostra tradizione appartiene una parola di Gesù detta alla donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe, tramandata dal Vangelo di Giovanni, che afferma: “La salvezza viene dai Giudei”. La nostra esperienza attuale e la tragedia di Gaza insinuano che ne venga invece la perdizione e la fine. Il problema consiste nel fatto che o lasciamo cadere come infondata e inattendibile la predizione di Gesù, ma allora è tutto il Vangelo che cade, oppure la situazione presente viene rovesciata e questa profezia si traduce in lieto preannunzio di un altro futuro e in un compito da assolvere. Nella storia della cristianità per molto tempo questa seconda ipotesi è stata scartata (“i perfidi Giudei”!) ma nel nostro tempo il rovesciamento è avvenuto, come dimostrano la riforma della liturgia, la fede espressa nel documento “Nostra aetate” del Concilio Vaticano II”, il dialogo ecumenico e quello ebraico-cristiano, il riconoscimento degli Ebrei come “nostri fratelli maggiori” secondo la pronunzia di Paolo VI, il documento di Abu Dhabi e la “Fratres omnes” di papa Francesco, così come nel mondo laico il ravvedimento è attestato dal pentimento e dalla condanna universale della Shoà insieme all’onore e al pregiudizio favorevole riservati agli Ebrei contro ogni antisemitismo. A ciò si aggiunge, da parte della storiografia scientifica e della ermeneutica cristiana una lettura non pedissequa della Bibbia (quella letterale
sarebbe secondo i teologi cattolici “un suicidio del pensiero”) che non considera “storici” i libri “storici” dell’Antico Testamento, scritti molti secoli dopo i fatti narrati, e perciò non attestanti fatti effettivamente avvenuti. Ciò significa liberare il popolo ebraico dalla pretesa origine da un delitto fondatore, e addirittura da un passato di decreti di sterminio ed eccidi di interi popoli (molti dei quali all’epoca nemmeno esistenti) su commissione di un improbabile Dio violento, a sua volta successivamente ucciso nel Figlio, e cancellare l’intero armamentario ideologico su cui è stata storicamente fondata la persecuzione antisemita. Per contro un passato di delitti fondatori e di messianismi letali lo hanno molte realizzazioni genocide e colonizzazioni insediative dell’Occidente “civilizzatore”, come nella “scoperta” e conquista dell’America, nell’America cosiddetta “latina”, nell’Africa non solo del Sud, in Oceania e altrove.

Così ristabilito l’orizzonte in cui operare, si apre la possibilità di un’alleanza di tutti i soggetti fautori di pace con gli Ebrei della Diaspora per un dialogo con l’attuale Stato di Israele, la ricerca di una soluzione e la costruzione di un’alternativa riguardante non solo Israele e i palestinesi ma la pace e l’unità stessa del mondo.

Sarebbe una presunzione e ancora il riflesso di una mentalità egemonica stabilire i termini di tale soluzione, che possono scaturire solo da una ricerca comune e dalla inventiva della storia. Si può però affermare con un sufficiente grado di certezza che una soluzione può risiedere solo in una riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi e non solo venire da artifici politici e diplomatici. Per la costruzione di un’alternativa si deve ormai abbandonare la fuorviante soluzione a due Stati, per la quale ci vorrebbe ben più che una riconciliazione, tra due Stati limitrofi e indiziati a combattersi, anche ove mai tale soluzione fosse stata possibile e auspicabile in passato, nonché la finzione di negoziati in realtà ordinati a confermare e preservare la situazione qual è, come è stato sostenuto anche in un dialogo tra due culture diverse, quale il dialogo tra Ilan Pappé con Noam Chomski. Resta la soluzione a uno Stato, ma allora va costruita attraverso una riforma della figura di Stato vigente, riforma che pertanto riguarda non solo lo Stato di Israele, nel quale l’identità etnico-religiosa spinta all’estremo ha dato luogo a un regime di dominio e di guerra, ma la stessa forma di Stato moderno, quale si è andata a fissare negli Stati esistenti, che nel loro insieme ormai globalizzato si presentano come un coacervo di sovranità in competizione se non in lotta tra loro, che hanno eletto come ultimo (e spesso anche primo) giudice tra loro, la guerra. Lo Stato rispondente alla nuova realtà di una comunità mondiale pluralistica e multiculturale dovrà piuttosto costruirsi in una pluralità di ordinamenti giuridici interagenti tra loro, che insedino come sovrana la pace, assicurino l’eguaglianza, riconoscano non solo come affare individuale e “privato”, ma sociale e significante per tutti, le culture le religioni e le
tradizioni diverse, e aprano le frontiere e i porti alla libera circolazione non solo delle economie e delle merci, ma delle persone e dei popoli. Si potrebbe perfino pensare che nel nuovo “villaggio globale” agli organismi che corrispondono ai tre poteri competenti nelle relazioni interne agli Stati, legislativo, esecutivo e giudiziario, possa aggiungersi un altro organo, quello della diplomazia, con poteri di consiglio e di controllo sui rapporti esterni e le scelte internazionali dello Stato, a partire dalla scelta costituzionalmente obbligante della pace, della salvaguardia del creato e della dignità delle creature. Così come si potrebbe pensare a uno sviluppo del diritto che giunga ad abrogare e sanzionare la figura del “Nemico”; e ciò non solo in Europa, quando perfino nell’Impero ottomano Ebrei e Islamici hanno vissuto insieme pacificamente per secoli, senza ombra di antisemitismo.

Questo volevamo dire agli Ebrei con noi conviventi, nostri vicini, concittadini, sorelle e fratelli in quest’epoca nuova.
Raniero La Valle e Comitati Dossetti per la Costituzione, Domenico Gallo, giurista, Roberta De Monticelli, filosofa
Con (firme dei mittenti in ordine di apposizione):
Raffaele Nogaro, vescovo cattolico, Claudio Grassi, legislatore, Felice Scalia, gesuita, Elena Basile, ambasciatrice, Luigi Ferrajoli, giurista, Giovanni Ricchiuti, vescovo cattolico, presidente di Pax Christi Italia, Stefania Tuzi, storica dell’architettura, Francesco Di Matteo, avvocato, Francesco Zanchini di Castiglionchio, canonista, Massimo Zucconi, architetto, Fulvio De Giorgi, ordinario di storia dell’educazione, Agata Cancelliere, insegnante, Giorgio Rivolta, docente di filosofia, Santino Di Dio, impiegato, Raffaele Luise, giornalista, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Vito Micunco, Comitati pugliesi per la Pace, Nicola Colaianni, già Magistrato di Cassazione; Nicola Costantino, ex Rettore del Politecnico di Bari; Nicola Pantaleo, già Presidente del Consiglio della Chiesa Evangelica Battista di Bari;, Antonio Malorni, biochimico, Paolo Cento, legislatore, Fabio Filippi, editore, Enrico Peyretti, insegnante e maestro di pace, Grazia Portoghesi Tuzi, etnomusicologa, Francesco Comina, insegnante, Paola Patuelli, insegnante, Anna Sabatini Scalmati, psicanalista, Angelo Cifatte, funzionario pubblico, Riccardo Valeriani, assistente sociale, Luca Robino, (“Persona al centro”), Don Emilio Maltagliati, Parroco emerito di Cassinetta di Lugagnano (Mi),
e con:
Ottavio Di Grazia, Storico della Shoà, Tonio Dell'Olio, presidente Pro Civitate Christiana, Don Renato Sacco, Pax Christi, Mario Menin, direttore di "Missione Oggi", Franco Ferrari, Presidente “Viandanti”, Giuseppe Limone, filosofo e giurista, Carlo
Maria Ferraris. Redazione de “Il Gallo", Maurizio Serofilli, Emanuele Pellicanò, direttore di Montedomini, Firenze, Maurizio Mazzetto, presbitero (Pax Christi), Paola Mario, insegnante, Gian Piero Saladino, assistente sociale, Paolo Farinella, biblista, Moreno Biagioni (Comitato "Fermiamo la guerra" di Firenze), Giancarlo Piccinni, Presidente Fondazione don Tonino Bello, Alfonso Gianni, saggista, Firenze, Pietro Soldini, sindacalista, Roberto Rusconi, storico del cristianesimo e delle Chiese, Giorgio Trentin, sinologo, Vincenzo Colli, storico del diritto medievale, Francesco Pistoia, già sindaco e legislatore, Sergio Paronetto, Pax Christi, Flavio Pajer, docente di Pedagogia comparata delle religioni, don Severo Piovanelli, ex parroco, Federico Palmonari, fisico nucleare, Fabrizio Truini, amicizia ebraico-cristiana, Anna Doria, insegnante, Maria Speranza Perna, docente, Massimo Marnetto, attivista, Carmine Miccoli, prete, Luigi Bertagnolli, libero professionista, P. Abdo Raad, missionario, Manlio Schiavo, docente, Bernardino Zanella, Servo di Maria, Vincenzo Marras, già direttore di “Jesus”, Pier Giorgio Maiardi, pensionato bancario, Roberto Fiorini, Giovanna Monina già Dirigente del Servizio Sanitario Nazionale, Antonio Caputo, giurista, Leonarda Stucchi, Gianni Bacci, Cristina Giorcelli, docente americanista, Elena Berlanda, insegnante, Barbara Varelli, Paola Pecco, Luigi Consonni, preteoperaio, Lino Prenna coordinatore di "Agire Politicamente" , Vito Capano, "Il Gallo" di Genova, don Mario Marchiori, parroco, Lucia Maccone Sica, insegnante, Giulio Sica, già magistrato di Cassazione, Bice Parodi, Fondatrice dell’associazione ’”senza paura” Genova, Luigi Colavincenzo, dirigente pubblico
e con:
Beatrice Draghetti, già presidente della provincia di Bologna, Peppe Sini, Centro per la pace di Viterbo, Daniele Mauri, Comunidad Santo Espìritu, Lima, Perù, Francesco Domenico Capizzi, chirurgo, Giovanni Ferretti, filosofo e presbitero cattolico, già rettore dell’Università di Macerata, Francesco Antonio Romito, avvocato, Mario Agostinelli presidente Associazione Laudato Si’, Laura Nanni, docente di filosofia, Art’incantiere, Eleonora Stillitani, insegnante, Piergiorgio Bortolotti, operatore sociale, Roberto Mazzotta, diplomatico, Giovanni Lamagna, docente, Marco Vincenzi, operatore sociale, Andreina Albano, addetto stampa, Eleonora Caltabiano, medico, Santo Di Nuovo, psicologo, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso, avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, comboniano, Pier Giorgio Taneburgo, Biblioteca Provincia Puglie, frati cappuccini, Francesca Vessia, pedagogista, Claudio Ciancio, professore di Filosofia teoretica, Loris Nobili, ex dipendente della Banca Nazionale dell’Agricoltura e presente alla strage di Piazza Fontana, Franco Meloni, direttore Aladinpensiero News, Lina Ibba, medico, Stefano Toppi, ingegnere, Alessandro Bellavite Pellegrini, cristiano semplice, Gaetano Dammacco, Docente di
diritto ecclesiastico, Paolo Orsolino, architetto. Maria Teresa Cattarossi, insegnante e psicoterapeuta. Luca Ulianich, ricercatore CNR, Roberto Gelpi, ingegnere e biblista, Maria Rosa Filippone, Carolina Goretti, Maria Nella Abbassetti, Ugo Ugazio, filosofo, Susanna Braccia, segretaria. Laura Marotta, impiegata. Sr. Maria Costanza Crippa, eremita, Ilva Palchetti, attivista, Roberto Bertoli, ex giornalaio, Giuseppe Deiana, presidente Associazione Puecher di Milano, Grazia Bellini, presidente della Fondazione Balducci, Liviana Gazzetta, insegnante, Luca Kocci, insegnante
e con:
Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, Pasquale La Cerra pediatra, Giuseppina Sciacca, Ufficio Approvvigionamenti Sanità, Francesca Scarpat, Pio Zanella, p. Giovanni Belloni, Elisabetta Porro, Flavo Fenici, medico, Ettore Fasciano, Carlo Bolpin e Associazione “Esodo”, Pier Luigi Biamonti, avvocato, Daniela Turato, docente, Giovanni Giuffrida, ingegnere informatico, Giuliana Amadio, madre di famiglia, Paolo Bertagnolli, insegnante, Angela Mancuso, Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà, Franca Littarru, Piccola sorella di Gesù, Emilia Forconi Occorsio, insegnante, Raffaele (Lello) Agretti, poeta, Domenico Garozzo, chimico, dirigente di ricerca del CNR. Carmelina Loguercio, ordinaria di gastroenterologia, Livia Malorni, ricercatrice CNR, biologa computazionale e madre, Norma Naim, dirigente Regione Campania, Giacomo Meloni, segretario della Confederazione Sindacale Sarda-CSS, Gianfranco Maddoli, già Sindaco di Perugia, Giorgio Sartori, educatore, Maria Ricciardi Giannoni, “Pace Terra Dignità”, Nicola Sannolo, professore di medicina del lavoro, Gaetano Dammacco, Docente di diritto ecclesiastico, Pierpaolo Favia, docente. Gruppo Ecumenico di Bari, Vito Lacirignola. Editore Stilo, Franca Maria Lorusso, avvocato ecclesiastico, Corrado De Robertis, Comboniano, Pier Giorgio Taneburgo, Biblioteca Puglie frati cappuccini, Francesca Vessia, Pedagogista
Le motivazioni di ogni mittente firmatario sono conservate in archivio. Il gran numero di quanti hanno voluto unirsi ai mittenti di questa lettera indica come essa interpreti il pensiero e possa ispirare l’azione di tanti altri tra i Gentili intesi a promuovere un mondo diverso.

Racconti di vita

CIRILLINO TROPPE'URVE

A dire il vero questa “storia di vita”, oltre che molto semplice e molto vera, è un poco amara. Una piccola povera storia vera dalla quale cercar di trovare stimolo a vigilare meglio su noi stessi e su ciò che siamo e su chi ci sta intorno, per aiutarci e aiutare a prendere consapevolezza della dignità e della responsabilità che la vita merita: la vita non può essere sprecata. Vi lasciamo il racconto così come ci è stato trasmesso.


                                                                                               *****

Nel rione di San Giusto, a Pisa, per un certo periodo di tempo tra la fine della seconda guerra mondiale ed il pieno del miracolo economico italiano, erano sulla bocca di tutti due fratelli, nati ambedue intorno al 1910.

Si chiamavano Libertario e Giordanobruno Riglioni, ed i loro nomi la dicevano lunga sulle idee politiche del loro padre, per il quale anarchico era il pensiero giusto e verso l’anarchia doveva andare la storia.

Libertario si rese famoso per essere uno degli antifascisti più duri a morire e si fece un po’ di gattabuia e parecchio confino; dopo il 25 luglio del 1943 diede sfogo a tutto il suo patriottismo e, durante la guerra civile, non disdegnò di mettersi al servizio dell’Intelligence inglese e meritarsi, a fine conflitto, un bell’attestato del maresciallo Anders.

Fratello minore di Libertario  era Giordanobruno, che non si occupò mai di politica per la paura di perdere il posto di fuochista nelle FFSS. Anzi, durante il ventennio del regime cambiò nome in un più semplice Bruno. Sposò una casalinga, brava cuoca, e si rese popolare in San Giusto come raccoglitore di funghi e di lumache. Fece il fuochista fino a che esistettero le locomotive da manovra a vapore,  poi morì senza godersi la pensione.

Ebbe due figli che erano duri come il macigno: sì e no fecero le scuole dell’obbligo, ma senza profitto. Il maggiore, Velio, fece anche lui il ferroviere – settore personale viaggiante – e sbattè la porta in faccia ad amici e parenti quando seppe che qualcuno aveva detto di lui che nelle FFSS non era entrato per concorso ma per un colpo di fortuna.

Infatti, cominciò come facchino in una cooperativa di carico e scarico che fu sciolta all’arrivo della legge detta erga omnes, ed i cui dipendenti furono assunti dalle FFSS come manovali. Il lavoro da facchino glielo aveva trovato un suo lontano parente da parte di madre, preso da compassione per quel povero giovane che rischiava di divenire uno dei tanti disoccupati cronici dell’epoca.

Il secondo figlio, Rodolfo, aveva trovato, chissà come, un posto di saldatore nello stabilimento della Piaggio a Portammare, dove si assemblava l’Ape e dove, come inizio, si procurò, con la fiamma ossidrica, una ustione che gli fruttò alcune settimane di cassa mutua e riposo. Dato che era un bel ragazzo, era entrato in simpatia di un altro lontano parente, un impiegato spezzino dell’Inps che un giorno gli chiese perché, data la sua prestanza fisica, non avesse scelto la carriera del fotomodello: Firenze era vicina con il suo mondo della moda, e molte porte gli si sarebbero aperte con poca fatica. Ebbe però una risposta sibillina.

Altrettanto sibillina (“Sono mestieri periolosi”) la ebbe quando il parente gli chiese perché non facesse la guardia notturna o il carabiniere, data la dichiarata pesantezza del mestiere di saldatore: almeno, a far certi mestieri, come ad esempio la guardia notturna o il carabiniere, c’è poco da sfacchinare, si pensava.

Dato che erano in argomento, il parente previdenzialista si sentì chiedere se avesse conoscenze nella direzione della Piaggio per un’eventuale spintarella. Il previdenzialista non ebbe il coraggio di dire di no: parlò del ragazzo in termini benevoli con il capo del personale della Piaggio, che fece di tutto per far trasferire il Rodolfo Riglioni da Pisa a Pontedera, dove si stavano raddoppiando gli stabilimenti e i dipendenti.

Mal ne incolse al parente Inps, perché dopo due o tre mesi il raccomandato di ferro fu sbattuto fuori della Piaggio come una ramazza, per manifesto scarso rendimento. Infatti il Riglioni era stato, sì, spedito alla catena di montaggio della Vespa, ma gli era stato anche accennato che se ci sapeva fare sarebbe stato promosso di categoria e poi, chissà, avrebbe potuto divenire anche un capetto. Invece il Riglioni si fece subito venire una peritonite con conseguenti lunghe settimane di convalescenza, cure, e, soprattutto, riposo: situazioni che aggravarono la sua posizione di ritardatario cronico.

Egli si giustificò del licenziamento in tronco dicendo alla fidanzata, al parentado, ai cugini laureati, al parente Inps e alla relativa signora, che alla Piaggio di Pontedera si respirava un’aria mefitica fatta di controlli e di spinte, e che lui si era ribellato. Fu creduto.

Nonostante questo precedente, però, riuscì a trovare – forse con il metodo usato qualche anno prima da suo fratello – un posticino da autista nell’azienda municipalizzata dei trasporti cittadini, ove ti licenziano solo se spacchi la faccia ad un dirigente. E allora, dopo un annetto di guida degli autobus urbani, un’ernia del disco lo mise cappaò. Operazioni chirurgiche, degenze, convalescenze e riabilitazioni nelle principali stazioni termali della penisola, che convinsero l’azienda a considerarlo inabile alla guida: per compassione fu spedito in officina, ove si distinse per le sue movenze da bradipo, tanto che i suoi colleghi lo soprannominarono sarcasticamente Motorino.

Rimase in officina fino al prepensionamento, che avvenne in età talmente giovanile da permettergli di dedicarsi, finalmente, alla sua unica vera passione: la pesca sportiva. Ora sì che poteva alzarsi dal letto all’alba: ma non per andare all’odiato lavoro, bensì per andare coi gambali fino alla coscia nelle gelide acque del Serchio e in quelle vorticose della Lima per la pesca con la canna, e fra i marosi del Tirreno in burrasca per la pesca al rezzaglio.

Postumi della peritonite e dell’ernia del disco? Neanche a parlarne. Durante le battute di pesca al rezzaglio conobbe dei pescatori livornesi dai quali apprese le locuzioni “boiadè!” e “borda!”, con le quali modernizzò un pò il suo linguaggio. Infatti, avendo vissuto fino alla pubertà attaccato alle gonnelle della madre che era una popolana, diceva, ad esempio, “la diabete” invece che “il diabete”; e altre eleganze linguistiche.
La fidanzata, poi moglie, di Rodolfo Riglioni era una commessa di drogheria, figlia di un bracciante inurbato. Si chiamava Morena; aveva fatto sì e no le elementari, ma le piacevano tanto i soldi e l’oreficeria. Avrebbe voluto riscattarsi civilmente, ma non certo andando alle scuole serali, perché le sarebbero state proibite dal Riglioni Rodolfo, geloso come un Otello.

Avrebbe potuto, in alternativa, imparare qualcosa qua e là: ed il qua e là poteva essere attraverso il parente Inps e la relativa moglie, ai quali chiese infatti di poter andare  a una gita collettiva verso San Gimignano, città che aveva sempre sentito nominare ma che non aveva mai visto neanche in cartolina: fece la richiesta  perché sapeva che il previdenzialista e sua moglie erano una coppia colta, dalla quale avrebbe potuto imparare parecchio.

Il previdenzialista si diede in effetti da fare, spiegando la bellezza soave della cappella di Santa Fina del Ghirlandaio e quella di Piazza della Cisterna, tutta a sghimbescio ma pure piccolo capolavoro della urbanistica rinascimentale. Al ritorno, chiese al Riglioni se gli era piaciuta la piazza ed ebbe come tutta risposta che sì, poteva essere anche bella, ma “c’erano troppe cornacchie”.

Analoga risposta intelligente fu data dopo una gitarella in Garfagnana, subregione oggetto di culto da parte di tutta la borghesia di Pisa: “Forse saranno bei posti, ma ci sono troppe ùrve”. Così si beccò anche il soprannome di Cirillino Troppeurve.

Il parente previdenzialista era sposato, a sua volta, con una bella e simpatica impiegata dell’Autorità Portuale di Livorno, che morì improvvisamente divorata da un cancro: cosa che lasciò Riglioni talmente sconvolto da fargli decidere di lasciare tutto e traslocare nella Spezia, ove aveva lasciato qualche amico e qualche parente. E un giorno, nel trigesimo della morte della signora, guidato dalla Morena, Rodolfo si fece avanti per vedere se per caso lei avesse lasciato dell’oro e per sapere se, nell’intrico giuridico relativo alla quota legittima, c’era da raspare qualche milioncino di lire. Trovarono il portone chiuso ed un cartello di “vendesi” con la sola indicazione di un numero telefonico che iniziava con zero-uno-otto-sette. Tornarono indietro ritenendosi sfortunati…
                                                                                                       
                                                                                                                 (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

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Racconti di vita

QUELLE STRANE PORZIONI

A volte, ma non così raramente come in genere si pensa, apprendiamo lezioni di vita da una casuale affermazione di vecchio saggio, ad esempio di un nonno, molto più che da dieci lezioni universitarie.

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Lo so bene perché il bunet (dolce tipico della cucina tradizionale piemontese, preparato con latte, uova, cacao e amaretti) mi piace tanto.  
Avevo dodici anni, in quell’agosto, ed era giorno della Fiera di San Rocco. La fiera era sempre un bel giorno per noi bambini, ma anche per i grandi, che passavano la mattinata tra i banchi del mercato, al bar, a sentire il sindaco che teneva il discorso tra un brano musicale e l’altro della banda comunale; la fiera piaceva un po’ meno alle donne, che la mattinata finivano per passarla in cucina, perché il giorno della fiera qualche ospite in casa finiva per esserci sempre.

E quell’anno, il giorno della fiera, invitato di lusso era in casa nostra addirittura il dottor Luigi Porretti, luminare e massimo esperto ortopedico dell’università di Torino, nonché relatore della tesi di laurea di mia sorella.

Sì, perchè grazie agli aiuti anche economici del nostro medico condotto che aveva visto in mia sorella un futuro grande dottore, lei aveva potuto fare l’università, anche un po’ contro il volere dei miei genitori che pensavano di non poter permettersi questo lusso; comunque mia sorella era ormai arrivata alla fine degli studi, mancava solo la tesi, ed era sembrato logico a tutti invitare il grande professor Porretti alla festa patronale del nostro paesino.

Il dottor Porretti aveva pensato bene di portare con sé tre suoi giovani assistenti: il dottor Roberto Caldi, il dottor Franco Sereni e il dottor Mauro Pescatori. Inutile dire che mentre i quattro avevano girato in lungo e in largo per la fiera, comprando oggetti inutili e costosi fra continue soste al bar per bere aperitivi rigorosamente alcolici, mia mamma e mia nonna dalle sei del mattino avevano preparato tali e tanti piatti che a casa mia tutti insieme non si erano mai visti. Vitello tonnato, carne cruda, insalata russa, salame e prosciutto, agnolotti al plin, bollito, arrosto, fritto misto, con un’abbondanza di carote, spinaci, patate e altre verdure, che non riesco nemmeno a ricordare. E poi il bunet. A casa mia le donne sapevano fare tutto, ma il bunet no: il bunet lo faceva solo la nonna. Con quella pazienza che solo gli anziani sanno avere, mescolava i rossi d’uovo con lo zucchero fino a che non veniva un’amalgama di consistenza unica; poi faceva scendere il cacao a pioggia e senza smettere di mescolare aggiungeva i bianchi delle uova in un modo che sembrava di vedere quella neve che tutti gli anni scende, almeno dalle nostre parti, nella notte di Natale. Con il latte l’impasto diventava fluido, senza grumi, pronto a ricevere il bicchierino di liquore e gli amaretti, sbriciolati in pezzi così uguali che sembrava li avesse fatti una macchina. Poi rovesciava il tutto nello stampo dove aveva fatto caramellare lo zucchero, e quando iniziava la cottura a bagnomaria mia nonna non si muoveva da lì nemmeno per un attimo, come una sentinella di guardia a un carico di diamanti preziosi; restava a fissare pentola, acqua, stampo e coperchio fino a quando non spegneva il fuoco e levava questa perfezione della natura chiamata bunet.
Data l’occasione, per la prima volta mia nonna non aveva fatto il bunet nel solito stampo, così piccolo che sempre ne toccava soltanto un pezzettino per ognuno e io e tutti gli altri ci stavamo male perché, se avessimo potuto, ne avremmo mangiato uno intero a testa; quella volta, visti gli ospiti di riguardo, la nonna aveva preparato due enormi teglie rotonde di bunet. E’ meglio che avanzi: basta che non manchi…” – aveva detto.

La tavolata era numerosa e rumorosa. A capotavola il grande dottor Porretti, alla sua destra e alla sua sinistra i suoi assistenti. Poi mia sorella, mio papà, l’altro mio fratello, mio nonno, zio, zia e due cuginetti; in fondo al tavolo mia mamma e mia nonna, che, poverine, facevano avanti e indietro in cucina e come al solito finivano per mangiare sempre poco di tutto.

Così per tutto il pranzo io non avevo che aspettato il momento del bunet. E mentre i dottori si ingozzavano con tutto quello che veniva portato in tavola, senza rifiutare il bis, senza far avanzare mai niente, senza dimenticare di bere un bicchiere di Barbera o di Grignolino tra un boccone e l’altro, io pensavo solo al bunet; pensavo che per la prima volta avrei potuto mangiare bunet fino a sazietà, fino a esserne così pieno da arrivare a dire “basta,  non voglio più nemmeno un pezzetto di bunet”.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso; come in processione, la mamma e la nonna arrivarono tenendo nelle mani due grandi teglie di bunet, tra lo sguardo ammirato di tutti. Il famoso bunet della nonna. “Dottor Porretti, ci terremmo che fosse lei a tagliarlo!”.
Mia sorella, che durante il pranzo aveva fatto un po’ da padrona di casa perché per tutto il giorno precedente ci aveva raccomandato di non farle fare brutta figura, aveva avvicinato una teglia al grande professore; lui con fare serio aveva mostrato di accettare e gradire la responsabilità dell’incarico: in un silenzio mai visto prima, il dottor Porretti prese il coltello dalla lunga lama e con un gesto lento ma sicuro tagliò in due il bunet; quindi girando di novanta gradi la teglia fece di nuovo correre la lama lungo tutto il diametro. Ne erano usciti quattro grandi spicchi uguali, senza la minima imperfezione; il professore posò il coltello e con la paletta cominciò a distribuire il primo quarto al dottor Caldi, il secondo al dottor Sereni e il terzo al dottor Pescatori. Quando i suoi assistenti furono tutti serviti prese l’ultimo quarto, lo sistemò nel suo piatto e insieme ai suoi illustri colleghi iniziò a mangiare, facendo con il capo ampi gesti di entusiasmo.

Tutti voltammo lo sguardo verso l’altra teglia rimasta e credo che ognuno mentalmente avesse iniziato a suddividerne le porzioni accorgendosi che anche stavolta per noi ci sarebbe stato il solito piccolo pezzo a testa. In un silenzio spezzato solo dal rumore dei cucchiai che i quattro medici impietosamente infilavano nella delizia di cacao, improvviso, inatteso, inimmaginabile, mio nonno sentenziò:
  • Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei… -: Non serve studiare tanto per fare una cosa del genere…

Per un momento tutti pensarono alle raccomandazioni di mia sorella a non fare brutte figure con ospiti così importanti, ma subito nessuno riuscì a resistere e uno dopo l’altro tutti scoppiarono a ridere. Anch’io, ancora deluso per il mio bunet, anche mia sorella che tanto la raffinata aveva fatto fino ad allora, e mio papà, gli zii, la mamma, la nonna, mentre i dottori guardavano senza capire perché ridevamo.

Come andò a finire quel pranzo non lo ricordo più molto bene, se non per quel pezzettino di bunet a testa che comunque abbiamo mangiato tutti; però adesso che sono passati degli anni, che il dottor Porretti credo non sia nemmeno più vivo e i suoi assistenti di allora saranno diventati dei luminari della medicina, sì, adesso il bunet lo ricordo sempre e molto bene. Non c’è più la nonna che lo prepara, anzi ormai in casa il bunet non si fa più: però ogni volta che vado in uno di quei ristoranti di cucina piemontese, alla fine del pranzo il bunet lo prendo sempre. Anche se forse non è nemmeno più il mio dolce preferito, anche se forse ormai mi piacciono di più la crostata o la torta di nocciole o la panna cotta; però finisce che il bunet lo prendo sempre perché a me fa un po’ l’effetto della madeleine di Proust, mi ricorda gli anni dell’infanzia, mi ricorda il dottor Porretti, i suoi giovani assistenti, l’agitazione di mia sorella, tutta la mia famiglia che si mette a ridere per la frase del nonno.

Già, la frase del nonno… Quella mi è servita, mi è servita per la vita da affrontare con quel distacco e quell’ironia che sono indispensabili. Perché poi la mia famiglia è riuscita a far studiare anche me e alla fine ho preso una laurea in ingegneria; però, anche se mi presento sempre come un serio professionista del lavoro, in realtà sono eternamente conscio di essere un perfetto dilettante della vita.  E lo studio, le ambizioni, i successi, gli onori che si finisce per ricercare ogni giorno, saranno sì importanti, ma l’educazione e il buon senso… quelli davvero sono per me fondamentali.

Così tutte le volte che mi rendo conto di essermi lasciato andare ad atteggiamenti presuntuosi, tutte le volte che mi accorgo di quanto si può essere arroganti e quanto si diventa ridicoli nell’esserlo, tutte quelle volte io mi fermo un attimo, mi metto davanti allo specchio e mi dico a voce alta: Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei.
Poi ricomincio di nuovo, fino alla prossima volta. Ma almeno, quando sono davanti a un bunet, me ne ricordo. Sempre.
                                                                                            (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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MM

Racconti di vita

CASTAGNE MATTE E GNOMI DEL BOSCO

Le testimonianze di vita continuano. In questo caso, si tratta dell’importanza estrema e duratura dell’esempio di vita e dell'affetto dei genitori nel processo educativo dei figli, che per la sua organicità  e immediatezza non appare delegabile né sostituibile del tutto, neanche da parte della scuola migliore...

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C’erano una volta, tantissimo tempo fa, un papà e la sua piccola figlia. Si amavano teneramente e il loro amore rendeva ogni gesto ed ogni parola speciali, quasi magici. Vivevano però, a volerla dire tutta, in un luogo che di magico non aveva quasi nulla: non c’erano tramonti incantati nelle serate estive; non si sentiva il profumo dei fiori di gelsomino quando maggio veste generoso le siepi dei giardini; non c’erano piccoli corsi d’acqua dove poter cercare rane e girini; soprattutto non c’era il mare, con il suo odore intenso e il suo rumore possente nelle giornate di tempesta. C’erano invece lunghe file di fabbriche grigie, adagiate nella periferia della grande città, apparentemente disabitate, ma rumorose, per un orecchio attento, a testimonianza dell’incontro operoso di uomini e macchine. C’erano anche lunghe strade che tagliavano la pianura; volendo seguirle con lo sguardo, si saliva verso le colline e poi più su, fino a raggiungere le cime delle Alpi, innevate per tutto l’anno.
La gente che vedeva passeggiare il papà e la sua piccola figlia tenendosi per mano (lei accompagnava lui o lui accompagnava lei non si sa) aveva espressioni di stupore e di meraviglia:
  • Guardate come sono belli, lui sembra un principe, con quel suo largo cappello e il passo elegante, e lei è sicuramente la sua principessina… Fate largo, fate largo… lasciateli passare!
La loro dimora sembrava, da fuori, un po’ fuorimoda con la sua forma stretta e allungata su due piani. A fatica sporgevano due piccoli balconi con la ringhiera di ferro; ma proprio da quelli il papà e la sua piccola figlia immaginavano spesso di affacciarsi per recitare la parte del re e della regina, fino a quando la mamma non chiamava:
  • Tutti a tavola, che è pronto!
Dall’interno della cucina poteva accadere che giungesse la musica di un grammofono e loro ne approfittavano, rientrando, per muovere qualche passo di danza: lei saliva con i piccoli piedi sulle scarpe di lui e insieme ridevano per quell’inganno innocente, mentre piroettavano fra le sedie e il tavolo immaginandosi nel salone di un grande castello.
Giocavano spesso insieme, il papà e la sua piccola figlia: lui era prodigo di invenzioni strabilianti, faceva giochi di prestigio che sembravano vere magie, ma si faceva piccolo come lei quando doveva assecondarla per una sua infantile richiesta. E così inventava favole con maghi e castelli incantati, faceva arrivare cavalieri invincibili che liberavano principesse prigioniere, e lei lo ascoltava rapita, gli occhi spalancati sul mistero, muta nell’attesa di ciò che sarebbe accaduto.
  • Papà, quando sarò grande voglio diventare una principessa e ti sposerò, perché tu sei il mio re…
  • Ohi, ohi…e come faremo a dirlo alla mamma? E’ lei la regina – rispondeva divertito il suo papà.
  • Ma starà con noi, staremo tutti insieme! – rispondeva lei.
In quella dimora c’era anche un piccolo giardino che in qualche modo permetteva loro di godere dei fiori di lavanda in estate e dei mille colori delle foglie in autunno. Non era molto, ma con un po’ di fantasia si potevano anche trasformare le file di formiche in ballerine e qualche coccinella in una fata buona. C’era anche un gatto bianco e nero, che passeggiava pigro su e giù, fra l’albero di cachi e qualche cespuglio selvatico, inconsapevole delle innumerevoli volte nelle quali aveva indossato stivali e cappello piumato per difendere il suo padrone o, per contro, aveva ingannato con furbizia una lucertola fingendosi cieco e innocuo, per tendere poi un agguato mortale! Sì, perché, come forse si è capito, questa favola è piena di favole. E come in tutte le favole le scene cambiano, i personaggi si trasformano, i buoni vincono i cattivi, e la fantasia si fa largo per interpretare la realtà a modo suo. Anche il papà buono di questa fiaba, che sapeva trascinare la sua piccola figlia in un mondo incantato, smontò pezzi del reale per ricomporli in una nuova storia del tutto irreale.
E quando, qualche tempo dopo, dovettero purtroppo cambiare dimora, si sentirono un po’ tristi nel dover abbandonare quel piccolo paradiso: ma né lui né lei si persero d’animo.  Anche se il palazzo nel quale erano andati ad abitare rendeva difficile riprendere il gioco del “facciamo che io ero la principessa e tu il re”, iniziarono subito ad andare alla ricerca di un luogo che permettesse loro di continuare a sognare. E gira e rigira lo trovarono: era un pioppeto che, sorprendentemente, si apriva al di là del cemento, quasi un miracolo della natura. Così, partirono in un pomeriggio di sole per andare a conoscere i misteri di quel bosco e alla piccola figlia di quel papà meraviglioso batteva il cuore per l’emozione. Fatti i primi passi tenendosi per mano, il sottobosco cominciò a crepitare sotto i loro piedi, e sui tronchi alti e sottili dei pioppi si innalzavano fronde leggere che si muovevano appena sopra di loro. Continuarono a camminare, facendo attenzione mentre l’aria intorno si riempiva delle loro voci spezzando il silenzio. Giunsero quasi alla fine del bosco, proprio dove alcuni ippocastani, con i loro tronchi imponenti, sorgevano a definire un viale che, passando di lì, portava quasi sicuramente lontano. A differenza dei pioppi, questi erano alberi maestosi, che reggevano chiome larghe e ombrose; le foglie fitte nascondevano ricci spinosi pieni di castagne matte: ma molti di questi erano già caduti.
  • Attenta, non toccarlo, con il riccio ti puoi pungere...
A lei piacevano tanto le castagne matte, così rotonde e lucide, e allora cercava quelle già uscite dal riccio, ce n’erano molte per terra, se le faceva rotolare fra le mani e poi ne raccoglieva fino a riempirsene le tasche.
  • Guarda papà, sono bellissime, le portiamo alla mamma, anche a lei piacciono, me lo ha detto un giorno… Ma che cosa sono questi buchi nei tronchi?
A questa domanda il papà buono liberava tutta la sua fantasia per volare con la sua piccola figlia nel loro mondo incantato.
  • Questi buchi nei tronchi li fanno gli gnomi del bosco.
  • E dove sono adesso? Ma…sono cattivi gli gnomi?
  • Certamente no! Gli gnomi del bosco non sono cattivi, anzi. Ma escono solo di sera perché temono gli uomini: si rifugiano in questi buchi e si fanno compagnia, si vogliono bene fra di loro. Nessuno però li ha mai visti, purtroppo! Chissà, forse noi potremmo essere fortunati e incontrarne uno…
La piccola figlia sbarrava gli occhi, si emozionava, ma la presenza rassicurante del papà le consentiva di abbandonarsi a immaginare serate di luna piena con gli gnomi seduti a conversare intorno a quei buchi nei tronchi. E alla sera si addormentava, cullata dall’ultima favola che lui le leggeva.
Un brutto giorno, però, accadde ciò che non dovrebbe mai accadere: il papà si distrasse? La piccola figlia si staccò dalla sua mano? Fatto è che non si ritrovarono più e… lei si perse, non in un bosco fitto di alberi e di pensieri fantastici, ma, molto più modernamente, in una libreria affollata di una strada del centro della città; perché, come è evidente, questa è una favola nella quale realtà e fantasia si confondono e qualche volta non si sa più dove finisce l’una e dove comincia l’altra. Fu allora che quel papà, disperato, cominciò a percorrere le strade della città invocando e gridando:
  • Chi ha visto la mia bambina? C’è qualcuno che me la può riportare?
Percorse in lungo e in largo portici e vicoli, incapace di immaginare la vita senza di lei. Si mise a correre senza meta, chiedendo a chiunque incontrasse:
  • Ha visto una piccola bambina, che sembra una principessa? E’ la mia bambina, è mia figlia, mi aiuti a cercarla…
Allora, uno dopo l’altro, uomini e donne e ragazzi, si unirono a lui, le strade si riempirono di gente che chiamava a gran voce il nome di lei in un unico coro disperato, ma tutto sembrava vano. Poi, finalmente una voce gridò:
  • Venite, venite! L’ho trovata, è qui!...
Oltre la porta della gendarmeria, due signori vestiti in uniforme ascoltavano, compiaciuti, una piccola bambina che recitava, in piedi su di un grande tavolo, una poesia imparata all’asilo: via le lacrime della disperazione nell’essersi vista sola, cancellato il ricordo di quel singhiozzo alternato a parole sussurrate in cerca di aiuto: - Ho perso il mio papà… voglio il mio papà… la mamma dov’è? 
Tutto finito, ora. Le parole rassicuranti dei gendarmi confermavano che la mamma sarebbe subito arrivata, e anche il papà. L’abbraccio del ritrovarsi fu accompagnato da grandi grida di gioia, i clacson delle automobili divennero scampanio di campane, la gente si mise a ballare nella strada: perché così succede nelle favole.
Da allora la vita riprese tranquilla il suo scorrere: il papà buono e la sua piccola figlia continuavano a volersi bene; lei cresceva e lui si adattava con complicità e… tanta pazienza.
Poi, un certo giorno di un certo anno, alla piccola figlia, ormai dodicenne, parve di udire dentro di sé la voce del papà che, a conferma di un presagio che si stava concretizzando, dava risposta alle domande che il suo cuore poneva: perché quei nuovi silenzi nella casa? Perché si erano interrotti i momenti di complicità? Perché erano state via via abbandonate vecchie abitudini, per fare spazio a nuove necessità, dalle quali si sentiva esclusa, quasi allontanata?
  • Forse dovrò partire per un lungo viaggio, piccola mia… - diceva quella voce; - forse non potremo attendere insieme di vedere, il prossimo autunno, il colore dei ricci degli ippocastani che cambia…
  • Perché, dove devi andare, papà?
  • E’ un po’ difficile da spiegare: quando sarai più grande capirai e forse accetterai. Ti ricordi quando ti raccontavo le favole con le principesse e i re? Ecco, noi resteremo sempre insieme, come nelle favole, e sarà come fare una magia: tu resterai nel mio cuore e io nel tuo, per sempre. Non piangere, la nostra sarà la favola più bella.
E così, piano piano, senza far rumore, il papà buono sfumò verso l’azzurro, nell’aria ferma di un pomeriggio estivo, lasciando però dietro di sé mille bagliori di vita per la sua piccola figlia.
Questo è il ricordo che ho di mio padre, mondato del dolore provato per la sua perdita. Oggi compirebbe cento fantastici anni. Buon compleanno, papà!... E grazie per aver dipinto la mia infanzia con tutti i colori della fantasia.
Questo ricordo è appunto dedicato a mio padre, memoria viva nel mio cuore, con immensa nostalgia, in questo 7 giugno 2012.
                                                                                                 
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Esperienze

SCELTA DI VITA

L’autrice l’ha raccontata così, dal vivo. E noi ve la trasmettiamo. Non siamo in grado di dire se la protagonista avrebbe potuto far qualcosa di più per cercar di salvare l’amica dal suo naufragio umano, come forse avremmo desiderato. Ma ci sembra buona cosa raccontarvene la esperienza.
 
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Silenzio. Tanto silenzio.  Era ciò che negli ultimi tempi le teneva più compagnia. Come al solito, quella sera si era chiusa in camera, si era distesa sul letto e osservando il nulla incipriato dal bianco del soffitto cercava di dimenticare: dimenticare Valeria, gli amici, i suoi vent’anni passati così in fretta. Serrava quella porta della camera come per impedire al tempo di entrare e operarvi il cambiamento: eppure quanto era cambiata la realtà! A volte le sembrava così difficile poter continuare a sognare: non riusciva a bramare il futuro come le era accaduto in passato. Viveva in bilico, appesa alla costante sensazione di una decisione imminente da prendere e che tuttavia non riusciva a prendere. 
Come ogni sera i ricordi partivano dal proiettore della sua memoria per accavallarsi sul fragile lembo dei suoi azzurri occhi: e dall’oscurità qualcosa appariva sempre. Ora si vedeva seduta in riva al mare, con Valeria. Avevano trascorso un’ottima giornata insieme, e mentre il sole splendeva alto sui loro corpi magrolini aspettavano allegre che si asciugassero le ultime gocce d’acqua salata sui capelli scomposti e i bikini colorati, prima di tornare a casa, lavarsi e prepararsi per un’altra indimenticabile serata insieme. Sicuramente avrebbero incontrato Antonino e Marco. Valeria si sarebbe rabbuiata, sulle prime, per poi sfogare il suo malumore con colorite espressioni, mentre Maria alla vista di Marco si sarebbe limitata ad un lungo sospiro con gli occhi lucidi.
Erano così diverse, eppure talmente legate! Valeria, impulsiva e passionale, agiva sempre senza riflettere. Maria, riflessiva e calma, non si lasciava andare a eccessi di alcun tipo: composta, precisa, gentile. Manteneva la sua personalità e sembrava non essere un’adolescente soggetta al vento della crescita ma piuttosto un’adulta già formata. Questo aspetto affascinava Valeria e la istigava ad emulare l’amica: ma, per quanto ci provasse, Valeria non era come Maria.
Maria lo stava capendo solo adesso, da sola, nella sua stanza, mentre con la mente accarezzava un altro flebile ricordo: lei e Valeria si abbracciavano strette strette con una energia che da un momento all’altro sembrava esplodere in una scarica elettrica. Erano nella cameretta di Valeria, dove avevano parlato a lungo del futuro e dei loro sogni. Maria li aveva già “srotolati “davanti a sé come una larga strada sterrata da cui, in lontananza, si intravedeva luce, tanta luce. Sarebbe diventata una giornalista e avrebbe fatto di tutto per cambiare il mondo. Valeria, invece, si apprestava allora ad iniziare il viaggio e la sua strada era ripida, a tratti oscura, piena di fossi e brutte discese.  Maria cercava allora di illuminarla, con la sua enfasi oratoria e il suo piccolo mondo interiore. Ed in queste fuggevoli ore trascorse insieme a sognare, Valeria e Maria erano un tutt’uno, un vortice di idee, di sentimenti, di speranze: erano amiche, ma amiche in una maniera assoluta. Un’amicizia pura e radiosa che le circondava senza che loro neanche se ne accorgessero.
Maria ricordava la prima volta che si erano viste, e da allora non aveva mai abbandonato Valeria. Quando quest’ultima si era innamorata per la prima volta, timorosa di aprire il suo cuore, Maria le era stata accanto ricordando come era buffa la solitudine in momenti simili: infatti quando era stata lei a innamorarsi non c’era stato nessuno a capirla. E allora cosa la spingeva a fare quel bene all’amica? Maria non lo sapeva: era fatta così! Dava senza pretendere niente in cambio. Ricordava quante parole e quanto coraggio aveva trasmesso all’altra e non le era mai pesato perché credeva in ciò che faceva e riusciva a gioire della felicità dell’altra. Quando vedeva Valeria tornare fra le braccia di Antonino quasi si commuoveva. Ne gioiva come vedendo realizzato il sogno che non era riuscita a realizzare con Marco: tra loro non c’era stata nessuna Maria; Maria, invece, c’era sempre stata per Valeria. C’era stata quando quella le riempiva la testa di chiacchiere inutili, c’era stata quando aveva bisogno di una spalla su cui piangere, c’era stata per prestarle soldi e vestiti, c’era stata per darle tutto l’affetto che le mancava in famiglia. C’era stata persino quando avevano scoperto Antonino a farsi di cocaina nel bagno di un locale e Valeria ne aveva pianto per una settimana. C’era stata sempre, eppure questo sembrava non esser bastato.
Ma ora tra loro si era posto il mare. Un’altra immagine le appariva dinanzi: un’immagine in cui non distingueva più le futili parole che quella le borbottava. Per Maria non era stata una buona giornata. Valeria era cambiata: Maria lo stava capendo pian piano, eppure non riusciva a tagliare del tutto il legame. Non capiva come quella specie di sanguisuga fallita avesse potuto prendere il posto della sua buona amica. Non poteva credere quella trasformazione di Valeria: era diventata insopportabile, parlava, parlava, parlava ma di una realtà distorta e astratta. “Io potrei fare tutto… Sono la migliore… Ma che ci vuole a fare quello che fai tu… Sono stufa di tutto… Nessuno si accorge del mio talento assoluto, che noia!...”. E intanto nulla faceva delle sue giornate e del suo futuro: non lavorava, non studiava, non ragionava, non sognava.  
Sulle prime Maria non aveva voluto vedere. Era vissuta per anni con l’idea perfetta di Valeria e ora era impossibile accettare tacitamente quel mostro perverso. Scappare, scappare lontano… solo questo era il pensiero che affollava la sua mente dopo quella scoperta. E mentre un paio di lacrime clandestine scendevano veloci lungo le guance, Maria osservava la foto attaccata all’armadio e che ancora non era riuscita a staccare. Le piaceva quella foto: come era felice, Maria, in quella foto! Si perdeva in quel ricordo così nitido e straziante che quasi le veniva voglia di strappare furiosamente quel quadratino di carta in migliaia di pezzettini. Quelle due ragazze non esistevano più. Velocemente Maria vedeva passare una scena e poi un’altra e poi un’altra ancora: in ognuna di esse era triste. Aveva smesso di essere felice qualche mese prima, quando al posto di “Valeria l’amica” aveva trovato “Valeria la drogata” in discesa libera verso il baratro dell’animalità. Non capiva come quella avesse fatto a tuffarsi a capofitto in un tale gorgo. Eppure Valeria sapeva quanto sarebbe stato difficile uscirne! Avevano vissuto con Antonino quell’incubo: da perfetta egoista quale era diventata, Valeria aveva provato una volta e poi un’altra e un’altra ancora e adesso aveva trovato quell’ingannevole sogno che tanto anelava e ci si era perduta: quale sorpresa dovette provare Maria al sentirsi dare della bambina, della stupida, dell’immatura, della vecchia, della pavida! Dopo tutto quello che avevano passato insieme e il bene che le aveva unite come sorelle!
A questo pensiero, quasi immediatamente lo stupore fu sostituito da una rabbia furibonda a cui altrettanto rapidamente seguì un disgusto nero e una profonda sensazione di pena. Poi il silenzio. Il silenzio che non lasciava spazio neanche alla sofferenza. Valeria era lontana e irraggiungibile nel suo nuovo mondo di oche sgualdrine, di venditori di fumo, di nottate insonni nelle prigioni di menti impasticcate, di serpi insidiose di amici. Scheletri in attesa di un rantolo letale.
E quel mondo era lì ad un passo da Maria. Bastava dire sì. Bastava alzare il telefono ed assecondare l’irreparabile pazzia di Valeria. Ma Maria era destinata a ben altro: era cresciuta spingendo la carrozzina del suo migliore amico malato di distrofia muscolare e volato via troppo presto. Si commuoveva per strada quando constatava la solitudine e la sofferenza di un barbone o di una mendicante con figlio appeso al petto e già esausto d’essere al mondo. Sognava d’aprire un centro d’integrazione per famiglie straniere poco inserite nella comunità italiana: così Maria si era curata lungo l’intero anno di Yao, di Yuliana, di Ali, di Sued, di Majid, di Abbass. E nonostante le strade della vita li avessero portati altrove, Maria li portava nel cuore come pezzi della sua stessa esistenza, come motivi di crescita, di amore e di verità. Maria credeva in quell’oscura forza che muove il pensiero aspirando a migliorare l’animo umano e la realtà…Leopardi, Dumas, Dickens, Dante, Dostojevskji, Tolstoj, Pirandello… la prosa, la poesia, l’arte, l’amore, la verità…la vita! Questo era lei: il sogno e la speranza, il coraggio e la purezza, la giovinezza e la saggezza insieme. E non sarebbe cambiata.
Pensava a quelle indimenticabili presenze della sua vita: la zingara della stazione, il barbone del Tevere, la ragazza cinese dagli eterni inchini, la brasiliana scontrosa che si difendeva dagli uomini rozzi, il ragazzo del Bangladesh che a vent’anni era già sposato con due figli e frequentava la scuola solo per imparare la lingua italiana e trovare lavori migliori del venditore ambulante senza paga sicura, l’afghano  scappato da Kabul col fratello minore dopo che le bombe e i talebani avevano reciso la vita dei genitori e della bellissima sorella Parvana recatasi alla fonte dell’acqua nel momento sbagliato.
Maria pensava a sua sorella Elisa, adottata in un tempo in cui Maria stessa non era ancora nata. Elisa bella e introversa, con gli occhioni scuri e la carnagione olivastra che tradivano le sue origini orientali, e quello sguardo da cui traluceva una storia incredibile, una di quelle storie fatte di abbandoni, dolori, ricordi confusi, sfide continue, paure. Ma era una storia di verità. La verità che Maria aveva scoperto in fondo alla sofferenza acuta che serra la vita nelle sale d’attesa degli ospedali, aspettando che Elisa scendesse dalla sala operatoria per un intervento alle gambe, alla vista, alle braccia, al seno. Eppure era ancora qui, Elisa, con gli occhi vivi e la voglia di vincere nonostante la malattia e la beffa della vita. Elisa era ancora pronta a lottare nonostante nei mesi seguenti dovesse rientrare in ospedale. E portava sempre il sorriso lucente di chi ancora può credere. Poi Maria pensava ai suoi genitori giusti, forti, stanchi, silenziosi, amorevoli, coraggiosi. Li accompagnava nella difficoltà impegnandosi affinchè ogni sua vittoria potesse divenire la luce di un sorriso anche per loro.
Così Maria aprì gli occhi. Si destò da quelle immagini caotiche e il silenzio solitario della sua stanza bastò alla netta scelta, una volta per tutte. Non avrebbe più cercato Valeria. E, in quella scelta, fu la vita.
                                                                                                        

                                                                                                                     (Anonimo, Premiopratoraccontiamoci)
 
                                                                                        °°°°°
                                                                                          MM

La dimensione compiuta

IL TRENO

Metafora della vita, il treno e il suo viaggio. Dove siamo diretti con la nostra esistenza complessiva? Può darsi che, concentrati semplicemente intorno a noi stessi all’interno del vagone nel quale ci troviamo, rischiamo di perdere il senso totale del viaggio e di quanto vive anche fuori del nostro treno? Valentina Tuccella ci invita con la forza delicata della sua immaginazione anche poetica a fermare la nostra attenzione sulla totalità  dell’esistenza (il treno della vita) e dei suoi significati.
 
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Quando arrivi per la prima volta in una stazione non sai dove questo viaggio ti porterà. Sei solo,
così inesperto, in mezzo ad una folla sconosciuta…
 
Quando sali per la prima volta su un treno ti guardi intorno, in cerca di un viso amico. Controlli le
tasche, il biglietto, le monete.
 
Quando il viaggio inizia ti accorgi del percorso così lungo e lineare, e ti chiedi se sarà
lo stesso per tutti i passeggeri.
Un viaggio già scritto, già vissuto, già raccontato.
 
Quando socchiudi gli occhi e ti lasci dondolare dal lento andare del treno immagini anche come sarà
la meta, cosa farai, chi incontrerai; e non ti accorgi di non riconoscere ancora la tua stessa
immagine riflessa sul finestrino.
 
Quando il treno arriva alla prima fermata sei pensieroso; potresti scendere adesso: in fondo,
perché arrivare così lontano? E poi molti stanno scendendo qui. Ma il treno riparte e tu stai
ancora lì a pensare. Non credevi ci fossero dei bivi, delle fermate, altre destinazioni.
Come sta diventando complicato, questo viaggio...
 
Al primo sobbalzare del treno sussulti e ti spaventi. La macchina si blocca improvvisamente. Che
sfortunato intoppo: non era previsto... Ci vorrà una lunga attesa. Come sta diventando, questo viaggio…
 
Ed ecco che il treno riparte, con il buio alle spalle, e sembra raggiungere il sole. Il tempo è
trascorso e tu hai pensato, meditato, sofferto, all'interno di quel vagone-treno.
 
Quando impari a coordinare il respiro, allora apri gli occhi e vedi anche fuori dal finestrino: che bel
paesaggio!
 
Non me ne ero mai accorta. Ero intenta a guardare all'interno del vagone dei miei pensieri.
Il paesaggio è lì fuori, la natura brulica di vita e forse è arrivato il momento di scendere.
Di raggiungere la meta.
                                                                                       
                                                                                                 (Valentina Tuccella)
 

Racconti di vita

LA PASSEGGIATA DI LUIGI

Famiglie che potevano essere e non furono mai: a volte la guerra, soprattutto, a volte l’emigrazione, o altri drammi, sconvolgevano pensieri, disegni, sogni. In un mistero che su questa terra forse non si potrà mai chiarire.

*****
 
Lassù, sotto le falde del monte, si sentiva qualcuno cantare una canzone che diceva: “Questa notte laggiù nella valle…”. Era un canto che si confondeva col rumore di un rio gorgogliante fra i sassi, dentro il corso che s’era scelto da sempre fra abeti e larici, olmi e maggiociondoli.
Il canto era intermittente, una voce maschile cadenzata al ritmo di un passo montanaro. A volte diventava mormorio, soffio, o si mutava in fischio, come se il cantore si sentisse improvvisamente più leggero o la china del monte diventasse meno impervia. I rumori e le voci del bosco continuavano ad essere sottofondo di quella presenza canora: il tonfo di una pigna caduta  dall’abete, lo scricchiolio causato da uno scoiattolo qua e là per i rami, il plaf-plaf di un ranocchio presso gli acquifoglio, lì alla “molinella”...

Sì, perché lassù l’uomo aveva costruito un leggero e semplice mulino di legno per lasciare un segno delle sue soste lungo l’acqua del rivo, un segno delle sue pause di riflessione in ogni passeggiata o scarpinada dentro quel bosco. Quelle pale, rozzamente abbozzate col coltello da tasca, giravano dentro il rivo e facevano saltare intorno zampilli e spruzzi d’acqua, e questi attiravano tanti passeri suoi amici, ai quali pure egli parlava o forse… confidava i suoi segreti. A quella polsa Luigi sostava spesso, e il cigolio ritmico della molinella, l’ombra dei noccioli, il sole che filtrava la mattina, creavano l’atmosfera adatta per pensare a Gianna. Luigi si sentiva parte dell’ambiente.

Solo lì era riuscito a dare ristoro alle sue urgenze, alle pene di giovane provato dalla guerra sul fronte delle Alpi Occidentali, verso Briga e Tenda, fra l’aggressione alla Francia e i bombardamenti notturni, la mancanza di notizie della sua famiglia e nessuno scritto della sua amata, e poi la cattura, l’internamento, le camminate di trasferimento obbligato in notturna, la ricostruzione delle casematte, la fame, i soprusi subiti dai prigionieri, poi gli inglesi, la fuga e l’avventuroso ritorno a casa, attraverso boscaglie interminabili per non essere rintracciati, i piedi che dolevano, la paura dei rastrellamenti, e infine… la morte di Gianna, lontana, in Argentina.

Quand’era nel bosco si trovava immerso in un’atmosfera panica, totalizzante, che gli incuteva rispetto per ogni cosa della natura. Lì conosceva quei grossi nidi che le formiche erigevano con cumuli di aghi di pino e piccoli stecchi, per un’intera stagione, con infaticabili andirivieni in file nere o rosse. Formiche che passavano fra sassi e sterpi, dritte alla fonte di risorse individuata quel giorno: per esse tutto procedeva senza alcuna distrazione o rottura di ritmo che non fosse un improvviso pericolo o la suola di un improvvido passante.

Il prato di primo mattino era come se fosse piumato per la guazza notturna: gli steli del fleon e delle graminacee erano chinati da una corona di perline trasparenti che, tutte assieme, formavano cuscini azzurrini sospesi sopra tutto quel verde. Luigi osservava e si soffermava rapito. Dentro sentiva un’urgenza sconosciuta tramutarsi in pensiero, parola, canto, grido. Si chinava a raccogliere dei fiori: erano a volte garofanini di monte, sfrangiati, posti lì su una balza, oppure  entauree al bordo del sentiero, o borraggine azzurro-lapislazzulo. Doveva guardarsi però dai bombici che, già di buon mattino, stavano rumoreggiando in cerca di nettare.

Luigi voleva mettere quei fiori ad un capitello, sul sentiero verso le baite; lo faceva quasi tutte le domeniche. Un rito? No, piuttosto un sentimento d’abbandono, di fiducia in quel Sant’Antonio lì effigiato, stinto dal sole e dall’acqua piovana, protetto da due scorzi messi a capanna. Anche quel Toni lì conosceva la solitudine in cui Luigi si trovava nel corso della settimana;  ma la domenica era un’altra cosa: nella sacca qualche frutto e un companatico, un filone di pane, e via in montagna, lungo la strada dei montanari  dei legnaioli, dei malghesi che portavano le bestie all’alpeggio e le riportavano poi in valle alle loro stalle.

Giù in paese, al negozio, le sue clienti quando lo sentivano accennare ad un motivetto, o arrivava il suo canto dalla dispensa in cantina, gli dicevano: “Ma voi, Luigi, siete sempre contento! Cantate, cantate allegro! Beato voi! Chissà chi sarà la fortunata…” e qualcuna di mezza età, come ce n’erano tante nel dopoguerra, lanciava lì una proposta sospesa, sospesa in aria come un sentimento accennato ma puntuale, non dichiarato ma allusivo. “Cantate… Cantate… Cantate… Sempre allegro, voi, Luigi!”; ma non approfondivano i motivi di quel suo cantare e fischiettare preciso, di quel suo modo di scherzare, di quel suo rispondere evasivo. “Canto alla Lilly Marlene”, diceva a volte, ed indicava un grande quadro con la figura di una cantante o di un’attrice americana che sorrideva da un paesaggio West. Lei aveva il sorriso di Gianna, della sua Gianna che era andata lontana, in Argentina, con tutti i suoi fratelli, prima della guerra: la sua Gianna che doveva tornare, tornare per lui, proprio per lui…e poi gli avevano scritto che era morta, banalmente, per una polmonite.

La guerra con le sue mille facce, le sue tragedie, i suoi sconvolgimenti, aveva portato anche in lui, che era di forte tempra, confusione e tristezza senza fine. Riusciva in qualche modo a camuffare quelle momentanee prostrazioni reagendo con il canto o fischiettando proprio nei momenti “dei cupi abbandoni del cuore”. Tutti erano persuasi della sua allegria ed invece la sua pena a volte cresceva a dismisura e così si rifugiava a piangere nella cantina del suo negozio. Perciò la domenica, quando ancora tutta la parte alta del paese dormiva, fatto il sacco, infilava il sentiero ed era presto alle falde del bosco.

Poco dopo incominciava a sentirsi meglio: per tutto il giorno era un altro modo di essere. Nasceva dentro di lui una rassicurante certezza che fluiva nel canto e nel fischiettare modulato. Erano quelli i momenti nei quali comunicava con la sua Gianna e la sua Gianna di sicuro lo aiutava a trovare la strada per disfarsi di quel fardello  che da tempo lo opprimeva. Il canto, che prima era affanno, sentimento angoscioso e inespresso, si faceva più disteso, armonioso, quasi un linguaggio gentile. E mutava: era adesso un fischio, ad esempio, che imprimeva alla canzone un’espressione precisa. Luigi era attento ai minimi scarti di note, a tutti i balzi e i rimbalzi della voce, ai passaggi del testo. Si serviva delle note per “comunicare oltre”, oltre le cime degli alberi, oltre i coni d’ombra che il sole proiettava sui viottoli del bosco, oltre l’affanno dei pensieri e dei ricordi, oltre oceano.

In quel breve paesaggio di vallette, di balze, d’ombrosi botri dirupati, arrivava infine al Ronco,  sotto gli alberghi e le baite. Trovava quel riparo che placava, almeno per quel giorno, una spina dolorosa che gli si era conficcata in petto a quella tragica, improvvisa e maledetta notizia: “Giovanna è morta”.

Nel bosco tutto poteva estinguersi, almeno per ora, dolcemente, in quel mormorio d’acque e tonfi leggeri, nello zirlare di merli acquaioli, nel canto e nel fischiettare armonioso che egli rivolgeva, sempre con attenta misura alla sua Gianna.
                                                                                                         
                                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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                                                                                               MM

 
 

Persona e società

PERCHE'?

Non ci pensiamo mai abbastanza: il quesito e il mistero di esistenze che ci scorrono al fianco, che dipendono dalla nostra attenzione, che possono realizzarsi positivamente oppure perdersi proprio sulla base di come noi le affianchiamo: dipendono da noi, insomma. Adulti perduti misteriosamente nella demenza senile, malati cronici affidati a strutture con scarso coinvolgimento delle famiglie, bambini con il diritto alla vita sospeso da genitori padroni e non custodi. E’ l’immane dramma del silenzio sociale che circonda queste vite, che non possono difendersi da sole e spesso non vengono difese da noi. Possibile che il silenzio continui?
*****

Quel tavolino per scrivere è sufficiente. Certo, il computer era diventato per me un’abitudine inveterata, ma si vede che qui non posso tenerlo. Beh, nel caso mi venisse in mente qualcosa scriverò a mano. Del resto, ho sempre fatto così. Soltanto in un secondo momento ho bisogno di sviluppare, tagliare, spostare brani del lavoro, e farlo con i fogli è problematico. Allora chiederò che mi venga ridato il mio computer. In questa camera non c’è telefono. Eventualmente, per le connessioni di cui avessi bisogno, userò una chiavetta. Intanto però dovranno mettermi degli scaffali per un po’ di libri. Il posto per una piccola libreria c’è, proprio di fianco al tavolino.

Non capisco però come mi sia deciso a venire in questo posto. Non ricordo di averlo scelto. E poi, per quale motivo avrei dovuto sceglierlo? A casa mia avevo ogni comodità, e i miei libri, i miei quadri, il mio pianoforte, che sono parte di me, ma soprattutto mia moglie, che amo e che mi ama. Come ha potuto farmi uscire di casa e consentirmi di prendere alloggio qui? E i miei figli dove sono andati a finire? Sono confuso: sono troppe le cose che non mi tornano. Non mi pare di essere in ferie. Ci andiamo insieme, io e mia moglie. Siamo sempre andati insieme. Se poi lo fossi ci sarebbe il mare. Qui non c’è. Neppure campagna c’è, come io la intendo, come era quella dove avevo la casa una volta. Io però in ferie vado soltanto al mare. I monti non mi piacciono. Soprattutto non mi piacciono le strade che conducono ai monti e li percorrono. Non sopporto il vuoto visto da una strada. Posso guardare giù dall’aereo senza problemi, anche in fase di atterraggio, ma il vuoto visto da una strada… Ne consegue che certamente non sono in ferie. Non sono neppure malato. I miei mali li conosco fin troppo bene e non mi danno disturbi nuovi rispetto a quelli di cui soffro da più di vent’anni. Del resto, questo non è un ospedale. Gli ospedali li conosco bene come i miei mali. Come potrebbe essere diversamente? Ci ho passato mesi, complessivamente molti mesi. Li conosco bene.

Questo ambiente mi sembra più un pensionato. A tavola oggi avevo un commensale, abbastanza più giovane di me, che non si è presentato, non ha risposto al mio saluto ed è rimasto tutto il tempo con gli occhi fissi nel piatto, ma non mangiava. Hanno dovuto imboccarlo. Non so chi fosse la signora che lo ha fatto. Non era un’infermiera. Forse era una parente, ma anche lei non ha proferito parola. Sono sempre meno le persone capaci di comunicare, di rapportarsi agli altri parlando.

Quanti giorni saranno che mi trovo qui? Non mi ricordo quando ci sono arrivato e non so che giorno sia oggi. Un calendario…Ecco, sì, mi ci vuole un calendario, altrimenti come posso fare? A casa, anche senza calendario… sapevo dal computer che giorno era: la data, intendo, mi dava solo la data, ma non mi diceva il giorno della settimana. Però, meglio di niente, com’è invece in questo posto.

Ieri sono uscito. Lo ricordo bene. Sono sceso dalla camera e mi sono ritrovato in giardino. Mi sembra di esserci stato altre volte. Volevo andare in strada, ma in fondo al vialetto del giardino ho trovato un cancello. Chiuso. Senza bottone per aprirlo. Allora sono rientrato e ho chiesto alla portinaia che sta nell’ingresso di aprirmelo. E’ una bella ragazza, la portinaia. Non arriva a trent’anni. Oggi era dietro a quel bancone che c’è. Si notavano solo quei seni prorompenti che ha. Non molto grandi: staranno fra la terza e la quarta, più terza che quarta, ma che figura su quel corpicino snello! E un paio di glutei ben modellati e sicuramente sodi, così come deve avere le cosce. Porta i pantaloni e ieri l’ho vista bene. E’ anche gentile, e si è schermita, dicendo che non aveva modo di aprire il cancello al momento, e che le dispiaceva. Poi una signora ha suonato, il cancello si è aperto e, mentre lei entrava, io sono uscito in strada. Ci siamo salutati con un cenno della testa. Mi è parso che anche lei risortisse. Ma non mi sono girato. Ho fatto un bel giro. Insomma, un bel giro… un giro, per quanto mi consente di camminare, senza disagio, questa mia gamba sinistra, dove porto una protesi all’anca. Devo confessare che non conosco il rione dov’è il mio pensionato. Non credo sia nella mia città. Ma non mi sono perso. Ho fatto il giro dell’isolato, un isolato enorme, tenendomi sempre sul marciapiede. A un certo punto mi sono ritrovato al mio cancello. L’ho osservato bene di fuori. C’è il campanello vicino, ma nessuna targa che indichi come si chiama la pensione o albergo che sia. Non c’è neppure un’insegna con le stelle della categoria cui appartiene. Da come si presenta dentro, mi sembra assai scarso. Non credo possa meritarsi un fregio di più di due stelle. Solo Martina, così si chiama la ragazza in portineria, meriterebbe quattro o cinque stelle. Per poterle dare una classificazione di quattro o cinque stelle occorrerebbero esami che io ho smesso di fare da tanto e che non so se lei mi avrebbe permesso comunque di farle. Ma così, a occhio, credo che potrebbe salire al top.

Ho atteso che qualcuno volesse entrare. Ho aspettato più che per uscire, ma a un certo punto è arrivata a suonare una signora, una bella signora, di qualche anno d’età ma di quelle che portano la loro maturità con semplicità, che non mascherano i propri dignitosi capelli grigi con tinture di colori improbabili che, quelli sì, fin da lontano rivelano l’età tarda di chi li ostenta. Sono tornato con lei. Ho rifatto il vialetto e mi sono seduto su una delle panchine che ci sono in prossimità della portineria. Ho evitato tuttavia di farmi vedere da Martina. C’erano altri ospiti, seduti lì, tre donne e due uomini. Presumo che fossero ospiti perché una delle donne indossava uno spolverino di un celestino stinto, come usano in casa le donne di campagna, un’altra era piuttosto trasandata, con lo sguardo perso davanti a sé, e la terza entrava e usciva nervosamente dalla portineria. I due uomini, più giovani di me all’aspetto, indossavano entrambi quelle pantofole alte di stoffa a quadri colorati, tipo i kilt scozzesi, con il pelo dentro, come portano gli anziani, e si tenevano il collo ben coperto, anche aiutandosi con le mani, quasi fosse freddo. Era invece una calda giornata di primavera inoltrata, tanto che io mi ero sbottonato il colletto della camicia.

Dopo una mezzora sono venuti a chiamarci perché il pranzo era pronto. Non si mangia male in questo posto, ma non c’è possibilità di scelta. Solo quello che passa il convento, come si dice, e a sorpresa. All’albergo sul mare, dove andiamo noi, ci sono tre primi a scelta e tre secondi, sia a pranzo che a cena, ed è roba buonissima e abbondante, anche troppo, oltre a un buffet libero e ricchissimo. Eppure è soltanto un tre stelle. Ho valutato bene: questo non ne merita neppure due. Spero di rimanerci poco e comincio a chiedermi perché ci sono capitato. Sono qui dentro ormai da diversi giorni. Non so dire quanti, per il problema del calendario. Nel frattempo ho studiato com’è l’andazzo del pensionato: non si può uscire in strada, nessuno degli ospiti esce. Solo io ci riesco con il sotterfugio di stare in attesa in prossimità del cancello. 

Ora però ho un problema: non so come rientrare in camera mia perché non ne ricordo il numero. Ma è un giorno fortunato: si è affacciato nella sala della televisione Carlo. Caro è un giovane uomo che fa servizio all’interno da un paio di giorni, forse. Riguarda porte, finestre, rubinetti, bagni. Fa insomma tutti quei lavoretti di manutenzione spicciola che tanto sono necessari nelle grandi strutture. E’ disponibile sempre e ci si può parlare bene. Io, per la verità, non l’ho in grande simpatia perché mi pare che faccia la corte a Martina, ma soprattutto perché mi pare che Martina gli corrisponda, con quelle risatine che le ho visto fare alle battute insulse di lui. Mi sono dominato, ho ricacciato questa sorta di ripulsa che ho nei suoi confronti, mi sono allargato in un sorriso a quaranta denti (finti) e gli ho detto: “Carlo, ho un cassetto in camera mia che non scorre bene. Duro un po’ di fatica ad aprirlo e chiuderlo. Quando hai un minuto puoi venire a dargli un’occhiata? La mia camera è la numero… la numero…”
  • Ventisei: La Sua camera è la ventisei.
  • Oh, bravo Carlo! Sì, la ventisei. Ti aspetto.
  • Non dubiti. Vengo subito dopo che sarà ristabilito.
  • Grazie, Carlo. Grazie davvero.
Ecco, è la ventisei. Sono riuscito a farmelo ricordare senza destare sospetti. Se fossi andato a chiederlo a Martina o a qualcuna delle donne mi sarei fregato da solo. Qui dentro ho capito che se pensano che uno non abbia più mente ti tengono d’occhio, ti prendono di mira e non ti fanno fare più un passo. Non mi posso permettere che capiti anche a me. Come farei a uscire in strada? Se non potessi mi sentirei prigioniero e la paura, la claustrofobia di cui ho sempre sofferto, mi distruggerebbe. Ora però cosa gli invento a Carlo, su in camera? I cassetti scorrono tutti bene… Forse quello del tavolino per scrivere si può considerare un po’ difettoso ma non dà problemi, in realtà. Dirò che è quello che talvolta pare incastrarsi. Çi riguarderà e, al più, mi dirà che va bene. Tutto qui. A proposito del tavolino: devo ricordarmi di chiedere un paio di biro a Martina. Ne consumo molte a scrivere. Quasi non ho più neppure fogli.
Toc, toc.
  • Chi è?
  • Sono Carlo, per i cassetti.
  • Ti apro. Vieni, Carlo. Vieni.
  • Qual è il cassetto che le dà problemi?
  • Il cassetto, dici? Qual è? Non mi ricordo, Carlo…
  • Non si preoccupi. Li controlliamo tutti, così… Questo va bene… questi altri anche… E qui siamo a posto… Vediamo quello del tavolino. Capperi! Come fa ad aprirlo, questo? E’ incastrato. Una scartatina… Ecco, ora scorre bene. Tutto fatto. C’è qualche altro problema?
  • No, Carlo. Grazie
  • Di niente. Arrivederla.
  • Ciao, Carlo. Arrivederci. Ah Carlo…
  • Mi dica.
  • Quella ragazza, giù…
  • Quella ragazza… Chi? Sonia?
  • No, non Sonia. Sonia non la conosco. Dico di Martina. Sai, quella in  portineria? Martina!
  • Martina? Ah! Cosa ha fatto Martina?
  • Meglio perderla che acquistarla, quella, sai…
  • Perché?
  • E’ sempre al telefono. Fa tutto malvolentieri. Non è troppo educata…
  • Davvero è così? Meglio starle alla larga, allora.
  • Ecco, hai capito. Non vale proprio la pena.
  • Ha fatto bene a dirmelo. Io non ho tempo da perdere con chi non merita.
  • Bravo, Carlo!
  • ArrivederLa, di nuovo.
  • Arrivederci, arrivederci.
Tutto sommato è un bravo ragazzo, quel Carlo. E’ anche educato. Mi dà del lei, diversamente da altri che neanche conosco. Io gli do del tu, non per mancanza di rispetto, ma perché fra me e lui ci corrono di sicuro quasi cinquant’anni.
  • Sonia!
  • Che c’è?
  • Il vecchio, su, della ventisei…
  • Che ha fatto?
  • E’ innamorato di te.
  • Lo so. Tu come te ne sei accorto?
  • Mi ha parlato male di te. Ma era chiaro che lo ha fatto per cercare di sminuirti ai miei occhi. Una cosa strana, però: ti ha chiamato Martina.
  • So anche quello. Certi giorni passa le mattinate a guardarmi di sottecchi. Passerà cento volte davanti al banco, e mi osserva, senza parere. Mi ha spiegato la moglie che gli ricordo una ragazza che aveva in gioventù e che si chiamava Martina.
Quella povera donna di sua moglie, una donna squisita, è sempre qui. Abita vicino. Lui è abitudinario e tutti i giorni si prepara per uscire alla stessa ora. Non credo neppure che consulti l’orologio. Ce l’ha dentro, incorporato, come gli animali. Lei lo accompagna e gli fa fare un giro, anche se lui non cammina bene, come si vede. Lo fa uscire e lo segue per tutto il tempo. Lui è convinto di essere solo. Non la riconosce, così come non riconosce i suoi figli.
  • Me però mi riconosce e mi chiama per nome.
  • Sì, ma non ti meravigliare se a un tratto non saprà più chi sei. Ormai sono cinque anni che è ricoverato e ogni persona nuova che ha visto l’ha riconosciuta per qualche mese e poi più nulla. L’ho verificato di persona. Io per lui, come hai sentito, sono Martina. Sono stata Sonia per solo due mesi.
  • Poveraccio!
  • Sì, ma poveracci più che altro i suoi che rimpiangono l’uomo intelligente che era. Era un artista, sai?
  • Ah sì?
  • Era uno scrittore, un poeta, e pittore, anche bravo. Ho letto tutti i suoi libri e visto alcuni suoi quadri. Tutto notevole! Ora vuole sempre fogli bianchi, che tiene sul tavolo, e li imbratta di ghirigori con la biro fino a farli neri.
  • Allora è un peccato che sia ridotto così.
  • E’ sempre un peccato! Ma quando tocca a persone così… del resto, però…anche personaggi celebri…
Quel Carlo è stato bravo ad accomodarmi il cassetto. Ora magari esco. Mi metto la giacca ed esco. Controllo se ho le chiavi…Dove le ho messe? Non ce l’ho. E questo foglio in tasca, tutto arrotolato, consumato…Vediamo: c’è scritto “26”. Ventisei cosa? Boh! Buttiamolo via.
                                                                                                                            
                                                                                         (Anonimo, Premio PratoRaccontiamoci)

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MM

Democrazia Comunitaria

NASCE FORMAITALIA: SENZA CONFINI "PER TUTTO L'UOMO E PER TUTTI GLI UOMINI"

Il 7 dicembre scorso si è tenuto a Roma, in collaborazione con la Fondazione Internazionale per l’Aiuto all’Anziano, un incontro culturale e formativo sul tema “La politica in Italia: ieri e oggi a confronto per capire le prospettive possibili”.

Dal 22 al 26 gennaio appena trascorsi si è tenuta in Basilicata, in collaborazione con un Istituto Scolastico Superiore, una settimana di formazione e orientamento sul tema Motivazione e autorealizzazione nella scuola”.

Due eventi con i quali si è avviata concretamente e stabilmente l’attività di Formaitalia, la nostra piccola libera “università permanente per la formazione totale”.

Ai due temi citati se ne aggiungeranno via via altri, che verranno puntualmente comunicati; e insieme agli incontri verranno inaugurati anche, per chi sia interessato, veri e propri corsi organici di studio e formazione, della durata cioè di più incontri (fino anche a un anno) ciascuno su una tematica omogenea da affrontare come vera e propria materia di livello universitario.

Incontri e corsi potranno essere svolti sia per singoli partecipanti che lo richiedano sia per gruppi.
E verranno tenuti in qualunque sede esigano di volta in volta le circostanze o le preferenze dei richiedenti: un’aula scolastica o anche semplicemente un bar, un oratorio parrocchiale o anche semplicemente un giardino pubblico, o una sede di associazione professionale disponibile...

Lo studio-formazione, che avrà comunque sempre il connotato dell’alta qualità e organicità di contenuti, non prevede sostanzialmente costi per i partecipanti: viene chiesto semplicemente un simbolico euro a incontro, come valore morale di adesione e consapevolezza e per rispondere a qualche eventuale minima esigenza operativa, come potrebbero essere materiali da fotocopiare o simili.

La docenza vedrà spesso impegnato il sottoscritto ma coinvolgerà via via anche esperti e testimoni in diverse discipline e con diversi approcci, secondo i casi. E i temi verranno via via concertati secondo il criterio dello “scorrimento continuo” in una strategia condivisa e nel quadro di riferimento metodologico e valoriale che molti amici mi hanno sentito definire spesso come “modello monasteriale”.

Nella sostanza si tratta appunto di “formazione alta” ma… proprio perché alta non avrà nulla da spartire, anzi aborrisce esplicitamente, alti titoli e alti linguaggi, alte sponsorizzazioni e alti atteggiamenti accademici… e simili vuotaggini.

E’ formazione alta proprio perché… non va in alto bensì, al contrario, in profondità: costruisce nel profondo delle coscienze per far crescere, integrati, valori e competenze. Per questo anche il risultato sarà “alto”, ma solo nel senso più vero e pregnante.

Il pensiero di questa iniziativa viene in realtà da lontano, come viene da lontano il concetto di “formazione integrale” che lo anima: che ha appartenuto alla vicenda di vita e di crescita mia e di molte altre persone; e il cui merito non va a noi, pur avendoci anche noi messo la indispensabile nostra convinzione e buona volontà: ma va a quei formatori ed a quelle scuole di formazione che avevano (l’imperfetto è malinconico ma inevitabile, in quanto rare sono oggi simili realtà) come riferimento della loro azione proprio il concetto di integralità, cioè la idea che la persona è una creatura appunto integrale, composta di corpo, anima e spirito, e strutturata per essere contemporaneamente individuo e comunità; e che in tale integralità essa deve svilupparsi e realizzarsi positivamente, qualunque sia la materia più specifica di cui si occupa e l’ambiente più specifico in cui vive.

L’Italia ebbe simili scuole di formazione nel primo ventennio del dopoguerra, in campo politico ma anche in campo sindacale, aziendale, religioso, sociale, e la stessa scuola istituzionale dello Stato aveva in sé un nocciolo centrale di riferimento a tale cultura di integralità: uno dei segnali ne era la presenza nei programmi e in pagella della “buona condotta” collegata anche con la educazione civica, che implicava appunto attenzione specifica della funzione educativa alla persona nella sua totalità, e accentuata sensibilità alle dimensioni umanistiche di tutte le materie.

Successivamente tali scuole e tale metodologia sono state incredibilmente abbandonate a un progressivo declino e parte di esse sono addirittura scomparse, come è stato ad esempio per le grandi scuole dei partiti politici storici. La flebile e inadeguata figura dei ministri della pubblica istruzione succedutisi negli ultimi decenni ha sancito e generalizzato tale decadenza.

Molti di noi sono tornati però costantemente a chiedersi come fare a ritrovare la via (per usare le parole di Luigi Sturzo).  

Il nostro paese, peraltro, non ha in realtà bisogno di ritrovare semplicemente “una grande classe dirigente”, come a volte si dice: ha bisogno di ritrovare una più diffusa e profonda coscienza di sé, dalla quale si generi anche una nuova classe dirigente di grande levatura, in tutti i settori della sua vita.

Siamo nel 21° secolo: velocizzazione, mondializzazione, tecnologicizzazione, digitalizzazione, turbocapitalismo, intelligenza artificiale… fanno infatti diventare in parte un sorpassato luogo comune anche il concetto tradizionale di “classe dirigente”.

In realtà siamo tutti classe dirigente nella misura in cui siamo in grado di influenzare intorno a noi altre coscienze. Occorre dunque tornare a formare potentemente e diffusamente persone di alta levatura, più che “dirigenti” in senso formale.

Abbiamo cioè bisogno di costruire alte coscienze da mettere come sentinelle attive dovunque, direi in ciascun angolo di strada e in ciascuna stanza di ufficio o di casa o di fabbrica. Ciascuna di esse strategica per il semplice fatto che ne interseca altre, in tutti i settori della vita. Sentinelle appunto di qualità totale: altrimenti svanisce il sogno di una comunità che migliora nel suo insieme e nelle singole persone che la compongono. Se tali sentinelle sono di qualità… esse sono automaticamente classe dirigente a prescindere dai ruoli formali.

Anche a livello planetario si nota del resto, oggi, una non tranquillizzante tendenza al declino o alla stagnazione qualitativa del vivere individuale e sociale e del livello di sensibilità istituzionale, che comporterebbe una ben diversa e superiore attenzione ai sistemi formativi e al concetto di classe dirigente: dalla grossolanità di Trump alla inconsistenza di Biden, dall’umiliante resa della civiltà e dei diritti umani in Afghanistan o in Iran alla crisi ucraina con le sue vittime innocenti, all’incartamento burocratico-finanziario della realtà europea, alla povertà dell’Africa,  allo strapotere intrasparente della finanza, alla disattenzione complessiva verso il grande valore fondativo della vita, al malinconico fantasma dell’Onu che a oltre settant’anni dalla sua costituzione non riesce a diventare vero parlamento dei popoli, la “classe dirigente” formale, politica e non politica, dà oggi testimonianza prevalente di mediocrità anche, appunto, a livello planetario.

In materia più particolare di economia, ad esempio, mentre osserviamo che il capitalismo ha sconfitto il comunismo, e la tecnologia sta sconfiggendo il capitalismo, non possiamo non chiederci anche: ma… poi? Il futuro? La persona? La comunità? Dove sono? L’umanesimo capace di dominare la tecnologia e la emergente intelligenza artificiale, dove è? Il capitale umano, su cui è steso il più drammatico silenzio, dove è?… Dove sono l’impresa partecipativa e il lavoro di cointeressenza?

Urge insomma porre fine alla sterilità delle parole, delle ideologie, degli schemi e dei titoli formali che ubriacano il parlare quotidiano, e tornare a pensare e agire con pregnanza secondo il binomio “persona e comunità: tutto l’uomo e tutti gli uomini (per dirla con le parole di Paolo VI).

E’ infatti la persona concreta e integrale che ogni giorno “fa” la politica, la scuola, il sindacato, l’economia, l’impresa, la religione… Mentre partiti, istituzioni, classi, categorie, schemi, sono strumenti e non fini. 

Via, dunque, anche dagli insensati schematismi (come sono, ad esempio, in politica l’ottocentesco “destra- centro-sinistra”, nel sociale il retorico giovani-anziani e l’ingannevole uomini-donne, in economia l’eterno poveri-ricchi, etc.); e via anche dalla idiozia di semplificazioni concettuali come élites, classe media, borghesia, ceto intellettuale, etc. Il capitale umano e l’umanesimo, le persone concrete e la loro solidarietà, sono l’unico futuro accettabile per l’economia, per la politica e per tutta la vita sociale!

Ma, a questo punto, voi chiederete più concretamente: che idea più specifica avete e proponete per questa formazione integrale? Rispondiamo in sintesi quanto rispondevamo già anni orsono:

“E’ una idea molto alta.

La formazione infatti è il cammino della persona totale verso il proprio orizzonte infinito, in armonia con la comunità in cui essa vive e cresce.

Tutte le sue potenzialità di sviluppo e miglioramento si mettono in movimento.

Ci si forma perché migliorarsi è vocazione fondativa e irrinunciabile della persona.

E anche perché, se è buona formazione, essa mette insieme armonicamente crescita personale e crescita comunitaria: cioè l’unica crescita che abbia senso compiuto per l’uomo e per la civiltà.

L’uomo è infatti appunto, nella sua pienezza e contemporaneamente, “persona e comunità”.

La formazione non è indottrinamento.

Non è semplice aumento di nozioni nel nostro cervello.

Non sono professori che fanno conferenze.

Non sono esami e promozioni o dichiarazioni di idoneità.

Tanto meno sono bocciature.

Queste ultime, quando ci sono, caso mai bocciano la capacità della scuola di essere utile alla crescita delle persone.

La formazione non è un “master” conquistato in una prestigiosa università

Da esibire stupidamente in un curriculum

O da contemplare narcisisticamente incorniciato a una parete

O da segnalare allusivamente in un discorso pubblico.

La formazione è il tuo cammino di vita nel miglioramento continuo:

Quel cammino della tua anima e di tutto il tuo essere, che non finisce mai

Che non delude mai

Che non inganna mai

Basta che tu sia leale con testesso.

La formazione sei tu sempre più consapevole dei tuoi limiti ma anche delle tue potenzialità

E della loro concretezza

Del tesoro nascosto che possiedi e che… sei un irresponsabile se lo lasci perdere.

La formazione è la tua occasione di tutta la vita:

Qualunque mestiere tu faccia

Basta che faccia il mestiere di esistere

E di essere una persona che si vuol realizzare compiutamente.

Ti trovi a fare la scommessa decisiva della tua vita se ti prendi cura della tua formazione permanente o te ne infischi.

In una comunità che... forse ne è inconsapevole ma si vuol realizzare anch’essa

ed è chiamata a dire a sua volta sì o no a questa sua e tua realizzazione.

Qualunque mestiere tu faccia:

Lavoratore dipendente o disoccupato o studente o imprenditore o dirigente d’azienda o anziano in quiescenza o politico o amministratore locale o studioso o libero professionista o sportivo…

Ed a qualunque gradino tu sia in quella idiota e immorale falsificazione di vita che chiamano scala sociale.

In qualunque ambiente tu viva

Da qualunque punto tu parta

sei dunque chiamato a decidere se ti prendi cura della tua crescita permanente

o se ti infischi del destino della tua vita.

A volte mi chiedono in particolare cosa io pensi della formazione politica

Dato che la politica è dimensione essenziale per la vita comunitaria.

Anche la formazione politica rientra pienamente nei criteri valoriali e risponde alle esigenze di coerenza suddette.

Formarsi in politica, in particolare,

non significa imparare a far comizi efficaci turlupinando la gente

Né apprendere a creare manifesti elettorali più brillanti di quelli dell’avversario di turno

E neanche trovare la battuta efficace per controbattere l’ultima uscita di successo dell’avversario di turno.  

Formarsi in politica

Se davvero hai valori di ispirazione umanistica e tantopiù se si tratta di umanesimo cristiano

Significa imparare ogni giorno a capire più profondamente te stesso e contemporaneamente gli altri

A vedere di te stesso e degli altri un futuro lungo e non solo quello a dieci centimetri dal tuo naso

A saper affrontare tutti i problemi

anche eventualmente sbagliando, ma riconoscendo gli errori e migliorando sempre

Ad acquisire competenze crescenti, anche tecniche, nelle materie che hai scelto come tua specializzazione

Senza mai trascurare il miglioramento delle tue conoscenze più generali

E contemporaneamente a consolidare valori più alti per testimoniarli più fortemente

Mettendo tutto ciò a disposizione attiva della tua comunità

Oltre che di testesso.

E analogamente si può dire per la formazione sindacale, economica, scientifica, giuridica, e simili.

La formazione usa anche le aule ma se occorre sa farne a meno.

La formazione, se è davvero buona, deve costare pochi soldi e molta costanza di impegno

Deve chiedere l’aiuto di pochi professori e di molti maestri di vita

Deve mettere insieme teoria e pratica

Perché la teoria senza la pratica è priva di vita

Ma anche la pratica senza la teoria è un cammino a rischio di dispersione.

Per tutto questo la formazione non ha età

Né cariche sociali né gerarchie che esentino da essa

Né sapienti che possano farne a meno

Né “arrivati” che non ne abbiano più bisogno.

Beh… vi interessa?

Se sì, siete sulla strada giusta.

Se no, riflettete sui pericoli della vostra situazione.

Qualunque cosa pensiate,

la nostra formazione sarà così

o non sarà per nulla, perché, diversa da così, pensiamo che non valga la pena farne.

Solo così essa ha un senso di bene totale

Per noi stessi, per le speranze del nostro paese e anche oltre il nostro paese.

Un sogno?

Se volete, sì: un sogno. E che c’è di più concreto e utile di un sogno di bene, per migliorare davvero la realtà?

In fondo, alla chetichella, abbiamo già cominciato da molto a seminare il terreno:

ci siamo visti con tanti di voi, in diverse occasioni

giusto per cominciare a immaginarla, questa formazione

giusto per cominciare a dirci che puntiamo in alto

puntiamo appunto alla nostra persona totale da sviluppare

ed alla nostra comunità senza esclusioni

per migliorarle davvero entrambe e senza confini”.

                                                                                                                                              Giuseppe Ecca
Roma, 29 gennaio 2024
 
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I contatti, per chi è interessato, possono essere presi per ora direttamente con il sottoscritto, all’indirizzo giuseppe.ecca@gmail.com, o telefonicamente.

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Sono dunque disponibili fin da ora, concretamente:
 
INCONTRI (durata orientativa da due a cinque ore):
  1. La politica in Italia: un confronto fra ieri e oggi per capire le prospettive possibili.
  2. Motivazione e autorealizzazione nella scuola, nel lavoro, nella vita.
  3. La comunicazione fra persone e nella società: scienza e tecniche di base.
  4. Marketing e gestione aziendale.
  5. L’insegnamento della lingua italiana nella scuola come elemento fondativo per una formazione integrale: centralità  e metodi.
  6. Impresa: organizzazione e futuro.
CORSI (consistenza orientativa da dieci a venticinque incontri):
  1. Storia del lavoro e del sindacalismo in Italia e nel mondo.
  2. Un’esperienza lavorista e sindacale di eccezione: il settore elettrico e l’idea partecipativa in sessant’anni di dopoguerra.
  3. Formazione: il sentiero stretto.
  1. La comunicazione: scienza e tecniche nella vita e nel lavoro
  2. Econoimia: l’economia come bene comune.
 
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Racconti di vita

QUARTO DEI MILLE

A volte la nostra vita si specchia inattesamente in quella degli altri, magari per un episodio casuale del quale avevamo fino allora ignorato i protagonisti: e scopriamo che dietro quell’episodio c’è un insegnamento che fa anche per noi, o magari solo uno spunto di riflessione che è però occasione preziosa per farci semplicemente capire quanto è vasta e variegata la realtà umana che ogni giorno ci passa davanti e interseca i nostri passi; e quanto, in fin dei conti, valga la pena essere nei suoi confronti attenti e aperti.

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Il bambino che mi sedeva di fronte, sul treno regionale Genova-La Spezia, era mingherlino, aveva occhi castano-dorati, come i capelli, e gambette irrequiete. Quando si sentiva osservato si stringeva alla madre e reclinava la testa sul braccio di lei.

Lei, una giovane donna triste e pensosa, non badava al figlio né alle piccole stazioni dove il treno si fermava per pochi minuti: mentre lui ad ogni sosta si allungava verso il finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione; la vocetta era squillante anche se tradiva una lieve incertezza nel sillabare il nome sconosciuto della località: uno scolaretto di prima elementare, ne dedussi.

Dopo Sturla, il bambino si inginocchiò sul sedile e appoggiò la fronte al vetro. La madre si preoccupò allora di controllare che i suoi sandali non sfiorassero le mie ginocchia. Ignorò la mia occhiata benevola di comprensione e riprese il suo silenzioso raccoglimento, con le mani intrecciate sulla borsa di rafia.

“Quarto dei Mille!” esultò poco dopo il piccolo viaggiatore, puntando il dito fuori. E voltandosi: “Perché Mille? Mamma, cosa vuol dire?”. La donna non cambiò espressione: muta e indecifrabile come una statua. Era mai possibile che non sapesse rispondere a una domanda così semplice? mi chiesi. Il bimbo ripetè la domanda calcando su quel “mille”, che forse gli sembrava strambo, per un paese. Non ottenne nessun risultato. Il treno ripartì. Colsi una sua occhiata rivolta a me: conosco bene la psicologia dei bambini, dopo trentotto anni di insegnamento, e capii subito che questo era un tipetto sveglio con una gran voglia di scoprire e imparare. Se mi fossi messa a spiegargli l’evento storico legato a quel nome, dopo aver bevuto le mie parole mi avrebbe tempestato di domande. Colta da un senso di rispetto per il silenzio malinconico della madre, preferii tacere. Intanto il bambino seguitava a fissarmi, per cui io finsi di dormicchiare. Durante il percorso udivo però la sua voce che elencava i vari paesi costieri; ma il tono era stracco e poi si spense. Evidentemente non gli piaceva giocare da solo. Tra un battito di ciglia lo intravidi osservare svagato il grigiore del cielo che si rifletteva nel mare, e smuovere smanioso le gambe.

Appena il treno sferragliò sul ponte sopra il fiume Entella la donna si rivolse al figlio con un piglio brioso: “Su, Nuccio! La prossima è la nostra fermata”. Lui balzò in piedi e si fece agganciare lo zainetto alle spalle. “Siamo già a Lavagna?”, si informò. “Proprio a Lavagna”, confermai io, rompendo finalmente il cerchio del mio riserbo. E lui con gli occhi sgranati: “Io sulla lavagna ci scrivo”. “E io ci abito da un sacco di tempo”, replicai scherzosa.

Scendemmo tutti e tre insieme. La madre portava un borsone nero a tracolla e sul marciapiedi sbirciò attorno, indecisa. All’uscita dalla stazione mi chiese dove fosse via Devoto, controllando un biglietto tratto da una tasca dei jeans. ”Che numero?” chiesi a mia volta. “Trentuno”, mi rispose. “Andiamo, è il caseggiato di fronte al mio”, la rassicurai. Parve illuminarsi: “Grazie, signora; è da anni che non vengo da queste parti: abito a Udine, e qui mi aspetta una mia amica”. “La Luisita”, specificò il bambino con gli occhi ridenti. Ci salutammo quando già le prime gocce di pioggia cadevano su via Devoto.

Quando arrivai a casa accesi una sigaretta e misi a posto alcune scartoffie inerenti alla mia visita al provveditorato agli Studi di Genova. Più tardi il frigo poco fornito mi indusse a prendere l’ombrello e uscire. Tornando dal supermercato mi volsi casualmente verso il civico 31: scorsi il bambino del treno che mi guardava attraverso il vetro del portone con aria sconsolata. Tornai allora sui miei passi e mi accostai: la madre era rannicchiata sulla prima rampa delle scale con nello sguardo la medesima delusione del figlio. Spinsi la maniglia: “Siete ancora qui?”, mi meravigliai. La giovane si levò in piedi imbarazzata: “La mia amica forse si è scordata del nostro arrivo, doveva lasciare le chiavi alla vicina, che però non sa nulla e al cellulare non risponde. “La Luisita è proprio scema”, mormorò il bambino scuotendo il capo. “E adesso?”, mi impensierii. “Aspettiamo ancora un po’, se non viene cercherò un alberghetto per la notte”, mi rispose lei a occhi bassi. Controllai l’ora al polso e decisi su due piedi: “Venite su da me, intanto dovete pur cenare”. Madre e figlio parevano stupiti dell’invito: lui fu però pronto a sistemarsi le cinghie dello zainetto, mentre lei esitava a raccogliere il borsone.

“Signora, non vorrei darle disturbo, lei è troppo gentile…”. Le allungai la mano come per stringere un patto di solidarietà. “Mi chiamo Teresa”, mi presentai. “Io sono Ortensia”, replicò lei con un filo di voce. Quindi aprii l’ombrello e alla benemeglio li feci mettere sotto tutti e due.
Nello svegliarmi la mattina dopo ebbi subito la sensazione di non essere sola in casa. Erano quasi le otto e certo Ortensia era già uscita: doveva prendere un treno per Genova. Mi aveva lasciato il bambino e il borsone; e non aveva potuto contattare l’amica al cellulare.

La sua storia me l’aveva raccontata la sera prima: quattro parole al tavolo di cucina mentre Nuccio dormiva nella cameretta che era stata di mio figlio Alberto. Una storia cominciata bene, che si era deteriorata recentemente. Il suo compagno – oh, quanto detesto questo termine in uso per le coppie di fatto – aveva perso il lavoro di gruista e l’inerzia lo aveva reso sfuggente e irascibile. Stava tutto il giorno fuori, rientrava tardi e ogni tanto portava un po’ di soldi di dubbia provenienza. Ortensia temeva che si fosse messo in un brutto giro e i suoi sospetti si confermarono allorchè fu arrestato perché in possesso di pochi grammi di cocaina. Raccontando questa vicenda lei fumava, e io pure. La nuvola di fumo creava una sorta di velo confacente a questa sua improvvisa familiarità con un’estranea.

“Il giudice non ha accettato l’alibi che si trattasse della sua dose personale e l’hanno arrestato per spaccio”. E dopo una pausa, con tono supplice: “Mi creda, signora, ha avuto un momento di debolezza in seguito al licenziamento, ma è un brav’uomo e ci vuole bene”. Il posacenere era pieno di mozziconi. Per il processo imminente Ortensia intendeva rivolgersi a un buon avvocato di Genova. “La mia amica si è offerta di tenere Nuccio, così io posso muovermi liberamente”, aveva concluso con un sospiro.

Nuccio comparve sulla soglia della cucina strofinandosi gli occhi e mi domandò della madre, con la quale aveva condiviso il letto a una piazza. Gli risposi che era partita e sarebbe tornata la sera. Lui si strinse nelle spalle: “E’ per papà, lo so; lavora a Genova. E’ tanto che non lo vedo”. Poi scostò una sedia e si sedette al tavolo dove avevo preparato il tazzone di latte con i biscotti. Ortensia lo tirava su bene, il suo bambino, sebbene adesso potesse contare solo sul suo lavoro in un’impresa di pulizie. Verso le dieci uscimmo e andammo a passeggiare sul lungomare sotto lo sfolgorante sole di giugno: Nuccio mi dava la mano fiducioso. Al suo sguardo acuto non sfuggiva nessun dettaglio di quel paesaggio da cartolina; però non faceva domande. Così toccò a me prendere l’iniziativa: “Ti ricordi che in treno volevi sapere perché una stazione si chiama Quarto dei Mille?”.

Lui mi guardò di sotto in su e mi fece, un po’ imbronciato: “Nessuno mi ha risposto”. Niente di meglio di una panchina un po’ in ombra per colmare la lacuna: e il mio racconto gli sciolse la lingua. “Questo Garibaldi era davvero un eroe”, osservò Nuccio, che aveva ascoltato molto attento la narrazione dell’impresa dei Mille. E poi con una timida occhiata: “Tu sei una maestra?”. “Lo sono stata… e tu hai una brava maestra?”. “Io ne ho due, la Lory è simpatica, l‘altra  è una streghetta con le unghie blu”. E si portò le mani alla bocca, pentito dell’impertinenza.
Nel pomeriggio Nuccio si mise a guardare i cartoni alla tivù e io presi un vecchio album dell’infanzia di mio figlio per mostrarglielo, ma cambiai idea e lo infilai di nuovo nel cassetto. Ortensia per tutto il giorno non si fece viva. Mentre cenavamo squillò il campanello della porta. Nuccio si strappò il tovagliolo e corse all’ingresso. Udii delle esclamazioni e lo seguii. Sulla soglia si stagliava una biondina sorridente che lo stava abbracciando: era la famosa Luisita che, una volta entrata, si scusò per le sue negligenze del giorno prima;  “Sto allestendo un piccolo stabilimento balneare, un grande impegno che mi ha mandato in tilt e ho scordato tutto il resto…”.

Nuccio la guardava con una smorfia di rimprovero. “Su, adesso saluta questa gentile signora, prendi la tua roba e vieni da me… La mamma mi ha telefonato, ma il cellulare era mezzo scarico e non ho capito quasi niente”. Nuccio non si mosse dal mio fianco. “Stanotte dormo qui”, disse; “la maestra deve finire di raccontarmi le ultime imprese di Garibaldi”. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. La ragazza infine si arrese: sarebbe venuta a prenderlo l’indomani. Appena chiusi la porta Nuccio mi strizzò l’occhio: e rimase sveglio fino alle dieci ad ascoltare la lezione su Garibaldi. Prima di addormentarsi gettò un’occhiata verso la scrivania dove c’era la foto del mio Alberto. “ E’ tuo nipote?”, mi domandò. “E’ mio figlio a quindici anni”. “Dove è adesso?”. “All’estero”. “E non ti viene a trovare? ”Certo che viene, e anche di frequente”. Spensi la luce e uscii dalla stanza. Avevo il magone. Alberto era bello e bravo come appariva in quell’ultima immagine: ma quando suo padre se n’era andato via di casa per amore di una giovane turista inglese che viveva a Londra, era diventato duro e ribelle. Che si fosse messo in un brutto giro come il compagno di Ortensia me ne ero resa conto troppo tardi. Quell’estate particolarmente secca i boschi delle colline bruciavano e l’odore del fumo arrivava fino alla Via Aurelia. Incendi dolosi, scrivevano i giornali. Le guardie forestali scoprirono una piccola banda di minorenni che appiccavano il fuoco per divertimento. Alberto era fra loro. Cercò di scappare ma sull’orlo di un dirupo perse l’equilibrio e precipitò, facendo un volo di dieci metri.
Nuccio se ne andò la mattina dopo con “quella scema della Luisita”, lasciandomi dentro un’apprensiva tenerezza. La casa tornava vuota. Forse mi ero illusa che il bambino del treno restasse ancora un po’ a dare un senso alle mie giornate. Ma sarebbe stato come tradire Alberto che da decenni è l’ombra dolce che accompagna ogni istante della mia vita. Qualche volta scorgo Nuccio che gioca in spiaggia, allegro,  abbronzato, con altri bambini. Oramai di Garibaldi sa tutto e non ha più bisogno di me. Ci lanciamo un saluto da lontano. Ortensia ogni tanto mi telefona. Spero che tutto si risolva presto: così Uccio tornerà a Udine con i suoi genitori.
                                                                                                                             
                                                                                                                    (Anonimo, Premio  Prato Raccontiamoci)
      
                                                                                                                *****

 

Racconti di vita

PICCOLOBLU

A volte, come nel caso del racconto che pubblichiamo oggi, non correggiamo neanche la lingua italiana laddove essa può essere formalmente meno perfetta: perché chi ci regala queste esperienze di vita ci mette spontaneamente a disposizione la sua vicenda di umanità senza altre pretese che quella di testimoniare con onestà, e questo è un merito pieno, che non ha bisogno neppure della perfezione espressiva della lingua italiana (a volte si tratta di persone che, semplicemente, non hanno potuto compiere un completo corso di studi perché la vita le ha portate per ben più stringenti sentieri da affrontare).  

Ci si potrà rimproverare il fatto che, con il racconto odierno, per la seconda volta ci soffermiamo su una piccola vicenda di legame fra una persona e un animaletto, e ciò può sembrare un attaccamento eccessivo a una sorta di causa animalista: ma non è così. Raccontiamo tutta la vita e tutte le vite che ci capita di incontrare, nelle loro piccole e grandi dimensioni, invitando noi stessi e tutti a considerarle così come ci vengono incontro, semplicemente, nei significati piccoli e grandi che possono rivestire, e in ogni insegnamento che se ne possa trarre.

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Spesso i ricordi ci riportano indietro negli anni e i frammenti di emozioni ronzano all’orecchio della mente come api nell’alveare, e la mente continua aleggiando nel mare del passato, a volte senza trovare la fondamentale risposta ai quesiti che pone.

Scrivo questo episodio, vissuto con tristezza nella mia giovane età, quando negli anni del dopoguerra la vita era dura, la gente per sopravvivere era pronta a qualsiasi sacrificio, le famiglie erano numerose ed in ogni casa c’era solo il necessario per vivere.

Nella via in cui la mia famiglia abitava, al lato opposto della mia casa sorgeva un vecchio palazzo antico, che apparteneva ad una grande famiglia benestante, aristocratica, antica: i Medici, che del vecchio palazzo non facevano nessun conto; ma la gente del paese lo usava per gettarvi i rifiuti, e spesso per qualcosa di più doloroso. Quando nelle loro case avevano degli animaletti, soprattutto cani e gatti, e questi davano alla luce cagnetti e gattini, questi per mancanza di cibo venivano buttati vivi, senza rimorso, lì nel palazzo, e il pianto di questi esserini giorno e notte mi tormentava il cuore; spesso andavo, li raccoglievo nel mio grembiulino, li portavo a casa chiedendo a mamma di dare loro il mio cibo per sfamarli, e così mi sentivo felice.

Vedendomi tanto sensibile, mia madre mi accontentava e tutto ciò durava due, tre giorni; ma quando il terzo o quarto giorno tornavo da scuola e subito andavo al cesto e lo trovavo vuoto, allora chiamavo la nonna e la mamma e domandavo: “Dove sono gli animaletti?”. Loro, in sintonia, mi rispondevano che dai paesini di montagna era scesa gente per vendere i suoi prodotti, gente che stava bene, padroni di mandrie e di tante cose da mangiare; e li avevano regalati a loro, con loro sarebbero stati bene, avendo cibo in abbondanza, e sarebbero cresciuti da gran signori. Io nella mia innocenza ero felice. E ancora oggi non so se tutto questo era vero: ma non sentendo il loro pianto cessavo di essere triste. Mamma faceva del suo meglio per me, diceva che ero il suo piccolo uccellino spennato: “Se viene una ventata di vento ti porta via...”. Ero esile e lei mi abbracciava fortemente al cuore e faceva quanto poteva per me.

Ma l’episodio che segnò la mia anima fu quando, a quattordici anni, mi regalarono un cagnolino dagli occhi blu, bianco come la neve, di una bellezza straordinaria, il cui epilogo si immortalò nella mente mia segnandovi una storia particolare che ha messo un punto fermo nella mia vita.

Sono sempre stata innamorata dei fiori, ma le circostanze della vita non davano quello che desideravamo;                                                                                      c’era un limite in tutte le cose. Nella mia famiglia eravamo cinque bambini e, quando il Natale arrivava, per ognuno di noi il regalo più bello era un vestitino; succedeva due volte l’anno, il Natale per l’inverno e Pasqua per l’estate; con i tempi che correvano, questo per noi era una grande cosa,  un privilegio, pensando ai bimbi che avevano poco o niente; ma la bellezza era che chi aveva divideva tutto: specialmente pane, scarpe e vestiti; nei piccoli paesi si era una grande famiglia, amandoci e rispettandoci a vicenda.

Così arrivò il fatidico giorno; mamma e papà ci portarono a Bovalino, un paese vicino al nostro; Bovalino era un paese commerciale con tantissimi negozi di ogni genere, e mentre camminavo i miei occhi si posarono su un fioraio: aveva fiori bellissimi e io ammiravo una pianta di bellezza spettacolare, una pianta colma di bianche gardenie; mi sembrò che tutta la neve del mondo fosse caduta su quei petali ed il profumo inondava l’aria: mi fermai, mamma mi chiamava ma io non mi muovevo, qualcosa dentro me cambiò, volevo la pianta. Lei disse: ”La pianta costa quanto la stoffa del vestitino, non si possono comprare tutte e due”; ma io dolcemente e con perseveranza la convinsi, e così ebbi la mia splendida pianta. La curavo ed ogni giorno diventava più bella, ricca nella corona delle sue gardenie, attraverso i vetri della mia finestra l’ammiravo e mi sentivo felice.  

Accadeva anche che ogni giorno da casa mia passava un dottore veterinario  con la moglie: erano amici di famiglia; a quei tempi i dottori erano gente importante e di grande rispetto, e  successe che la signora moglie s’innamorò della mia pianta e venendo a trovarci diceva che non aveva visto mai una così bella e viva pianta; io sentivo che la voleva a tutti i costi, e lei mi offriva quello che desideravo: ma io dissi sempre di no. “E’ la mia pianta e non la do a nessuno”. Mamma mi suggeriva di darla al dottore e alla signora, perché “sono gente che… abbiamo sempre bisogno di loro”. Ferma, io dicevo sempre di no. Ma un giorno dovetti cedere: e pagai a caro prezzo.

Il dottore si presentò con un grande cesto adorno di fiocchetti e nastri blu e dentro il bianco cagnolino, il mio Blu dagli occhi color del cielo. M’innamorai subito di lui, lo presi in braccio, e lui cominciò a leccarmi con il suo musetto rosa. E’ stato un amore a prima vista; più cresceva, più si attaccava a me ed io la lui, era il bene dell’anima mia ed io gli detti quel nome con amore: Blu.

Se ben ricordo, a quei tempi in ogni paese le macchine si contavano sulle dita delle mani, erano pochi i privilegiati ad averne una, e per mia fortuna un giorno al palazzo dei grandi signori c’era festa, parteciparono persone di paesi lontani, arrivati da ogni dove proprio in macchina, ed io in quel giorno andai in negozio per far delle compere, attraversando la strada da casa mia. Il negozio distava pochi metri e mi avviai credendo che il mio piccolo Blu non mi avesse visto andare, ma lui mi aveva seguito a distanza e mentre attraversava la strada una macchina lo investì, sfortunatamente, travolgendolo e ferendolo gravemente; e così ferito, per amor mio si trascinò fino al negozio dove ero. Arrivò ai miei piedi, mi si buttò sopra lamentandosi, guardai cos’era e il battito del mio cuore si fermò, le lacrime scorrevano come un temporale vedendo il mio Blu colmo di sangue; lo presi fra le braccia e me lo strinsi al cuore, piansi: lui mi guardò con quegli occhioni colmi di lacrime e con un lieve sospiro morì fra le mie braccia.

Tornai a casa con il mio fagottino; il suo sangue bagnò il mio viso, le braccia, il vestito; il mio cuore sanguinava dal dolore, e lì finì quel grande bene. In tutta la mia esistenza non ho avuto più il coraggio di prendere un altro animaletto. E’ rimasto lui solo, nella mia vita e per sempre: il mio piccolo Blu.

Così finì pure la mia bella e bianca gardenia: nella vita niente è nostro, bisogna godere quello che si ha al momento e stringerlo nelle mani e nel cuore; solo i ricordi sono nostri, non ce li fa dimenticare nessuno, sono una proprietà nostra assoluta: ed oggi mi rivedo una bimba che stringeva fra le sue braccia anche la sua pianta di gardenia con occhi sorridenti e la felicità nel cuore.

Questa storia l’ho scritta per ognuno che sia padrone di un animaletto, affinchè lo ami, lo accudisca e gli voglia bene: perché sono degli esserini che hanno bisogno di tanto affetto e di tanto amore, e li ricambiano.
                                                                                                             
                                                                                                               (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)

 
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MM
 
 

Storie di vita

PIPPO L'ARISTOGATTO

6 gennaio 1943, festa dell’Epifania. Per noi bambini era la festa della Befana, la simpatica vecchina che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, a cavallo di una scopa e con una gerla sulla schiena portava regali a tutti i bambini. In quel lontano 1943 io vivevo l’attesa della Befana in modo insolito: questa volta svegliandomi non avrei trovato vicino al letto il babbo e non avrei condiviso con lui, come sempre avevo fatto, la gioia e lo stupore per i regali ricevuti. Questa volta egli non poteva essermi vicino: era lontano per la guerra.
 
Quel mattino, quando mi sono svegliata, ho trovato come ogni anno, appesa alla spalliera del letto, una calza piena di dolcetti e sul comodino una sagoma della befana fatta con della pasta dolce. Sul letto, al posto dei giocattoli, un cestino legato con un nastro azzurro e, appeso, un biglietto dove era scritto: Ecco Pippo, un amico per sempre. Incuriosita mi sono affrettata ad aprire il cestino e dentro c’era un piccolo gatto, un bastardino con un mantello peloso bicolore, sopra maculato come un soriano e sotto, pancia e zampette, bianche: sembrava un comune gattino e non sapevamo quanto sarebbe stato speciale.
 
In quel periodo passavo molto tempo da sola, mentre mia madre continuava a lavorare in una grande fabbrica laniera. Il tessile era la caratteristica di Prato, la nostra città. Producendo soprattutto tessuti e coperte per militari, le aziende laniere lavoravano ancora a pieno ritmo: tutto si sarebbe fermato più tardi, con l’arrivo dei bombardamenti. Anch’io conti[G1] nuavo ad andare a scuola: frequentavo la seconda elementare; ma anche la scuola a breve si sarebbe fermata. Il peggio, purtroppo, doveva arrivare.
 
Sentivo molto la mancanza di mio padre, particolarmente la sera, quando mia madre aveva il turno serale e sarebbe rientrata dal lavoro alle 22,30. Il pomeriggio passava presto: noi bambini andavamo sempre all’aperto per i nostri giochi di gruppo, eravamo liberi e indipendenti, forse anche troppo indipendenti. A volte avevamo l’impressione di essere orfani: gli adulti erano distratti e affaccendati in altro di più urgente. All’ora di cena però dovevo andare nella casa di mia zia Umiltà, la sorella maggiore di mio padre, la quale abitava vicino a noi. I miei zii avevano una famiglia numerosa, cinque figli, e l’ultimo era affetto da una pesante poliomielite che lo costringeva in una sgangherata carrozzella donatagli dall’Ospedale Palagi. La loro casa era piccola, la loro miseria era grande. Lo zio Tito faceva di mestiere il muratore e in quel periodo, causa la guerra, era quasi senza lavoro. Per la preoccupazione e l’umiliazione di non riuscire a sfamare i suoi figli, egli, che era un omone buono e dolce, aveva avuto un crollo fisico (era dimagrito di 30 chili) e psicologico. La sera, invece di mettersi al tavolo con noi per la cena, si metteva in disparte seduto su una sedia e con la testa fra le mani piangeva. L’atmosfera in casa degli zii era molto pesante, troppo diversa dalle serate passate con mio padre prima della partenza per la guerra.
 
Il babbo, che prima della guerra lavorava nell’azienda del gas, aveva un turno di lavoro unico, diurno, e all’ora di cena era sempre con me e quando mia madre aveva il turno serale lui mi organizzava delle serate speciali. Forse perché ero figlia unica o forse per una sua grande sensibilità al riguardo (aveva perduto la mamma da piccolo) faceva tutto il possibile per non farmi sentire la mancanza della mamma. Le nostre serate speciali erano di due tipi: quelle “musicali” e quelle “imitative”.
 
Per le serate dedicate alla musica lui toglieva dal suo piedistallo il grammofono, un oggetto bellissimo marcato “La Voce del Padrone”, e me lo piazzava sul grande tavolo centrale; e io fin da piccolissima avevo imparato ad usarlo. In piedi su una sedia sapevo cambiare i dischi, cambiare le puntine e girare la manovella per ricaricarlo.
 
Per le serate “imitative”, in cui volevo giocare alla “mamma”, chiedevo a mio padre di togliere dalla vetrinetta i servizi di porcellana, regali di nozze che mamma aveva ricevuto dai suoi compagni di lavoro e a cui teneva moltissimo: e lui con grande azzardo me li affidava per farmi giocare a fare la padrona di casa. Fortunatamente tutto è andato sempre a buon fine e prima che lei rientrasse dal lavoro rimettevamo le cose a posto. Tutto questo ora non c’era più a causa della guerra. Io ero sempre più triste e malinconica.
 
Un maestro di vita
 
Pippo, il gattino, cresceva in fretta e ben presto cominciammo a capire che aveva qualcosa di particolare. Non miagolava quasi mai: non gli piaceva quel mezzo di comunicazione, preferiva esprimersi con gli occhi, i quali diventavano sempre più attenti ed espressivi.
 
Oggetto particolare della sua attenzione ero io: non mi perdeva mai di vista. Più cresceva e più avevo la sensazione di avere vicino qualcosa di speciale. Facendomi coraggio chiesi a mia madre di non mandarmi più dagli zii per l’ora di cena: preferivo rimanere nella nostra casa in compagnia di Pippo. All’inizio la mamma era un po’ perplessa, poi capì questa mia necessità e trovando un aggiustamento (facendo venire le mie due cugine più grandi a “darmi un’occhiata”) acconsentì a questo mio desiderio.
 
Pippo era sempre con me, era come se mi avesse preso in affidamento e, particolarmente nelle sere in cui ero sola, non usciva mai di casa. In quel tempo lontano la vita era molto diversa da quella che siamo abituati a vivere oggi. Nei paesi come il mio le case erano tutte singole, con la porta d’ingresso a pian terreno e sempre aperta. I bambini e gli animali domestici vivevano molto all’aperto, nella strada o nei campi vicini. La scelta di Pippo, di non uscire di casa la sera, lo rendeva diverso dai suoi simili: lui era sempre diverso. Tutto quello che faceva o che non voleva fare era caratterizzato da una scelta precisa sempre pensata, consapevole. Dopo ogni sua azione mi guardava e con quegli occhi intelligenti sembrava volesse dirmi: “Osserva, rifletti, usa la testa”. Oltre a darmi lezioni di consapevolezza mi faceva apprezzare anche la diversità. La vicinanza del gatto mi tranquillizzava e rendeva meno acuta la mancanza di mio padre, anche se era tanta la voglia di rivederlo!
 
La storia comunque mi stava aiutando, dato che si avvicinava una data importantissima per noi italiani: l’8 settembre del 1943, firma dell’armistizio con gli angloamericani. Circa un mese e mezzo prima, il 25 luglio, era caduto Mussolini con il suo governo e il generale Badoglio aveva preso momentaneamente il controllo del paese. Molti ingenuamente pensavano che con la firma dell’armistizio la guerra sarebbe finita. I militari che erano sui fronti di guerra cercarono di tornare a casa. Anche mio padre, che in quei giorni difficili era ricoverato a San Gallo, nell’ospedale militare di Firenze, per curarsi una ferita ad un ginocchio, riuscì con una fuga rocambolesca a tornare a casa. Anche lui, come molti, pensava che il peggio fosse passato e non poteva immaginare cosa ci aspettava. Mussolini riuscì ben presto a ricostruire il partito fascista creando la Repubblica di Salò, i tedeschi che erano sul suolo italiano occuparono le nostre città e insieme cominciarono a dare la caccia ai soldati che avevano disertato la guerra. Mio padre dovette nascondersi nella casa del nonno, ritenuta più sicura avendo delle vie di fuga.
 
Mia madre, a causa dei bombardamenti e dei sabotaggi fatti dai tedeschi alle fabbriche laniere, perse il suo lavoro. Mio padre improvvisamente si trovò dodici bocche da sfamare: gli zii con i loro cinque figli, il nonno con la seconda moglie, più noi tre. Nessuno poteva far fronte a tutte le necessità: chi era troppo vecchio, chi era troppo giovane, chi era malato. E mio padre di notte, come un animale selvatico, mettendo ogni volta a rischio la sua vita, andava a piedi attraverso i campi, da una casa all’altra dei contadini, a volte fino alla zona pistoiese: comprava qualcosa da mangiare e qualcosa da rivendere per poter assicurare la nostra sussistenza. La mamma ed io ogni sera nel tardo pomeriggio ci incamminavamo verso la casa del nonno per portare la cena al babbo. Pippo, percependo che i tempi erano cambiati e che i rischi erano aumentati, estese la sua protezione anche all’esterno e ogni sera si univa a noi formando con noi uno strano trio: faceva questo da par suo, non ci seguiva ma ci precedeva e con le sue lunghe zampe e con il suo incedere elegante, la testa fieramente eretta, guardava in faccia i rari passanti come volendo dire: “Guai a chi me le tocca!”.
 
Questa storia è andata avanti per un anno intero. Finalmente è arrivato il 6 settembre 1944, giorno della liberazione di Prato dai nazifascisti. Era il momento di riprendersi la vita; le distruzioni erano tante e tutti cercavano di tornare alla normalità, anche se i tempi erano difficili: mancava lavoro, mancavano servizi, i generi alimentari scarseggiavano ed erano molto cari. Il babbo però fortunatamente era tornato a casa e ben presto aveva ripreso a lavorare nell’Azienda del gas.
 
Ma dopo un po’ di tempo, un mattino, mi sono svegliata e non ho più trovato Pippo. Disperata ho iniziato a cercarlo e in questa mia ricerca si è unito tutto il paese, sparpagliandosi anche nei campi vicini; lo abbiamo cercato in ogni anfratto, in ogni dove, ma di Pippo nessuna traccia: sembrava svanito nel nulla.
 
I cattivi ragazzi
 
Dopo qualche tempo dalla scomparsa di Pippo mio padre una sera mi diede una bellissima notizia: casualmente, andando al lavoro, in una pasticceria aveva ritrovato il nostro gatto. Pippo si trovava in una pasticceria del centro di Prato, la Pasticceria Lai, che aveva ripreso da poco la sua attività. Dopo la chiusura a causa della guerra, i proprietari riaprendo avevano trovato la cantina, dove tenevano la farina, completamente infestata dai topi e per questo avevano chiesto al garzone di bottega di procurare un gatto. Immediatamente abbiamo capito: il garzone in questione era un ragazzo che abitava di fronte alla nostra casa.
 
Questo ragazzo era il minore di due fratelli, due ragazzi strani, asociali: non frequentavano mai nessuno, stavano sempre fra loro. Il minore era affetto da un’agitazione motoria notevole, si arrampicava sugli alberi come uno scoiattolo, e nel cortiletto a fianco della loro abitazione, con i pattini ai piedi, faceva delle piroette altissime. Il maggiore, più cupo, con gli occhi bassi, camminava vicino ai muri e sembrava voler nascondersi agli occhi altrui. Da poco qualcuno lo aveva fermato, sparandogli con una mitragliatrice ad una gamba, che poi gli avevano tagliato fino all’inguine. Qualcuno diceva che gli avevano sparato perché aveva assaltato un treno che trasportava merci alimentari. Altri dicevano che era stata una vendetta perché era stato in combutta con i repubblichini. Forse era vera la seconda versione. Pochi giorni prima di questo incidente anche un altro giovane del paese, non ancora ventenne, ea stato ucciso, colpevole di essere entrato negli ultimi mesi di guerra fra i repubblichini. Nell’immediato dopoguerra,  per una strisciante guerra civile non dichiarata, si verificarono numerosi episodi di rancori e vendette.
 
In famiglia eravamo comunque intenti a preparare al meglio la cesta per il recupero del nostro gatto. E la domenica mattina mio padre ed io con le nostre biciclette andammo alla pasticceria Lai. Entrando all’interno vidi Pippo su un alto sgabello; stava dormendo. Mio padre si diresse al banco delle proprietarie, io mi avvicinai al gatto e lui svegliandosi mi  guardò e capì tutto. Velocemente si mise seduto con il busto eretto, esprimendo il massimo della regalità: sembrava un’autentica divinità egizia. Con gli occhi socchiusi, sornioni, cercava di mettermi in soggezione per dirmi qualcosa che di regale non aveva niente. Mi stava dicendo: “Ti prego, lasciami, non portarmi via, in questa toperia mi sto divertendo da matti!”.
 
Sconcertata sono rimasta ferma per un attimo, poi mi sono voltata verso il babbo dicendogli: “Andiamo via, Pippo rimane qui”. Mestamente, a mani vuote, siamo tornati a casa. Amareggiata, delusa, non capivo come a causa del rapimento il gatto fosse caduto in un mondo di ratti. Ero troppo bambina per capire che con il ritorno a casa di mio padre e il ricomporsi della nostra famiglia forse la missione dell’animaletto era terminata. In seguito, da grande, pensando a quei giorni difficili, cruciali, ho capito che la vita mi aveva fatto un grande regalo mettendomi vicino quell’essere speciale: un angelo col mantello peloso. Indimenticabile!
                                                                      
                                                                                                      (Autrice anonima, “Premio Prato Raccontiamoci”)
 
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Saper vivere

LA MORTE COME CRITERIO DELLA VITA

Un testo inconsueto, un tema inconsueto. Ma riteniamo, decisamente, che sia tempo che nella nostra società opulenta  e disorientata venga rimesso l’accento sul tema del significato totale della vita umana, da cui scuola, famiglia, sistemi educativi, scienza ufficiale, economia, pubblicità, sono di fatto assenti pressochè del tutto. Gravemente e colpevolmente. No, non sono riflessioni da confinare nella coscienza individuale di ogni cittadino, come generalmente si dice e si pensa. Sono riflessioni che devono essere fatte proprie anche dai contesti sociali e comunitari. La riflessione è di Carlo Molari.
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Dovremmo riflettere insieme sulla preparazione alla morte, su quale significato ha per una vita autentica il riferimento alla morte. Voglio farvi prima alcune premesse.
Prima premessa: la finalità pratica di questa riflessione. Questa riflessione non è tanto finalizzata a rispondere alla domanda “cos’è la morte” o “come dobbiamo vivere per prepararci alla morte”; ma a prendere coscienza della responsabilità che abbiamo del tempo. Nella prospettiva evolutiva la morte non è un evento accidentale, secondario, introdotto successivamente: non c’è stata mai una umanità perfetta e la morte è costituita dal nostro esistere come creature. Credo che oggi almeno tra noi non ci sono difficoltà a capire questo: noi siamo nati per morire.
Seconda premessa: la morte sarà come noi la prepariamo. Credo che sia pacifico anche che noi vivremo la morte come la stiamo preparando: se per esempio pensiamo che la morte sia la fine di tutto, noi la vedremo come tale e certamente essa segnerà l’esaurimento della nostra vita. Se noi la viviamo come un passaggio a una vita successiva, noi renderemo possibile il passaggio alla vita successiva, perché nel frattempo maturiamo le strutture che sono necessarie per la vita successiva. Per cui è importante che ci chiediamo: come sto vivendo la morte nelle sue anticipazioni e quindi come sto preparandomi a morire? Perché noi faremo della morte quello che abbiamo deciso. Nella prospettiva evolutiva questa è una conseguenza molto chiara: noi vivremo la morte che abbiamo preparato, corrispondente al contenuto introdotto nella nostra vita.
Terza premessa: il carattere temporale della nostra esistenza. Noi come creature siamo tempo e ciascuno ha il ritmo del tempo proprio, non c’è un tempo universale. Sulla natura del tempo si sta discutendo più intensamente da un secolo almeno ed esistono molte opinioni. Adesso non possiamo esaminare questo problema, però almeno una cosa deve essere pacifica: non esiste un tempo assoluto e ciascuno di noi ha il suo tempo. Noi pensiamo al tempo come a un ritmo comune a tutte le cose, che precede la stessa realtà; ci pensiamo inseriti nel tempo come in un grande contenitore che procede e si sviluppa a ritmo costante e identico per tutte le creature. Questa visione intuitiva e immediata è infondata: in sé questo tempo assoluto non esiste. In realtà noi siamo tempo come creature perché non possiamo accogliere il dono della vita in un istante, tutta completamente.
Il fisico Carlo Rovelli in un libro intitolato “La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose” (Cortina, Milano) ha un capitolo, il settimo, intitolato proprio così: “Il tempo non esiste”. Si riferisce alla visione assoluta del tempo e sostiene appunto che il tempo è il ritmo che è legato alle singole creature, al luogo dove sono, per cui per esempio essere in montagna od essere in pianura comporta il vivere a ritmi diversi, perché il tempo scorre diversamente. Sono differenze di miliardesimi di secondo, ma il concetto è fondamentale per capire la natura del tempo e quindi la nostra condizione di creature, e per vivere pienamente.
Noi di fatto in realtà rischiamo di vivere sempre il passato. Solo nell’ambito spirituale possiamo pervenire a un presente vissuto come presente. Voglio chiarire brevemente questo punto: sono cose note ma sulle quali non riflettiamo. Per esempio, la luce del sole che ci perviene adesso non è come è il sole in questo momento, ma come era otto minuti fa. Se in questo istante il sole scomparisse noi continueremmo ancora a vederlo per diversi minuti. Così le stelle o gli eventi straordinari che capitano nel cosmo, di cui i satelliti lanciati nello spazio stanno trasmettendo foto meravigliose, noi li vediamo non come sono in questo momento ma come erano milioni o miliardi di anni fa, secondo la loro distanza.
Ma anche all’interno della nostra vita interiore noi viviamo sempre leggermente sfasati, rispetto al presente, di qualche frazione di secondo, benchè abbiamo la convinzione che sia il nostro presente. Per esempio, quando sentiamo che si avvicina una zanzara in realtà la zanzara ci ha già punto. Noi non l’avvertiamo nello stesso istante perché lo stimolo ci mette un po’ di tempo ad arrivare al cervello, che deve elaborarlo, deve capire che si tratta di una zanzara, poi mettere in moto il muscolo del nostro braccio per colpire la zanzara, ma quando noi arriviamo la zanzara non c’è più. Siamo sempre un po’ sfasati rispetto al presente perché ci vuole sempre un po’ di tempo per trasmettere il messaggio, per elaborarlo e per agire.
Ho poi sottolineato più volte che la parte del cervello istintiva precede sempre la parte del cervello relativa alla consapevolezza, c’è una differenza di un mezzo secondo e quindi c’è già un piccolo spazio. Per cui dobbiamo renderci conto del fatto che noi siamo quasi sempre nel passato: anche se si presenta come presente in realtà siamo leggermente in ritardo.
Nell’ambito spirituale questo non avviene, nel senso che se Dio è, se la forza creatrice ci alimenta e noi viviamo consapevolmente questa condizione, noi determiniamo l’istante della nostra accoglienza dell’azione di Dio. Cioè se noi viviamo consapevolmente la nostra relazione con Dio, quello è l’istante in cui l’azione ci perviene, in cui l’azione di Dio ci arricchisce. Quello è il presente che noi determiniamo ed è realmente in quell’istante che il dono di Dio ci perviene.
In questo senso l’ambito spirituale può essere – se lo viviamo e se Dio è – l’unico momento presente reale. In questo senso credo che l’esperienza spirituale sia molto significativa per cogliere il presente che ci invade, la forza creatrice che qui, ora, ci è offerta.
Quarta premessa: modelli antropologici. Le riflessioni che sto per proporvi non sono cose definitive ma vogliono essere degli stimoli; non utilizzano il modello corpo-anima. Sapete che questa concezione dell’anima e del corpo che si combinano insieme (nell’antichità c’erano diversi modi di pensare questa combinazione) è fondamentalmente di origine greca e anche di altre culture orientali, è stata molto diffusa prima nel mondo mediterraneo e poi nel nostro mondo occidentale, e ha avuto un’influenza notevole  anche nella formulazione della dottrina cristiana così come si è sviluppata lungo i secoli. Ma di per sé non è un modello assoluto. Fra l’altro non corrisponde neppure al modello biblico più diffuso. Il mondo ebraico, semita in genere, aveva una concezione più unitaria della persona, anche se distingueva nella realtà umana diversi aspetti mediante tre termini fondamentali: basar, nefesh e ruah, tradotti in italiano come ”carne” (basar), “anima” (nefesh), “spirito” (ruah), in greco con “sarx” (basar), “psichè” (nefesh), “pneuma” (ruah) e in latino con “caro” (basar), “anima” ( nefesh) e “spiritus” (ruah). Schematizzando:
  • “Basar” indica l’uomo nella sua debolezza.  Quindi non è una parte dell’uomo, è una caratteristica della sua esistenza.
  • “Nefesh” indica l’uomo in quanto vivente. Il termine indicava di per sé il collo, da cui si capiva che la persona viveva perché il sangue scorreva (noi sentiamo il polso per capire se una persona vive o no). Nella traduzione greca dell’Antico Testamento (detta dei Settanta) nefesh veniva tradotto “psichè”, che corrisponde al latino “anima”. Il Nuovo Testamento ci è pervenuto in greco ma il riferimento per tradurlo esattamente deve rimanere il mondo semita, per cui psichè deve essere tradotto con “vita” anche se a volte traduciamo “anima” (per esempio “che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l’anima?”: riferivano l’anima precisamente al dopo morte perché nella concezione greca l’anima era immortale – anzi, secondo alcuni (ad esempio Platone e molti suoi seguaci) l’anima già esisteva prima della sua venuta sulla terra - .
  • “Ruah” indicava il respiro fisico, il soffio, che pensavano essere introdotto da Dio nell’uomo. Infatti nella Genesi si dice che Dio insufflò lo spirito di vita nel corpo modellato con fango. Il respiro veniva considerato come il mezzo con cui Dio dona la vita. Noi non dobbiamo pensare come gli antichi: ho richiamato questa terminologia per far capire le formule tradizionali.
 
Nella prospettiva evolutiva non utilizziamo questo modello, non parliamo dell’anima e del corpo, ma del divenire della persona, che crescendo sviluppa una dimensione spirituale. Secondo la fede cristiana e molte altre religioni la dimensione spirituale è in funzione della vita successiva e rende capaci di attraversare la morte da vivi. Se c’è una vita successiva occorre sviluppare le strutture necessarie per esercitarla, perché altrimenti non siamo in grado di sopravvivere e la morte rappresenterebbe la fine del tentativo che la vita ha fatto per svilupparsi in noi.
 
Portiamo l’esempio molto semplice del feto nell’utero materno: sviluppa organi e strutture (come polmoni, occhi e orecchi) che in quel momento non servono. Se il feto ragionasse pensando: “A che mi servono adesso i polmoni?”, per cui decidesse di non sviluppare i polmoni, la sua nascita corrisponderebbe all’esaurirsi della possibilità di vivere; non avrebbe creato le strutture necessarie per vivere in un’altra dimensione, per respirare all’aria aperta. Analogamente, se noi non sviluppiamo ora le strutture spirituali ci rendiamo impossibile l’attraversare la morte da vivi, perché non abbiamo le strutture necessarie per una modalità diversa di esistenza.
 
La riflessione che intendiamo fare serve per educarci a sviluppare le dimensioni interiori necessarie per attraversare la morte, cioè per pervenire ad un’altra modalità di esistenza. Sono le stesse dinamiche che ci consentono di vivere in modo pieno la nostra condizione attuale, come il feto nell’utero materno vive in modo pieno la sua condizione di feto quando sviluppa gli organi che gli serviranno nella vita successiva.
 
Il primo punto relativo alla preparazione è il rendersi conto della nostra condizione di precarietà: tutto ciò che noi viviamo è provvisorio, non c’è nulla di assoluto e definitivo nelle nostre condizioni. Noi spesso ci illudiamo che ci siano delle situazioni definitive che resteranno così come sono – certe convinzioni, sensibilità, modi di vivere le relazioni… - ma non è così: tutto ciò che viviamo è provvisorio, precario, ed è funzionale a un compimento, perché stiamo “diventando”. Questa è la convinzione che dovremo maturare pian piano, perché noi crediamo prima di tutto di essere già e quindi non abbiamo la percezione del divenire reale.
 
Secondo: crediamo che quello che siamo lo siamo per sempre, mentre in realtà la nostra condizione cambia continuamente: il nostro modo di pensare, il nostro modo di vivere i rapporti, il nostro modo di affrontare le situazioni cambiano continuamente; ma cambiano per un processo che viviamo realmente, per cui noi diventiamo; il nostro cervello cambia fisicamente, il nostro modo di rapportarci è realmente diverso da quello precedente, anche se non ne abbiamo sempre la consapevolezza. Il gesuita Padre Koyne diceva che siamo gli esseri più riciclati della terra o forse dell’universo perché gli elementi che ci costituiscono cambiano continuamente. Ogni organo si rinnova in poco tempo. E’ l’esperienza anticipatrice della morte.
 
Il cambiamento deve essere vissuto consapevolmente e per viverlo in modo consapevole dobbiamo avere dei criteri solidi. Essi ci sono indicati dalla morte che è il traguardo del nostro processo storico. Sono le condizioni richieste per attraversare la morte da vivi, in modo cioè che essa costituisca il passaggio vero l’altra modalità di esistenza. Sono i criteri per vivere pienamente tutte le situazioni, cioè per essere pieni di vita in ogni istante.
 
E’ questa la ragione per cui riflettiamo sulla morte come passaggio: proprio per essere in ogni istante pieni di vita. E’ una pienezza relativa, ma reale. Un bambino piccolo è pieno di vita quando è amato. E lo si vede quando gode la vita: non può parlare ancora, non può capire quello che avviene, ma per quanto è in grado di vivere è pieno. In questo senso quindi, almeno nella prospettiva della fede, anche un bambino piccolo che muore è in grado di continuare la vita nell’altra modalità perchè quello che è richiesto è essere pieni di vita. Questa è la condizione fondamentale. Ci sono carenze e ci sono possibilità di recuperi, però importante è vivere pienamente, intensamente. Questo ci consente di attraversare la morte. Vediamoli allora brevemente, i cinque criteri che la morte ci indica proprio per vivere intensamente, cioè per essere pieni di vita.
 
Il primo è il criterio della identità. La morte ci chiederà: “Chi sei? Chi sei diventato?”. Noi diventiamo giorno per giorno. La domanda fondamentale della fine della vita non è “che cosa hai fatto?” perché quello che noi facciamo sulla terra è sempre precario, è sempre funzionale: poi scompare tutto, non resta nulla di ciò che abbiamo fatto. Tra cinque miliardi di anni o anche meno il sole nel suo momento di espansione finale, nel rantolo della sua vita, assorbirà la terra e tutto quello che è sulla terra che gli uomini hanno costruito – anche la Grande Muraglia, anche i grattacieli – tutto diventerà polvere, tutto si ridurrà nella grande fornace agli elementi primordiali, per cui tutto riprenderà. Non sappiamo come, ma in ogni caso non resterà nulla di ciò che abbiamo fatto. La domanda è quindi “chi sei diventato?”, perché se c’è una possibilità della vita futura è per quello che noi diventiamo, cioè se sviluppiamo una dimensione spirituale; se esiste un’altra dimensione è quella che dobbiamo raggiungere.
 
Allora la domanda fondamentale è “chi sei diventato?”; attraverso quello che hai fatto, che hai pensato, che hai desiderato, chi sei diventato? Occorre pensare che possiamo anche fare le cose migliori ma non diventare. Per esempio se noi operiamo per apparire agli altri, per acquistare fama, per guadagnare o raggiungere potere, anche facendo il bene non diventiamo buoni. Abbiamo raggiunto un traguardo, abbiamo acquistato fama, denaro, potere, abbiamo forse illusoriamente anche pensato di aver raggiunto dei livelli elevati, ma poi scopriamo che tutto è insensato, che tutto è vano, tutto scompare. Se non siamo diventati viventi attraverso ciò che abbiamo compiuto tutto è vano, perché solo la dimensione del divenire ci consente di attendere una modalità nuova di esistenza.
 
Dovremmo costantemente tenere presente il criterio del divenire. Non interrogarci su “che risonanza ha avuto quello che ho fatto? Che successo ho ottenuto?”, ma su “chi sono diventato? Quali dinamiche di vita ho esercitato?”. Noi potremmo vivere anche tutti i fallimenti della nostra vita in modo sereno e pieno, cioè dire “ho fallito in questo ma sono diventato”. Se per esempio esprimiamo amore verso coloro che ci fanno del male, esprimiamo misericordia, doniamo vita, noi siamo diventati anche se non c’è stato successo. Questo è un modo per relativizzare i successi ma anche per vivere in modo positivo gli insuccessi.
 
Capire però che quello che è fondamentale è precisamente la modalità con cui viviamo tutto, il lavoro quotidiano, gli incontri, la sofferenza, la malattia, l’emarginazione, i successi: tutto possiamo vivere in modo da diventare e quindi da sviluppare la dimensione interiore, perché questa è la ragione fondamentale per cui possiamo rispondere alla domanda “chi sei?”. Gesù parlava del “nome scritto nei cieli” (Lc 10,20): “Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Il nome è la realtà che noi costruiamo giorno dopo giorno. Ricordate sempre che non c’è un’identità già precostituita: noi diventiamo.
 
Nella tradizione cristiana esiste la pratica della riconciliazione che è il recupero del passato non vissuto o rifiutato. Possiamo diventare anche attraverso la memoria, sviluppare ora doni trascurati, o anche accogliere ora doni di vita rifiutati nel passato. Anche attraverso la memoria possiamo realmente diventare, perché l’azione creatrice di Dio contiene ancora i dati offerti e trascurati in altri tempi. Noi possiamo oggi fare memoria in modo da accogliere quella forza di vita che nel passato non abbiamo accolto. Anche gli aspetti negativi del passato quindi possono diventare oggetto di memoria positiva e farci crescere come persone. Dovremmo dunque ogni giorno interrogarci su “chi sono diventato oggi?”, cioè “quale sviluppo ulteriore ho avuto?”. Se ci interroghiamo semplicemente su “cosa ho fatto?” e non investighiamo sulle dinamiche vissute non siamo in grado di rispondere in modo adeguato sulla nostra condizione e sul valore della nostra attività. Possiamo fare un elenco delle esperienze compiute, dei successi o degli insuccessi, e così via, ma non tocchiamo il punto fondamentale, che è il nostro divenire reale.
 
Il secondo criterio che la morte ci indica è il distacco. La morte ci chiederà di non portare nulla con noi, nulla. Come sappiamo, nella storia ci sono stati tanti momenti illusori, per esempio i faraoni che riempivano le tombe di gioielli e di cibo, che sono diventati tesori per i musei e gli archeologi. In ogni caso il distacco necessario per morire è assoluto, non possiamo portare neppure il corpo che ci è servito.
 
La morte indica un criterio fondamentale per la vita, proprio perché se noi ci attacchiamo a qualcosa come assoluto, cioè diciamo “questo è essenziale per me, non può essere altrimenti”, di fatto cadiamo nell’idolatria e non viviamo secondo la realtà, dato che tutto è provvisorio e quindi dobbiamo viverlo come tale. Non dobbiamo rifiutarlo ma accoglierlo come provvisorio. Dobbiamo distinguere chiaramente tra la provvisorietà e la necessità: anche le cose necessarie sono provvisorie. Certo, noi dobbiamo respirare o mangiare, non possiamo farne a meno, ma tutti gli elementi che utilizziamo mangiando o respirando sono in sestessi precari, provvisori, insufficienti e dobbiamo viverli distaccandoci nello stesso momento in cui li accogliamo. Anche i rapporti: occorre sempre vivere i rapporti in modo dai introdurre la consapevolezza della provvisorietà. Sono necessari i rapporti, noi possiamo costituire dei doni necessari per gli altri, ma occorre viverli con distacco perché la vita fluisca e non venga bloccata. Allora vivere già distaccati è la condizione per vivere intensamente ogni situazione. E’ importante la componente del distacco, per non aggrapparsi a nulla come assoluto. Nella vita spirituale questo è tradotto con “solo Dio basta”, ma è un traguardo che solo nella morte saremo in grado di vivere.
 
Tutto questo noi lo viviamo sempre in un modo limitato, ma la morte ci chiederà di viverlo in modo così assoluto e radicale da non esserci compromessi. Cioè non possiamo dire “però almeno questo me lo porto con me”, “almeno il mio corpo mi serve, degli occhi ho bisogno…”. No, niente.
Quindi in questo senso noi impariamo a morire quando riusciamo a vivere tutte le situazioni pienamente ma distaccati. Questo è il punto: pienamente ma distaccati.
 
Il terzo criterio è il criterio della interiorizzazione delle persone o anche delle cose nei rapporti. Interiorizzare, cioè vivere le relazioni sapendo che ci costruiscono e quindi che sono per noi fondamentali perché ci arricchiscono, cioè diventano una dimensione interiore. Invece noi spesso viviamo le relazioni con le cose o con le persone con dinamiche possessive, cioè per costringerle a stare accanto a noi, per poterle utilizzare, non per farci diventare. La componente del divenire può sembrare espressione di egoismo ma in realtà è la legge della vita: noi diventiamo per le offerte che riceviamo continuamente. Però dobbiamo essere in grado di riconoscere che non è la persona o la cosa da possedere, ma è il dono che ci viene vivendo le relazioni. Non è la realtà in sè che ci è necessaria, è la ricchezza di vita che ci perviene attraverso il rapporto che viviamo. La fonte è Dio: questo è l’orizzonte teologale per vivere le relazioni. E’ una componente fondamentale della vita spirituale, e quella che sto sviluppando è appunto una riflessione di tipo spirituale.
 
Quindi il criterio della interiorizzazione mette in luce questo doppio dinamismo con cui dobbiamo avere rapporto con le cose e con le persone, cioè l’accoglienza interiorizzante, che lascia la libertà e che consente la partenza o il distacco. Dobbiamo però accogliere il dono, assumerlo, interiorizzarlo. Se invece noi viviamo i rapporti come se fossero indifferenti per noi (“sì, questo momento è importante, ma poi non mi interessa”), non interiorizziamo nessuna realtà e nessuna persona. Pensate il bambino piccolo: finchè non ha interiorizzato il padre, la madre, la nonna, il giocattolo, finchè non ce l’ha dentro non riesce a richiamarne l’immagine, per cui quando si trova solo piange, grida, ha bisogno di vicinanza. Non può fare altrimenti, ma man mano che sviluppa la presenza e porta dentro le persone è in grado di richiamare l’immagine, di richiamare la figura che ha interiorizzato; è in grado quindi di vivere poi le situazioni perché dice “fra poco vedrò mia madre, mio padre…”. Ma finchè non è in grado di richiamare le immagini interiori non è in grado di vivere situazioni provvisorie di assenza, perché non ha ancora la possibilità del richiamo.
 
Noi dobbiamo pervenire alla morte pieni di presenze, pieni anche di cose, perché abbiamo vissuto rapporti, perché abbiamo ricevuto doni; ma senza la possibilità di portare nessuno con noi. Possiamo anche vivere le situazioni di morte accanto agli altri proprio per completare il dono e per riempirci di presenze. Per questo la morte in casa, in famiglia, con le persone care vicine, ha un particolare significato proprio per la ricchezza dello scambio di doni, ma non per la pretesa di portarci qualcuno con noi. E’ la tentazione di coinvolgere gli altri e di morire insieme. Pensate poi le forme patologiche, anche di vita religiosa. Qualche decennio fa ci sono stati fenomeni di morti collettive, per esempio l’episodio della Guyana francese. In realtà dobbiamo essere in grado di morire pieni di presenze ma senza portarci nessuno con noi: la morte è un evento di compimento  personale.
 
Il quarto criterio fondamentale è il criterio della oblatività, perché la morte ci chiederà non solo di distaccarci ma anche di donare, di consegnare tutto agli altri: tutto torna nel ciclo cosmico e storico, anche la nostra esperienza interiore, anche la nostra cultura, nella misura in cui siamo in grado di donarli. Questo è un criterio fondamentale per la vita, perché la vita nostra si sviluppa proprio secondo la capacità di dono che siamo in grado di realizzare. Realmente si può dire che noi diventiamo il dono che facciamo: non siamo noi la fonte del dono, ma il passaggio del dono ci fa diventare viventi. Non dobbiamo neppure considerarci il principio del dono che consegniamo. Se lo offriamo con attese di ricompense, o con ricatti impliciti, inquiniamo il dono.
 
Questo Gesù l’ha espresso in ordine al dono nella preghiera che ci ha insegnato, ma questo vale per tutti gli aspetti della vita: “Perdona a noi come noi perdoniamo”, “rendici viventi come noi diventiamo donatori di vita”. C’è sempre questa circolarità: noi accogliamo quel tanto che siamo disposti a donare. Noi doniamo quel tanto che siamo in grado di accogliere. C’è una piena corrispondenza. In ogni relazione, anche nella vita matrimoniale, il dono può crescere man mano che procediamo, proprio perché diventiamo accoglienti donando e siamo in grado di offrire in una misura più profonda accogliendo. Siamo snodi nella rete profonda della vita.
 
La morte ci chiederà di essere capaci di donare tutto. Non è sufficiente il distacco, perché può essere un distacco di indifferenza (“io vivo distaccandomi da tutto, non mi interessa niente”), mentre deve essere un distacco di donazione piena: siamo chiamati ad offrire tutto quello che ci costituisce. Ci sono stati alcuni artigiani del passato che hanno conservato dei segreti del loro mestiere e questi sono stati perduti per sempre e per tutti. Noi riusciamo a vivere pienamente solo quando siamo trasparenti al dono, quando la vita non trova ostacoli nell’offrirsi in noi. Educarci alla morte significa imparare la trasparenza piena e definitiva.
 
L’ultimo criterio, che riassume e rende efficaci tutti gli altri, è il criterio della fiducia: per vivere la morte pienamente dobbiamo abbandonarci senza riserve alla vita, cioè esercitare una fiducia tale da saperla perdere. Nella sua forma radicale la fiducia nella vita la si può esercitare solo nella morte che è il momento in cui la perdiamo: perché èl’atteggiamento che ci consente di accogliere il dono nella sua pienezza. La morte deve essere l’esercizio di una fiducia senza limiti, solo in quel momento possiamo dire in piena verità “io non so, ma mi affido”. E’ in certo senso lo stesso atteggiamento del feto quando nasce: non sa nulla di quello che diventerà ma si affida, è stato educato dall’amore che l’ha condotto a quel punto e si lascia condurre dall’istinto sapendo che può fidarsi senza riserve. E’ un atteggiamento indotto dall’amore che l’ha fatto crescere giorno dopo giorno, per cui è capace di abbandonarsi all’avventura e al trauma della nascita proprio perché ha già sperimentato il significato dell’amore. Ma nella morte ci è chiesto di vivere consapevolmente – o finchè abbiamo consapevolezza – l’abbandono fiducioso: “Io non so, Tu sai, mi affido”.
 
E’ la stessa fiducia che ci consente di vivere tutte le situazioni quotidiane, perché quelli esaminati sono criteri non solo per morire in modo umano ma sono anche criteri per vivere pienamente. Il dato della fiducia è fondamentale, proprio perché ogni resistenza che noi poniamo alla vita diventa un impedimento ad accoglierla, ogni sfiducia, ogni timore, ogni paura blocca l’accoglienza della vita.
In questo senso quindi occorre imparare a fidarsi senza riserve. Certo che a questo punto la fiducia non è la fiducia nelle singole creature come tali – perché attraverso il cammino abbiamo scoperto la provvisorietà di tutto – ma è la fiducia in Dio, cioè nella Pienezza della perfezione e della vita, che conosciamo solo per lontane approssimazioni. Per cui fidarsi della vita vuol dire fidarsi dell’amore che ci ha investito, che ci ha alimentato, fidarsi così dell’azione di Dio in noi, da essere in grado di perdere tutto per giungere ad una modalità nuova di vita.
 
Io credo che comprendiamo ora perché imparare a morire è il compito di tutta la nostra vita. Di fatto quando abbiamo imparato a morire, quel giorno abbiamo imparato a vivere in pienezza.
 

                                                                                                                                             (Carlo Molari)
 

 [G1]On
 

Lavoro

COMMIATO

“Cose ormai antiche…ricordi ormai andati…”, direte. Mah!... è la vita (in questo caso la mia), rispondo.

In realtà ripenso spesso a quell’ultimo anno della mia esperienza istituzionale di lavoro in cui mi dissi: “Beh, sei finalmente arrivato, Giuseppe: sei arrivato al momento della tua pensione. Hai messo al sicuro, se Dio vuole, la tua anzianità dopo una vita francamente densissima di impegno, e ora diventi libero: non smetti di lavorare, ma lavorerai da persona libera. Goditi la conquista tanto agognata di tutta la tua vita e però non dimenticare mai nulla di quanto hai vissuto, e comunque ora, nel momento in cui formalmente ti congedi dai tuoi colleghi di ambiente lavorativo condiviso negli ultimi anni, non limitarti a un saluto burocratico e festoso come se il centro della faccenda fosse tutto intorno al brindisi scambiato per il congedo. Testimonia piuttosto loro quello che hai nel cuore in questo momento e che ti piacerebbe suggerire loro per il bene anche della loro vita”.

Così ho fatto. Così scrissi, quel mese di… ma che anno era? Forse già un decennio è trascorso, mamma mia! Lo scrissi e lo consegnai a tutti loro, quel mio saluto e quel mio pensiero, con affetto e attenzione personalizzata per ciascuno. Dopotutto, in quel momento ero ancora un loro dirigente: ed era anche, forse, doppiamente doveroso, da parte mia, un gesto simile. Ma era soprattutto una conferma di amicizia che vuole durare anche fuori dell’ambiente di lavoro, come è giusto che sia tutte le volte che ci è possibile.
 
 
°°°°°
 
 
 
 
A tutti i colleghi ed amici del Sistema Enasco

 
Cari amici,
 
ho compiuto, non molti giorni orsono, gli ultimi atti formali di commiato dal nostro (affettivamente lo sento ancora così) sistema e dalle ultime responsabilità che in esso ricoprivo. Mi resta appena, ancora per un certo tempo tecnico, l’utilizzo del vecchio indirizzo istituzionale di posta elettronica: anch’esso mi richiama, piccolo segno, i molti anni di vita intensa trascorsi con voi.
 
Ma come potrei pensare di concludere effettivamente la mia presenza istituzionale fra voi, senza salutarvi?  E vorrete scusarmi se, trattandosi del saluto conclusivo, lo troverete un po’ lungo: d’altronde… non ce ne saranno altri!
 
Con il 1° maggio del 2013 si è dunque conclusa sostanzialmente, grazie a Dio in piena serenità personale, la mia lunga attività di lavoratore dipendente, di dirigente e poi di collaboratore del nostro sistema. 
 
Dico “grazie a Dio” non perché abbia desiderato di allontanarmi dai colleghi con i quali ho speso tanti anni della mia vita lavorativa, ma semplicemente perchè la quiescenza ha sempre rappresentato per me un grande traguardo di vita, perseguito per tanto tempo come meta di libertà e di serenità e non come obiettivo di disimpegno o di disinteresse.
 
La libertà è un bene immenso per chi lo sa assaporare come conquista di tanti anni di lavoro intenso, reso solido dalla propria onestà e non da una famiglia potente di appartenenza o da un clientelismo servile, che ti rendono facile e scontato il cammino e, a volte, veloce la carriera.
 
Nella vita ho provato la fatica della povertà delle origini, quella del cercare lavoro contando soltanto su me stesso, quella del timore di perderlo, quella del doverlo cambiare contro la mia volontà, quella della estorsione delle mie dimissioni (non riguarda l’Enasco!), quella della famiglia lontana per inseguire il lavoro… un po’ tutto ciò che può provare un uomo che deve affrontare la vita senza padrini e senza padroni.
 
Oggi, potendo dire Ce l’ho fatta, sento di essere stato molto fortunato e nello stesso tempo piuttosto coraggioso.
Sento di avere meritato tutto ma anche di essere stato aiutato tanto.
Sento di dover ringraziare la Provvidenza di Dio e me stesso, ma anche tanti colleghi, tanti amici e, semplicemente, tante persone positive.
Che mai dimentico.
 
Ora mi sembra giusto lasciare serenamente ogni mio ruolo di struttura, in quanto:
 
  • è giusto che ciascuno di noi, giunto all’età matura, declini gradualmente, come ho fatto in questi anni, lasciando a chi viene dopo di lui il tempo e il modo di subentrargli con corretta gradualità per il bene della comunità lavorativa; ho potuto seguire questo metodo quasi sempre, nella mia vita, e ne sono particolarmente contento;
  • ho molto ricevuto e ho dato tutto quel che potevo; e sono consapevole che viene inesorabilmente anche per me, come per ciascuno di noi, un tempo nel quale il nostro pensiero e le nostre modalità di lavoro tendono a irrigidirsi, a essere meno adeguate, per quanto impieghiamo tutta la nostra buona volontà e la nostra buona fede. 
 
Ho curato, in questi anni di ruolo istituzionale e poi in questi mesi di collaborazione, la puntuale trasmissione delle mie capacità ed esperienze a chi mi è stato vicino, in quanto non ho mai ritenuto giusto tenere per me le cose che la società mi ha insegnato.
 
In effetti penso che le collaborazioni, specialmente dopo la quiescenza, debbano servire, più ancora dei ruoli istituzionali, soprattutto a trasmettere esperienza e sapere a chi resta, per arricchire la comunità lavorativa e il paese di tutto ciò che si è imparato. E a non sprecare nulla di quanto il paese possiede di capacità lavorativa.  
 
Del resto, ove ciò dovesse ancora occorrere in futuro, personalmente sarò sempre disponibile a farlo di nuovo. Ma continuerò soprattutto a sentire con voi, e con questo nostro ambito “aziendale”, l’amicizia che resta, come di chi ha fatto un lungo tratto di strada insieme e non si è trovato male. 
 
Penso in effetti che mai lo sciogliersi del rapporto di lavoro debba significare il declino dei rapporti umani, anche se meno frequentemente ci si vede. Personalmente non ho mai perduto i contatti con le persone positive con le quali sono stato legato nei diversi ambienti attraversati lungo la mia vita lavorativa: tutti hanno arricchito me ed i luoghi dove sono stato successivamente; in definitiva, hanno arricchito la società, l’unica nostra azienda vera. 
 
Di quanto ho la coscienza di aver fatto bene sono ragionevolmente orgoglioso, di quanto sono stato insufficiente mi scuso sinceramente con tutti. Non è tuttavia mai mancata la buona fede.
 

Messaggi?
 
Innanzitutto le regole. Mi dispiace di non essere sempre riuscito a spiegare questo principio. Regola si scrive con la R maiuscola, come la scrisse San Benedetto e come la scrissero tutti i grandi fondatori. Nella società nulla vive senza regole e queste sole sono la protezione dei deboli e degli onesti, la garanzia della giustizia, la razionalità e trasparenza delle risorse che si spendono, e tanto altro. Non c’è rispetto reciproco che non passi attraverso le regole.  “Le regole vanno osservate”, ci ha ricordato recentemente anche Nelson Mandela. Semplicemente.
 
Le regole non sono burocrazia ma uguaglianza di dignità fra persone. A patto che siano poche e semplici, e vincolino tutti senza eccezione alcuna, dalla base al vertice. Anche nel prendere il caffè e nel timbrare il cartellino. Ho visto in materia delle eccezioni: no, ragazzi: è una malattia grave, questa delle eccezioni. Finiscono in malesempio, corruzione, prevaricazione, differenze di razza e di casta. Distruggono i principi e i valori. Distruggono la solidarietà. Rendono più difficile capire il prossimo. Se una eccezione è motivata essa deve diventare una regola per i casi analoghi. Solo così c’è onestà e trasparenza che consentono di migliorare le cose. E di fare comunità.
 
Della buona fede non deve importarci molto, di per sè: l’azienda non è un problema di buona fede ma di efficienza. In buona fede si possono commettere le ingiustizie e gli errori più gravi. “Di buona fede è lastricata la via dei fallimenti”, come ho detto in qualche occasione passata.
Come di progetti è lastricata la via della provvisorietà.
Non sto dicendo che la buona fede non è essenziale: essa è essenzialissima, ma è valore distinto, presupposto in tutte le cose della vita. E non deve servire da stabile scusante per le inefficienze o per le mancate trasparenze.
 
L’Organizzazione è scienza grande e difficilissima, non ha a che vedere con la tronfia saccenza dei decisionisti, né in mala fede né in buona fede, né dell’alta gerarchia né di quella bassa.
 
L’organizzazione non ha a che vedere neanche con gli improvvisatori.
Non ha a che vedere con i cultori di slogans alla moda, neanche se imparati nelle eleganti scuole manageriali. Tanto meno se detti in inglese.
Né ha a che vedere con gli esibitori di brillanti masters postlaurea.
 
Ha invece a che vedere con chi mantiene orizzonti larghi e profondi, dialogo con tutti, e un cuore onesto.
L’organizzazione che funziona ha a che vedere con la garanzia che tutti abbiano le stesse opportunità di crescita, di incontro con il capo, di riconoscimento del proprio lavoro.
 
Ha a che vedere con la scoperta, la coltivazione e lo sfruttamento, a vantaggio di tutti,  di tutti i talenti (spesso i talenti migliori sono quelli non utilizzati o non riconosciuti).
 
Ha a che vedere con la serenità di lavoro di padri e madri di famiglia che non possono permettersi il lusso (né lo vogliono) di giocare a essere belli o brillanti fra i colleghi ma semplicemente sono seri, onesti, affidabili, positivi.
 
Ha a che vedere, come ho accennato, con una legge che sia uguale per tutti, e su tutto: anche in materia di criteri per i premi, di cartellini da timbrare, di permessi per taxi, di orari…
 
E a proposito di orari, se potete, vi invito caldamente ad acquisire un intelligente sistema aperto al telelavoro: è il futuro della qualità della vita di lavoro. E anche della razionalità organizzativa dell’azienda. Che esige serietà grande da entrambe le parti.
 
Ci ho provato anch’io, a istituire il telelavoro, anni fa: non potè nascere per eccesso di rigidità dei casi specifici.
 
Ma ora il clima è più adatto, anche perché da diversi anni sono maturate molte esperienze esterne, contrattualmente ben regolate ed equilibrate, dalle quali si può imparare molto di utile.
 
L’organizzazione che funziona non ha a che vedere con la meritocrazia, parola troppo alla moda che rischia quasi sempre di contenere, e di nascondere senza volerlo, arbitrarietà del tutto personali di valutazione; bensì con l’onestà laboriosa.
 
Cosa è infatti la meritocrazia? Chi giudica il merito? E quali sono i criteri adeguati? Quanti fallimenti, quanti piccoli e grandi furti di lavoro altrui, trasformati abusivamente in “merito”…
 
Secondo messaggio: la formazione. Quella veloce fa male, quella continua fa bene.
Quella brillante fa male, quella profonda fa bene. Quella solo tecnica fa male, quella tecnica e umana fa bene.
 
Non ci si forma a essere grandi professionisti ma grandi persone: dal che deriva l’essere anche grandi professionisti. Il viceversa non è. C’è in giro troppa formazione tecnica e troppo poca formazione umana.
Ci sono in giro troppi professori e pochi maestri di vita. Diminuite i primi e cercate di più i secondi.
 
La formazione non corre, ma non si ferma mai: e incide in profondità.
 

La formazione non segue i masters postuniversitari o le specializzazioni all’estero o gli Stages negli States e non parla in lingua inglese e non rilascia attestati e non costa tanti soldi e non ha bisogno di consulenti famosi.
 
Piuttosto, ogni anno ognuno deve andare a fare un mese o almeno una settimana di servizio effettivo presso un’altra realtà e con un ruolo diverso e di diverso grado da quello che svolge abitualmente. Un’altra realtà che può essere Enasco ma anche del tutto diversa: un dirigente può andare utilmente a fare l’operatore di centralino, un quadro può utilmente fare per un mese il garzone di officina meccanica, un caposervizio farà bene a provare a fare il banconista al bar.
 
Il mio grande maestro di vita Vincenzo Saba, che è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della cultura lavorista del dopoguerra, in tarda età è andato per sei mesi a fare la piccola accoglienza quotidiana ai lavoratori in difficoltà, in pratico anonimato.
 
Il mio grande maestro di vita Ulderico Romani, che è stato per anni una delle più grandi personalità culturali occidentali nel mondo universitario giapponese, ha voluto, a conclusione della sua carriera, fare l’umile viceparroco avendo come capo un suo antico allievo e mio compagno di corso; e venivano ancora a chiedergli consiglio i ministri del governo giapponese... 
 
Chi non integra la formazione di aula con queste esperienze non può costruire formazione vera. E non può capire neppure i libri che legge o studia. Non può andare in profondità.
 
Non stupisce che un direttore funzionale o un capoarea faccia per una settimana il centralinista. Stupisce che non senta il dovere di chiederlo.
 

Ma suggerisco innanzitutto a me stesso di riprendere a farlo. In passato l’ho fatto, in ambienti diversi, e altri lo hanno fatto con me, ed è stata la formazione più bella.
Suggerisco a tutti i presidenti ed a tutti i direttori del mondo di farlo.
  
La terza regola è lo scambio mentale, psicologico e morale, dei ruoli. Continuo. Guai a chi non ha qualcuno a cui rendere conto di quello che fa e di come si comporta. Quando ero in seminario questo metodo era la regola, dall’ultimo novizio al primo superiore. I ruoli si intercambiavano, a volte, addirittura per sorteggio. Non è un caso che simili organizzazioni siano le più longeve e le più produttive di uomini grandi.

Se accade la disgrazia di non avere qualcuno cui rendere conto anche morale del proprio operato, si diventa, anche in buona fede, ciechi e sordi al prossimo: la peggiore delle fini che si possa fare. La vita più inutile. Anzi, più dannosa per tutti: perché si riempirà la propria strada di vittime: vittime di piccole e grandi ingiustizie  che non si sarà nemmeno in grado di riconoscere.

Quarto messaggio: la comunicazione. Non è scoop, la comunicazione. Non è scenografia. Non è manipolazione suggestiva. E neanche brillantezza. Né battute studiate o facili. E’ cuore che parla, ricerca di verità che si vede, senso del limite e dell’onestà che si dichiara: si condivide. Non è estetica ma amore. Abbiate una sana diffidenza dei puri esteti della comunicazione, pur volendo bene anche a loro. 

 La stessa diffidenza che dovete avere per la lingua inglese, pur studiandola. Diffidenza dei modelli culturali che essa veicola in modo nascosto, soprattutto. In economia e managerialità, soprattutto. E che avvelenano l’anima e intorpidiscono il cervello. E che sono uno dei tumori del mondo attuale.
 
La comunicazione non è finzione che gonfia nè manipolazione che insinua: ma offerta di opportunità e finestre sul mondo.
 
E’ semplicità e verità. Crea libertà, non la incatena.
 
Non induce bisogni ma risponde a bisogni e una volta che li ha soddisfatti lavora per migliorare la qualità della vita.
 
E’ un’impresa che non finisce mai.
 
La nostra vera azienda non è l’Enasco, né la Confcommercio, ma il nostro paese. Che attraverso Enasco o Confcommercio ci paga, ci dà dignità e futuro.
E la missione del paese è un mondo un po’ migliore per tutti.
 
Non ci vuole, nel lavoro e nella vita, un grande cervello con un po’ di cuore dentro, ma il contrario: un grande cuore con un po’ di cervello dentro. L’ho detto tante volte, a tanti di voi. L’ho detto anche in tanti altri ambienti. Forse, chissà, io stesso non sono riuscito ad applicarlo del tutto, anche se ne ho piena convinzione. Ma ce l’ho messa tutta.
 
Attenzione ai premi: perché sono una cosa bellissima ma anche difficilissima da gestire. A volte hanno più diviso che unito, e in qualche caso più scoraggiato che motivato.
Perché valutare le persone è difficilissimo.
 
E si sbaglia molto.
 
E anche vedere quello che effettivamente i colleghi fanno e meritano è spesso difficilissimo.
 
Per i limiti di chi vede, per la diversissima abilità di chi sa “vendere” il proprio lavoro, per la presenza costante di piccoli e grandi ladri del lavoro altrui, diretti e indiretti, capi o colleghi.
 
Anche in buona fede.
 
Resta il fatto che i premi non sono una concessione dell’azienda: questa è una idea immorale. I premi sono la naturale (ed eticamente obbligatoria) partecipazione dei lavoratori ai frutti (positivi e anche negativi) del loro lavoro, attraverso il quale l’azienda esiste e dà beneficio alla sua proprietà ed alla comunità.
 
Proprietà che peraltro è solo giuridica, non è mai morale: il diritto naturale, e con esso la dottrina sociale della Chiesa, fa invece proprietari ed azionisti morali tutti quelli che lavorano nell’azienda.
 
Dà loro diritto di partecipare ai suoi risultati, e dovere di lavorare con impegno e serietà. Di non rubare. Nemmeno il tempo: di non lasciare che il nostro lavoro lo facciano gli altri.
 
Di non prendere giorni di malattia finta.
 
Di non dire mai “a me che mi frega? Per quello che mi danno…”
 
Perché questo è rubare.
 
Questo è disonesto.
 
Questo, sì, merita il licenziamento.
 
La malinconia di due licenziamenti di colleghi, che non sono riuscito a evitare, attenua la gioia per tante assunzioni che ho potuto aiutare.
 
Non dimenticherò né le une né le altre.
 
Le une mi servono per umiltà e meditazione, le altre per incoraggiamento.
 
Siamo sempre tutti piccola cosa, grandi soltanto di fronte a Dio se abbiamo un bel cuore.
 
Rischiamo di ripetere troppo che siamo tutti diversi. E che la diversità è una ricchezza.
 
E’ una ricchezza se contemporaneamente non dimentichiamo che siamo anche tutti uguali.
 
Uguali in dignità e diritti e doveri. E quindi non in astratto, ma in tutte le cose quotidiane e per sempre.
 
E allora: un po’ meno diversi e un po’ più uguali: negli stipendi nei premi nel tempo annuo di lavoro nel cartellino da timbrare nel dovere di lavorare con diligenza nella severità con la quale dobbiamo fermare anche con la forza i piccoli e grandi ladri (spesso ladri di idee e di lavoro) i piccoli e grandi parassiti i piccoli e grandi imboscati i piccoli e grandi “bugiardi per farsi belli” e la genia cancerogena di quelli delle eccezioni: tutti timbrano ma loro no, nessuno prende premi ma loro sì, tutti lavorano ma loro giocano al Solitario, tutti devono produrre risultati ma loro li presentano al capo…
 
E ci vuole anche il non dare troppa importanza al salotto, al si dice, al chiacchiericcio: ci vuole agire come se tutto dipendesse dal nostro personale comportamento. Questo è importantissimo per tutti ma ancor più per i capi.
 
Ognuno di noi è il capo di sestesso.
 
Ognuno di noi è il direttore di sestesso.
 
Ognuno di noi ha come segretario sestesso.
 
Ci vuole che si dicano le cose con chiarezza continuando però a costruire azioni buone. 
 
Ricordo ancora la malinconica vicenda dei fogli anonimi che venivano firmati da Gordon.
 
Molti anni fa.
 
Ricordate anche voi?
 
Tutti noi ci saremo fatti una idea del volto di Gordon: anch’io me la sono fatta.
 
No, non ritengo che quello sia un modo dignitoso e costruttivo di comunicare.
E la finisco qui con il tema, perché è stato un tema triste.
 
La dignità della terza età? Non esiste: esiste la dignità morale delle persone; ci sono ottantenni corrotti e corruttori, viziati e viziosi, inaffidabili e bugiardi, egocentrici e avari, che in nome dell’età rivendicano il diritto di continuare le loro malefatte.
 
Nelle organizzazioni coincidono spesso con “quelli del gettone di presenza e della poltrona in prima fila”.
 
Evitateli.
 
O, se riuscite, ricordate loro che presto moriranno (il che è la sacrosanta verità, e l’unica cosa… da prendere sul serio nella vita, anche se fanno le corna quando gliela dite) e che è meglio che si preparino a rendere conto di tutto sapendo che le bugie, in quella circostanza, non funzioneranno più.
 
Ma ci sono anche ventenni e trentenni già vecchi nell’anima, sporchi e corrotti per troppi masters che servono a nascondere la povertà morale, per troppo inglese che serve a nascondere la mancanza di cultura, per troppa brillantezza che serve a nascondere la miseria del cuore, per troppa “competitività” che serve a nascondere il deserto dell’anima.
 
Come, al contrario, ci sono ventenni e trentenni già carichi di opere buone e di sogni onesti: fate loro spazio.
 
E ci sono anziani carichi di meriti e di sapienza: ascoltateli, fate loro spazio nella vostra vita. Fateli non solo presidenti ma vigilatori morali di tutte le vostre cose.
 
Istituite questo ruolo dei vigilatori morali: sapeste quanto valgono più dei colloqui di budget e della pianificazione strategica e degli incontri di valutazione!
 
Quanto valgono più dei marchi e dei loghi e dei brand e del marketing e di tutte le piccole e grandi “frasi fatte” benintenzionate attraverso cui continuano a dirci che si può promuovere il nostro lavoro!
 
Non è il nostro lavoro né il loro bene né il bene comune che viene promosso da queste cose, ma il perpetuarsi di un gigantesco autoinganno.
 
Ma non istituiteli, i vostri vigilatori morali, ritenendo di doverli nominare o eleggere.
 
Dovete soltanto riconoscerli con il vostro cuore, e indicarveli, dirvi apertamente fra di voi che quelli sono i vostri vigilatori morali, i capi che davvero vanno ubbiditi dal vostro cuore.
Agli altri va riservata una ubbidienza onesta e leale ma che è solo quella organizzativa e burocratica.
 
Se vi hanno detto che del vostro lavoro ci si può innamorare, che ci vuole passione, e simili stupidaggini, non credeteci: vi stanno inducendo in errore, senza saperlo e senza volerlo; simili melensaggini tendono, senza saperlo e senza volerlo, a fare di voi dei punti di vendita per risultati che sono soltanto profitti, soldi e carriera, non una comunità migliore per tutti e fraterna con la società di tutti.
 
Ci si può innamorare della vita, di una persona, di un ideale, di Dio, di uno scenario della natura che ci fa pensare alla grandezza della nostra vocazione umana, della nostra immortalità…
 
Ci si può innamorare anche della propria comunità di lavoro e della bellezza del farla sempre più efficiente e più giusta.
 
Ma mai ci si può innamorare di un 730 o di una scheda budget o di un cliente conquistato o di un orario di lavoro robusto… Perché queste cose sono soltanto uno strumento per essere concretamente innamorati del nostro prossimo, degli altri figli di Dio. Anch’io mi sento amato concretamente quando vado da Serena o da Salvatore e loro mi compilano bene il 730. O da Gianni o da Rosaria quando mi assistono per la pratica della mia pensione. Ma non è il 730, l’amore, né la pratica di pensione: è il rapporto con queste persone.
 
Non ci credete?
 
Chiedetelo alle mamme di famiglia che ogni giorno vengono al lavoro lasciando a casa i figli e portandosi dietro il pensiero di come accudirli e di come preparare la cena per la famiglia rientrando un po’ tardi e rischiando di trovare il supermercato chiuso.
 
Chiedetelo ai padri di famiglia che escono la mattina presto sorbendosi il traffico dei mezzi pubblici e rientrano la sera tardi inseguendo l’obiettivo di cinquanta euro di aumento o di mille euro di premio.
 
Che a volte non verranno neanche dopo anni.
 
Chiedetelo a chi ha in casa un familiare malato.
 
Chiedetelo a chi ha in famiglia un lutto.
 
Chiedetelo a chi deve finire di pagarsi la casa.
 
Chiedetelo a chi non ha ancora visto sistemati i suoi figli.
 
Se voi non rientrate in nessuna di queste categorie o di categorie simili, potete ridervene di questa riflessione.
 
O meglio, potete ringraziarne la provvidenza.
 
Ma siete sicuri di essere numerosi? 
 
E se pensate a tutti i casi che conoscete, anche soltanto fra i vostri colleghi di lavoro, fatevi tentare da una riflessione approfondita, e dall’idea che anche voi in realtà siete coinvolti.
 
Vale piuttosto la pena di innamorarsi della grande avventura di una vita impegnata ed onesta e di quella cosa piccola piccola di cui a volte ci si vergogna, e che un tempo  chiamavamo ideali.
 
L’azienda non è ciò che dice il codice civile e ciò che recitiamo al professore quando andiamo a sostenere l’esame di diritto privato all’università: l’organizzazione di mezzi e persone che ha lo scopo di raggiungere obiettivi…
 
L’azienda non è neppure una organizzazione di uomini e mezzi finalizzata a produrre profitti per gli azionisti, come ci predicano la sballata teoria economica calvinista e quei luoghi di perdizione culturale che sono la Bocconi o la Luiss o il Politecnico di Milano, e cosacce similari, che tanto piacciono in America e altrove, e che tanti guai hanno causato, compresa l’ultima crisi economica che ha messo sul lastrico milioni di famiglie in tutto il mondo.
 
L’azienda è invece una comunità di persone e di destino che si organizza per produrre ricchezza e benessere da ridistribuire fra tutti i suoi membri e mantiene attenzione etica e solidale a tutti i suoi componenti e a tutta la società.
 
Ma tutte queste riflessioni non sarebbero equilibrate e giuste se non fossero accompagnate contestualmente dalla consapevolezza della benedizione rappresentata comunque dal lavoro che pure avete, e che fa parte intrinseca della dignità della vostra vita, che sarebbe umiliata se tale lavoro non ci fosse. Questo merita un sentimento di riconoscenza verso la comunità cui apparteniamo. Il tanto spesso vituperato nostro “posto” di lavoro merita apprezzamento e impegno e lealtà e generosità grandi. Dunque lo merita l’Enasco.
 
Mentre svolgo tali pensieri con me stesso, ma avendo davanti alla mia mente tutti voi e ciascuno di voi, penso anche che nel corso della mia presenza fra voi sono stato valutato in tanti modi diversi, dei quali più volte mi sono accorto e che non sono stato in grado di approfondire con ciascuno di voi, come avrei voluto.
 
Sono stato definito “un bravo ragazzo”, “uno onesto”, “uno che fa quello che può”, “un dirigente in gamba”; ma anche “un figlio di puttana” (proprio così), “uno che si è fatto gli affari suoi”, “uno che ha detto cose che poi non ha fatto”, persino “un falso” (questo mi ha fatto male più di qualsiasi altra cosa)… E altre versioni.
 
Alcuni giudizi mi hanno generato un po’ di malinconia; posso assicurarvi che non sono mai stato “un figlio di puttana” e tanto meno un “falso”, neanche quando ho sostenuto idee o comportamenti che non piacevano a tutti i colleghi.
 
Posso assicurarvi che sono stato soltanto un uomo di buona volontà e senza disonestà, attento al mio prossimo e sollecito del suo bene per tutto ciò che è stato nelle mie capacità e forze.
 
Mi sento molto gratificato da quanti mi hanno capito (e in qualche caso me lo hanno detto).
 
Mi sento immalinconito dai giudizi negativi, che avverto ingiusti, ma non ne voglio male a nessuno.
 
Fanno parte delle cose che nella vita non riusciamo mai a correggere né a spiegare abbastanza.
 
Se devo cercare un pensiero conclusivo a questa riflessione di commiato verso tutti voi, mi sento di dirvi: Non è bene cercare il successo di breve periodo: conta ciò che si costruisce nel lungo.
 
Accettate di discutere di fatti, più che di problemi: i problemi tendono a dividere e a creare ideologie. Cioè rigidità che ci dominano.
 
In cuor mio, poi, ma ve lo dico come fra parentesi, come sottovoce, se ciascuno di voi venisse a chiedermi in confidenza quale è stato in fin dei conti il vero mio punto di forza nei momenti più difficili, quelli nei quali sei tentato di dire a te stesso ora non ce la faccio più, ho fatto tutto quello che potevo ma questo è più forte di me (e vi assicuro che ne ho vissuti: ho visto mio padre disoccupato, ho visto respingermi da certe opportunità perché povero, ho visto la calunnia prevalere su di me contro la verità ed ero ancora bambino per potermi difendere…) vi risponderei che dietro l’angolo buio ho sempre cercato di ragionarne con Dio.
 
Vi auguro di vivere tutti i giorni della vostra vita come altrettanti passi di crescita completa, per ciascuno di voi personalmente e per tutta la nostra comunità.
 
                                                                                                                                  Giuseppe Ecca
Roma, mese di giugno del 2013.
 
(Beh, ve l’ho detta un po’ lunga: ma… è la sintesi di tanti anni di vita insieme!).
 
 
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Storia

"IERI E OGGI": PURCHE' SI SAPPIA RIFLETTERE BENE!

Quante volte ci capita… Siamo appassionati di confronti fra l’ieri e l’oggi, il passato e il presente, un poco in tutti i campi. “Ai nostri tempi… oggi invece…”. Naturale, il confronto fra noi e chi venne prima di noi, istintivo, e utile. Come il tentativo di immaginare il futuro. Ma attenzione ai luoghi comuni, alla frasi fatte, alla superficialità dei giudizi basati su conoscenze che spesso… (spesso!) neanche gli storici dominano bene.

Domenico De Masi ci richiama l’importanza di una consapevolezza più attenta con alcuni raffronti istruttivi... fra l’ieri e l’oggi della storia umana.

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Due tesi irrefutabili: 1) questo in cui viviamo non è il migliore dei mondi possibili ma è certamente il migliore dei mondi esistiti fino ad oggi; 2) mai la realtà è stata così complessa ma mai la vita è stata così semplice.

In che epoca avreste preferito vivere? Nell’Atene di Pericle, quando quarantamila uomini liberi avevano a loro disposizione 150mila schiavi, quando per strada potevate fare quattro chiacchiere con Socrate o con Platone, quando i giorni festivi erano duecento all’anno? O nella Roma di Cesare, quando in un solo colpo arrivò un milione di schiavi dalla Gallia, quando la capitale del mondo era una metropoli brulicante di architetti, poeti e teatranti, quando in un solo giorno i 70.000 spettatori del Colosseo potevano godersi la vista di 5.000 coppie di gladiatori che si sbudellavano? O nella Firenze dei Medici, quando il meglio dell’arte e della letteratura gareggiava con banche, corporazioni ed eserciti? o nella Vienna di Klimt, Musil e Mahler, quando un mondo stravecchio conviveva con l’adolescenza della civiltà moderna?

In ognuna di queste epoche, per godersi la vita, anzitutto occorreva essere degli aristocratici. I borghesi erano poveracci relegati in case scomode e squallide. I plebei erano morti di fame stivati in tuguri puzzolenti. Dunque, se non siete di nobile casato, meglio per voi essere nati nel ventesimo secolo.

Ma neppure il sangue blu sarebbe riuscito ad assicuravi una vita decente: oltre al censo e allo stemma nobiliare, occorreva avere una salute di ferro. Ve lo immaginate un Aristotele o un Augusto o un Luigi XIV alle prese con il mal di denti? Niente analgesici, niente dentisti: solo cerusici nerboruti, che asportavano denti con tenaglie funeste e approssimative. Dunque, se di tanto in tanto soffrite di colite o di bruciori allo stomaco o anche solo di un raffreddore, meglio per voi essere nati nel ventesimo secolo: quelli che oggi sono malesseri passeggeri, un secolo fa sarebbero bastati a mandarvi all’altro mondo.

E pure in tempi di pestilenze e pandemie le cose andavano meglio di oggi. Ve l’immaginate il lockdown durante la febbre spagnola del 1919 che fece un milione e mezzo di morti per 50 settimane consecutive? Niente Pfizer, niente DAD, niente smart working, niente Amazon, niente televisione, niente Spotify, niente Glovo, niente Deliveroo, niente informatica in soccorso della salute, dell’economia, della scuola, dei servizi, dell’ambiente.

Spesso gli snob vagheggiano presunte età felici in cui tutto scorreva semplice e leggero. In realtà, la stragrande maggioranza di chi nasceva nell’Ottocento poteva contare su una vita media di 32 anni; era destinato all’analfabetismo; mancava di tutto: dall’acqua corrente alla luce elettrica, dagli antibiotici agli analgesici ai mezzi di trasporto; da Fedez a Barbara D’Urso. Ogni problema era complicatissimo perché non c’erano gli strumenti per risolverlo. Quello si che era un mondo complesso!

Poiché sembrava che la natura andasse avanti per gradi, si credeva che ogni progresso, anche quello sociale e conoscitivo, fosse lineare, che le risorse del pianeta fossero infinite e anche il PIL potesse crescere infinitamente.

Poi, durante il Novecento, grazie a geni come Einstein, Freud, Le Corbusier, Wiener e Steve Jobs abbiamo capito che la nostra realtà attuale è complessa ma che, usando i potenti mezzi di cui ci siamo dotati, anche i problemi più ardui possono essere semplificati e risolti con disinvoltura crescente. Abbiamo capito che il progresso non è sempre lineare né uniformemente accelerato, che la natura fa dei salti imprevisti, che ogni problema ammette più soluzioni a seconda dei punti di vista. Soprattutto abbiamo imparato a trasformare molti vincoli in opportunità, molti punti di debolezza in punti di forza.

Giulio Cesare e Napoleone sono vissuti alla distanza di diciotto secoli l’uno dall’altro, ma se avessero voluto coprire il tragitto da Roma a Parigi avrebbero avuto entrambi bisogno di alcune settimane. Tra Napoleone e i nostri giorni ci sono poco più di due secoli eppure noi, pur non godendo di nessun privilegio imperiale, possiamo andare da Roma a Parigi in meno di tre ore.

Per salire in cima a un grattacielo, ci basta premere il bottone dell’ascensore; per liberarci di un’appendicite, ci basta fare un’operazione chirurgica; per ascoltare una sinfonia, ci basta spingere il pulsante del telecomando, per vedere le mie figlie all’altro capo della città o del mondo, mi bastano Skype o Zoom. Mai prima d’ora la realtà è stata così complessa e la vita è stata così semplice.

La progressiva semplificazione dei problemi pratici, grazie alle infinite protesi meccaniche di cui disponiamo, ci consente di dedicare maggiore tempo e impegno alla soluzione (cioè alla semplificazione) di problemi sempre più complessi, di ordine scientifico, economico, filosofico ed estetico.

Per quanto inquinate siano le nostre città, per quanto violenti siano i nostri rapporti umani, per quanto squallide siano le nostre periferie urbane, tuttavia il nostro ambiente è di gran lunga più sano, pacifico e bello di un secolo fa. Non a caso, la nostra vita media dura il doppio della vita dei nostri bisnonni. Non a caso qualsiasi impiegato statale può scegliere tra vestiti e oggetti più abbondanti e più belli di quanti ne potesse avere Lorenzo il Magnifico.

In un suo incantevole racconto, intitolato La rosa di Paracelso, l’ineffabile Borges ci ricorda che il paradiso esiste: ed è questa terra. Poi ci ricorda che anche l’inferno esiste: ed è vivere su questa terra senza accorgerci che è un paradiso.

Auguriamoci di non farci del male vivendo ad occhi chiusi.
                                                                                                                                              (Domenico De Masi)
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Scuola e vita

LETTERA DI SALUTO AI MIEI STUDENTI

Adele è una cara amica che da poco ha deciso di lasciare il mondo della scuola per raggiunte condizioni previdenziali: la inattesa dura esperienza personale legata al covid le ha suggerito di non attendere oltre per la sua quiescenza  ma non le ha scalfito lo spirito di missione con cui ha sempre vissuto il suo lavoro: spirito che dedica ora con uguale intensità alle attività che svolgerà fuori della scuola. Lo spiega nella “lettera di saluto agli alunni” facendone la sua ultima lezione preziosa e coerente di vita.

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La vita ci riserva tante sorprese, a volte belle ed a volte brutte. Il Covid mi ha colpita molto duramente al punto di essere in pericolo di vita e dover andare in pensione prima. Non avrei potuto lasciare tutto così, i miei alunni mi hanno vista l’ultima volta il 23 dicembre 2021. Ho affidato alla docente che mi ha sostituita la “lettera di saluto ai miei studenti”. La riporto di seguito così come l’ho fatta avere a loro.

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Carissime Alunne e carissimi Alunni,
 
non ci vediamo da quasi 6 mesi ormai. Il mio ultimo giorno a scuola è stato il 23 dicembre 2021. Molti di voi sapranno cosa mi è successo. Vi accenno solo qualcosa, che ha segnato completamente la mia esistenza.

Ho contratto il covid, anzi a detta dei medici ne ho contratte più varianti insieme.  Beh, mi devo distinguere sempre…perché contrarne solo una? Meglio di più!

Pur senza avere febbre e sembrando quella che in famiglia l’avesse preso in forma più leggera il 10 gennaio 2022 sono stata portata in ospedale in ambulanza per crisi respiratoria.

Tutto ciò che è successo durante il ricovero lo salto volutamente, vi dico solo che sono stata anche in rianimazione e mi avevano comunicato che stavo per morire, e stessa cosa avevano già detto, prima che a me, a mio marito.

I miei polmoni non funzionavano più, respiravo solo attaccata alle macchine e cosciente della mia prossima morte ho rifiutato l’intubazione ed ho chiesto un sacerdote per ricevere la Comunione e l’Unzione degli Infermi.

Mi sono ritrovata ad un certo punto, proprio mentre ero sul lettino della Rianimazione, sul “confine” fra questa vita e l’Altra. Ero di qua ma stavo per passare di là.

Ma il Signore ha voluto poi diversamente per me. Infatti sto qui a scrivervi.

La convalescenza ancora continua, non ho camminato per due mesi

Questa esperienza mi ha portato a fare scelte particolari e a farmi apprezzare maggiormente la mia stessa vita, la mia famiglia, tutto ciò che ogni giorno possiamo vedere e di cui spesso, per correre fra una cosa e l’altra, non ci accorgiamo di quanto sia bello e meraviglioso.

Vi raccomando di vivere la vostra vita in maniera piena, di apprezzare ogni piccola cosa che vedete o che avete, anche quelle che vi sembrano più banali. Dall’altra parte non ci portiamo nulla dietro se non l’Amore che abbiamo dato agli altri e ciò che di bello e buono abbiamo fatto.

Un pensiero in più a chi sta per affrontare gli esami di maturità. Vivete questa esperienza con serenità ma anche con senso del dovere: è un trampolino di lancio verso il futuro, il primo vero trampolino.

Ed arrivo alla fine. L’esperienza della Rianimazione mi ha spinta a fare una scelta ben precisa: ho chiesto di andare in pensione, prima del previsto. Voglio dedicare ciò che resta della mia vita alla mia famiglia, agli affetti miei più cari; voglio dedicarla ad aiutare il prossimo e a chi è nella sofferenza. Lo facevo già prima….ma quando davanti ti trovi il termine della tua vita sembra sempre che sia arrivato troppo presto ed allora, avendo avuta la grazia di poter vivere ancora, ho fatto questa scelta.

Vi lascio il mio account personale adele.caramico@gmail.com perché andando in pensione verrà disabilitato quello del Pininfarina.
Per chi volesse scrivermi io ci sono sempre. Vi ho portato sempre nel mio cuore e vi ho pensato spesso, tutte e tutti, indistintamente.
Vi auguro che possiate realizzare quanto più i vostri cuori desiderano.

Ed ora smetto di scrivere…..perché anche una prof si commuove, lo sapete?

Un abbraccio a tutte e a tutti voi.
                                                                                                                   (Adele Caramico)
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Racconti di vita

CAFFE' FELICITA'?

Vite perdute? Povera umanità che non ha trovato chi la illuminasse e riscaldasse nello spirito? Un filo di malinconia prende l'anima quando si segue un racconto dal vivo, come questo, che propone anche una riflessione di possibile nostra eccessiva “distrazione” quotidiana per tante situazioni di autoabbandono umano e sociale presenti intorno a noi, spesso non rumorose. Valutate voi. Il racconto è comunque vero, come al solito è per i nostri.
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Non è buona cosa passare molte ore al caffè a giocare a carte. Si beve per forza e quando mi rendo conto che ho esagerato è sempre troppo tardi; e capita quasi tutte le sere. Me lo diceva sempre Teresa, la mia povera moglie (pace alla sua anima brontolona!). Del resto non rimane che questo, dopo il tramonto, ed io il mio tramonto di vita l’ho passato da un pezzo: sarei già dovuto essere morto da tempo, oramai, ma non mi decido; e poi cos’è il tempo? Forse della sabbia che precipita da un vetro strozzato e qualcuno ad un certo punto capovolge l’attrezzo e tu hai chiuso, e qualcun altro prenderà il tuo posto al tavolo, comprese le tue carte, fino al compimento del suo turno. Per quello che ne so, potrei anzi essere già trapassato e non essermi accorto di niente, senza dolore, magari nel sonno, ed ora forse sto vivendo nello specchio di un cosmo parallelo, insieme con gli altri tre ubriaconi con i quali solitamente mi gioco una bottiglia o due fumando sigarette scadenti senza filtro.
Giacomo, il gestore del caffè, che tutti chiamano Giacomino, quello sì che è morto: o almeno pare. E’ piccolo, pallido, piegato, per la sua spina dorsale malata, in un umiliante perenne inchino. In bocca gli mancano parecchi denti e quando parla sputacchia dappertutto. Ma è buono come il pane e se fossimo davvero in paradiso certamente sarebbe un angelo. Chi ha mai detto che gli angeli sono accecanti di bellezza celeste? Giacomino è orribile come una macchia di vomito sul marciapiede, come quelle che ogni tanto lascio anch’io sulla via di casa; ma è buono, parla sempre a voce bassa e le bottiglie da litro le riempie sempre più del necessario.

Il suo locale per il vero è uno schifo, in via Gasparo da Salò (quello del violino). Sulla strada si apre una piccola vetrina con due ripiani d’alluminio; vi sono tre ceste di caramelle scartate, un poco di liquirizia in forma di omino od arrotolata come una stringa attorno ad una pallina di zucchero rosso, poi bustine di figurine sparpagliate a caso; e nient’altro. Accanto alla vetrina, una porta di vetro e di ferro scuro, che, aprendosi, fa tintinnare una campanella come quella dei chierichetti in chiesa: ma è inutile, la porta cigola da sempre sui cardini e, quando qualcuno entra, lo si sente inevitabilmente, anche per il freddo che penetra. Dalla porta si scendono quattro gradini di pietra e il caffè non è che uno stanzone: a destra il banco e in mezzo, sul pavimento di vecchie piastrelle di cotto, cinque o sei tavoli (non li ho mai contati). Tavoli di legno sudicio, impregnato di vino disegnato in cerchi spezzati. Sulle pareti gialle, due calendari di anni passati, dai quali ci guardano belle donne fetenti, felici di vederci bere da tanto lontano.

Giacomino spunta appena da dietro il bancone, con le spallucce rachitiche e la testa dai capelli corti e ricci color sale e pepe. Ha il viso segnato da rughe profonde sulla fronte e tutto intorno alla bocca: la vita deve averlo castigato, quel pover’uomo. Prende le ordinazioni con garbo, scoprendo i suoi denti disordinati, e in silenzio porta le bevande ai tavoli, su vassoi di latta. Non credo di averlo mai visto arrabbiato o semplicemente inquieto; la settimana scorsa mi ha fatto anche credito e devo ancora pagarlo. Con tutta la cagnara che facciamo dalla mattina fino a notte inoltrata, avrebbe potuto mandarci al diavolo almeno una volta, invece niente! C’è quel Lofaro, ad esempio, che gioca al tavolo vicino al nostro, con altri del suo paese, e urla come un maiale dalle giugulari recise quando perde anche pochi centesimi; o, se vince, canta canzonette in un dialetto che non mi sono mai preoccupato di capire. Giacomino lascia fare. Ogni tanto, se non è preso dalle sue faccende, afferra uno sgabello e vi sale sopra per aprire una finestrella, protetta da due sbarre incrociate, che dà sul retro, in un cortile umido: così esce dalla stanza un po’ di fumo e di quel fetore di caffè e vino appena infiascato che ristagna nel locale. Mi rendo conto che non è cosa da signori ma molti di questi rottami umani, me compreso, bestemmiano.  Certo il buon Dio mi chiederà, arcigno in volto, di riparare un giorno. Se avrò tempo e voglia lo confesserò al prete quando porterà l’olio santo vicino al mio letto di morte, quello bello, appartenuto al mio nonno garibaldino, una delle poche cose che non mi sono ancora venduto. Giacomino non approva che noi si maledica tutta la sacra famiglia e, quando ne sente una grossa, inarca le sopraciglia scuotendo la testa mentre continua ad asciugare bicchieri.

Talvolta, quando le sere invernali sono particolarmente fredde e piovose, Giacomino tollera che io ceni lì con lui. Dietro il bancone si apre una porticina che un tempo doveva essere stata dipinta di bianco: da lì si scende ad un altro buio stanzone dove l’omino conserva le damigiane pronte per essere infiascate, un fornello a gas e un tavolo. Si mangiano soltanto uova sode con il sale, qualche fetta di salame e, quando va bene, polenta abbrustolita. Per me è un lusso, perchè poi mi viene una sete tremenda e posso ricominciare a bere alla faccia della mia coscienza. E’ una delle rare occasioni che mi capitano di parlare con lui, anche se, in verità, lui parla poco dei fatti suoi.

Racconta episodi minimi, piccole tessere di un’esistenza che mi sforzo di collegare con le altre, ma sono ben lontano dall’avere anche una mezza idea di quello che è stata la sua vita. E’ abile, ma non certo con malizia, ad ottenere confidenze che peraltro non mi risulta faccia trapelare ad alcuno. Gli ho raccontato almeno tre volte le cose importanti della mia vita: la mia infanzia in campagna quando, come un cane sciolto, marinavo la scuola ma riconoscevo il proprietario di un nido a trenta metri, poi la guerra, i rastrellamenti, quindi, strano a dirsi, l’università a Padova e la fatica dello studio, gli anni di insegnamento di greco e di latino in un ginnasio di provincia, e poi Teresa e come l’ho perduta per una bastarda malattia polmonare. E infine la nausea, la voglia di lasciarsi vivere così come viene, fino ad ora, fino alle scodelle di minestrone che l’ente comunale di assistenza mi elargisce alle dodici di ogni giorno. Faccio la fila con altri poveracci che puzzano di letame, rosi dalle tarme dei ricordi, e sono convinto che non gliene importi niente se domani è giovedì o domenica. Quasi nessuno parla o saluta, beccano il dovuto e arrivederci. Fanno schifo anche loro e questa volta non frega niente a me.

Ho scoperto che anche Giacomino ha moglie, o l’ha avuta. Una donna alta, non bella ma con molte pretese. Credo che si sia vergognata di un marito mal riuscito che s’andava ogni giorno stropicciando di più. Qualcun altro mi ha detto che ha pure una figlia, alta come la madre e brutta come lui, certamente andata a vivere altrove. Non è una gran compagnia, Giacomino, ma non bestemmia, beve e fuma con moderazione e non sparla di clienti e di compaesani. Quanto alle donne mi sento di escludere che ce ne sia una, oltre alla fantasmatica moglie. Tuttavia con lui sto bene, ho cominciato a pensare che potrebbe essere un buon amico. L’ho creduto del vino e delle femmine sudaticce dei bordelli, ma sono tutte balle da mentecatti. Giacomino invece è proprio un angelo, se è di buon umore è capace anche di offrirti da bere.
Da qualche settimana capita che la domenica pomeriggio passi nella via un bambino, che avrà sette od otto anni. Si ferma davanti alla vetrina, guarda quel che c’è, sempre le stesse cose, poi si ficca le mani in tasca e se ne va di buon passo. Porta i pantaloni grigi fino al ginocchio, calzettoni candidi e giacca blu sempre a misura: deve per forza avere una nonna che fa la sarta, o una zia. Da queste parti infatti non abbiamo famiglie ricche. L’ho notato un giorno mentre stavo calando un re di bastoni (perdevo, come al solito). Il ragazzino si era fermato a guardare nella vetrina, ma non sembrava avere interesse per caramelle o liquirizie; piuttosto osservava le bustine di figurine e pareva almanaccare qualcosa tra sé. Non credo che gli altri disgraziati ci abbiano fatto caso ma, se l’avessero osservato, avrebbero notato i suoi occhi scuri e vivaci e i suoi capelli a spazzola rossicci.

Certo era gracilino, uno di quelli che, nel campetto dei preti, sta da solo a guardare gli altri che giocano al pallone o si scazzottano lordandosi i vestiti. Quanto alle figurine, ne sono sicuro, non le comprava perché non aveva un soldo. Mi sembra di vederlo, là nel prato vicino alla chiesa, con il libro del catechismo in tasca, uno di quei libri che rappresentano i peccati mortali come macchie d’inchiostro sul cuore e quelli veniali come puntolini. Non ho mai saputo come si chiamasse quel bambino ma, in cuor mio, spero si chiami Gianni, non perché mi ricordi qualcuno ma perché è un nome semplice, facile da appiccicare a chiunque. Anche Giacomino lo ha notato. La domenica, verso le due, pare lo aspetti. A quell’ora non siamo mai in molti nel locale, i più fortunati fra noi infatti hanno uno straccio di famiglia e fanno tardi a tavola, epicurei come sono. Talvolta siamo solo io e quel brutto angelo. Di solito leggo il giornale, quell’altro non so neppure se sappia scrivere. Gianni arriva puntuale alle due meno dieci, guarda oltre il vetro e si mangia con gli occhi qualche bustina odorosa di caolino. Poi se ne va, e mi pare sereno.
Domenica scorsa Giacomino ha aperto la porta e lo ha chiamato dentro. Gianni è sceso dalla scaletta soltanto per due gradini, aveva certo timore e doveva essere nauseato dal fetore del locale. I bambini vanno protetti, finchè si può, dalla vita; non gli si fa vedere quanto ci si può putrefare! Giacomino ha afferrato dalla vetrina un mazzetto di bustine e gliele ha regalate. Il bambino ha sorriso felice e anche noi eravamo felici. Si può per un attimo far felice qualcuno ed essere felici.
                                                                                                     
                                                                                                                   (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

 
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Religione

MIO ZIO ATTILIO E LA SANTA PASQUA

Silvano, autore di questo piacevole e sorridente dialoghetto con lo zio Attilio, non si smentisce: nel suo scrivere c’è sempre il gusto raffinato di chi dipinge caratteri e paesaggi umani e sociali con la maestria raffinata del pittore sulla sua tela (infatti egli è anche pittore) ma inoltre c’è sempre, ed a volte è la vera sostanza dominante del suo scrivere, un pensiero che pone quesiti e ipotizza strade, evidenzia strettoie  e prospetta orizzonti, e soprattutto richiama coerenze. Questa volta la proposta di riflessione mette in contatto, sorridendo ma con consapevole profondità di intenzione, alcuni rischi di superficialità tipici dell’epoca che viviamo con valori religiosi che meriterebbero più attento, rispettoso e meditativo approccio.
 
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Ho trovato lo zio impegnatissimo in una telefonata, col vivavoce inserito.

“Aspetta, aspetta, se no perdo la priorità: è parecchio tempo che tento di capire quale tasto premere…”

E’ in linea con il centralino della Parrocchia.

“Sai, Il parroco ha scritto sul sito web della chiesa che quest’anno le benedizioni si fanno non più casa per casa”

Se desidera informazioni sulle attività della Parrocchia, prema il tasto 1.

“ma cumulativamente, secondo la suddivisione per vie (ha allegato l’elenco), nelle messe delle ore 19: bisogna consultare l’elenco e non dimenticare la data per presentarsi in chiesa.”

Se desidera informazioni su battesimi, prime comunioni e cresime, prema il tasto 2

“Tutti coloro che invece vogliono la benedizione presso la propria casa possono contattare il parroco per concordare la data. Siccome sono amante delle tradizioni, sto cercando di chiamare il prete”

Se desidera informazioni sui corsi di preparazione al matrimonio, prema il tasto 3

“ma come vedi è una cosa difficilissima, peggio che telefonare per informazioni a qualche ente pubblico!”

Se desidera una benedizione, prema il tasto 4.

“Ecco deve essere questo, vediamo se ci ho azzeccato!”

Se desidera una benedizione in latino, prema il tasto 1
Se desidera una benedizione in italiano, prema il tasto 2
Se desidera una benedizione in altra lingua, prema il tasto 3.
 
“Mah, proviamo in italiano”
 
Se desidera la benedizione della persona, prema il tasto 1
Se desidera la benedizione dell’anziano, prema il tasto 2
Se desidera la benedizione del bambino, prema il tasto 3
Se desidera la benedizione del malato, prema il tasto 4
Se desidera la benedizione dell’auto, prema il tasto 5
Per tornare al menu principale, prema il tasto 9
 
“Ma no, non è questa… io non voglio una benedizione registrata al telefono… va be’, visto che sei qui, meglio riprovare un’altra volta”.

Ed ha chiuso la telefonata.

“Certo che le cose stanno cambiando sempre più velocemente, in omaggio ad una modernità che non so quanto sia piacevole. Adesso neanche il prete si sposta, bisogna prenotare per tempo, nemmeno fosse uno spettacolo o una cena al ristorante… Penso che prossimamente le benedizioni le farà via whatsapp, o via facebook solo per chi si è iscritto al gruppo!… A proposito, tu pensi che bisognerà pagare per la prestazione?”

“E’ il progresso, zio, e bisogna stare al passo con i tempi”, ho detto io.

Macché progresso e progresso, ma che soddisfazione ti danno più queste cose, ci manca solo che la Pasqua diventi un videogioco e si debba festeggiare con una ‘app’!

Una volta, e fino a nemmeno tanti anni fa, il parroco passava a benedire le case e noi bambini aspettavamo l’evento con una sorta di timore reverenziale. Il prete, casa per casa, benediva le varie stanze e poi anche le persone e tutti eravamo contenti e ci sentivamo più buoni… almeno per quel giorno!

Questo accadeva nelle città, nelle campagne invece il prete veniva con l’auto e girava tutte le case, anche quelle isolate, si fermava spesso a bere il bicchiere di vino che veniva sempre offerto e certe volte succedeva che alla fine del giro era assai brillo, tanto che una volta a mia madre si dimenticò di dare la benedizione e se ne andò via tutto bello rosso in viso… solo che il cane di casa, evidentemente infastidito da tutta quella scena, corse appresso al prete e lo azzannò ad un polpaccio, niente di grave ma che ridere!

Ora le cose - come vedi - le fanno online, fra poco le faranno con la realtà virtuale. Mah, che vuoi che ti dica, è la modernità… ma io ricordo con una certa nostalgia quando la Pasqua si festeggiava in un modo diverso, molto più - come dire - solenne e sentito. E c’era anche una sorta di rispetto religioso.

Mi ricordo che a partire dal mezzogiorno di Venerdì Santo (ora della morte di Cristo) i programmi radio e tv trasmettevano solo musica sacra e notiziari, non venivano trasmesse musiche ”allegre” o programmi spensierati, pensa che non si trasmetteva neanche Carosello! E in casa noi bambini dovevamo fare silenzio e non fare chiasso. Poi c’era l’attesa dello scioglimento delle campane, sabato a mezzanotte, e la domenica c’era il pranzo pasquale, rigorosamente preparato da mia nonna con le immancabili uova sode e salame e la colomba pasquale (che, detto fra noi, non mi è mai piaciuta).

La Pasquetta, poi, era l’occasione - se possibile - di una scampagnata per i prati e giocare a pallone sull’erba.
Per l’occasione a mia nonna regalavo una pecorella di zucchero, lei era felice, si accontentava di poco, e ne faceva collezione. Oramai non se ne trovano più.

Che differenza rispetto ad oggi, era un’altra atmosfera! Oggi, per omaggio a quale idea che non ho ben capito, la Pasqua si è ridotta solo ad una grande festa commerciale, con la corsa agli acquisti di cose mangerecce… come se non si mangiasse tutto il resto dell’anno… a comprare colombe e uova di cioccolato, che poi in gran parte vanno buttate dopo aver preso il regalo di plastica, e poi domenica e lunedì tutti a mangiare nei parchi, cercando di sporcare il più possibile, e siccome non c’è posto per tutti, chi tardi arriva…, una volta ho visto addirittura persone che si erano accampate in una aiuola spartitraffico! Di rispetto per il Cristo risorto mi sembra non ce ne sia più”.
 
“Bene zio, vedrò di trovarti una pecorella di zucchero”, gli ho risposto pensando di fare lo spiritoso.

Zio Attilio mi ha guardato con una sorta di sogghigno: “Vedi piuttosto di non portarmi il solito uovo di cioccolato al latte, lo sai che preferisco soltanto il fondente!”

Ed è tornato a telefonare al parroco.
                                   
(Silas)
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Esperienze

ERA UN UFO

L’anziana autrice del racconto ci conferma ancora oggi che la vicenda andò proprio così, come lei la rivive  in questo ricordo del 1993.

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Dopo aver visitato la stupenda distesa archeologica dove riposa il gigante di Tolomei e dopo aver visitato la tomba di Terone, si andò verso la Valle dei Templi, dove si ergevano il tempio di Giunone, il tempio di Castore e Polluce, il tempio di Ercole; e mentre si andava i mandorli del viale scintillavano di frutti e di fiori  delicatissimi che inebriavano l’aria con il loro profumo di primavera precoce. A febbraio la primavera splendeva infatti già prepotentemente su quelle ondulate e folte chiome di alberi che sembravano prendere per mano i turisti, ammirati come davanti a un’incantevole processione fuori del tempo moderno.

Il Tempio della Concordia stava lì, in fondo al viale, maestoso nella sua fierezza, e mostrava a tutti la regalità della sua nobile mole vecchia di secoli. Un gruppo di turisti si sbizzarriva ad ammirare e fotografare i resti di quei templi con le loro sgretolature rose dai secoli, resti fascinosi nell’accogliere la folla dei visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Mi ero innamorata di quei luoghi di pace e di bellezza: gli spettri degli “dei” mi avevano affascinata al punto d’infondermi il desiderio di trascorrere la notte lì da sola, magari abbracciata ad una colonna, ad ammirare la maestosità del cielo che trapunto di stelle costituiva in quel luogo incantato uno spettacolo unico al mondo. Mi nascosi dietro una colonna e quando tutti i mormorii intorno a me sparirono mi sedetti su di un gradino ad aspettare il tramonto. Il Tempio della Concordia mi sembrava ora ancora più grande e le sue colonne, che svettavano verso il cielo blu cupo, davano la sensazione che volassero portandomi con loro verso tutto quel paradiso siciliano”, paradiso in ogni stagione dell’anno.

Guardavo intorno affascinata mentre pian piano, all’orizzonte, calava un manto rosso-fuoco che incendiava le colline di mille colori intorno ai Templi, i quali tingendosi di scuro sembrava mi venissero incontro. Abbracciai una colonna e il suo tocco m’invase l’animo di un tenue tepore facendomi pensare che gli dei l’avevano accarezzata tanto tempo fa e avevano lasciata la loro indelebile impronta in ogni angolo di quella valle meravigliosa. Godevo il tramonto infuocato mentre le stelle cominciavano il loro ingresso nella distesa infinita. Pian piano il cielo si popolò delle più belle stelle del firmamento e il loro luccichio illuminò lo scenario irripetibile.

Ad un tratto m’accorsi che nel cielo una luce molto grande mi fissava, cambiando di tonalità. Un po’ impaurita cercai di guardare altrove, ma gli occhi mi andavano sempre lì e quella luce mi accecava con i suoi riflessi diretti proprio a me. Non sapevo cosa fare ed ero impaurita: mi misi a correre oltrepassando tutti i Templi e finalmente uscii dalla Valle finendo nel grande parcheggio sottostante, dove speravo di trovare un taxi che mi portasse in albergo. In un angolo vicino ad un chiosco già chiuso intravidi qualcuno che si muoveva: poi un’ombra mi venne incontro dicendomi: “Dove scappa, signorina! Guardi che andare in giro di notte ad Agrigento è pericoloso, potrebbero rubarle la borsetta e magari violentarLa…”.

Mi accorsi che parlava un uomo di pelle nera, che si esprimeva bene in italiano ed era molto gentile; egli  proseguì dicendo che dormiva accanto ai chioschi, così al mattino era pronto e il primo chiosco che apriva gli consegnava dei souvenir da vendere ai turisti che visitavano la Valle dei Templi e i dintorni: e questo lavoro gli permetteva di comprarsi da mangiare. Gli chiesi se poteva accompagnarmi all’albergo perché, ancora più dopo il suo avvertimento, avevo paura ad andare da sola. Fu tanto gentile e chiacchierando ci avviammo verso il mio albergo, che non era molto distante. Nel salutarlo gli regalai 50.000 lire. Era così felice che mi prese fra le braccia e mi baciò, poi scappò via stringendo forte il pugno che forse non aveva mai stretto tutti quei soldi in una sola volta. In albergo feci una doccia, andai a letto e mi addormentai subito. Ma sognai che quella luce abbagliante mi aveva seguito ed ora stava dietro i vetri della mia finestra a guardarmi: mi svegliai di colpo, smarrita e madida di sudore, andai diritta alla finestra e scostai piano le taparelle; era buio fitto e nel cielo non c’era neanche una stella: ma quella luce grande era lì a fissarmi davvero e cambiava riflessi come per dirmi: “Ti abbiamo vista!”.

Percepivo ora un’intesa perfetta: appena io guardavo cambiavano i toni di luce e sapevo che i suoi misteriosi abitatori mi avevano vista. Dopo una mezzora di smarrimento chiusi le tende e andai a dormire cercando di levarmi dalla testa la luce e il suo strano movimento; erano le quattro del mattino e avevo bisogno di dormire per riprendere il mio giro turistico l’indomani. Alle otto del mattino ero infatti già fuori con il gruppo, composto di quarantatrè persone italo-australiane, e ci recammo verso gli antichi resti di Selinunte. Quanti campi enormi di limoni, aranci e mandarini splendevano al caldo sole primaverile e correvano veloci di fianco a noi! Poi il bus si inoltrava in distese gigantesche di carciofi e grano verdissimo che si piegava al  venticello creando onde sfumate di verde vibrante. Era bellissimo rivedere la mia Sicilia dopo venticinque anni e ritrovarla ancora più maestosa di prima! La Conca d’Oro era una delle meraviglie del mondo, con tutte quelle montagne intorno che la proteggevano da ogni intemperia e calamità.

Selinunte aveva subito la distruzione per mano dei cartaginesi, che vi avevano lasciato le loro orme nei secoli. Io guardavo estasiata il tempio G, il tempio F, la grandiosità del tempio E ricostruito con materiali preesistenti e riordinati da mani esperte. Sull’Acropoli , seduta tra le colonne, vidi di nuovo Abdul, il ragazzo africano che avevo conosciuto prima: “Ciao, come mai sei qui e non nella Valle dei Templi?”. “Ciao, Jenny: sono stato licenziato perché negli ultimi giorni ho venduto troppo poco; mi hanno cacciato dicendomi che sono un buono a nulla; sono venuto qui per parlarti. Ieri mi hai detto che saresti venuta a Selinunte e ti ho seguita: dove sei tu ci sarò anch’io, se vuoi”. “Senti, Abdul: io devo girare ancora tutta la Sicilia e non posso portarti con me. Tieni centomila lire e cercati un altro lavoro!”. Si sedette sopra la grande rotonda di pietra giallastra, rimasta affondata per metà nella terra perché impossibile alzarla e rimetterla al suo posto sul tempio ricostruito. E rimase lì a guardarmi, triste, mentre si passava dall’Acropoli al tempio D. e al tempio M. e poi al santuario di Malophoros.  

Lasciai Selinunte e tutto il suo fascino dorico. Per gli altri quindici giorni che rimasi in giro per la mia splendida Sicilia non vidi più il mio giovane amico africano. Lo rividi però a Vizzini, la mia stupenda cittadina, famosa per aver dato al mondo il grande scrittore Giovanni Verga, autore della Cavalleria Rusticana, di Mastro don Gesualdo, Jeli il Pastore, L’Amante di Gramigna, Pentolaccia, Libertà, Don Licciu Papa, La Roba, Il Mistero, Rosso Malpelo, Il Reverendo, Pane Nero, La Lupa... tutte opere  scritte appunto nei luoghi di Vizzini e rappresentate anche come opere teatrali nei posti dove sono immaginate le storie.

Mi trovavo in piazza Umberto I per visitare appunto i luoghi che parlano dello scrittore: il suo palazzo, che si erge maestoso in un angolo della piazza e che sul retro si affaccia nella piazzetta di Santa Teresa; la chiesa della Cavalleria Rusticana, la locanda di compare Turiddu, la casa di Santuzza e più in là la casa di Lola… Ma  davanti alla locanda di compare Turiddu c’era ancora Abdul, che appena mi vide corse ad abbracciarmi dicendo che aveva girato tanto per trovarmi, poi aveva ricordato che Vizzini era la mia ultima tappa e vi si era recato. Aveva cambiato tanti lavori e sempre li perdeva per futili motivi: ora era lì per la festa della ricotta e vendeva papiri provenienti dall’Egitto e non dal “Centro del Papiro” di Siracusa, dove pure si fabbricano i migliori papiri del mondo, provenienti dalla folta vegetazione curata lungo il fiume Ciane nei dintorni di Siracusa: ma nessuno comprava i suoi papiri. Quella enorme folla era attratta soltanto dal veder fare la ricotta e mangiarla. La sagra della ricotta a Vizzini si fa il 25 aprile e attira gente da ogni parte della Sicilia, con una manifestazione folcloristica dove centinaia di pentoloni, in piazza Marconi, nel piazzale di Santa Maria di Gesù e anche in viale Margherita, fanno bollire enormi quantità di latte da dove esce ricotta gustosissima e caldissima per tutti. Si mangia all’aperto e la folla enorme si accalca felice a mangiare, guardare e divertirsi mentre teorie di carretti siciliani stupendamente addobbati sfilano per il viale Marconi e il viale Margherita alternandosi a cortei d’auto d’epoca, a sbandieratori e a spettacoli dei Pupi siciliani, e mentre nelle sale, nella pace che qualcuno sogna dopo tutta quella baraonda, si rappresentano le opere teatrali del nostro Giovanni Verga. 

“Abdul – gli dissi – i papiri li compro tutti io, me li porto in Australia: faranno bella mostra nel mio salotto e nel mio studio, ma tu rimarrai a Vizzini, nel mio meraviglioso paese, dove sono nata e dove sono i miei cari. Te lo cerco io un lavoro sicuro”. Lo Lasciai allibito e andai da mio fratello, ragioniere commercialista, un bellissimo giovane che ha lo studio in piazza Marconi, mentre mia mamma e l’altro fratello anch’egli più giovane di me  abitano in Santa Maria di Gesù: tutte le feste si svolgono lì. Che meraviglia assistere anche ai fuochi d’artificio da una delle bellissime terrazze in casa di mia mamma! Mio fratello, ragioniere commercialista e revisore dei conti di parecchi comuni della Sicilia, ha un grande edificio tutto per sé, con uno stanzone dove c’è lo studio condiviso con sua moglie, anch’essa ragioniera, un altro studio in comune con sua moglie e con la sua segretaria, un ulteriore studio solo per mio fratello, una grande sala d’attesa, una stanza per l’archivio, una stanza vuota, una simpatica stanza da cucina e un bagno completo di ogni comfort, una bellissima terrazza affacciante su piazza Marconi con una vista stupenda su un panorama magnifico e in lontananza  la vista del monte Lauro e i boschi verdeggianti. Loro se volevano potevano abitare nello studio ma avevano anche una bellissima casa in fondo al viale Margherita, che non potevano lasciare inabitata: lo studio rimaneva perciò abitualmente vuoto alla sera e nei giorni festivi, con tutti gli impegni che mio fratello aveva in altre città, e i tantissimi clienti. Pensai che una persona che tenesse in ordine lo studio stesso e lo sorvegliasse di notte non sarebbe dispiaciuta a mio fratello. Chiesi allora  a lui e a mia cognata se volessero un ragazzo che tenesse in ordine lo studio e stesse attento di notte dormendo lì. Dapprima mio fratello credette che scherzassi, ma quando gli raccontai di quel ragazzo marocchino accettarono la mia idea: lo avrebbero aiutato mentre lui poteva aiutare loro, in uno scambio reciproco di cui peraltro avevano tanto bisogno; ci voleva davvero qualcuno che si prendesse cura della pulizia dello studio e vigilasse su eventuali ladri e vandali. Accettarono, dunque, e io mi recai a dare la bella notizia ad Abdul che ne fu felice e mi abbracciò dicendomi: “Tu sei il mio angelo italo-australiano!”.

Abdul cominciò la sera stessa. Non avrei più permesso che si coricasse sui marciapiedi o nelle rovine delle case diroccate. Portammo un lettino nella stanza vuota dello studio e lì avrebbe dormito da quella sera in poi. Era così contento che ci baciava tutti con tanta riconoscenza, specialmente quando mio fratello gli portò anche due paia di pantaloni con due camicie e un paio di scarpe nuove. Abdul, oltre a pulire, teneva in ordine e sistemava tutto con grande entusiasmo. Abitava lì e si prendeva anche una piccola paga mensile; era un tipo simpatico e intelligente, aveva anche un buon [G1] grado di cultura: era scappato dal suo paese solo perché non c’era lavoro e gli piaceva troppo l’Italia. Avrebbe fatto sacrifici di ogni genere pur di rimanerci. Ora il suo sogno finalmente si avverava.

Dopo un paio di settimane rientrai in Australia,  e lasciare i miei fu ancora una volta terribile: ma la speranza che sarei tornata in Sicilia mi dava ora il coraggio di partire. L’Australia era la mia seconda patria e l’amavo, era un paese stupendo, ma pensavo sempre anche ai meravigliosi  giorni trascorsi in Italia tra i miei cari che non vedevo da venticinque anni; e pensavo ad Abdul finalmente felice nel mio favoloso paese, il paese che avevo lasciato a vent’anni. Eravamo partiti con mio marito per un secondo viaggio di nozze in Australia e ci eravamo innamorati di quelle distese immense di verde, di quelle case tutte con splendidi giardini di fiori colorati, delle vastissime praterie e dei deserti immensi, delle strade larghissime e pulite e dei sontuosi grattacieli di Melbourne, che si specchiavano maestosi nel fiume Yarra, il quale divideva la città in due e ne disegnava un panorama da favola: meraviglie che ci avevano incantato al punto di farci decidere a rimanere. La facilità di trovare un lavoro, la fortuna inaspettata di poterci comprare una casa circondata da un giardino bellissimo, l’agiatezza della vita di tutti i giorni, hanno fatto il resto. Poi due bambini: e le loro esigenze dello studio ci hanno fatto decidere ancora più solidamente di restare per donare loro un avvenire sicuro in una terra in continuo sviluppo ed evoluzione.

Dopo parecchie settimane dal mio rientro in Australia ricevetti una lettera da Abdul, in cui mi diceva che fra pochi mesi si sarebbe sposato con la segretaria di mio fratello, una bella ragazza che si era innamorata subito di lui e l’aveva incoraggiato a coltivare quel loro bellissimo amore nato in uno studio di ragioniere commercialista fra scartoffie e computer, iva e faccende tributarie; un amore romantico tra una ragazza color di pesca, piccola e molto magra, e un ragazzo alto con tanti muscoli e color caffelatte.

Un mattino, dopo ore insonni, pensando ai miei cari lontani non riuscivo più a stare a letto e, sentendo il rientro di mio figlio che era stato al disco-night (erano le due del mattino del periodo pasquale del 1993) mi alzo e chissà perché scosto le persiane della mia finestra della camera da letto; c’era tanto buio, un cielo plumbeo, senza stelle nell’immenso firmamento sopra di me: ma una luce grande mi fissava cambiando toni; e io la fissavo stupita. Quella luce era stata tra i Templi di Agrigento: cosa ci faceva ora di rimpetto alla mia casa in Australia, altissima in cielo, bella in mostra, in un punto dove mi riusciva naturale portare il mio sguardo, proprio qui a Melbourne e precisamente nella mia città di Avondale Heights?

Chiamai mio figlio e anche lui rimase a fissarla stupito, mentre la luce continuava a sua volta a fissarci e cambiava riflessi. Non ci dicemmo niente, con mio figlio, ma entrambi sapevamo cos’era quella strana luce. Uscimmo in giardino davanti alla nostra casa ed essa ci fissava ancora di tra le folte chiome degli alberi. Rientrammo e aprimmo le persiane della finestra del salotto: essa era sempre lì, ombrata dagli alberi. Tornammo nella mia stanza da letto parlando dello strano avvenimento. Cosa più strana, mio marito con tutto quel nostro chiacchierio continuava a dormire placidamente senza sentire niente di tutto il rumore che noi due facevamo mentre continuavamo a fissare la luce da dietro le persiane aperte della mia finestra, perché  sapevo che solo da lì si poteva vedere chiara e precisa, in un continuo scambio telepatico intenso fra me e i suoi abitatori. Ad un tratto chiesi a mio figlio di telefonare alla polizia; ma lui non volle. Gli dissi allora di telefonare all’aeroporto domandando se il radar avesse avvistato una luce grande e strana nel bel mezzo del cielo buio di Keilor Avondale Heights, vicinissima all’aeroporto, ma lui mi disse di non pensarci più e di andare a dormire. Però a sua volta non andò a dormire: si mise a guardare la televisione e ogni tanto scostava le taparelle e sbirciava nel cielo e attraverso le fronde degli alberi la luce penetrava ancora i suoi potenti riflessi dorati anche su di lui!

Dalla mia camera continuai a guardare la mia sfera di luce stravagante, che mi fissava come corteggiandomi. Ora, guardandola, non avevo più paura: mi sentivo protetta e subentravano in me una forza ed un coraggio mai avuti prima, e mi prendeva una sicurezza inaspettata, guardavo estasiata e sentivo un’intesa perfetta da entrambe le parti. Tranquilla m’infilai allora nel letto, ma la mia mente mi chiedeva sempre di tornare ad alzarmi e scostare le persiane per guardare nel cielo buio la mia splendida stella luminosa e scintillante di luce fosforescente, con i raggi che mi entravano diritti al cuore e lo scaldavano come un sole d’estate, tanto erano diretti a me e solo a me.

Tutto questo durò fino alle quattro e trenta: col chiarore dell’alba i miei amici scomparvero, ma lasciarono in me un ricordo indelebile e la speranza che sarebbero tornati ancora. Sì, li aspetterò e ancora li aspetto,  ogni sera e ogni mattina, ed è diventato un rito per me spostare le persiane e fissare quel punto fantastico dove la mia grande sfera splendente ha lasciato la sua luce. La mia grande stella con gli occhi invisibili fissati su di me verrà.

Nessuno dei due, fra me e mio figlio, ha mai nominato la parola Ufo. Ma sappiamo che era un ufo, un extraterrestre venuto da lontano per manifestarsi a me, ed io sono qui che lo aspetto sempre; quell’intesa perfetta era nata a poco a poco e la cosa più strana è che la desidero tuttora e vivo nell’attesa di vederla ancora nel mio cielo di Avondale Heights Keylor per proteggermi e farmi diventare più coraggiosa.

Nei giornali del mattino, comunque, appariva un articolo in cui spiccava a grandi caratteri il titolo “Stanotte una strana, grande sfera di luce ha sostato per ore nel cielo di Avondale Heights Keylor”.

L’Ufo l’ho veramente visto, era la notte di Pasqua del 1993 e non dimentico mai la sua visione abbagliante di luce.

 
(Anonimo PremiopratoRaccontiamoci)
 
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Sanremo

LO ZIO ATTILIO E IL FESTIVAL

Da quando lo conosco, Silvano ha forbitissima penna, pensiero chiaro e opinioni che non temono di dichiararsi. Tre ingredienti che egli conferma in questo piccolo scritto a firma Silas, esprimendo una preoccupazione diffusa sulla dubitabile qualità educativa e culturale di musica e testi in corso di presentazione al festival di Sanremo.

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Dopo tanto tempo che non mi ero fatto più vivo, un po’ a causa del Covid, un po’ per pura pigrizia, sono riuscito ad andare a trovare mio zio Attilio.

Lo zio si è trasferito in un villino nella periferia sud di Roma, con un bel terreno dove lui riesce a coltivare una delle sue passioni preferite: il giardinaggio. E lì appunto l’ho trovato, seduto nel suo giardino ben esposto al sole, dove noncurante del freddo stava esaminando una scatola piena di vecchie musicassette, roba che andava per la maggiore neali anni settanta dello scorso secolo.

“Sai - mi ha detto -  nel fare il trasloco in questa nuova casa ho ritrovato tutte queste canzoni che erano successi di molti anni fa. Avranno un certo valore, visto che già da diverso tempo sono tornati di moda cantanti degli anni sessanta. Guarda il Festival di Sanremo, ormai – come parecchie trasmissioni – sembra un programma della terza e quarta età: vi sono cantanti che già erano famosi quando ero ancora un ragazzino, e sono passati più di sessanta anni, ormai la loro età arriva a settanta, ottanta, novanta anni!

Ti dico la verità, la cosa mi mette un po’ di tristezza: tutto ha una fine e c’è un tempo per tutte le cose. A cosa è dovuto questo eterno revival, a nostalgia, a rispetto per il passato, o piuttosto al fatto che ormai di giovani talenti non ne esistono più e dobbiamo riesumare i fantasmi del passato… con tutto rispetto per i fantasmi! Forse questo è dovuto anche ai testi e ai motivi delle canzoni di oggi: a parte qualche rara eccezione, spesso le parole non si capiscono, cantate o meglio sparate quasi con violenza, e la musica non rimane nemmeno impressa nella mente, c’è qualche motivo che riusciresti a canticchiare magari sotto la doccia, come si faceva una volta?

D’accordo, ormai deve essere tutto spettacolo e bisogna trovare qualsiasi cosa per attirare il pubblico ma… siamo sicuri che il pubblico gradisca veramente queste esibizioni e non vi sia invece costretto e ipnotizzato dallo strumento televisivo?”

“Beh, zio – gli ho risposto – questi spettacoli sono l’occasione per dare un po’ di leggerezza agli italiani, dopo tutte le notizie che ci danno i telegiornali!”

“Guarda, tu sai la mia opinione sui telegiornali, e in altra occasione te ne riparlerò, ma che insegnamento ci danno spettacoli come Sanremo? A parte l’esibizione di persone anziane, guarda anche l’abbigliamento dei cantanti,  va bene che bisogna attirare l’attenzione ma c’è un limite di buon gusto: non capisco perché per entrare in teatro – almeno negli spettacoli serali – bisogna indossare un abbigliamento adeguato e invece i protagonisti cercano di essere più straccioni possibile, in alcuni casi essendo addirittura di una volgarità eccessiva.

E guarda anche alcune signore che si qualificano come presentatrici… le donne si lamentano di essere viste come oggetti sessuali e poi si presentano, come è successo l’altra sera con quella blogger, vestita di una calzamaglia con disegnati i suoi attributi sessuali. Bontà sua, ha detto che non era nuda, come al principio sembrava, era solo un disegno, anzi una riproduzione fotografica del suo corpo al naturale… a me è sembrata solo una volgarità – e tu sai che io sono un amante delle donne e del corpo femminile ma in ben altre occasioni! A questo punto mi aspetto che anche il presentatore maschile si presenti con una calzamaglia con disegnato o fotografato il suo membro maschile, magari ben eretto, con la giustificazione che bisogna rendere omaggio alla Bandiera! Ma siamo seri!!!

Avrai notato anche l’esibizione di quel cantante rap o trap o come diavolo si definiscono oggi, che ha preso a calci tutto l’addobbo floreale del palco e poi con violenza l’ha distrutto scagliandosi contro le piante esposte. La motivazione? Non si è ben capita, ha tentato di giustificarsi farfugliando qualcosa, ma quello che mi ha colpito è stato l’atteggiamento del presentatore che quasi ha tentato di consolarlo, poverino, proponendogli di riesibirsi più tardi, magari allestendogli un altro addobbo da distruggere. Almeno il pubblico, stavolta l’ha fischiato!

Ma che insegnamento diamo ai bambini e ai giovani di oggi? Che tutto è permesso, tutto è dovuto, bisogna essere liberi di fare tutto quello che si vuole, di essere prepotenti e maleducati, anzi viva la trasgressione! D’altra parte questo è un paese dove il buonismo impera sovrano, vedi anche la delinquenza: cosa rischi oggi se compi un delitto? Potrei tranquillamente uccidere mia moglie, specie alla mia età e non rischiare praticamente nulla, magari gli arresti domiciliari, sai che bello! Potrei starmene tranquillamente in casa mia a fare giardinaggio senza uscire di casa per qualche tempo, e dovrebbero pure procurarmi l’alimentazione e badare al mio benessere: non esiste il Garante dei detenuti a questo scopo? Peccato che non esista il Garante delle Vittime che dovrebbe preoccuparsi dei diritti loro e dei loro familiari! Per fortuna che non sono sposato!

Ma ora entriamo in casa a gustarci un bel tè… e attenzione a non passare sopra quelle aiuole che ho appena allestito: non si sa mai, per sentirti come quello pseudocantante potresti pensare di calpestare qualche mia piantina fiorita ma stai attento che nonostante la mia età potrei sempre rincorrerti e affibbiarti qualche pedatona nel sedere…”

Entrando in casa l’ho sentito canticchiare un motivetto di Ornella Vanoni di sessanta anni fa...
                                                                                                                                             
                                                                                                                                              (Silas)
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Il fascino della montagna

IL FASCINO DELLA MONTAGNA

Sono nato in un paese di mezza montagna della Sardegna e mio padre, contadino e pastore, mi ha fatto apprezzare la montagna con le sue foreste ed i suoi animali, il fascino di paesaggi incredibili, la salubrità di fonti d’acqua millenarie ed intatte, la solidarietà forte e poco ciarliera di chi nella montagna vive, e anche le fatiche che la montagna impone. Da grande ho conosciuto poi le Dolomiti, la superba bellezza delle loro altezze, lo stupore incredibile delle nevi a perdita d’occhio, l’essenzialità senza fronzoli delle comunità che ci vivono. Sono sensazioni forti ma a volte anche sfuggenti: per capirne il fascino nascosto e duraturo possiamo ascoltare chi della montagna ha fatto la sua casa stabile e, insieme, il suo lavoro e la sua passione. Come l’autore della testimonianza che segue.

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Da metà dicembre fin quasi a tutto gennaio il sole illumina il piazzale, a lato della diga, giusto per pochi minuti intorno a mezzogiorno. E questo grazie al colle che separa le due cime – la centrale e l’orientale – del Pizzo Tiranno; due cime angoscianti di ombre veloci anche nei pomeriggi estivi; e solo se il cielo invernale regala giornate serene: altrimenti, nella valle si susseguono lunghe  ore di ombra o di neve e bufera, o vento da restare tappati in casa a studiare da dietro i vetri il profilo arcuato della diga e saperci al di sotto il lago, gelato come un immenso campo di pattinaggio.

Sarà solo da febbraio che, nell’indugiare ogni giorno qualche minuto in più sul candore sconfinato, la luce animerà improvvise emozioni. Intanto, secondo gli anni e secondo le nevicate, i versanti ripidi avranno “scaricato”, e coi tuoni delle valanghe saranno esplose nuvole di polvere bianca; da altri pendii, meno inclinati, scivoleranno masse compatte nei giorni a venire: ma sarà solitamente verso metà marzo che i guardiani saliti alla diga del Pizzo Tiranno cominceranno a sentire crocchiare meno dura la neve sotto i loro scarponi. Sul piazzale il mezzogiorno accenderà temperature tiepide, il sole raggiungendo la casa riscalderà le stanze di un calore buono; sopra il davanzale ben esposto il ciclamino occhieggerà gemme minute, giù dal tetto i ghiaccioli perderanno dimensione e profondità, nell’aria qualche insetto ancora stordito affannerà i primi voli. Da allora i giorni alla diga scorreranno nuovi, più vivi.
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E’ pur vero che nel periodo freddo il bacino viene riempito d’acqua per meno di un terzo della sua portata, ed è pur vero che la centralina segnala e regola tutto: ma l’uomo ci deve essere sempre, non fosse altro che per verificare sul posto eventuali malfunzionamenti degli strumenti. Quest’inverno, caso non così raro durante la stagione, sono stato io il guardiano rimasto bloccato alla diga per più di tre settimane filate; con me era di turno Nestino.

Tutto è cominciato il sabato dell’Epifania, quando, subito dopo pranzo, nel cielo lattiginoso hanno cominciato a ondeggiare i primi fiocchi morbidi. Per il cambio mi sarebbe toccato rientrare in paese il giorno successivo, ma la domenica l’elicottero non ha volato; durante la notte sul piazzale della diga era sceso circa un metro di neve: e non sembrava proprio voler smettere.

Cristalli candidi, ossessivi, dondolavano nell’aria gelatinosa, fitti come un disturbo sugli occhi. Non riconoscevo più il parapetto, distante pochi metri da casa. Un silenzio ovattato avvolgeva la conca del Pizzo Tiranno; dentro i canaloni la coltre bianca gonfiava minacciosa fino a raggiungere spessori notevoli e sembrava bastasse un soffio per staccare valanghe: magari anche solo qualche grado in più di temperatura. Immensa, la quiete rivestiva l’immobilità precaria sulle montagne.

In questa calma carica di tensione, e a volte anche il silenzio è tensione, si aspetta quello che sai che deve succedere. Seduto in cucina davanti a un the caldo – Nestino, se non ci sono lavori, sta in camera sua a leggere – seguivo le previsioni meteo e intanto pensavo al bivacco artigliato alle rocce sopra la morena del ghiacciaio. Forse era già scomparso, sepolto dalla neve. Quattro ragazzi, con sci, piccozza e ramponi, c’erano saliti il giorno dopo capodanno: batteva traccia Marco, aspirante guida alpina, un armadio alto due metri e conosciuto da tutti in valle. Erano scesi prima che nevicasse, sapevano di quella perturbazione spessa. Avevamo bevuto insieme un vinbrulè, poi li avevo salutati fermandomi sul parapetto a seguire le loro serpentine sugli sci.
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In casa, alla diga, ci sono sempre scorte anche per una permanenza non prevista; così, quando dopo dieci giorni il caposquadra aveva urlato nella radio che il mio sostituto si era ferito a un piede spaccando legna, io gli avevo risposto che sarei rimasto su senza problemi: lui doveva solo ricordarsi di caricare le bottiglie di genepy – quello giusto – con il primo giro dell’elicottero. La domenica, in ogni caso, nessuno sarebbe potuto salire a causa di un’altra nevicata continuata copiosa fino a metà settimana.
Per Nestino, il mio socio, non era segnato il cambio: spesso lui rimane su anche tre turni di fila: in valle lo chiamano lupo bianco per via dei suoi trascorsi di bracconiere e per i capelli, velati d’argento da quando aveva trent’anni. Sono i suoi ultimi mesi di lavoro, vive solo, l’anno scorso ha perso il fratello in un brutto incidente che non è mai stato chiarito; al bar in piazza qualcuno, sottovoce, fa riferimento a parole forti e a minacce scambiate con la gente alla quale ha venduto la baita, pare costretto dai debiti. Beveva e giocava, il fratello, e la pensione era poca.

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Per necessità, dopo le notizie del mezzogiorno e la chiamata del caposquadra, un’occhiata ai sistemi di sicurezza o un giro con binocolo nei rari squarci di visibilità, tutti i giorni si usciva a spalare neve; con Nestino faticavamo quel tanto da permetterci di raggiungere, senza sprofondare fino al ginocchio, il piazzale dove si posa l’elicottero. Ripetevamo questa ginnastica ogni pomeriggio ma la mattina successiva puntualmente la traccia era già scomparsa. Allora toccava cominciare daccapo: infilavo i guanti e uscivo per primo, con la pala, e ben presto sudavo sotto il cappello e la maglia di lana, e il sudore si gelava alla barba. Una volta aperto il passaggio, Nestino mi offriva da fumare. Era uno dei rari momenti, ad eccezione dei pasti, in cui riuscivamo a scambiare quattro parole. Dopo la sigaretta rientravo e mi rilassavo a lungo nella doccia bollente, piacevolissima. Finalmente la terza domenica di gennaio, una giornata molto fredda e limpida, qualcuno salì per darmi il cambio.

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Sono anni che faccio il guardiano alla diga – quasi sempre in coppia con Nestino – e so convivere con i silenzi e la solitudine: ma a volte, durante la breve luce invernale, certi pensieri danzano sopra equilibri smarriti. Ho imparato a seguirli con razionalità, li raggiungo e li intontisco in una boccata d’aria gelida o nel privilegio di trascorrere momenti unici fuori dal mondo, e li fisso in appunti sulla mia agenda segreta. Così tratteggio disegni, improvviso canzoni che stonano metriche e rime, abbozzo paesaggi estranei a tutto quel candore, addormento desideri su spiagge coralline. Mi allontano nel sogno, cullato dal sole che filtra tra le palme. Vivo fughe rapide, necessarie, fughe in cui lascio sfumare  giornate eterne di nebbia, di vento e gelate, di confessioni profonde. La solitudine, accettata in una scelta, non è pazzia.

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Quando e dove la montagna lo permette, anche in pieno inverno c’è chi la sale calzando gli sci o le racchette da neve. Tuttavia è soprattutto in primavera che gli appassionati puntano al Pizzo Tiranno o ai colli aperti verso nord, terreni e passaggi che Nestino conosce come le sue tasche. I più preparati affrontano un percorso impegnativo che supera una seraccata, passa sotto il bivacco e s’impenna verso il passo di confine con la Svizzera; la scorsa primavera, solo a metà maggio le guide sono scese da lassù con i clienti. All’epoca la neve a copertura uniforme terminava cento metri sopra la diga; dopo, si camminava calpestando terra fin sotto il muraglione, e da lì, quelli abili, sfruttando la copiosa e puntuale colata della valanga nera saltavano e curvavano ancora con gli sci giù per il canale, incrociando al fondo il sentiero che porta in paese.
Per tutta la stagione della neve, però, quando il canale è pericoloso perché dai lati oltre la valanga nera staccano altre slavine, il collegamento da e verso il fondovalle avviene seguendo una via alternativa, che compie un dolce semicerchio. A fine settimana io la scelgo spesso: se ci sono buone condizioni significa una sciata lunga e piacevole. A inizio turno, invece, siccome non voglio perdere quel po’ di allenamento in salita, se il tempo è bello rifiuto il passaggio in elicottero e mi avvio con le pelli di foca sotto gli sci. Ho per me la mattina intera: studio le tracce degli uomini e degli animali, fotografo alberi in controluce e malghe abbandonate, fermo le nuvole che dissolvono sfilacciate. Con amore e gelosia penetro l’intimità della montagna, o almeno così credo. Ed è per questo che quei momenti, unitamente a quelli di altre gite, li voglio rivedere da solo, sfogliando le immagini nel mio egoismo silenzioso; a casa,  in paese, ho tappezzato una parete con ingrandimenti di particolari o di paesaggi in cui io non compaio mai, e non compare mai nulla di mio, a eccezione del primo piano scattato ai miei sci piantati nella neve in cima al Pizzo Tiranno. Sotto tutte le foto ho indicato la data e il luogo, e tutte mi appagano con sensazioni di libertà.

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Anche quest’anno, come gli altri da quando lavoro alla diga, il tempo è passato lento fino ai giorni di carnevale. Ora è primavera inoltrata, una primavera splendida, con il termometro costantemente sopra la media stagionale. Ed è nuovamente il mio turno alla diga. I crocus ravvivano i pendii bassi esposti a sud, la strada che arriva al muraglione è quasi tutta senza neve. L’inverno si sta allontanando: guardo indietro e mi sembra impossibile aver superato la sua immensità con la mia presenza adattata. Già s’avvicina maggio e, a seguire, la sempre troppo rapida estate. Certe sere senza vento potrò uscire in maglietta sui camminamenti della diga a riscoprire la luna piena specchiata nel lago, come una pallida chiazza tremolante. Durante il giorno lo scoiattolo verrà di nuovo a saltare invisibile tra i rami del pino in fondo al piazzale e sui prati in fioritura sgargianti si ubriacheranno le api. Sarà bellissimo vivere quella stagione fuggevole. Rifiuto il pensiero che accenna all’autunno, anche se so che tornerà inesorabile con le nuvole basse e le bufere ostinate sopra il ghiacciaio.  

Ora è primavera e la primavera è attesa, è un’esclusiva che m’illude. E’ primavera, la luce e i colori sono primavera. Otto giorni fa, giovedì della settimana santa, per la strada della diga è salita una famigliola: padre, madre e una bambina. Tutti e tre vestivano maglioni colorati e pedule nuove. Davanti a loro correva una cagna, una giovane lupa appena più grande di un cucciolo; l’ho seguita, balzava instancabilmente su e giù, drizzava le orecchie pronta a lanciarsi dietro al fischio d’una marmotta, o annusava eccitata la neve residua sotto i larici. Al sole, nella radura vicina al piazzale, l’uomo ha posato lo zaino e la donna ha disteso una coperta e preparato i panini. Dopo mangiato mi hanno chiesto una fotografia, li ho fissati che ridevano e la bambina inginocchiata abbracciava il cane.

Prima di scendere sono passai a salutarmi; sedevo davanti a casa e controllavo gli attacchi degli sci: l’uomo mi ha confessato di aver goduto ore serene e nelle sue parole ho colto la stessa forza che spinge l’erba fuori dal terreno. Mentre rientravano – e la bambina correva e chiamava la lupa – la donna ringraziava l’uomo per la giornata trascorsa insieme. Spero che conservino altri ricordi felici di questa primavera.

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Il fine settimana che viene – il tempo è previsto bello – certamente le guide svizzere caleranno dal passo con gli sci insieme ai loro clienti. Peccato che dalla diga in giù toccherà andare a piedi; il canale colmato dalla valanga nera comincia a bucarsi pericolosamente e l’acqua che corre sotto cresce ogni giorno più prepotente. Ma in alto, tra i seracchi, già m’immagino le curve pulite sulla neve assestata, già vedo il sole scintillare riflessi che illuminano vertiginose pareti di ghiaccio, già sento la montagna liberare il suo respiro nel mio respiro. Magari domenica, anziché tornare subito a casa per il turno di riposo, salgo al bivacco e il giorno dopo punto verso il colle. Sono sicuro: troverò la gita tracciata.
                                                                                                                   
                                                                                                                  (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Famiglia

I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE

Famiglia

I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE
 
Ancora una storia di vita: affinchè impariamo sempre meglio a dare alla vita un valore profondo anche nei suoi aspetti più umili e intimi.

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L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite cominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera, e coperta da una trapunta attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro accompagnato dalla senilità aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante, da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione d’avvocato ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei. Una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
Il comò appesantito dai tanti medicinali sembrava una farmacia ambulante, e dove un tempo lei si specchiava vanitosamente pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia, presente nella stanza, della sua giovinezza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato, immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.

Il nonno amava moltissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto – diceva – è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando all’oblio i momenti più belli, e non invecchiare mai”. Fotografava tutto ciò che lo affascinava, dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno era insomma una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.

Nonna lo amava anche per questo suo talento, per questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che, viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono materialmente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita ed il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia sono il mondo e l’esistenza, con le loro forme.

Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.”Nonna, mi hai sentit…”: non feci in tempo a terminare la frase che lei scoppiò a piangere. “Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa. In vita sua solo due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno, e una sera dopo avere litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione. L’abbracciai trattenendo la forza per paura di stringerla troppo; il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvare la sua. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare e il suo sguardo penetrava dentro il mio, riuscendo a cogliere ogni mia preoccupazione. Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero quasi distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso non facendole mancare mai nulla.

Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi. “Michele, devi andare via!”, esclamò con un’espressione seria. Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo; ho realizzato le mie scelte, ora devi compiere le tue”. La guardai per un istante, poi uscii senza dire nulla. Mia nonna è stata per me come una seconda madre: fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, e così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, e insieme al nonno vedevamo la tv; prima di metterci a letto pregavamo e delle volte, quando non avevo sonno, mi raccontava una favola. Standomi vicino nei momenti difficili m’infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava per me contraccambiare l’amore che mi aveva donato. Le nonne sono delle sante, perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.

L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia e il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata, rendendo ovattate le ore passate insieme. Come di consueto doveva prendere le medicine: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla. “Nonna… nonna, svegliati… devi prendere la medicina”. Nessun movimento né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce: “Nonna, sono Michele…la medicina… ti prego, apri gli occhi…”. Respirava a fatica. Il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo. Iniziai a sudare; un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.

Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo ma già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena, le lacrime no riuscivano a smettere di inondare le palpebre e, scivolando fino alle labbra, con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal tichettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo tra realtà e irrealtà. La vita continuava il suo corso, impassibile, e intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco, se non fosse stato per loro, e forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce, capii che non l’avrei mai più rivista.

Il giorno dopo, uscendo dalla casa in cui ero stato per molti giorni, andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco. Respirando profondamente chiusi le palpebre addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole splendeva lontano e un arcobaleno di colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello delle nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna: per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto preparato la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e  morbido della sua carnagione.

Non so perché, ma da quel giorno ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto, poi quando muoiono, dopo tanto amore donato, si accontentano di un semplice fiore lasciato sulla loro tomba. La vita è proprio strana, non c’è quasi mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.

Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme e subito svanisce. Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo e il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento, mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
                                                                                                       
                                                                                                                        (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
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Storie di vita

L'ALBA DI UN SOGNO



Questa memoria della sua vita Cinzia la dedica alle figlie, quelle di cui nel racconto parla diffusamente, e che all'epoca dello svolgimenot dei fatti erano ancora bimbe piccolissime. Ora sono donne. E' una vicenda di cui Cinzia, che mi è amica, mi ha parlato più volte perchè più volte ho con mestesso cercato di immaginare che le coincidenze che la lasciano tuttora stupita e riconoscente siano state frutto di pura casualità: ma io stesso trovo in realtà in esse molta più traccia di possibile presenza di Dio che di banale casualità.
 
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Una notte in cui non riesci a dormire… la giornata non è stata delle più simpatiche e prendere sonno, vuoi per la tensione accumulata, vuoi per questa sensazione strana che ho dentro e alla quale non so dare una motivazione, beh… è difficile… il sonno non vuole proprio arrivare.
 
Improvvisamente un forte dolore al seno entra nel cervello; tocco il punto: è proprio sotto il seno, sembra un cordoncino lungo e contorto. E’ proprio nel punto in cui c’è il ferretto del reggiseno e penso sia quello il motivo del dolore. Io non sono molto brava a sopportare il dolore, non lo sono mai stata e poi nella mia vita ne ho avuto già molto: non è stata una strada spianata, la mia vita, anzi quasi sempre in salita. Prendo un sonnifero, tanto le bimbe sono con il padre… Io sono sola e posso permettermi il lusso di dormire anche pesantemente.
 
 Mi alzo: “Gesù, è tardi… farò di nuovo tardi al lavoro”. Il telefono squilla, è mio padre che, come tutte le mattine, mi sveglia, mi passa mia madre; le racconto del dolore e della sensazione strana provata, poi riattacco e corro a vestirmi.
 
Ore 10,00: ufficio; il cellulare squilla: è mia madre. “Cinzia, ho parlato con la mia amica del Policlinico, il professore è in sala operatoria e finisce tra circa un’ora, perché non vai lì? Gli ho parlato al telefono prima che entrasse in sala operatoria e mi ha detto che ti dà un’occhiata subito, se vuoi; sai, sono rimasta un po’ preoccupata dal fatto di vederti così agitata, perché tu non ti curi della tua salute ed è strano vederti tesa”.
 
“D’accordo, mamma, chiedo un permesso e vado”.
 
Ore 12,50, Policlinico: “Buon giorno, come va? Cosa è successo? Vediamo…”. Mentre il professore mi visita, vedo i suoi occhi cambiare espressione, la bocca fare una smorfia di tensione. Cosa succede? Perché quel cambio di espressione?”.
 
“Non ti sfugge niente, eh! Devi andare subito a fare una mammografia, qui non te la farebbero prima di un mese ed anche se la chiedessi con urgenza perderemmo comunque del tempo, quindi devi farla a pagamento, non importa dove ma trova un posto dove te le facciano subito, e domani mattina riportamela qui perché se è come credo (ma spero di sbagliarmi) dobbiamo ricoverarti immediatamente e operarti”.
 

“E’ maligno?” (Che strano pronunciare questa parola… mette paura solo il pronunciarla, ci vuole coraggio anche solo a dirla). “Credo di sì, ma devo averne conferma dalla mammografia e da altri esami, soprattutto da quello istologico, se dovremo operare; ma spero di sbagliarmi”.
 
“Ok, ci vediamo domani mattina”. “Tutto a posto? Ti senti bene? Sei venuta sola?” “Sì, e comunque vada non voglio che nessuno sappia nulla se non sono io ad autorizzarti. Se mamma dovesse chiederti qualcosa dille che sono dei noduli che vanno tolti, ok?”. “D’accordo, ma stai tranquilla, magari mi sono sbagliato”.
 
Una carezza sui capelli…Uno sguardo troppo dolce per una situazione normale… Esco dallo studio, percorro quei lunghi corridoi… Non lo so cosa penso, non riesco a descriverlo, non è una cosa sola, è una cascata di emozioni e di pensieri… il sole fuori… dovrei andare al lavoro, in fondo ho fatto presto, una mammografia: mmmm… dove potrei andare a farla? Da Luciano? Forse da lui: ma mamma scoprirebbe tutto… Sì, ma sarebbe la via più veloce e sicura… Potrei dirle che si tratta di noduli… Sì, ecco, questa è la risposta giusta…No, al lavoro non torno, vado in banca… no, meglio dal mio avvocato, voglio fare un testamento nel quale tutelo le bimbeLe bimbe… devo parlare loro… E che dico loro? Quella psicologa diceva di non mentire loro… E come si fa? Che dico loro? Forse mamma muore? Che strano, mi viene da ridere… se non fosse tragico sarebbe comico: ma non è affatto comico. Ok, ora vado in banca, ritiro, metto i soldi in cassaforte, così se… se… le bimbe non avranno problemi, i primi tempi, anche per il funerale… Poi dovrò preparare anche i miei e parlare con Massimo; e sì, devo parlargliene, è giusto per le bambine, dai, non sono mai crollata; come diceva mio nonno? La grandezza di un uomo non sta nel non cadere ma nel trovare la forza di risollevarsi con dignità.
 
Il cellulare squilla di nuovo: “Ciao, mamma: come stai? Ok, senti: ho pensato che vorrei fare una mammografia, ti ricordi quella sensazione strana? Il professore dice che potrebbero essere delle semplici cistine, ma, sai, vorrei fare una mammografia: oggi è già il 9 luglio e tra un po’ vanno tutti in ferie; sai, ho sentito Paola e ha insistito perché la facessi subito: mi ha detto che sono una pessima paziente, che non mi vede mai, che mi curo da sola, che prima o poi la farò radiare dall’albo perché non seguo mai le sue direttive… Insomma, lo sai, rompe sempre ma ogni tanto bisogna accontentarla; dai, mamma: così non si rompe”.
“D’accordo, ora ti do il suo numero: fissa l’appuntamento e poi fammelo sapere, che ti accompagno”.   “Ok, ciao: stai tranquilla, non preoccuparti anche per le stupidaggini, io sto bene”.
 
Ore 15,00: centro studi e analisi, sala d’attesa. Ci sono una miriade di quadri… non sono belli… quelli dei miei amici invece sono vere opere d’arte… ufffff, ancora non mi chiama…
“Signora, prego, tocca a lei…”.
Entro e davanti a me c’è un signore un po’ grassoccio, tutto sulle sue; Luciano invece non c’è: meglio, così non riporta immediatamente a casa...
“Si tolga la maglietta e il reggiseno e mi aspetti lì davanti”.
E’ sempre imbarazzante fare questo tipo di visite, e poi io odio farmi visitare… diciamo che ho un’avversione per il camice bianco… Intanto lui continua a dare ordini: “Si metta così… ora ferma… Respiri…”; ufffffff, ma quando finisce?
“Ecco, abbiamo finito: può accomodarsi di là, cinque minuti, le do la risposta e può andare”.
 
Di nuovo qui, in questa sala d’aspetto. Forse se leggo un giornale passa prima; la signora vuole parlare ma io non ne ho voglia, ho la macchina messa male, meglio affacciarmi; ufffff…questo non si sbriga…
“Signora… mi scusi…Il dottore dovrebbe rifare di nuovo la mammografia”… L’infermiera è un po’ imbarazzata.
“Signorina, lasci stare, ci penso io”, interviene il medico. “Signora, si accomodi, mi dispiace ma a volte, sa’… basta un niente…il macchinario poi… insomma mi dispiace ma dobbiamo ripeterla perché non è venuta bene…”.
“Dottore, cosa ha visto? E’ un tumore maligno, vero? Guardi, non servono tutte queste storie: sono qui per questo; il professore che mi ha visitata ha richiesto questo esame perché già se n‘era accorto ma voleva una conferma”.
 
E’ strano… è diventato diverso, sembra un’altra persona, gli occhi abbassati, la voce flebile, indica un punto e mi dice: “Vede, è qui… questo… ma ne parlerà con il Suo medico, è meglio…ma non è nulla, tranquilla… oggi queste cose si risolvono…”, e sforna un sorriso forzato.
Continua a farfugliare imbarazzato: so che è poco gentile da parte mia ma voglio andare via e tronco la conversazione, ho bisogno di aria e di silenzio, o forse… ho solo bisogno di me stessa.
 
Scendendo le scale comincio a ridere. Ma tu guarda se oltre le tasse che pago e lo schifo di stipendio che prendo devo anche andarmi a pagare 120 euro per farmi dire che ho un tumore. Torno a casa. Mi sembra di vedere la vita di un’altra persona, gioco con le mie bimbe, guardiamo la tv… un cartone animato…nelle fiabe c’è sempre un lieto fine… Che bello vederle così serene e sentirle ridere… sono tutta la mia vita e non posso morire: vorrei vederle crescere e… ho troppe cose ancora da fare, Dio non può volere questo…
La mattina seguente il professore, dopo aver visto la mammografia, mi fissa il ricovero per il giorno  dopo e l’operazione per dopo due giorni. E ora devo affrontare il momento peggiore, quello che non avrei mai voluto vivere: vado a prendere le mie figlie a scuola ma in questi giorni mi sembro un automa e continuo a chiedermi perché non piango… Ecco, è questo il momento più difficile ma devo farlo…
“Principessa, Cucciola, la mamma deve parlarvi di una cosa importante: posso avere la vostra attenzione?
Annuiscono, sorridono…come è bello il loro sorriso, c’è l’universo dentro…
“Quante ne abbiamo passate insieme, tantissime, vero amori miei? Ma insieme riusciamo sempre a superare tutto… il potere del Trio… giusto, Cucciola? Mamma è andata a fare una visita e il dottore ha detto che ho un problema… beh, non trovo il modo né le parole esatte o giuste per dirvelo… non credo ci siano, non credo che esistano… Hanno detto che ho un tumore. Domani mi ricoverano in ospedale e tra due giorni mi operano”.
“Mamma, ma tu muori?”.
“Non lo so, Cucciola… io non voglio morire e non so a che punto sia ma due mesi fa quando feci un’ecografia mi dissero che non avevo nulla: quindi forse il male è solo all’inizio perché se anche si sono sbagliati e non l’hanno visto devo dedurre che fosse piccolo, altrimenti non avrebbero potuto non notarlo”.
“Promettimi che non muori… io ho bisogno di te, mamma”.
“Principessa, non posso promettertelo ma posso giurarti che ce la metterò tutta e che farò tutto ciò che è nelle mie possibilità perché non accada, perché anche io ho bisogno di voi”.
“Sara, quando mamma dice che ce la metterà tutta ci riesce sempre”.
L’abbraccio che è seguito credo sia stato quello più intenso della nostra vita dalla loro nascita ad oggi. Non hanno pianto, sembrano più mature di quanto mi aspettassi.
 
La sera prima dell’operazione è stata la peggiore. Non ero mai crollata fino a quel momento, ma quella sera mi succede qualcosa che ha dell’inverosimile. E’ tardi, sono stata per delle ore al cellulare con Luisa, una collega, ma principalmente una vera amica che magari non vedo né sento per molto tempo ma che c’è sempre quando ho bisogno di lei e stranamente mi fa sorridere dandomi un po’ di forza e una parvenza di serenità. Ma quando attacco mi sento di nuovo sola e per la prima volta avverto la paura dentro che mi fa impazzire, comincio a piangere e scendo dal letto. E’ buio ed io sono sola in stanza… forse troppo sola… Metto la tuta ed esco fuori per le vie del Policlinico. Quest’ospedale sembra una città…è enorme… di notte poi sembra ancora più grande ed è deserto… Cammino non so quanto e non so dove, continuo a girare per i viottoli di questa strana “città”… continuo a piangere, vorrei avere qualcuno vicino che mi stringa forte… che asciughi le mie lacrime…che mi sorrida e mi dica che supererò anche questa… qualcuno che mi stringa forte fino a far sparire questa paura… ma non c’è nessuno…
 
Mi ritrovo seduta su un muretto tipo marciapiede, ma forse un po’ più alto. Non credo di aver mai pianto tanto. Continuo a chiedermi: “Perché proprio a me? Se esisti, Dio, perché proprio a me? Cosa ti ho fatto? Perché non smetti mai di prendertela con me? E pensare che continuano a dire che sei buono… Mi chiedo: e se fossi stato cattivo cosa avresti avuto in riserva per me? Che cavolo ti ho fatto? Non basta tutto quello che ho passato? Che le mie figlie hanno passato? No, tu non puoi esistere, non può esistere un Dio che permetta questo, se non altro per le mie bambine…”.
 
“Sei sicura che non esista?”.
“E tu chi sei? Di cosa parli?”
“Mi riferivo alle tue domande…”.
“E tu come fai a saperlo? Non stavo parlando… Ero assorta tra i miei pensieri tanto che non ti ho sentito neanche arrivare… Pensavo di essere sola….
“Lo so”. Il vecchio sorride: “ Me ne sono accorto…eri troppo assorta nei tuoi pensieri, e poi con tutte quelle lacrime come facevi a vedermi?”.
Mi asciuga le lacrime… che buon profumo che ha…
“Sai, so cosa stavi pensando perché pensavi a voce alta”.
“Non me ne sono accorta… mi spiace”.
“Beh, capita quando si è disperati e… capita anche di prendersela con Dio, ma lui lo sa che è perché siamo disperati e non se la prende…ora asciuga gli occhi, dammi la mano e stai tranquilla, è solo un brutto sogno…Lo supererai e sarai ancora più forte di prima. Ci vorrà del tempo, molto tempo, dovrai superare molte prove, ma ce la farai. Sei una bella persona, non è ancora il tuo momento…”.
“E come fai a saperlo?”.
“Sono un vecchio – sorride – e con la vecchiaia arriva la saggezza, tuo nonno deve avertelo detto, ne son sicuro…”.
“Io ho paura, mi sento sola, ho talmente tanta paura…”.
“Non sei sola, a volte siamo ciechi e non vediamo tutta la gente che ci vuole bene e che è lì con noi. Chiudi gli occhi e senti quanto amore hai intorno…Dammi la mano, voglio darti una cosa… Questa medaglietta tienila sempre con te, non lasciarla mai, mi raccomando”.
Abbasso la testa, mi sembra tanto pesante e sono tanto stanca.
Riapro gli occhi e… non c’è più, quel vecchietto non c’è più…Io cerco ma è tutto deserto, qui, e io comincio anche ad avere freddo. Apro la mano e guardo la medaglietta che mi ha lasciato… Se non fosse per questa penserei di aver sognato. Che strano, è la medaglietta argentata di Madre Teresa d Calcutta… Cosa vuol dire tutto questo? Chi era quel signore? Mi addormento con questo pensiero, con la medaglietta stretta in mano e con un po’ più di serenità.
 
La mattina mi sveglio ed ho ancora quella medaglietta, ma non ne parlo con nessuno: mi prenderebbero per pazza. Mi preparo, vado in bagno, mi pettino, mi guardo allo specchio…i capelli non mi piacciono e poi vorrei truccarmi, sono così bianca, mi vedo bruttissima… Prendo il profumo automaticamente, poi lo guardo, rido e penso dentro di me: “Ma che profumo… che trucco vuoi mettere?”. Sto bluffando con me stessa, faccio la donna forte, dura, e… vorrei piangere. Esco dal bagno; che strano: ho l’impressione di sentire il profumo di mio padre ma mi guardo intorno e non c’è… Io e lui siamo troppo simili… non verrà mai qui, ne morirebbe, non accetterebbe mai di vedere andar via la sua bambina e non sapere che destino avrà. Siamo troppo simili in questo: tanto forti nell’aiutare gli altri ma se accade qualcosa ai nostri figli la disperazione ci distrugge e subentra il nascondere la testa sotto la sabbia, lo sperare che così scompaia tutto… E’ assurdo, lo so, ma io in questo momento, pur avendo bisogno di lui, lo capisco e so con certezza che lui è qui…non so dove si sia nascosto ma so con certezza che sta piangendo e mi sta osservando, disperato per la sua bimba…
 
L’operazione va bene anche se era uno dei peggiori tumori al seno, un carcinoma infiltrante: ma era all’inizio e i linfonodi erano a posto e poi “non era esploso”, così mi ha detto un medico. Credo che neanche il professore sperasse tanto. Mi hanno detto che, finita l’operazione, mentre gli altri sanitari mi preparavano per riportarmi in stanza, lui si è tolto il camice e la mascherina ed è andato ad aspettarmi nella mia stanza; e in molti mi hanno raccontato che aveva le lacrime agli occhi. Un medico di tanta esperienza e di tanta professionalità e bravura che si commuove ancora… E’ bello scoprire che esistono ancora persone così. Ha lottato con me contro tutti e quando ho detto che non volevo la chemio mi ha appoggiata e mi ha prescritto solo la radioterapia contro il parere di tutti, e poi ha seguitato ad appoggiarmi anche quando non ho voluto la terapia del Novaldex e ho accettato solo l’Enantone. Lui non si ferma alla diagnosi medica ma va oltre… per dare una cura non sottovaluta l’aspetto psicologico ma fa un quadro completo della persona che ha davanti… Io per lui non ero un carcinoma infiltrante numero x, ma ero un essere umano, con molte paure e una soglia di sopportazione al dolore sia fisico che psicologico ormai provata e ridotta al minimo, e su questa base, oltre che sul carcinoma, lui ha deciso la terapia. Questo è un vero medico, uno che valuta sia i danni psicologici che quelli fisici, e le conseguenze di ogni terapia data sia a livello fisico che psicologico; lui aveva capito che su di me gli effetti della chemio e del Novaldex sarebbero stati più negativi che positivi. Sono stata fortunata ad averlo incontrato: ho una stima incondizionata di quell’uomo e non sono la sola. E mio padre? Mio padre mi dissero che comparve mentre la barella sulla quale mi riportavano in stanza usciva dalla sala operatoria; dicono che l’abbia fermata con il volto tumefatto dal pianto, che mi abbia riempito di baci… in silenzio, e che poi sia andato via di corsa. Il mio povero papà, quanto deve aver sofferto!
 
Per assurdo il primo periodo dopo l’operazione è stato il più bello dell’ultima parte della mia vita. Le mie giornate, ricordo, si svolgevano così: mi svegliavo, svegliavo le bimbe, facevamo colazione, arrivava mio padre, portava la piccola a scuola mentre la grande l’accompagnavo io con la macchina lasciandola davanti al cancello.
Alle 9,00 ero all’ospedale San Giovanni per la radioterapia: mai visto un reparto tanto bello, sia pur nella desolazione del luogo; chi ci lavora infatti è di una solarità unica. Un giorno mi chiamò il medico responsabile del reparto (tra l’altro giovane e carino) per il colloquio settimanale di rito, e mi disse: “Allora come si trova qui, signora? Come si sente? Ha qualche cosa di cui vorrebbe parlarmi?”.
Non so perché, ma gli risposi ridendo: “Beh, sì, devo dire che il servizio è scadente…perché non c’è musica e…la mattina ci vorrebbe del caffè… un cornetto… dei dolcetti…”.
“Ha ragione, ma non si preoccupi: provvederemo”.
Pensai: “Stavolta l’ho combinata grossa… Mi sa che si è arrabbiato, ho esagerato, ma non mi andava di parlare sempre di malattie e tumori e di come mi sento quando esco dalla radioterapia e vedo gli altri pazienti che hanno sempre qualcuno che li aspetta e io sempre sola e quella ragazza che quando esce ha il suo uomo che l’aspetta e l’abbraccia forte e la bacia; non ho mai invidiato nessuno, eppure l’ho invidiata… Quanto mi mancava in quei momenti un uomo che mi stringesse forte e che mi desse la forza di continuare a lottare… Ma… perché continuo a pensarci? Che gliene frega alla gente di quello che provo? Anzi se ti sentono lamentarti o dire sempre di star male si straniscono pure e ti evitano come avessi la lebbra… Meglio sorridere”.
 
Il giorno dopo, quando arrivai cominciai a ridere e giocare come facevamo sempre con le altre pazienti in sala d’attesa (che a volte era il corridoio); a volte ballavamo anche…mimando della musica, ma… quel giorno… sorpresa delle sorprese…tutti gli infermieri e i radiologi, quando toccò a me, mi guardarono e cominciarono a ridere, mi fecero entrare e… c’era la musica!...E mentre mi sdraiavo per prepararmi entrò lui, Raffaele, e disse: “Allora il caffè glielo avete dato? (Ehi, c’era anche il caffè!). Per i cornetti, signora, ci deve scusare ma oggi non abbiamo fatto in tempo”. Abbiamo riso tanto… Era davvero meraviglioso, so che sicuramente non mi credete o comunque non riuscirete a capire totalmente l’importanza ed il significato che aveva avuto quello che loro avevano fatto sia per me che per gli altri pazienti perché… nella disgrazia, trovare persone così… è davvero un dono di Dio…
 
Beh, ora continuo nella descrizione delle mie giornate, sperando che vogliate scusare il mio divagare ogni tanto in dettagli che tuttora mi rallegrano ricordandomi che esistono al mondo persone meravigliose delle quali non si parla mai e che non hanno mai ricevuto e mai riceveranno un grazie dalla nostra società.
 
Finita la terapia partivo per Rieti dove dovevo organizzare una manifestazione per il mio capo. Lì ero affiancata da una persona eccezionale, con la quale siamo poi diventati anche amici; c’è molto rispetto tra noi, ma non mi ha mai commiserata pur coccolandomi. E poi c’era un ragazzo, Alessandro, che mi faceva da assistente perché era di lì e quindi conosceva il luogo, me lo avevano affiancato dal comune e dal comando dei carabinieri. Era un ragazzo giovane ma molto maturo. E’ stato il periodo più duro ma anche uno dei più belli della mia vita. Non ho mai riso tanto… Con loro e con la mia amica Angela ho imparato anche a ridere di me stessa. C’era complicità, stima, rispetto…
 
Tuttora con quelle persone è rimasto un legame di amicizia e complicità molto intenso, poi Angela ha condiviso purtroppo con me anche la malattia. Alessandro invece, anche per la sua età, l’ho sempre considerato il mio cucciolo, lui si diverte con me ed è un po’ come “Cimabue” o “Pierino la peste” ma questo gli deriva dalla sua giovinezza, gli dico sempre che tutte queste donne lo porteranno alla rovina perché è sempre pieno di ragazze che gli girano intorno anche quando sta lavorando con me. Ma in realtà… quello che non gli ho mai detto è… che è in gamba, riesce a portare a termine ogni incarico che gli si dà, sa sempre trovare la strada giusta. Insomma, passavo tutta la giornata a lavorare a Rieti e poi la sera (tranne rare volte in cui avevo cene di lavoro lì) tornavo a casa dalle mie bimbe ed ogni sera era una festa. Un Pigiama Party (con tanto di libro di incantesimi e sortilegi) e infine a letto per essere poi pronti per il nuovo giorno. A pensarci ho ancora nostalgia di quel periodo, sembra assurdo ma è così.
 
Passa il tempo tra alti e bassi come per tutte le persone di questa terra. Un paio d’anni fa, durante uno dei controlli trimestrali ai quali mi sottopongono, si accorgono di qualcosa che non va ai polmoni: pensano siano partite delle metastasi… Di corsa vado a fare la tac. Ed anche qui mi accade qualcosa di strano… inverosimile… Sto seduta nella sala di aspetto di una clinica, a testa bassa, e continuano a passarmi per la mente duemila pensieri che, vi sembrerà strano, non ricordo o forse li ho cancellati… Ad un certo punto sento una voce, una donna giovane, scialba, che con la mano mi solleva il mento e mi dice:
  • Preoccupata?
  • Chi non lo sarebbe? Sai, tempo fa ho avuto un tumore e per fartela corta ora devo fare una tac ai polmoni per vedere se è partita una metastasi e… beh, chi non avrebbe paura?
  • No, tranquilla… non devi aver paura… non hai nulla… non è ancora venuto il momento per te… Ma se non ti offendi e permetti, io vorrei regalarti queste quattro medagliette, tienile con te e prega, non smettere mai di pregare… devi credere e pregare… devi aver fede in Dio”. Che strano, sono medagliette di Madre Teresa… Madre Teresa compare sempre nei momenti peggiori della mia vita… Sai, mamma ha tanto lavorato con lei per i bimbi, preparava triangoli per cambiarli, Madre Teresa glieli portava. Sai, è la seconda volta che mi regalano delle sue medagliette, mi successe la notte prima dell’operazione e fu una cosa strana… Ora tu ma… perché quattro, e perché tre argentate e una dorata?
Sorrideva: “Lo so, madre Teresa prega sempre per noi, tienile sempre tutte e quattro con te. Ti serviranno nei momenti peggiori per superarli”.
  • Ah, grazie, bell’augurio! Non basta tutto quello che ho passato finora? Quanto devo ancora subire e quanta forza ancora mi rimane? E se non riuscissi a essere così forte? Se crollassi?
Una voce al microfono: “Il numero 25 per la tac può entrare”.
  • E’ il mio numero: vado, grazie di tutto. Lei deve ancora aspettare molto?!
“Il tempo necessario”, sorride.
Entro e la tac non rileva nulla di maligno né preoccupante. Esco contenta e cerco quella donna per dividere la mia gioia con quella sconosciuta che aveva cercato di rasserenarmi, ma non c’era più e nessuno ha saputo dirmi nulla, anzi nessuno l’ha notata.
 
Io non credo di aver incontrato due angeli ma sono certa che quelle due persone esistano realmente e che madre Teresa, alla quale mia madre si raccomandava spesso per noi confidandole le sue preoccupazioni anche tramite le sue consorelle di Roma, credo abbia fatto in modo che quelle due persone fossero lì al momento giusto e con quelle medagliette per darmi forza attraverso un segno tangibile, materiale; d’altra parte lei quando le dicevano che era una santa sorrideva e ripeteva sempre di essere uno strumento nelle mani di Dio…Chissà… forse i santi sono semplicemente questo, e nel mio caso anche per ricordarmi quanto sia bella ed importante la vita e quanto fossi stata fortunata a scoprire in tempo il carcinoma, ad avere due figlie meravigliose e pochi ma buoni amici che mi vogliono un mondo di bene.
 
Ricordo spesso le parole dei miei nonni, con i quali sono cresciuta e che mi ripetevano sempre che bisogna dare e aiutare gli altri e solo per il piacere di farlo e non aspettarsi mai nulla indietro se non un semplice sorriso… semplice ma che riscalda il cuore ed è il dono più bello. Mio padre ogni suo compleanno ripeteva: “Vuoi farmi un regalo meraviglioso? Regalami un tuo sorriso: è il dono più bello che tu possa farmi”.
Io conservo ancora quelle medaglie; in realtà una l’ho data a mio nipote che ha avuto un problema di cuore pur essendo giovanissimo e sentivo di doverlo fare, ed un’altra ad una vicina di casa per il figlio in coma per un incidente e al quale avevano dato quasi inesistenti speranze, e che invece ora sta bene e nessuno si spiega il motivo della sua guarigione così veloce e totale mentre i presupposti erano tutt’altri; anche a lei sentivo di doverla dare… Ora continuo a chiedermi: le altre per quali motivi mi sono state concesse? Quali altre prove dovrò superare?...
Ma intanto ho imparato a vivere giorno per giorno e a non accontentarmi di sopravvivere ma a godere di ogni emozione, di ogni attimo di serenità e felicità che mi sia concessa; e non smetterò mai di credere che un giorno anche per me arriverà… l’alba di un sogno. Dopo la notte arriva sempre il giorno…
                                                                                                                                     
                                                                                                                                      (Cinzia Cammarere)
                                                                                               
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Storie di vita

STORIE DI VITA

Vite forti. Piene di una sapienza umile ma compiuta. Esistevano: io ne ho conosciute. Probabilmente ne esistono anche oggi. Da cercare forse in ambienti sociali meno sofisticati, adulterati e viziati di quelli prevalenti nella nostra società attuale. Anche quella che vi raccontiamo oggi è vera.
 
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Mi aveva insegnato ad amare la montagna, a dire le preghiere, a credere nei santi del paradiso, ad apprezzare certi profili delle cose, a comunicare con le persone, a saper chiacchierare; mi aveva insegnato che non siamo soli, neppure in uno stralcio lontano e dimenticato di mondo.
 
Era magrissima, non tanto alta di statura; una persona sottile, dal ventre concavo e dalle gambe muscolose come chi aveva davvero fatto tanta strada; aveva un naso un po’ aquilino, leggermente pronunciato e i suoi occhi castani, attenti e vivaci, sapevano guardare lontano.
 
Conosceva un’infinità di rimedi naturali o particolari, veramente singolari e inusitati, contro i mali fisici, di qualunque natura essi fossero, contro le malattie delle galline, la moria dei conigli, la scarsa lievitazione del pane, il freddo acuto ai piedi o le scottature alle mani. Sapeva fare benissimo un’infinità di cose e, anche se non eccelleva – devo dire – nell’arte della cucina, non ho più incontrato nessuno, nel percorso della vita, che sapesse sfornare un pane delizioso e fragrante come il suo. Lo conservava nella madia, anche per settimane… E manteneva intatto il suo inconfondibile sapore, a volte lo preparava anche nella versione dolce: lo mangiavamo ancora caldo, pizzicandolo con le dita e ce lo passavamo di mano in mano finchè, in un tempo incredibilmente breve, non era terminato.
 
Amava moltissimo le castagne, i funghi, la polenta, il pane, forse perchè sono doni diretti della terra che non hanno bisogno di grandi elaborazioni per essere gustati, forse perché erano stati parte integrante della sua vita e delle sue origini. Mi parlava sempre dei posti dove aveva vissuto e mi colpiva il fatto che di tutti i personaggi, protagonisti delle innumerevoli vicende che ricordava, citava ogni volta il nome, tanto che potrei dire anch’io, ora, di averli incontrati davvero sulla strada della mia vita. Aveva trascorso la sua esistenza in un paese di alta collina, che amava definire montagna, posto su un elevato pendio da cui si può ammirare la bellezza della valle, aveva avuto otto figli allevati a polenta, latte, verdura, rosari e preghiere. Aveva visto e vissuto due guerre, sospirato e pregato per un fratello alpino e un figlio partigiano; il primo caduto senza un saluto su altri monti, sconosciuti e lontani, il secondo allegramente ritornato all’ovile dopo che una raffica nemica di mitra gli aveva sbriciolato d’un colpo le suole delle scarpe lasciando miracolosamente intatti i piedi, oltre naturalmente al resto del copro, giovane fiorente e robusto, nonostante la dose giornaliera mai abbondante di pane, polenta e verdura. Da quel giorno la dose di un ingrediente soltanto era raddoppiata alla parca mensa familiare: quella dei rosari e delle preghiere.
 
La sua devozione e la sua fede erano rimaste incrollabili, anche davanti ad altri momenti di grande dolore; diceva che era stato suo padre ad insegnargliela, e a dargliene dimostrazione dopo che aveva venduto la mucca ed offerto tutti i proventi a beneficio della chiesa e dei poveri, quando gli era giunta la notizia della morte, in battaglia, del figlio. E per tutta la vita aveva conservato un oggetto da cui non si staccava mai: era un librettino di piccolo formato dalla copertina di finta pelle nera che definiva “il libro della messa”, scritto a caratteri rossi e neri, parecchio consunto in certe parti per la frequenza e l’assiduità della lettura, della quale avrebbe potuto fare benissimo a meno perché sono convinta ne conoscesse a memoria il contenuto, anche delle parti in lingua latina.
 
Anche successivamente, quando non viveva più nelle ristrettezze del passato, aveva mantenuto una sana repulsione per lo spreco o la spesa inutile; non buttava mai alcunché potesse, nella sua logica, essere riutilizzato, anzi riponeva gli oggetti in disuso in posti ben nascosti, in modo da poterli poi recuperare al momento adeguato. Una volta scucendo una camicia ormai rovinatissima aveva conservato i bottoni, riponendoli con cura nel suo cestino da lavoro; essendone rimasto uno alla fine dell’opera, lo aveva inserito in un bicchierino piccolo di liquore nella credenza a vetri: giunto subito dopo un ospite inatteso e volendo offrirgli qualcosa da bere, afferrò il bicchierino e lo riempì di grappa…Sulla sua superficie galleggiava allegramente il bottoncino colorato. L’ospite, come nulla fosse, bevve il contenuto lasciando sul fondo il corpo estraneo che, con una risata, una volta lavato il bicchiere fu collocato al suo posto, questa volta quello adeguato, il cestino da lavoro.
 
Così aveva mantenuto per tutta la vita un suo equilibrio interiore ed una serenità vera dell’anima, anche molti anni dopo quando, nelle sere d’inverno, attorniata da uno stuolo di nipoti, saliva piano le scale per raggiungere la camera da letto e, per rispondere scherzosamente alle risate e ai giochi rumorosi dei bambini, gridava dall’alto del pianerottolo con tono gioioso: “Seccamelica!”. Nessuno conosceva il senso della parola strana, ma pareva una formula magica, una specie di portafortuna, e dal buio del sottoscale tornava un’eco divertita, tra cori di risate, con questo misterioso “Seccamelica!”.
                                                                                                                                     
                                                                                                         (Maria Francesca Giovelli)
 
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Storia e storie

IL GERANIO DI MIO PADRE


Distraiamoci un poco dalla politica, non per deresponsabilizzarcene bensì… per ricordare sempre che essa deve avere come riferimento la persona, il suo servizio, la sua realizzazione compiuta, la solidarietà comunitaria. Per questo vi offro un’altra “storia vera”, una “storia di vita” fra le innumerevoli che altrimenti si consumerebbero in silenzio nella disattenzione di tutti: mentre invece sono cariche di insegnamenti e promemoria per la vita di ciascuno di noi, per il nostro impegno sociale e per la coerenza necessaria delle nostre istituzioni. Devo la storia, finora inedita, ancora una volta, agli indimenticabili amici del Premio Prato Raccontiamoci.

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Verso mezzogiorno la caposala si assentò dal reparto. Vi rientrò una mezzora più tardi, coi capelli sistemati e le labbra fresche di rossetto. Qualche minuto dopo, scortato dal solito drappello di assistenti, anche il primario fece la sua comparsa. Per cominciare, chiese alla caposala del paziente signor Caio. Una volta che la donna glielo ebbe indicato si avvicinò a lui e, presentatosi come il professor Taldeitali, lo invitò a passare nel suo studio di pomeriggio.
A qualsiasi altro paziente la cosa sarebbe suonata quantomeno strana, ma mio padre era un medico e tra colleghi, pensò, un minimo di riguardo sempre si conviene. Perciò, tranquillo, aspettò che si facesse ora  di andarsene. Alle tre del pomeriggio non gli restava altro da fare che mettere le sue cose nella borsa e recarsi dal professore. La porta dello studio era semichiusa. La spinse quanto bastava perché dall’interno qualcuno, accorgendosi di lui, gli facesse cenno di accomodarsi. Il professore sedeva comodamente dietro a una scrivania ingombra di carte e pacchetti di sigarette mezzo vuoti o accartocciati. Scusandosi per il disordine tirò fuori dal cassetto una cartella.
“Ho qui…”, esordì lasciando la frase sospesa.
“Allora?”, lo incalzò mio padre. A quel punto l’uomo tentennò il capo e iniziò a tamburellare con le dita sulla scrivania. Poi, rompendo gli indugi, con un tono didattico spiegò che per colpa di una malattia degenerativa, tecnicamente un “glaucoma ad angolo chiuso”, presto mio padre sarebbe diventato cieco.
“Come, cieco…?”, farfugliò il paziente.
Un silenzio di pietra riempì la stanza. Al culmine della tensione il professore fece: “Davvero mi spiace…ma tra colleghi è inutile girarci intorno…”.
“Cosa significa… cieco?”, chiese ancora mio padre, in preda all’angoscia. Caso volle che il telefono cominciasse a squillare, liberando l’uomo dalla spiacevole incombenza di dover fornire ulteriori dolorose spiegazioni. Si spicciò ad accompagnare il paziente alla porta e, dopo avergli messo tra le mani la cartella contenente gli esami, lo salutò con un colpetto consolatorio sulla spalla. Mio padre si credeva, e forse lo era, un medico d’altri tempi: di quelli che non hanno medaglie o lustrini da mostrare in pubblico e mai s’abituano all’umana sofferenza. Loro, i professori, hanno invece l’invidiabile dote di pronunciare terribili sentenze manco stessero facendo quattro chiacchiere sulle bizze del tempo. Mio padre, del resto, conosceva bene quel modo di fare sbrigativo e indifferente.
Per questo, prima di arrendersi all’evidenza sottopose il caso ad altri specialisti. Il verdetto, tuttavia, non cambiò di una virgola: pochi mesi, un anno a essere generosi, e sarebbe precipitato in una notte infinita. Si convinse che nessuno avrebbe potuto comprendere o mitigare la pena che gli pesava sul cuore. Per dovere ne diede notizia alla moglie e ai figli, certo com’era che se ne avesse parlato anche in giro un turbine di frasi stucchevoli e ipocrite sarebbe passato sopra di lui risucchiandolo anzitempo nella disperazione più nera. Si sforzò di vivere come se niente dovesse accadere. Ogni volta però che s’incantava davanti a un tramonto, la malinconia lo assaliva; una malinconia intima, dolorosa, che ora lo faceva sentire una pianta senza più radici, ora trasformava i suoi occhi in potenti obiettivi capaci di mettere a fuoco e fissare sul negativo della memoria il più piccolo dei particolari, la più sottile delle sfumature.
Nel periodo ch’ero mancato da casa, a parte naturalmente la malattia di mio padre, non vi erano stati grossi cambiamenti. Mia madre continuava a fare la vita di sempre: sbrigare le faccende domestiche, badare al menage familiare e giocare con le amiche a burraco il giovedì pomeriggio. Anche mio padre, sebbene avvertisse ormai il fiato del buio sul collo, perseverava nelle sue abitudini: compresa quella di svegliarsi ogni giorno alle sei e dieci precise. Continuò a farlo senza eccessiva fatica fino a un mattino quando, non sentendo provenire dal corridoio il consueto ciabattare, preoccupato mi buttai giù dal letto, uscii dalla stanza e lo vidi brancolare per la casa con le braccia protese in avanti.
“Scusa se ti ho svegliato… ma stanotte non riesco proprio a dormire…”, disse sentendomi arrivare.
“Ritorno in camera a aspetto che si faccia ora di alzarmi”, aggiunse non accorgendosi che il sole già rimbalzava dalle finestre al soffitto. A tentoni, sbattendo prima i ginocchi contro il comodino, riuscì ad arrivare al letto. Mia madre dormiva un sonno profondo e non s’accorse di nulla. Una volta nel letto egli tirò un lungo respiro e sussurrò: è finita… mentre due lacrime silenziose gli rigavano le guance. A vederlo mi si gelò il sangue. Quelli che seguirono furono mesi carichi di silenzio. Malgrado io e mia madre ci prodigassimo per calmarlo, mio padre se ne stava ore intere sprofondato in poltrona a frugare con la mente nel passato, a cercare di rimettere a posto quei tasselli della memoria che via via si andavano scollando.
Finchè, una sera, accadde qualcosa di nuovo. Forse destato dalla pioggia che batteva sulle persiane, fermò su di me i suoi occhi spalancati e all’improvviso prese a parlare della sua infanzia. Di quando, pur vivendo in un paese che pareva dimenticato da Dio, fantasticava di diventare un marinaio per girare il mondo. Con voce sognante raccontò del giorno in cui finalmente riuscì a vedere il mare da vicino: aveva diciannove anni ed era anche la prima volta che viaggiava sul treno. Stette tutto il tempo col naso schiacciato sul finestrino: calanchi d’argilla, boschi e fiumi si susseguivano veloci al di là del vetro, facendolo sobbalzare di meraviglia. Ma questo fu niente a confronto dell’emozione che provò non appena il treno s’affacciò sulla costa: il mare si svelò ai suoi occhi come per magia. Gli apparve immenso, meraviglioso, molto più di come lo aveva sempre immaginato.
“Così azzurro da confondersi col cielo…”. Accolse in viso un breve sorriso, quindi esausto s’abbandonò sullo schienale della poltrona. Mi sorpresi molto a sentire quel racconto. Sin da bambino ero stato indotto da mio padre alla passione della montagna: crescendo nella convinzione che solo il silenzio incantato dei boschi o la solitudine delle cime più aspre facessero stare l’uomo in armonia con l’universo. Eppure, adesso che ci riflettevo, non rammentavo una sola volta in cui avessi sentito mio padre fare un qualche discorso sul mare. Né per dirne bene né per dirne male. Tanto strideva questa considerazione con quello che avevo appena sentito dalla sua viva voce, che mi sedusse un’idea: e se avesse custodito in fondo al cuore un amore segreto per il mare? Talmente segreto da essere taciuto a tutti? Il giorno dopo quella rivelazione feci a mio padre una proposta.
“Ti andrebbe di andare al mare?”. Non rispose, ma dal movimento sorpreso delle ciglia fece capire che gli sarebbe piaciuto. L’occasione si presentò di sabato: era piovuto per l’intera settimana e con l’autunno alle porte quel mattino sembrava fatto apposta per starsene fuori all’aria aperta. Chissà come, lo convinsi a uscire dall’esilio in cui s’era ficcato.
“Dove si va?”, chiese pimpante.
“Si-va-al-ma-re!”, gridai quasi, sottolineando le sillabe.
“Al mare! Al mare!...”, ribadì mio padre sprizzando contentezza. Arrivati sulla spiaggia non trovammo che pochi ombrelloni sparsi qua e là, gruppetti di ragazzi intenti a prendere il sole, qualche viandante perso nei suoi pensieri. Egli mi prese sottobraccio e insieme ci incamminammo lungo la battigia, accompagnati da una leggere brezza.
“Senti che profumo…”, disse. “Lo sento, papà, lo sento!”.
Papà… Questa parola riecheggiò nella mia mente da lontano. Ebbi un sussulto nello scoprire che aggrappato a me si trascinava ora lo stesso uomo del quale un tempo avevo quasi venerazione. Mosso da un antico pudore ritrassi il braccio.
“Che c’è?”, fece mio padre. “Niente, mi si era slacciata una scarpa…”. Proseguimmo tenendoci a braccetto, mentre non lontano da noi gabbiani solitari perlustravano il mare. Mi ricordarono i falchi: capitava spesso in montagna che mi fermassi per seguirne il volo, ammirato dalla maestria con la quale, padroni delle correnti, dispiegavano le loro ali come vele nel vento. Questa similitudine tra falchi, dominatori del cielo, e gabbiani, sentinelle degli abissi marini, mi spinse a pensare che in fondo il mare altro non era che la cima di una enorme montagna capovolta le cui vette bucano profondità sconosciute e intangibili.
Passeggiando, giungemmo nei pressi di una pineta. Qui, su un campetto di fortuna, dei ragazzi giocavano a calcio. Sentendone le urla mio padre chiese quale fosse il motivo di tanto baccano.
“Ragazzi che giocano…”, risposi distrattamente senza fermarmi. Allora mi strattonò il braccio e tese l’orecchio. Rigore! Rigore! Un grido si levò sopra gli altri: i ragazzi si fronteggiavano dando l’impressione di doversele suonare da un momento all’altro. Poi gli animi sbollirono e dal gruppo uscì fuori uno col pallone tra le mani: sistemò la sfera sulla sabbia, quindi fece molti passi all’indietro. Informato da me su come stava mettendosi la faccenda, mio padre chiese lumi sul tipo di rincorsa che il ragazzo stava per prendere.
“Ha preso una lunga rincorsa!” gli dissi, “e dal piede d’appoggio credo che voglia battere col destro”. “Di sicuro sparerà in cielo!”, profetizzò mio padre. Un attimo dopo, calciata di punta, la palla s’impennò altissima sulla traversa. Stupito guardai mio padre, ma restai di stucco a una sua richiesta.
“Vuoi battere un rigore?!...”. “Sì, un rigore!”. “Ma andiamo, papà!...”. “Ti prego, chiedi ai ragazzi di farmi tirare un rigore!”. Usò un tono di voce tanto supplichevole da costringermi comunque a tentare. Individuai allora quello che tra tutti i ragazzi aveva maggiormente l’aria del capo e, presolo in disparte, tentai di ammorbidirne il cuore buttandola sul fatto che dopotutto non sarebbe costato loro nulla esaudire il desiderio di un anziano signore, per giunta cieco. Il ragazzo all’inizio pensò lo stessi canzonando, poi di fronte a tanta insistenza finì col cedere.
“Fermiamoci, che il vecchio vuol battere un rigore!”, urlò agli altri traboccando di sarcasmo. “Imbecille”, lo apostrofai tra i denti. Nell’attesa che tutto fosse pronto, i giocatori fecero capannello al centro del campo. Contai undici passi dalla linea della porta e con la mano spianai giusto un fazzoletto di sabbia per poggiarvi sopra il pallone. Un vociare divertito aumentava col passare dei secondi fino a scoppiare in una risata cattiva allorquando mio padre, nel tentativo di raggiungere da solo il punto di battuta, incespicò malamente su sestesso. In porta, con fare da spaccone, s’avviò il giovanotto che poco prima aveva fallito il rigore. Mentre camminava arrotolò a mo’ di benda la sua maglietta e con essa si coprì gli occhi, suscitando altra ilarità nei compagni.
“Piantala di fare il buffone!” Sbottò mio padre. “Dai nonno, sbrigati, che non ho tempo da perdere!”, replicò duro il ragazzo, che, liberati gli occhi dalla benda, si piazzò davanti alla porta ostentando impazienza. Mio padre sfiorò la palla col piede sinistro per verificarne l’esatta posizione, dopodichè arretrò di qualche centimetro rispetto a essa facendo così capire al suo avversario che avrebbe calciato nell’unico modo per lui possibile: senza rincorsa, da fermo. Questo rese il giovanotto in porta ancora più strafottente.
“Allora, vecchio…”. L’ultima vocale gli morì in gola. Con l’istinto e la rapidità di un falco quando piomba sulla sua preda, mio padre lasciò partire un rasoterra secco e angolato che il portiere neanche provò a respingere. Restai di sale. S’ammutolirono anche i ragazzi, eccezion fatta per il portiere che, rosso di collera, inveiva a più non  posso. Dalle sue imprecazioni mio padre capì ch’era riuscito nell’impresa: sollevò le braccia al cielo,  incurante di uno che ruminava “solo culo, vecchio, solo culo!...”.
Ebbi la strana percezione che quello appena visto in azione non fosse mio padre ma la sua controfigura. Dov’era l’uomo vinto e senza speranze che suscitava la compassione mia e quella degli altri? Addirittura mi balenò nella mente il sospetto che non fosse mai diventato cieco del tutto, che a un certo punto della sua vita avesse deciso di starsene separato dalla vita stessa, stanco di guardare il mondo dalle grate di giorni sempre uguali, ordinati e spogli come camere d’albergo, cosciente d’aver sgobbato una vita intera per pagarsi la casa e l’auto nuova, nient’altro. Pentito d’aver lasciato partire i suoi sogni senza aver fatto niente per trattenerli. Forse persino deluso della famiglia. Molto, molto meglio, fingersi malato, abbandonare la partita e rinchiudersi nel proprio mondo.
Per scacciare alla svelta tali assurdi pensieri, col pretesto che si stava facendo tardi misi fretta a mio padre. Nella luce del giorno che lentamente sbiadiva prendemmo la via del ritorno, lasciandoci dietro i ragazzi che ancora increduli commentavano tra di loro l’accaduto. Rimanemmo per un po’ senza parole. Poi di nuovo il tarlo che mi si era annidato nella mente prese a scavare il suo buco.
“Ma tu sul serio sei cieco?”: rivolsi al mio padre la domanda più stupida e cattiva che si possa fare a un cieco. “Sono cieco, figlio mio, com’è vero che a te in questo momento è dato di vedere la bellezza del mondo”, rispose. Sulle prime rimasi interdetto, poi volgendo lo sguardo all’incendio del sole sull’orizzonte…”eccola la bellezza del mondo!, esclamai tronfio dentro di me. Appena dopo però provai  pietà per chi, come mio padre, non poteva goderne alla stessa maniera.
“Sono stato davvero uno stupido…”, confessai ad alta voce mentre lo abbracciavo. Un senso di sconfitta mi travolse. In tutti quegli anni non era mai successo che fossimo stati così vicini da bagnarci all’unisono della stressa lacrima. Restammo abbracciati per un minuto, forse due. Un tempo infinitamente breve ma sufficiente a cancellare d’un colpo tutta la distanza che ci separava. Il mare appariva ora tenebroso e la spiaggia completamente nuda, abbandonata alla quiete della sera. Tornando verso casa, divorato dalla curiosità chiesi a mio padre come avesse fatto a indovinare quel tiro.
“Conosci Borges?”: eluse la domanda con un’altra domanda.
“Certo che conosco Borges…”, risposi non avendo ben chiaro dove volesse andare a parare. Al di là della circostanza che fosse cieco mi parve piuttosto un argomento buttato lì a caso, tanto per glissare a una domanda impertinente. Sbagliavo.
Mio padre abdicò alla vita trascorsi tre anni, due mesi e otto giorni da quel pomeriggio. E una domenica d’ottobre, mentre  stavo mettendo in ordine la libreria mi capitò davanti un piccolo volume dalla copertina quasi nuova. S’intitolava “La rosa profonda” e Jorge Luis Borges ne era l’autore. Leggendo quel nome mi si aprì la mente: col cuore in gola iniziati  a sfogliare il libro pagina dopo pagina. A un tratto l’occhio cadde su un verso sottolineato in rosso che recitava: Sono cieco e ignorante ma intuisco che sono molte le strade”. Sullo scontrino che a quelle pagine ancora faceva da segnalibro lessi una data: 20 marzo 1995. Ricorrendo a un semplice ragionamento dedussi con certezza che quello fosse stato l’ultimo libro letto da mio padre prima d’arrendersi all’oscurità. Come se, nell’atto di consegnarsi a essa, avesse voluto fissare dentro di sé tutta la forza e la bellezza che quei versi esprimevano. Più andavo avanti nella lettura, più coglievo la bellezza del mondo nella sua essenza. Prima pensavo bastasse solo guardarlo, il mondo, per farne parte: non capivo che non noi siamo nel mondo, ma è il mondo a stare dentro di noi. Mi sedetti sulla poltrona, la sua poltrona, e ripensando a lui mi lasciai andare alla nostalgia. Per meglio farmi cullare dai ricordi chiusi gli occhi. Quando li riaprii, tra le foglie del geranio che stava di fronte, sul davanzale della finestra, intravidi meravigliosi sprazzi di rosa. Per cogliere la “bellezza del mondo” questa volta non ebbi bisogno di spingere lo sguardo fin sull’orizzonte.
                                                                                                                 
                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)


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Anzianità

I MIEI NONNI: TRA RICORDI E SPERANZE

Semplicemente, preferiamo ascoltare con gioia meditativa questa memoria inviataci, ma anche raccontataci a voce, da Flavia, piuttosto che fermarci su qualche nota di stampa che in questi giorni ha riportato la proposta di una povera persona che vorrebbe togliere il diritto di voto agli anziani perché… “a che servono? Sono il passato”. 

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Ricordo sempre i miei nonni, con grande affetto e nostalgia, custodendo gelosamente tutto l'immenso tesoro che mi hanno donato!!!Tesoro rappresentato da esperienza, consigli, proverbi, da una cultura contadina oramai in via d'estinzione che dovrebbe essere preservata e tutelata come patrimonio mondiale Unesco...

Vivo costantemente con il ricordo dei proverbi di mia nonna, con il ricordo dei suoi profumi che inondavano la casa e dei suoi gesti quotidiani, frutto di grande manualità ed esperienza. Ricordo quel viso consumato dal lavoro, con quel fazzoletto che le copriva i capelli grigi, quelle rughe che le solcavano le guance fin giù al collo e le sue mani smagrite con l'immancabile fede matrimoniale, unico monile d'oro che si concedeva. Quel suo modo di vestire, serioso, con pochi fronzoli come a rispecchiare la sua austerità di donna forte e matriarcale.

Ricordo le mani di mio nonno, uomo dalle poche parole, basso in statura ma con le mani forti e callose di chi la zappa la usava molto nonostante esistessero già i mezzi meccanici, perché diceva sempre: " il trattore non arriva dove scava la zappa". Nonni che hanno vissuto ben due guerre e che conoscevano il valore del denaro, del sacrificio e della onestà. Valori e principi, questi, che nessuno mai ci ridarà e che ogni tanto riaffiorano alla mente come quel pesce che scorgi in superficie per esplorare cosa non si sa bene ma quando lo intravedi ti rendi conto che c’è sempre qualcosa oltre la superficie, oltre l'apparenza, oltre quello che vediamo. 
Grazie a voi, nonni, per quel patrimonio inestimabile che ci avete inconsapevolmente donato e che nessuno potrà mai cancellare.
                                                                                                                                                            
                                                                                                                                                   (Flavia Ciracì)
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Storia e storie

IL VIAGGIO DELLE MONTAGNE

Avete mai conosciuto davvero, visto davvero, avvicinato davvero, la povertà e la emarginazione? O avete soltanto letto qualche romanzo commovente o qualche cronaca sbrigativa? Vi offro la opportunità di pensarci un poco di più attraverso questo “racconto di vita”, vero e vissuto.

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Si chiamava Claudina e quando sorrideva mostrava due dentoni bianchi e lucenti a mo’ di paletta, che producevano, a mio parere, un gran bel sorriso. Vestiva male: un paio di calze smagliate ed una gonna verde, abbinata ad un maglione infeltrito color caffelatte, ricordo che le durarono per un’intera stagione.
Il pullmino ci scarrozzava per una buona mezzora ad ogni corsa, tra le stradine inghiaiate e polverose della pianura e, in quel frattempo, i ragazzini, un gruppo abbastanza numeroso di ragazzini rumorosi  e boriosi, dal piglio talvolta crudele,  si divertivano a prenderla in giro, canzonandola senza pietà. Talvolta infierivano anche sul fratello, un ragazzotto più giovane di lei di qualche anno, che la fantasia tutt’altro che dolce del gruppo aveva soprannominato poco simpaticamente “Mutando” per via di certi mutandoni di cotone a costa larga, talvolta crivellati di buchi, che i pantaloni smessi da un altro fratello, ed un po’ troppo larghi per lui, lasciavano intravedere ogni qualvolta calavano troppo in basso rispetto alla vita, già di per sé non troppo sottile, del ragazzo, fermandosi sul sedere.
Claudina non accettava passivamente quella sfilza di parole e gesti poco gentili; spesso si difendeva rispondendo agli attacchi e colpiva: talvolta volava qualche calcio ed il fisico, molto più alto e robusto del mio, per fortuna, la aiutava.
Qualche volta ricordo di aver preso le sue difese, a scapito del gruppo che, a seconda dei casi, la isolava oppure la attaccava: e fu così che, in qualche modo, io e Claudina ci avvicinammo, ma senza le confidenze un po’ romantiche e segrete che le ragazze, solitamente, a quell’età si scambiano.
Un giorno venne a trovarmi; la vidi arrivare dal fondo della stradina inghiaiata, con la sua gonna verde-acceso in un nugolo di polvere, inforcando, con poca grazia e tanta fatica, una bicicletta da uomo arrugginita. Restammo insieme un intero pomeriggio tra cortili assolati e fienili impagliati, dove ci esercitammo in una corsa a finti ostacoli e ci dilettammo in giochi più adatti a due ragazzacci che a due fanciulle adolescenti. Ma con Claudina era così: il divertimento era pura allegria, scherzo, risata da cui traspariva chiara una solarità dell’anima non rivelata o forse inesprimibile con linguaggio verbale.
Un pomeriggio, al termine di una scorribanda pazza sull’argine del fiume, verso sera, decisi di accompagnarla a casa; la sua abitazione non era lontana dalla mia e, non so perché, non avevo ancora pensato di ricambiarle la cortesia della visita. Ci avviammo lungo la stradina inghiaiata e, pedalando, restavamo alla pari; il sole moriva alle nostre spalle oltre l’argine del torrente dove poco prima avevamo scorrazzato senza ritegno. Eravamo stanche e l’animo rifletteva ora una serenità quieta, pacata, ma vera e percepibile. Arrivammo finalmente alla sua abitazione: una costruzione seminuova e molto piccola nel cui cortile regnava un silenzio poco reale. Senza proferire parola Claudina mi introdusse in casa; una stanzina al pian terreno dove, in ogni angolo, oggetti i più svariati e differenti affioravano da un disordine polveroso e trasandato. Persino le due figure che in quell’istante l’abitavano parevano parte di quel senso di desolazione, tanto che, ad una prima occhiata, neppure le avevo notate nel cupo colore della stanza. In un angolo accanto alla finestra una donna, vestita con un abito scuro punteggiato di minuscoli fiorellini grigi, si perdeva seduta su una sedia troppo bassa per la sua statura: l’acconciatura, per nulla curata, mostrava una massa di capelli grigi, raccolti in malo modo sulla nuca e pendenti in ciocche ribelli e disordinate sul volto. Cuciva un paio di calzini troppo bucati e, intenta nella sua attività, non distolse gli occhi quando feci il mio ingresso nella stanza. Sul divano, steso con le gambe accavallate, un uomo dall’aspetto più giovane della madre, ma con la stessa aria abbandonata e persa, guardava alcune scene di un vecchio film muto in bianco e nero. Salutai educatamente ed uno dei due genitori mi rispose sottovoce, senza però tralasciare quella immobilità in cui pareva calato. Imbarazzata scorsi velocemente con gli occhi gli oggetti e le cianfrusaglie che riempivano la stanza: una credenza a vetri anni Sessanta straripava di carte e cartacce frammiste a bicchieri, calici spaiati e vecchie tazzine scheggiate; in un angolo, sul pavimento, in una cassetta di legno, riconobbi i libri di scuola depositati in malo modo, gli stessi che a casa mia facevano bella vista nella libreria nuova che, proprio quell’anno, mio padre mi aveva regalato.
Poi lo sguardo si diresse verso l’unica fonte di luce della stanza, la grande finestra al centro della parete di fronte; era senza tende e proiettava, proprio come un grande schermo, l’orizzonte con il suo tramonto tinteggiato e lucente. Intravidi il verde della campagna filtrato dai vetri opachi e, lontano, la mia piccola casa là in fondo all’orizzonte, che oltre ancora, confusamente, si trasformava in una striscia indistinta di alberi, prati e cielo. Mi venne d’istinto il desiderio fortissimo di andarmene in fretta da quel luogo per riconquistare al più presto quel punticino perduto e lontano. Salutai di nuovo in fretta e Claudina mi riaccompagnò all’uscita; volai sulla bicicletta e pedalai fino a non avere più respiro, mentre il cuore batteva forte e quella piccola casa là in fondo al verde ritornava piano piano più grande.
Maggio era ormai terminato; giugno portò gli esami di terza media e poi giunse l’estate. Ogni tanto ripensavo a Claudina e alla sua casa; sapevo che da quella grande finestra avrebbe potuto in qualche modo vedermi da lontano, ma non cercai più la sua compagnia né feci nulla per non perdere la sua amicizia. Poi fu il tempo delle novità e dei cambiamenti; la scuola superiore non mi lasciava più tanto tempo per giocare e la caparbietà nello studio mi incollava ai libri; uscivo sempre meno.
Un giorno capitò all’improvviso a casa mia; me la trovai davanti alla porta col suo sorriso solare. La feci entrare, poi uscimmo verso la campagna a chiacchierare. Le sorridevo come un tempo, ma ormai ero cambiata e fremevo perché il giorno dopo avrei avuto un compito di latino e un’interrogazione di storia: non potevo permettermi di trascorrere l’intero pomeriggio in sua compagnia. Si accorse del mio distacco e mi salutò col suo consueto buonumore: Anche le montagne fanno il loro viaggio quando gli esseri umani non si spostano, disse. Capii solo allora la sua maturità e la profondità saggia e segreta del suo spirito.
La vidi allontanarsi lungo la stradina inghiaiata; le montagne, lontanissime all’orizzonte chiaro sembravano partire anch’esse, definitivamente, con lei.
                                                                                                       (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Umanità

UOMINI-MACCHINE DA LAVORO?

E’ una storia vera. Appena sintetizzata, ma vera. Del resto, tanti di noi ne avranno conosciute di simili, o almeno sentite raccontare da testimoni diretti, dato che la società umana è ben lontana ancora dal raggiungere una concezione di fraternità nei rapporti sociali  e di lavoro. La nostra civiltà, per alcuni aspetti così avanzata, resta per altri incredibilmente barbara.
 
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Uscimmo dall’ufficio. Il grigiore del cielo di dicembre era sintonizzato sull’umore di Monia, il freddo e l’umidità pesanti erano presagio delle sue imminenti lacrime. Nell’osservarla provavo compassione. Il suo sguardo profondo tradiva la tristezza e delusione provata, e la rabbia che in lei stava per esplodere. I suoi begli occhi castani, così intonati con i biondi riccioli che ballavano al vento, le davano un’aria gioviale ma non mimetizzavano il suo scoramento.

“Non si preoccupi, il Suo inserimento nella lista della cassa integrazione è solo un proforma – le aveva detto il titolare – abbiamo dovuto aggiungere qualcuno dell’ufficio tecnico per giustificare lo stato di crisi”.

Lei lo aveva preso alla lettera, seppur dubitando: “Perché proprio l’unica disabile dell’impresa? C’è altra gente che ha molto meno da fare di me, qui; mentre io potrei sostituire altri, altri che non sono in grado di sostituire me; perché allora non ha inserito qualcun altro al mio posto?!”.

Lei lavorava quasi quotidianamente fianco a fianco con il titolare. Lui indirizzava e lei disegnava, e progettavano assieme case, ospedali, residenze assistenziali, alberghi. Si era sempre dimostrata all’altezza di ogni richiesta. Quel giorno però, lui non si era fatto vivo. E lei aveva ricevuto una lettera dall’ufficio del personale, con la quale l’azienda la informava che sarebbe stata in cassa integrazione per i successivi sei mesi. Lui non aveva avuto il coraggio di dirglielo, di parlarle a quattrocchi. Un affronto, un insulto, un atto che mancava del minimo rispetto.

Non parlavo perché non sapevo che dire. Lì fuori, davanti al parcheggio dell’azienda, sembravamo indifferenti al freddo, tanto gelato era il sangue nelle vene.

Marco, un nostro collega dirigente, parcheggiò e scese da un fuoristrada gigante. Portava uno spolverino in pelle nera in perfetto stile Gestapo, dal quale spuntava una testa ossuta di cinquantenne coperta da un berretto a calotta in lana nera; il suo passo rigido era sottolineato dai tacchi degli stivaletti, anch’essi in pelle nera; il suo sguardo annoiato e spento vagava intorno come foglia sospinta dal vento, evitando con accuratezza di incrociare quello di chicchessia.

“Però, Marco, che gran macchina! Nuova?”, dissi con finto fare interessato.

“Eh, sì! Proprio nuova; aziendale, però. Un affare! 47.000 euro di questo modello “full option”; e 16.000 ci è stata valutata quella macchina di tre anni”.

Pensavo alla mia auto 1.200 cc a benzina di undici anni con 240.000 km, e all’illusorietà del sogno di Monia, di trovar casa per stare con il suo compagno.

Marco ci guardava senza vederci. Continuando a vantare le caratteristiche di quell’auto, si diresse all’ingresso dell’ufficio davanti al quale si fermò, sorrise, e a mo’ di battuta ci salutò dicendo: “Il lavoro rende liberi!”.

Poi scomparve oltre, come inghiottito dalla bocca di un drago.

Faceva ancor più freddo, ora, perché il sole si rifiutava di recitare in quel dramma.

Monia mi guardò. Con un filo di voce affermò: “E’ costata 31.000 euro, il mio stipendio di due anni e mezzo!”.

Il tono glaciale e la plumbea pesantezza di quell’affermazione facevano intuire la verità recondita in quelle parole, mostrando quell’efficiente ambiente di lavoro per ciò che era: una fossa comune di cadaveri dai cuori espiantati.

Le mie corde vocali erano paralizzate. Monia si avviò con lenti passi, e in silenzio sparì dietro l’angolo similmente a un fantasma.

Mi guardai attorno. Il vento, la strada deserta, le case ingrigite dal tempo. Ed ancor più tetra mi sembrava l’umanità, capace di sacrificare una donna per una macchina, una persona per un capriccio. Con i primi fiocchi di neve a frustarmi il viso, rammentavo gelidamente l’ufficio, e il doverci ritornare mi parve come l’affrontare un rischioso viaggio verso il mondo disumano dell’Antartide.

                                                                                                  (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                            
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Internazionale

UN SOGNO LUNGO PIU' DI MEZZO SECOLO

Cosa accade negli Stati Uniti? Una lunga serie di episodi di violenza razziale, ma non solo razziale (ricordiamo ad esempio le orribili stragi nelle scuole) sembra sottolineare crescentemente che nel paese di Kennedy e di Martin Luther King, della Nuova Frontiera e delle opportunità per tutti, il lungo processo di crescita di coscienza civile, umana, sociale, unita a sviluppo economico e a visione solidale del futuro del mondo, che ha alimentato aspettative e speranze di una immensa moltitudine di persone di ogni condizione nel mondo per decenni e decenni, si stia in questi ultimi anni come arrestando e inviluppando in sestesso fino forse anche a regredire.

Contemporaneamente, il grande paese americano pare dar cenni di tramonto anche nella lidership e nell’autorevolezza che ne hanno contraddistinto il ruolo politico e culturale lungo i settant’anni seguiti al secondo conflitto mondiale. La grossolanità di stile esteriore espressa dalla presidenza Trump ne è stata come un segnale simbolico; e propone un quesito generale gravido di incognite agli americani ma anche a tutti noi, dato che anche nei nostri paesi, Italia compresa, tendono a crescere gli episodi di violenza, intolleranza e superficialità, individuali e collettive, con autori e vittime in tutte le regioni e in tutte le condizioni sociali e di età.

Leonardo Guzzo ci ripropone, nella pagina che segue, quello che fu l’effetto del grande messaggio di conciliazione e fratellanza lanciato da Martin Luther King nel 1963 a tutto il popolo americano, quando l’impressione quasi universale fu che il processo di avanzamento dei valori di uguaglianza, tolleranza e fraternità non avrebbe più conosciuto ostacoli.  

Come poter riprendere il cammino di un umanesimo più attivo e diffuso, anche se non miracolistico? In Usa come in Italia, in Cina come in Urss, in Africa come in India?
 
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Cinquant’anni. Il sogno più celebre e celebrato del XX secolo compie cinquant’anni. Era il 28 agosto del 1963 quando il pastore battista Martin Luther King junior, leader del movimento per i diritti civili dei neri americani, pronunciò al Lincoln Memorial di Washington, di fronte a 250.000 persone assiepate sulla spianata, il suo più famoso discorso.

“I have a dream”, proclamava. "Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità. Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.[...] Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme."

A concepire il suo sogno Marti Luther King aveva cominciato negli anni ’50, quando, da reverendo nel profondo sud degli Stati Uniti, aveva sperimentato in prima persona le conseguenze brutali della segregazione razziale. Ancora nel 1955 a Montgomery, in Alabama, la negra Rosa Parks veniva processata e condannata al pagamento di una multa per essersi rifiutata di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco. La risposta di King, pastore della locale chiesa battista, alla follia della discriminazione fu la nascita della Southern Christian Leadership Conference, un movimento per il riconoscimento dei diritti civili agli afroamericani, la scelta della lotta non violenta, l’elaborazione di un codice di comportamento che prevedeva “acutezza di intelletto”, per smascherare i pregiudizi, le false certezze e le astute convenienze dei segregazionisti, “tenerezza di cuore”, per infondere una superiore dignità alla sofferenza, per insegnare e ispirare negli animi più duri compassione, e poi condanna inflessibile del sistema vessatorio e insieme amore fraterno verso quanti pure erano colpevoli di alimentarlo.

In questa rivoluzione culturale risiede l’essenza del sogno di Martin Luther King, il suo capolavoro di fascinazione ideale e abilità politica, il seme di rinnovamento gettato nei meandri oscuri e putridi dell’America. È un sogno, quello di MLK, profondamente radicato nel sogno americano, nell’esaltazione dell’uomo, delle sue doti, della sua libertà, della sua aspirazione alla felicità, al di là dei limiti storici, economici e sociali; è un sogno coltivato da un perfetto eroe americano. Un idealista, uomo di fede e di testimonianza, e allo stesso tempo un abile comunicatore, lucido e determinato, un nuovo e più moderno Gandhi, capace di sfruttare la ribalta mediatica e la forza simbolica dei gesti per la sua causa di emancipazione. Da eroe americano, cinque anni dopo il trionfo di Washington, Martin Luther King sarebbe morto, assassinato a Memphis dalla pallottola di un fucile di precisione, vittima di un disperato, inutile colpo di coda dell’intolleranza razzista. Non prima, però, di aver ritirato a Stoccolma, nel 1964, il premio Nobel per la pace; non prima di aver propiziato l’adozione di leggi federali che sancivano la fine della segregazione nelle scuole, nei trasporti e nei locali pubblici e, benché solo in teoria, la piena partecipazione dei neri alla vita politica, sia come eletti che come elettori.

Dopo cinquant’anni il discorso del Lincoln Memorial resta una lezione di oratoria; spande, ancora, un’eco vibrante, vigorosa, a tratti dà i brividi. All’America, negli anni ’60, indicò la strada della “grande società”, più equa e inclusiva, fedele finalmente ai proclami illuminati dei Padri Fondatori, al mondo lascia per sempre l’immagine splendente della “grande famiglia umana” e un’idea raffinata e colossale: che la nostra libertà – la vera, esatta misura della libertà di ognuno – si realizza attraverso la libertà di tutti.
 
                                                                                                                                              (Leonardo Guzzo)
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MM

Storia e storie

LA CASA SULLA BURE

Ancora un “racconto di vita”, vero e anonimo. Il periodo di ambientamento è quello del dopoguerra, la terra è quella toscana. Quando l’Italia intera si alzò in piedi dalle sue macerie e ricostruì sestessa, superando monarchia e fascismo e realizzando la più bella costituzione repubblicana del mondo e diventando il quarto paese economicamente più forte del mondo. La ricostruzione fu durissima e mise in luce immense forze morali diffuse e operanti in tutto il paese. Erano soprattutto forze di gente comune. Nello stesso tempo, come in ogni tempo della storia umana, accanto agli innumerevoli eroi di ogni giorno c’erano qua e là le carogne di ogni giorno. Ogni persona che nasce, in ogni epoca, è infatti chiamata alla scelta fondamentale se appartenere alla famiglia di Abele o a quella di Caino. Fra molti fratelli di Abele, in questa storia, troviamo anche una figlia di Caino: che alla fine, per fortuna, è stata sconfitta.
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Nelle vecchie case alte sulla Bure, attaccate l’una all’altra in fila come a sorreggersi, la sera, seduti alla nostra tavola, facevamo grandi progetti per quel futuro che ci trovava riuniti. Era il tempo in cui i sogni davano la mano alle speranze, anche se la fame faceva ancora a picca con la miseria: era il tempo di pace, tanto bramato in quei lunghi anni in cui il mondo e le persone erano stati sconvolti dalla guerra e ancora ne portavano i segni.
Nessuno voleva più parlare del passato; la gente era pervasa da una frenesia di rinascita e la parola “futuro” riempiva il tempo e lo spazio. A volte il babbo provava a parlare del tempo passato nelle trincee o nel campo di prigionia, ma tutti gli davano sulla voce; nessuno gli dava la soddisfazione di ascoltarlo, mentre ricordava i compagni e quello che avevano sofferto in quei lunghi anni lontano da casa: così le sue care ombre restavano sospese nello spazio riservato alle cose che non hanno più importanza e che possono attendere.
L’obiettivo del babbo fu subito quello di costruire una casa nuova, pur avendo un po’ migliorato la situazione di quella sulla Bure: dal suo ritorno non pioveva più nelle camere durante i temporali, era stata ripulita la cappa del camino e quell’inverno potemmo accenderlo per cuocere le rape nel grande paiolo attaccato al gancio sopra la fiamma, senza affumicare le poche stanze. Ma era comunque troppo piccola per la nostra famiglia, e mancava dei più essenziali servizi. Ciò che ricordo con più piacere di quella casa sono le grandi travi di lego sotto i tetti delle camerette, travi alle quali erano stati piantati dei chiodi da cui, appesi, pendevano grappoli d’uva messa ad appassire per l’inverno. Solo i miei sogni di bambina potevano essere dolci come quell’uva, poiché in quel tempo anch’io pensavo che tutto sarebbe stato possibile, ora che il babbo era a casa.
Il lavoro che il babbo aveva lasciato quando era stato richiamato alle armi non c’era più: così ora dovette cercarne un altro, che trovò a Prato in una filatura, dove si recava in bicicletta. Faceva turni di otto ore giornaliere, oppure notturne, e quando era possibile lavorava anche la domenica per mettere da parte i soldi per il terreno che doveva comprare per costruire la casa nuova. In famiglia si risparmiava anche sulla miseria, e non ho mai saputo come la mamma facesse a dividere un fiammifero di legno in due o condire il pane con un mezzo “C” di olio.
Aveva ripreso vita l’orto, un fazzoletto di terra sotto il muro della strada, dove si trovava anche un piccolo prato sul quale si aprivano altri piccoli orti delle famiglie che abitavano la borgata. In quello scampolo di terra mio padre aveva piantato due file di pomodori e in luglio, subito dopo la mietitura del grano e la pulitura delle aie da parte dei contadini, c‘era il rito della raccolta dei pomodori per fare la conserva da rimettere per l’inverno.
Ricordo che si mettevano quei frutti maturi nel paiolo e, dopo averli cotti, si strizzavano fino a farne una crema rossa e densa che veniva spalmata su tavole rettangolari: per lo più erano imposte di legno tolte dalle finestre, e così riempite si mettevano a seccare sopra dei pilastri rialzati nel prato adiacente l’orto. Sotto il sole di luglio quella crema diventava densa come sangue raggrumato e rosso scuro. E quelle tavole,  viste dall’alto della strada, sembravano tante bandiere rosse, sospese come le nostre speranze.
In ottobre cominciai la prima elementare; la scuola era situata in una stanza sopra il Circolino di San Niccolò; c’erano solo una decina di banchi e una lavagna, e in un angolo una stufa di legna che non funzionava. Nei giorni più freddi, quando si provava ad accenderla, la stanza si riempiva di fumo proprio come succedeva prima del ritorno del babbo a casa.
Un giorno il babbo annunciò che aveva comprato un pezzo di terra nel centro del paese, e lo annunciò con il tono orgoglioso e trionfante di chi ha raggiunto una tappa importante della vita, e con tutta la determinazione necessaria ad andare avanti, anche se il percorso futuro si annunciava faticoso e irto di incognite. Oltre che alla volontà, la riuscita era infatti legata anche alla salute ed alla solidità del lavoro che egli aveva in fabbrica.
Passò qualche mese prima che ci fossero i soldi per comprare il cemento e infine, non appena la primavera si fece viva, l’acqua della Bure perse il colore giallognolo e il suo scorrere non fu più limaccioso e veloce: allora il babbo prese la pala e incominciò a tirare su dal greto del torrente pietre e rena, facendone due monti che crescevano di giorno in giorno. Io andavo a fargli compagnia mentre egli affondava un poco il letto del torrente togliendone piccole pietre che poi impastava con rena e cemento, e dopo aver messo in una forma rettangolare l’impasto ne faceva uscire grossi cantoni grigi che metteva a seccare in lunghe file ai piedi del muretto, sotto il canneto che costeggiava la strada e dal quale si scendeva sul greto.
La gente si affacciava incuriosita dal muro della Bure a guardare quello strano pescatore di pietre e rena. In quei pomeriggi trascorsi sul greto del torrente, mentre il babbo così lavorava e io gli ero vicina, mi lasciavo prendere dall’atmosfera di quei luoghi come da una magia. In quel tratto le libellule scendevano dall’argine già verde per salutare i pesci volando a fior d’acqua in grandi cerchi; io guardavo incantata quella danza più leggera della brezza che increspava la trasparenza verde dell’acqua, attraverso la quale si vedevano guizzare pesciolini appena nati, in gruppi ondeggianti come piccole schegge d’argento.
Le grosse pietre che servivano da lavatoio erano di nuovo allo scoperto e le donne venivano a lavare i panni con grossi secchi e pezzi di sapone, facendo impazzire l’acqua in mille bollicine bianche che si perdevano in una lunga scia soffice e spumeggiante come panna montata. Il babbo aveva fatto una passerella con grosse pietre per attraversare il torrente nel punto dove faceva una strettoia e l’acqua era bassa, di modo che io potevo finalmente andare sull’argine “soprabbure” e immergermi in quella campagna tanto agognata; mi arrampicavo lungo il muro di sostegno, poi correvo per un viottolo fra due siepi di rovi, e via per i fossi, alla ricerca delle viole a mammola e dei maggiolini che si mimetizzavano fra i pampini sopra i teneri talli delle viti.
Il paesaggio era fresco e rigoglioso, con i campi che già ondeggiavano dei primi ributti del grano come una marea verde; io stavo attenta a non calpestarlo e passavo fra i fossi, anche perché le viti che li recintavano mi avrebbero nascosta alla vista dei contadini, attenti a guardia delle loro proprietà. Quei silenzi, interrotti a tratti soltanto dal rumore del treno che passava sulla vicina ferrovia, e quel senso di infinita libertà , mi facevano sentire la voce della campagna in tutta la sua armonia; il frusciare dell’erba e delle piccole serpi arrotolate al primo sole e che al rumore dei miei passi sgusciavano via veloci, il tremito delle foglie sulle piante mosse dal vento, i ronzii dei primi calabroni e i primi voli delle farfalle… Al tramonto, quando sentivo il fischio del babbo che mi chiamava, scendevo di corsa portando delle viole e dei cesti di rapicelli.
Il babbo si riposava seduto all’ombra del canneto, vicino ai suoi cantoni, fumando una sigaretta e contemplando il suo lavoro come un artista che avesse terminato la sua opera. “Domani” mi disse una sera “cominceremo a portare i primi cantoni sul terreno dove già ho finito le fondamenta, e speriamo che il Brescio (un nostro vicino) ci presti la barroccina”. La barroccina era di legno rosso, con due ruote; sulla bandina, dove erano attaccati i manici, c’erta scritto con la vernice bianca “Lo presto domani”. Fortuna volle che il giorno dopo per noi fosse domani, così partimmo con la barroccina carica di cantoni, passando per via Serragliolo, giù giù fino al terreno. Così, con una mestola da muratore e una livella, ebbe inizio la costruzione della casa.
Per fare il cemento c’era bisogno d’acqua, che il babbo andava ad attingere ad una fontana posta all’inizio di via Travetta, una viuzza vicina al terreno; e sebbene la necessità dell’acqua non andasse oltre un paio di secchi al giorno, i vicini che abitavano le vecchie case della via non videro di buon occhio quell’uomo che, sudato e con la voce roca di fatica, andava ad attingere alla loro fonte; così un giorno il babbo ebbe l’amara sorpresa di vedere arrivare la guardia comunale che, con cipiglio risoluto, cappello in testa, divisa e tanto di libretto in mano, gli intimò di non prendere più acqua da quella fonte perché, pur essendo essa comunale, non serviva per murare e lui doveva interrompere subito ogni e qualsiasi ardire contrario.
La guardia, certo Cecchi, non seppe mai quanto dolore, oltre che umiliazione, questa cosa costò al babbo, che, da uomo tutto d’un pezzo come era, non superò mai l’onta del rimprovero, che sentì come una grossa ingiustizia, né mai perdonò a colei (immaginava anche chi fosse) che gli aveva fatto l’offesa di mandare una guardia a fermare il suo lavoro, come se fosse stato un bandito. Così si fermò il lavoro che con tanto entusiasmo era iniziato, e si dovette attendere di avere i soldi per impiantare un pozzo artesiano sul proprio terreno, dal quale attingere l’acqua necessaria. Passarono molti mesi prima che uno zampillo d’acqua sgorgasse dal pozzo, che era stato costruito da uno zio del babbo che lo faceva di mestiere; e questo permise di riprendere la costruzione di quelle mura, che crebbero a vista d’occhio.
Il lavoro nella fabbrica, quando il babbo faceva le nottate, gli permetteva di dedicarsi alla casa per tutto il giorno, anche se così facendo dormiva pochissimo; e una notte, mentre puliva la filanda, non si accorse di aver premuto il pulsante della messa in moto: e la grande macchina partì schiacciandolo dentro.
Fui svegliata la mattina alle sei da un compagno di lavoro del babbo, che dalla strada andava gridando che c’era stato un incidente in fabbrica e che il babbo era in ospedale a Prato. Vidi partire la mamma in Vespa con lo zio Guido, seguita dalla disperazione della nonna Morina e mia.
Si era fratturato il bacino – ci dissero – ma non era in pericolo di vita; però ci sarebbero voluti molti mesi e molte cure per farlo camminare di nuovo. Allora non esisteva la cassa mutua per gli operai: così, se uno non lavorava non riscuoteva la busta-paga; ci salvò, in quel tempo, la solidarietà dei compagni di lavoro del babbo, che ogni quindici giorni ci inviavano, tramite Alemanno, il suo più grande amico oltre che compagno di lavoro, il ricavato di una colletta che ci permise di sopravvivere.
Le gambe del babbo erano tenute alte e avevano dei pesi alle caviglie per farle stare in trazione, e io, ogni volta che lo andavo a trovare nel suo letto, pensavo che solo Gesù Cristo sulla croce poteva aver avuto il suo sguardo desolato. Ma, come avevo sentito dire dalle nonne mentre sedute nell’aia facevano la treccia, “nella vita sempre bene non può andare e sempre male non può durare”; così anche questa burrasca passò e un bel giorno sereno il babbo, con la costanza e la forza del bisogno, riprese a murare finchè non arrivò al tetto della costruzione.
Erano trascorsi alcuni anni ancora e io avevo finito le scuole elementari e avevo incominciato a lavorare, prima in uno stanzone dove facevo i cannelli per i telai, e poi ai telai stessi. Questo mi permise di aiutare il babbo nella finitura della casa, e fui contenta quando lo sentiti dire che con i miei soldi aveva comprato le serramenta. Erano trascorsi circa otto anni dall’inizio della costruzione, durante i quali era nato il mio primo fratello e un altro era in arrivo; ora che la casa era finita, io ero una ragazzina di circa tredici anni e mi apprestavo a tornare a vivere, con la mia famiglia, in quella casa nuova.
Era a un solo piano, a baiadera, la casa nuova, e anche se non era molto grande aveva due belle camere, un salotto e i servizi, una bella porta d’ingresso di legno massello,  le persiane verdi e anche un poco di terreno sul retro e una striscia di giardino davanti, con tre piante di rose rosse che spuntavano dalla ringhiera sopra il muretto che la recintava. La casa aveva quelle comodità alle quali non eravamo abituati e che resero molto piacevole abitarvi. Ero contenta della luce soddisfatta che illuminava lo sguardo del babbo, in contrasto a quella della mamma sempre scontenta di qualcosa.
Mi sentivo tuttavia, nello stesso tempo, sradicata dal mio torrente e privata delle mie amiche, e mi sembrava di dover vivere con mezzo cuore, poiché l’altro mezzo era rimasto sulla Bure, accanto alla nonna Morina e a tutte le cose e alle persone semplici che avevano riempito la mia infanzia e che mi portavo dentro: i colori trasparenti dell’acqua della Bure in primavera, i bagliori e i falò sul greto quando si bruciavano le foglie secche del canneto, le voci delle persone che si chiamavano per soprannome, o quelle di noi bambini quando le sere d’estate si correva nelle prode del grano maturo dietro alle lucciole cantilenando: “Lucciola lucciola vien da me, ti darò il pan del re, pan del re e della regina, lucciola lucciola vien vicina”
                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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Storia e storie

COME HO CONSCIUTO DON LORENZO MILANI

Pubblichiamo questa testimonianza con la semplicità di stile e l’anonimato con cui era stata presentata, molti anni fa, nell’ambito del “Premio Prato Raccontiamoci”.

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Mai avrei immaginato che quel pomeriggio di un sabato come tanti altri avrebbe segnato tanto la mia esistenza.
Quando, insieme alla mia ragazza, avevamo scelto quel film intitolato “Un prete scomodo”, avevo solo qualche vago ricordo dei discorsi sentiti in famiglia riguardo a don Lorenzo Milani.
Sarà stato che a diciassette anni ci si nutre ancora di grandi ideali e si crede possibile cambiare il mondo, sarà stato per la grande interpretazione fattane da Enrico Maria Salerno, fatto sta che all’uscita dal cinema mi resi conto che quello che avevo visto era già dentro di me, e adesso lo sapevo.
Nei giorni seguenti continuammo a parlarne e decidemmo di visitare Barbiana appena possibile; fu di domenica e un Mugello vestito d’autunno fece da cornice a quella esperienza indimenticabile; abbandonata la strada statale, dopo alcuni chilometri di strada immersa nel verde ci apparve Barbiana, il “Paradiso” di don Milani, una chiesa di campagna a cui si stringe la canonica: ecco tutto il suo mondo, la prima scuola di emancipazione dei poveri, la realizzazione di un modello che ancora oggi anima e scuote le coscienze degli insegnanti migliori.
L’anno seguente, alla fine dei miei studi, affrontando la prova di italiano don Milani “segnò” ancora la mia strada: era il decennale della sua morte ed una delle tracce dateci per i temi chiedeva di parlare della sua vita.
Non so dire se fu il mio miglior compito di italiano, ma fu certamente il più sentito e appassionato che abbia mai scritto. Era il 1975 e negli anni seguenti approfondivo quanto possibile la mia passione con la lettura dei pochi libri che questo straordinario uomo ci ha lascito; poi nel 2006 ci fu la nostra prima  "marcia di Barbiana".
Avevo scoperto l’esistenza delle marce per via della passione per lo scrivere, partecipando al concorso “Rilettura di Lettera ad una Professoressa quarant’anni dopo”.
Quando poi, a fine febbraio 2008, ricevetti un nuovo invito a scrivere quello che don Milani mi aveva lasciato dentro l’anima, fui assalito dal dubbio che questa volta la cosa mi riguardasse, visto che si trattava di concorso indirizzato “a singoli cittadini adulti, in particolare insegnanti”.
Una frase però mi aveva colpito in particolar modo: “Fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze”; la leggevo e la rileggevo dentro di me, e infine trovai la risposta; a Barbiana la parola “insegnante” non era un titolo, ma l’accezione più semplice e genuina di chiunque trasferisce il proprio sapere ad un altro per aiutarlo a migliorarsi e si sente gratificato da questo; non è importante dove si insegna, è importante come lo si fa, lo spirito che ci anima; è importante insegnare quello che si sa, quello che abbiamo scoperto o che altri ci hanno insegnato: deve essere un modo di vita ed è questa la scossa di fratellanza che dall’epicentro di Barbiana fa crollare il muro della nostra indifferenza. In questo testamento pedagogico vi è tutto il significato dell’esempio di don Milani, tutta la sua modernità, il porre l’uomo al centro in una visione che lo avvicina al miglior Fromm.
Sotto questa luce così umana decisi di parlare della mia esperienza professionale senza timore di apparire un “maestro” ma felice di aver scelto un modo di vita ispirato alle nostre radici più profonde, dove il mutuo aiuto era la normalità e gli anziani ogni giorno insegnavano ai giovani, spesso senza necessità di parole, la loro esperienza nel lavoro della terra e nella cura dell’ambiente.
Nei primi anni Settanta, ancora studente appena quattordicenne, iniziai a lavorare di pomeriggio in una  officina e mi trovai abbastanza perplesso nel confrontare due mondi così diversi come quelli della scuola e della fabbrica: nel primo tutto era finalizzato, per definizione, all’insegnamento, mentre nel secondo, dove c’era veramente tutto da imparare, sembrava che tutti volessero insegnare il minimo.  
Mi accorsi subito che vigeva un sistema tipo “bottega medioevale”, cioè gli apprendisti, come me, ruotavano nell’orbita di operai anziani specializzati, veri maestri da cui attingere il mestiere ma chiedendo il meno possibile, perché, come nel Medioevo, l’allievo migliore veniva considerato quello che riusciva ad imparare “rubando con gli occhi”, mentre il chiedere spiegazioni era interpretato come indice di poco acume.
Nessuno lo ammetteva ma si avvertiva, più o meno forte a seconda del carattere del “maestro”, una forma di protezionismo del sapere, una paura di insegnare troppo, di perdere il primato, di essere superati dall’allievo.
Io, nonostante ancora non vedessi il mondo attraverso le lenti che poi mi ha regalato don Milani, avvertivo il disagio di questa situazione e soprattutto quanto fosse discriminante una selezione di quel genere in un ambiente dove si andava tutti per la necessità di guadagnarsi la giornata.
Inevitabilmente i meno dotati o i meno veloci nell’imparare venivano bocciati silenziosamente, destinati a compiti di sola produzione materiale o manovalanza, e finito il periodo di “apprendistato” simili compiti sarebbero rimasti appiccicati loro addosso come una condanna per tutta la vita senza altra possibilità se non quella di cambiare genere di lavoro.
Ebbi la fortuna di non essere fra questi, la natura mi aveva infatti regalato una grande passione per quel mestiere e una buona capacità di imparare, per cui con il passare degli anni divenni in grado di insegnare a mia volta quello che avevo imparato; nel frattempo avevo letto molto di Barbiana e le mie convinzioni avevano preso forza e adesso poggiavano su una base solida; scelsi allora di fare il capo officina nella convinzione che si potesse farlo meglio, diversamente da come vedevo intorno a me, puntando sul rispetto generato dalla capacità e non sull’autorità imposta, mirando alla crescita professionale dei ragazzi che sarebbero venuti a lavorare con me; non era un progetto speciale, era secondo me l’unico modo in cui si potesse lavorare umanamente, cercando per quanto possibile di sviluppare le capacità di ognuno, accettandone le diversità senza penalizzarle ma aiutando a far capire ad ognuno l’importanza del proprio compito all’interno  del gruppo di lavoro.  
Fu più precisamente al ritorno dal servizio di leva che iniziai a perseguire questo obiettivo; accettai l’incarico di formare l’officina interna di una piccola azienda di strumentazione elettronica; era quello che sognavo, partivo da zero, eravamo io ed il signor Dino, un pensionato tuttofare, un uomo di una semplicità unica nonostante fosse il padre del mio “principale”; poi arrivò mio padre, un tornitore eccezionale, a darmi una mano negli ultimi due anni che gli rimanevano prima della pensione.
Iniziai a far assumere giovani, uno alla volta, il gruppo cominciava a formarsi, ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie esperienze scolastiche o di lavoro, ed io cercavo di svilupparne le capacità insegnando tutto quello che sapevo e che imparavo ogni giorno dai nostri due “vecchi”.
Quando, dopo venti anni, decisi di concludere questa esperienza, insieme all’inevitabile malinconia per qualcosa di irripetibile che finiva c’era la grande soddisfazione di vedere che i ragazzi di un tempo erano cresciuti, insieme ci eravamo migliorati e adesso erano in grado di proseguire da soli e di insegnare a loro volta.
Oggi che, cinquantenne, lavoro in una realtà più grande, umanamente arida e molto diversa, ripenso spesso a quel percorso senza ricordare il peso degli anni lavorati duramente ma con soddisfazione, quella soddisfazione che dà il tempo speso bene; e continuo quando possibile ad insegnare quello che so perché sono convinto che quando non si ha più voglia di imparare ed energia per insegnare si è veramente vecchi ed inutili agli altri ma soprattutto a sestessi, una pianta che non dà più frutti e non si rigenera alla propria ombra.
                                                                           
                                                                                                   (Anonimo, in ricordo e per proseguire l’esempio di don Milani)

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Esperienze

STORIA DI CLAUDIO

Lo conosciamo da tanto ed in tanti, don Viscardo, in questa nostra realtà romana. Prete per convinzione e vocazione profonde, ogni tanto ci racconta qualcosa di ciò che gli accade. Volutamente il suo linguaggio è sempre quello poco aulico e molto popolare della comunità nella quale vive e della quale condivide i problemi.
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Gesù disse anche questa parabola: "Un tale aveva un albero di fico piantato nella vigna e venne a cogliervi frutti, ma non ne trovò. 
Allora disse al vignaiolo: Sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico e non ne trovo mai. Taglialo. Perché sfruttare così il terreno? 
Ma quello rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai (Vangelo secondo Luca, capitolo 13).
  • Te la senti?
  • Che vuol dire “te la senti”? Non mi conosci?
  • Beh, andare venerdì non solo al processo, ma pure a trovarlo al carcere di Civitavecchia, non è proprio il meglio per te. Fai il parroco, mica sei in pensione.
  • Che discorso mi fai? È oppure non è importante che io vada là? L’avvocato sei tu; dimmelo chiaro: vuoi che vada, sì o no?
  • Scherzi? Per un affare del genere la testimonianza di un prete, per di più parroco e sulla breccia, conta il doppio, te l’assicuro.
  • E allora vado e stop. A che ora? Anzi, no no; aspetta: fammi appuntare le cose importanti che dovrei dire in udienza.
Michele è un giovane avvocato, non proprio alle prime armi ma, insomma… insomma a lui gliene danno parecchie di grane da “avvocato d’ufficio”. Certe volte senza beccare una lira.
 
  • Ecco, sì: prendi una penna che ti detto i passi più importanti.
È per un povero diavolo. Claudio. Claudio fa su e giù da Rebibbia a Viterbo a Regina Coeli e appunto a Civitavecchia. Piccole cose, un balordo. E pure sfigato. Quasi sempre lo beccano.
Quella volta l’avevano preso che guidava un’Ape, ovviamente rubata, mentre usciva da un vivaio dell’Aurelia Antica. Dodici vasi di ciclamini, aveva fregato. Pensa tu che reato... Lì vicino c’era stata in passato una rapina col morto… e allora avevano fatto due per due e ci avevano infilato pure il fascicolo di quello scemo di Claudio.
 
Udienza:
  • Reverendo, come lo conosce, che ci dice di Claudio?
 
Era entrato tutto incatenato a una ragazzina. Pensa tu: una zingarella che al Verano faceva razzia di borse alle donne che cambiavano l’acqua ai fiori. Incatenati come due schiavi del film Quo Vadis. Da morire dal ridere (si fa per dire).
 
  • Beh, presidente, Claudio…. Claudio è un ragazzo… che vuole… un po’ disturbato, incostante, nervoso. Praticamente randagio. Con un’infanzia non facile da raccontare. Qualche volta càpita in parrocchia da noi. Mangia e dorme da noi e poi… poi per un po’ sparisce.
  • Fa il sagrestano?.
 
 
- Ma no, presidente, che sagrestano, non so neanche se crede… A noi… non ci piace chiedere troppo. Se possiamo diamo una mano: un piatto, un letto,stop. Ora per Claudio abbiamo iniziato un progetto di lavoro. Farà l’arrotino, signor presidente. A giorni dovrebbe arrivarci una bicicletta attrezzata. Un ragazzo ingenuo, Claudio, in fondo un bravo ragazzo, stupido sì ma non cattivo. Presidente, rispondo io....
  • Lo affido a lei, reverendo… Guardi che è l’ultima volta. Lei lo sa che Claudio ha una fedina lunga come I Promessi Sposi?
 
                                                                                                   °°°°°
  • Perché non mi dici mai niente di te, Claudio? Sei nato a Roma?… Uhm non parli tanto bene il romanesco spinto… mi sa di no… I tuoi genitori?
  • Ma che me stai a chiede, ma che me voi prenne pel….a Viscà? Ma quali genitori. Io nun so manco dove so’ nato. Certo a Roma no, un po’ de romanesco lo mastico, sennò  sarebbero guai peggio. No, io so’ Claudio e basta. E nun so  gniente, nun conto gniente e nun ci ho niente. E soprattutto nun me ne frega gniente, vabbè?
  • Neanche, che so, una casa-famiglia?
  • Uuhhh, ancora. Peggio me sento. So’ scappato da tutte, Viscà, scappo sempre io, lo voi capì? Le quattro mura me soffocano e le regole…oh Dio le regole, e fai questo e non fare quest’altro e lo psicologo e l’assistente sociale e il mezzo giudice. No guarda, nun è… ste cose nun so’  proprio pe’ me. Te dirò: sto’ mejo in galera. Almeno ci ho un letto, tre pasti caldi, sigarette che nun mancano mai e di tanto in tanto sì, di tanto in tanto pure un po’ de roba. Quella vera però. Quella speciale quella costosa, ma pe’ noi lì dentro aggratis. Perché nun te crede, Viscà, il carcere, te lo dico in perfetto italiano, per chi ci sa vivere, è un mondo. Fai amicizie, gente sincera, di parola. A me m’avevano praticamente adottato. Che se fai il carogna te massacrano ma se fai il bravo vivi bene. Certo comandano i capi, mica le guardie. Che nun te se filano proprio. Mejo così.
    Che voi sapé? Dicono che m’hanno raccorto da un cassonetto ma nun è      vero, so’  tutte stron…io so n’artra storia. Viscà: sarà che mì madre, da poraccia che era, non ce l’avrebbe fatta a tenemme. Ecco. Che colpa je do? Che t’ho da dì, càpita no? Càpita a un sacco de gente, e lì dentro a quer mucchio ce sto pure io, Claudio. È andata così. Volontà di Dio: non dite così, voi preti?
 
La bicicletta arriva.
 
  • Claudio, beh come va, come ti trovi, va bene? Ti danno lavoro? La bici?
  • Ah, sí, la bici… la bici… la bici purtroppo s’è rotta, Viscà. L’ho portata dal meccanico. Me la ridà dopodomani.
 
Capisco subito che se l’è bella e venduta! Claudio era quello che era e, a suo modo, ci era grato, riconoscente. Serviva a tavola. Gliene fossero rimaste due sole di sigarette, una era per Franco, che a quel tempo ancora fumava.
 
Citofono.
  • Chi è?
  • - Sono Marco. Viscardo, vengo su?
 
È Marco, il maresciallo di polizia che lavora al Commissariato di via Cavallotti.
  • Vieni, Marco. Mangi con noi?
  • No, scappo: m’aspettano a casa. Per …
 
E ride. “Pure voi eh, pure voi avete messo su un piccolo business? Eh, reverendi?”.
  • Ma che dici? Marco…
  • E che ci ho, qui nel pacco? Ci ho un tesoro, Viscardo. Ma pensa te. Io a Porta Portese non mi ci allungo praticamente mai, la domenica mattina. Stamattina mi dico quasi quasi m’affaccio…. No, non è possibile. Che ti vedo? Di sguincio, oh Signore, mi pare lui, ma sì, è proprio lui, quel ragazzo che ogni tanto ospitate. Come si chiama… Eccola qua. Non è… come la chiamate?…”.
  • Sì è ‘una pianeta’ da messa, quelle ovali, noi le chiamiamo scherzando ‘le pianete a mandolino’. Si usavano prima del Concilio. Caspita, ma è di valore. Ma sì, credo un fine-Settecento. La regalò  Pio XI nel ‘35 quando inaugurò  la parrocchia qui al Gianicolense. Portata di peso dalla sagrestia di San Pietro. Arrivò insieme alla bella pala d’altare della scuola di Raffaello che vedi nell’abside.
  • E insomma, ti dicevo, stava già contrattando… che io comincio a strillare” Ferma, ferma, fermaaaa!”. E il bancarellaro che trema come una foglia, e lui…lui sparito in un lampo. Ma, dico io, li tenete così a portata di mano questi tesori, Viscardo?
Due-tre giorni e tornava. Feci finta di niente. Sarebbe servito solo a umiliarlo e io a passare da pappa e ciccia con gli sbirri.
  • Viscardo, stasera, ecco qua, pe’ cena v’ho portato una bella torta… come si chiama? Mimosa, ecco, sì, una bella mimosa. Oggi non è la festa di Franco? La prima fetta a Franco. Auguri.
La pasticceria Desideri a via Carini ancora la piange, la bella mimosa. Insomma, Claudio ladruncolo, sì, ma di cuore...

Così una bella mattina vado per dire la messa e in punta di piedi allungo il braccio per prendere il mio piccolo calice. Un regalo della mia ordinazione sacerdotale. Quando nel ‘61 feci l’ultima notte per lei al Policlinico, a mamma la fede gliela sfilai dal dito appena spirata: prima che gliela fregassero giù in sala settoria. La feci poi incastonare sotto la coppa del mio calice per tenerla sempre con me.
 
  • Dov’è? Franco, Andrea, sapete dov’è finito il mio calice?…
Mi guardano sconsolati.
  • No. Stavolta però glielo dico, ci tengo troppo alla fede di mamma.
  • Ma che, era d’oro? - mi fa lui con quel sorrisetto malandrino - . Perché non me l’hai detto? L’avrei venduta meglio, no?
 
Mi mette la mano sulla spalla.
  • Giuro, Viscardo, che stavolta avrai tutto e pure di più. Te la riporto, promesso, mano sul cuore e se non è quella, una che le somiglia.
  • Ma no, Claudio, no. Credo che non fosse… sì, la fede d’oro credo l’avesse regalata al duce nel ‘36 al tempo delle sanzioni. L’oro alla patria. Lascia perdere, per favore. Hai capito? Te lo ripeto, lascia perdere, Claudio.
Non mi sbagliavo. Lo fregarono per sempre in una rapina (a mano armata ma con pistoloni giocattolo) a una gioielleria di viale Marconi. Erano in tre. A lui, nel palmo della mano sinistra, gli trovarono una fedina d’oro.
                                                           
                                                                                                                         (Lauro Viscardo)
 
                                                                                      °°°°°
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Persona e lavoro

CASSAZIONE: ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO IN GRAVIDANZA

Risale al 2017 (fu scritta allora in seguito a una freschissima sentenza della Corte di Cassazione) ma la pubblichiamo ugualmente ora in estratto per il suo interesse sostanziale, questa nota della giuslavorista Manuela Lupi, specializzata di lungo corso nella delicata materia. Non sappiamo se nel frattempo la Corte di Cassazione abbia emanato sul tema altra sentenza: ma l’autorevolezza del ragionamento che questo tribunale supremo esprime resta comunque punto di riferimento per la chiarezza delle dinamiche generali in atto nel nostro mondo del lavoro, in relazione ai diritti e doveri fondamentali della persona.
 
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La Corte di Cassazione ha affermato la illegittimità del licenziamento adottato da un datore di lavoro durante il periodo di gravidanza della lavoratrice: licenziamento deciso per chiusura di reparto.
Nella sentenza la Suprema Corte motiva tale nullità in quanto l’art. 54 del D.Lgs n. 151/2001, nel prevedere una tutela delle donne in stato di gravidanza, vieta sia il licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino ad un anno di età del bambino sia il licenziamento del padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità in alternativa alla moglie.
E’ da notare che il divieto di licenziamento non si applica peraltro nei casi di colpa grave da parte della lavoratrice, tale da costituire giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro.
Nel caso che ha dato origine al pronunciamento della Corte di Cassazione di cui parliamo, il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento di una lavoratrice addetta ad un centralino (call-center), motivandolo con la chiusura del reparto nel quale operava: il tutto nel quadro di una procedura collettiva di riduzione di personale.
La Cassazione ha affermato appunto che le eccezioni rispetto ai principi generali che vietano il licenziamento vanno interpretate in senso rigoroso, atteso che la tutela specifica predisposta dal legislatore tende ad assicurare un bene, quello della maternità, garantito dalla nostra Carta Costituzionale.
Con tale decisione viene confutato un precedente indirizzo espresso in una sentenza della stessa Cassazione emanata nel 2004, con la quale si era sostenuto che la cessazione dell’attività aziendale, che poteva giustificare il licenziamento, fosse applicabile anche alla chiusura di un reparto dotato di autonomia funzionale.
                                                                                             
                                                                                                                                       (Manuela Lupi)

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Storia e storie

IL RAPTUS DI GSEPP

Triste storia vera, come tante altre. Esiste la bellezza, nel mondo, esiste il bene, ed esiste il male. Diffuso da sempre negli anfratti più impensabili della nostra società. La stupidità e la violenza, fra l’altro, hanno sempre colpito ciecamente i deboli: donne, come in questo caso, bambini, malati, anziani indifesi, poveri. Cambiano i tempi e le forme ma non siamo sicuri che si indebolisca la sostanza di tanta stupidità e violenza. Il racconto di vita che qui pubblichiamo ci presenta un quadro sociale risalente nelle sue linee generali a molti decenni fa, ma tuttora presente in qualche anfratto delle nostre realtà sociali.
 
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Oggi dal mio Ipod, mentre ero in macchina, ho ascoltato un vecchio motivo dei Rolling Stones: Heart Stone (Cuore di Pietra). E’ stato il mio gruppo preferito, il gruppo che mi ha fatto sognare e vivere storie indimenticabili. Nella canzone, Mick Jagger racconta che lui ha conosciuto tante ragazze che ha fatto piangere e soffrire, e tutto a causa del suo cuore di pietra. Ed è così che, ascoltando la canzone, è riemersa nella mia memoria una strana storia, quella di un heart stone bonefrano. Il mio paese natale è infatti Bonefro.
Qualche giorno fa sono andato a fare un giro da mio fratello Nicola. Eravamo fuori sul balcone a prendere un caffelatte e a raccontarci storie del passato quando ho rivisto, dopo tanti anni, un nostro compaesano, Gsepp Colomb. Abita di fronte alla casa di mio fratello. E’ sempre solo, mi dice mio fratello. Era seduto sulle scale della sua casa, tutto assorto in sestesso. Gsepp emigrò in Canada nel 1957 in compagnia di sua moglie Evelina e di suo figlio. Gsepp è una persona di poche parole. La sola volta che gli ho parlato mi ha raccontato di quando lui e suo fratello non si scambiavano una parola nemmeno quando mangiavano. Era la sua maniera di farmi capire che sarebbe stata l’unica conversazione che avrebbe avuto con me. Questo spiega che tipo di uomo era: un tipo ferreo, taciturno, tutto di un pezzo.
Per conoscere tutta la forza del carattere di Gsepp Colomb bisogna tornare un po’ indietro col tempo. Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Evelina era una giovanissima ragazza e una delle poche fortunate: era andata a scuola. Aveva quasi terminato le elementari e abitava lungo il Corso Guglielmo Marconi, vicino al Pont Don Saverio. Era una bella ragazza, formosa. Negli anni ‘50 andavano di moda le donne formose: se volevano sposarsi, bisognava avere un fisico forte per lavorare la terra e crescere i figli; quelle troppo snelle restavano zitelle, a meno che accettassero di sposare un vedovo oppure… quello che passava il convento.
A diciotto anni Evelina aveva dei sogni come tutte le ragazze e i ragazzi della sua età. S’innamorava dei protagonisti dei fotoromanzi e leggeva ogni settimana Grand’Hotel. Si era innamorata del protagonista di Grand’Hotel Massimo Ciavarro. Un giorno, di nascosto, come tantissime ragazze, Evelina riempì il formulario per diventare attrice di fotoromanzi e lo spedì alla direzione di Grand’Hotel: ma per sicurezza aveva preso anche a seguire un corso di ricamo con telaio e uncinetto presso le suore, nel caso che il suo sogno non si realizzasse. Sperava di avere un ragazzo tutto per sé a cui pensare la sera, prima di addormentarsi. Finalmente si innamorò di Nicola Massa. Tutte le volte che la incontrava per strada lui le puntava gli occhi addosso. La sera si metteva vicino alla fontana aspettando che lei andasse a prendere l’acqua. Ogni domenica mattina si vedevano in chiesa. Lui cercava il suo sguardo. Lei sorrideva arrossendo. Questo era abbastanza per farla sognare.
Poi un giorno arrivò quello che Evelina non avrebbe mai immaginato. I suoi genitori avevano un progetto per lei: le dissero che la mamma di Gsepp Colomb era andata a casa loro per domandare se la ragazza voleva sposare suo figlio. Evelina non sapeva cosa fare né cosa dire. Era disperata ma non le lasciarono il tempo di pensare: “u’ ferr zi vatt quanne è call” (il ferro si batte quando è caldo) disse subito suo padre. Le spiegarono che Gsepp era un buon partito: aveva qualche pezzo di terra ed in più era uno dei fortunati che poteva emigrare in America, in particolare in Canada. Andare in America in quei tempi era come vincere l’Enalotto: tutta la famiglia avrebbe avuto la possibilità di emigrare.
Soprattutto la mamma di Evelina, la cui cugina lavorava e viveva da sola a Toronto, e le aveva scritto che in America le donne non sono schiave degli uomini e sono rispettate, insisteva. Quando Evelina cercò di dire che lei voleva bene a Nicola e che non se la sentiva di sposare Gsepp, suo padre la fece zittire subito dicendo che Nicola Massa veniva da una famiglia nullatenente e le ricordò che a decidere era lui, mentre sua madre le parlava dell’America. Accettarono l’offerta della mamma di Gsepp, e così si fece il matrimonio.
Nel frattempo, Nicola partì per il servizio militare. Fare il militare in quei periodi significava essere una persona normale, un vero uomo. Essere riformato invece era una disgrazia: chissà che malattia ha? Chissà se può avere figli? Per quelli che erano accettati nelle forze armate era come vincere al lotto: era l’occasione per andare fuori casa, andare in città, prendere il treno, imparare un mestiere, finire le elementari, ed in più si poteva andare a far visita alle donne “libertine”, quelle che operavano nei bordelli). Per molti era insomma l’occasione per vedere una donna come l’aveva fatta sua madre. A volte s’innamoravano di quelle donne. Nicola restò in varie caserme per 28 mesi: imparò a parlare italiano e finì le elementari. Ogni settimana comprava il suo fumetto preferito, Tex Willer. Alla fine del servizio militare tornò a casa e una sorpresa lo attendeva: la sua Evelina, che aveva immaginato accanto a sé nelle sue notti di solitudine in caserma, si era sposata con un altro.
Nessuno aveva previsto che al loro primo incontro accadesse quello che accadde. Un giorno di febbraio Gsepp ed Evelina erano a Santa Croce, paese vicino al loro, e aspettavano la corriera per tornare a Bonefro. Gsepp pensava di trasferirsi a Santa Croce, dove lavorava da qualche mese in una fabbrica di tegole. Il caso volle che anche Nicola aspettasse la corriera per far ritorno a Bonefro. Gsepp salì per primo per trovare due posti per lui e sua moglie: dopo entrò anche Nicola con l’altra gente, e infine entrò Evelina, che camminò verso il sedile dove era seduto Gsepp. Attraversando l’autobus lungo il corridoio incontrò Nicola che era rimasto in  piedi. Lui, dimenticandosi di essere a Bonefro e comportandosi come fosse in una città dove normalmente si saluta una persona che si conosce, la guardò e le disse buongiorno. Lei gli rispose abbassando gli occhi e andò verso il sedile dove era seduto Gsepp.
Ed è lì che successe il patatrac: Gsepp aveva visto la scena, Nicola aveva salutato sua moglie e lei gli aveva risposto. Le mani gli tremarono e il viso in fiamme. Appena il pullmann si mise in marcia, approfittando del rombo del motore, come preso da un raptus, ricordandosi che Nicola era stato lo sposo immaginario di Evelina sentì di colpo il suo cuore volergli uscire dal petto, tirò fuori di tasca un coltello (arma preferita dei bonefrani) e con un gesto fulmineo assestò una coltellata al fianco sinistro della moglie.
Evelina non gridò, non emise un gemito, e per un attimo il fiato le mancò. Nessuno si accorse del gesto fatto dal ferreo Gsepp; sorpresa, Evelina barcollò, ma non cadde. Con una mano si teneva il fianco ferito, e con l’altra afferrò il manico del sedile per sedersi. Si coprì con lo scialle lungo tutto il tragitto Santa Croce-Bonefro. Quando arrivò a Bonefro, scese per ultima. Suo marito uscì per primo, ancora sconvolto per quel comportamento di sua moglie.  Evelina scese dall’autobus lentamente, senza dare segno di debolezza, anche se pensava che era sul punto di morire, e andò a casa di sua madre. Entrò in casa e appena varcò la soglia cadde per terra. Sua madre, come se qualcuno l’avesse avvertita, capì tutto. La trascinò sul letto, la spogliò, lavò la ferita, la disinfettò con l’alcol e con molta pazienza la ricucì. Poi andò in casa del farmacista per chiedere dei medicinali per il dolore, per evitare che si creasse un’infezione. In quei periodo le donne bastonate, violentate, ferite, non si recavano dal dottore ma si recavano a casa del farmacista fingendo di essere cadute per le scale. Questo per evitare che il dottore facesse un rapporto sulla violenza subita dalla paziente.
Il giorno dopo, la mamma di Evelina uscì di casa per andare dai carabinieri e denunciare quel delinquente di suo genero; camminando sulla lunga strada ripida pensava al carcere, al disonore, alle donne di Bonefro e alla sua unica figlia. Confusa, si fermò per un po’ di tempo in chiesa. Disse il rosario, invocò la Madonna decine di volte. Infine decise di recarsi da quel farabutto di suo genero: andò per dirgli che aveva oltrepassato i limiti e per poco non gli ammazzava la sua unica figlia. Gsepp, ancora sotto l’effetto del raptus, appena la vide le disse: “Dove è quella puttana di tua figlia?”. La mamma provò a replicare ma lui subito aggiunse: “Questo è stato solo un avvertimento. Con il mio onore non si scherza. La prossima volta se si ripete la stessa cosa ti giuro che non rivedrai più quella zoccola di tua figlia viva”.
                                                                                                                     
                                                                                                                              (Anonimo, Premiopratoraccopntiamoci)
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Lavoro

IN TEMA DI FLESSIBILITA' DEL LAVORO

Il telelavoro (smartuorking, come spesso lo chiamate voi in dialetto) ha riaccentuato il tema della flessibilità del lavoro sull’onda emergenziale della pandemia da covid, rischiando di farlo percepire, appunto, come problema emergenziale, e non già come problema strutturale e stabile della economia e del lavoro nella società del ventunesimo secolo. Prima della pandemia, d’altro canto, il tema era prevalentemente distorto da una prospettiva ugualmente sbagliata e confusa, cioè quella di uno strumento, più o meno sindacalmente negoziato, da mettere a disposizione delle aziende per renderle più competitive nel mercato globale, compensandone in qualche modo i lavoratori. Giustamente Giambattista Liazza puntualizzava già, in questa riflessione del 2017, la natura assolutamente strutturale del tema, legata alla complessiva intelligenza ed efficienza della civiltà del lavoro.
 
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Proviamo a riflettere sinteticamente su ciò che si può intendere dalle affermazioni che circolano in bocca agli “addetti ai lavori”.
 
  1. flessibilità in entrata, ovvero disponibilità a fare qualunque lavoro;
 
  1. flessibilità in uscita, ovvero possibilità di essere licenziato anche senza giusta causa o giustificato motivo.
 
 
Un po’ di storia
 
Era già dagli anni Settanta/Ottanta che si riteneva in crisi la prospettiva del posto fisso e infatti si tentava di tutto nelle aziende per evitare le assunzioni a tempo indeterminato. Il mercato ne soffriva e la disoccupazione giovanile era notevole. Come logica conseguenza, infatti, cominciò l’epoca del contratto di formazione e lavoro che favorì appunto un sensibile incremento dell’occupazione giovanile. Quasi tutte le aziende vi facevano ricorso, era anche un modo per valutare in un periodo adeguato le capacità dei soggetti assunti.
 
Poi negli anni 1990 arrivarono le nuove forme di ingresso nel mercato del lavoro con diverse regole contrattuali come ad esempio il contratto a progetto. Questi provvedimenti furono introdotti dal ministro del lavoro di allora Tiziano Treu in accordo con le forze sociali e con la classe politica. Bene o male si capiva che il mercato del lavoro era ingessato e quindi inadeguato all’evoluzione socio-economica, tecnologica e generale del paese e del contesto mondiale.
 
La situazione non poteva reggere ma non c’era sufficiente coraggio da parte di tutti per affrontare radicalmente e seriamente il problema, lo stesso che ci fa tanto soffrire oggi. Non dimentichiamo che le Brigate Rosse (ma chi erano realmente costoro?) hanno ucciso uomini di competenza e valore che si occupavano per conto dei governi di allora (anni 1980/1990) di cambiare questo sistema. Ma invece di rafforzare l’impegno a riformare, i politici hanno continuato a pasticciare, e oggi siamo ancora qui alle soglie di decisioni che verranno prese comunque e sotto la mannaia del risanamento di un debito che pagheremo tutti in modo molto oneroso.
 
Vi è una considerazione da fare sul sistema del collocamento in Italia, il quale risaliva a matrici ideologiche e quindi era regolato da leggi inadeguate, concepite nell’immediato dopoguerra (uffici di collocamento, liste a chiamata numerica e limitatissima possibilità di assunzione a chiamata diretta, obbligo di nulla osta, ecc.). Non parliamo poi di un sistema di formazione professionale di tipo assistenziale, costosa, poco produttiva. Qualunque proposta di ammodernamento in questo strategico settore urtava contro gli interessi consolidati di sindacati, enti pubblici, privati, speculativi di ogni tipo (vi furono molti casi di manette), ecc. Un sistema ingessato che nessuno aveva il coraggio di cambiare, mentre l’economia e il mercato del lavoro mutavano radicalmente e cosi la società, che mostrava un più elevato livello di scolarità, di tenore di vita, di aspettative. Qui il ritardo e le titubanze della politica furono deleteri, quasi fatali, perchè hanno di fatto innescato quei problemi che oggi sembrano irrisolvibili o verranno risolti con compromessi o atti d’imperio che lasceranno  insoddisfatte tutte le parti in causa.
 
La flessibilità
 
Il posto cosiddetto fisso è superato da molti anni e resiste un equivoco sulle relative interpretazioni. Cerchiamo di fare chiarezza. Il cosiddetto posto fisso non esiste più. E’ da molto tempo ormai che diviene difficile se non impossibile pensare di fare lo stesso lavoro per tutta la vita o almeno nella stessa organizzazione per tutta la vita. Allora il problema è un altro: non il posto fisso ma la certezza di avere lavoro per tutta la vita. Lavorare per organizzazioni diverse, magari anche in luoghi diversi, ma per tutto il tempo necessario a garantire un percorso, una carriera, un traguardo pensionistico. Questo aveva già detto anche Monti ma la stampa aveva preferito enfatizzare una supposta ironia fuori luogo del premier. Ormai in Italia siamo fatti così, abbiamo bisogno di fare sensazione, è questo universo mediatico che ci rende difficile un’opinione seria sui problemi che ci riguardano.
 
Vogliamo nasconderci allora che molti pensionati sono ancora in grado di lavorare e lavorano in occupazioni diverse da quelle praticate fino alla pensione? E cosa dire di molti cassaintegrati che utilizzano il tempo divenuto libero in lavori diversi da quello usuale, e magari obbligatoriamente in nero? I giovani studenti poi si arrangiano in tutti i modi per mantenersi agli studi e non per meritarsi l’appellativo di sfigati da un politico inadeguato e raccomandato (diventato cioè per raccomandazione sottosegretario di Stato nello stesso governo Monti).
 
E’ questa la flessibilità invocata per superare la nostra crisi di competitività? Riteniamo di no. Così facendo si resta nella confusione e nella precarietà. E non riteniamo neppure che l’annoso problema si risolva modificando leggi e contratti sindacali: sono almeno trenta anni che sapientoni e maneggioni si esercitano sulla materia senza produrre risultati utili alla gente e alla nazione per un sistema più competitivo. Tarantelli, D’Antona e Biagi ci stavano provando con un approccio da studiosi seri, ma per questo ci hanno lasciato la pelle per opera di queste strane Br. Vogliamo riflettere su questa barbarie? Chi ha interesse che le cose non cambino in questo paese, chi vuole impedire che l’Italia si ammoderni per il bene di tutti?
 
La flessibilità delle risorse produttive non è nelle leggi e nei contratti che semmai, prendendone atto, ne devono regolare l’utilizzo. La flessibilità deve essere nelle persone, nel loro modo di pensare e di agire e per questo essere allevate e orientate a divenire flessibili per disposizione, per scelta e non per costrizione legislativa o contrattuale. Se un contratto obbliga alla flessibilità un soggetto rigido, immaginiamo il risultato da stress permanente. Oppure la situazione contraria. Crediamo che la natura si ribelli a certe scempiaggini.
 
A nostro avviso il problema è che per parlare di flessibilità si devono considerare innanzitutto le persone e la loro disposizione ad essere attivamente flessibili. Altrimenti, qualunque sia la legge che le riguarda, saranno passivamente scontente, insofferenti, terribilmente frustrate. Chi aiuta le persone, i giovani in particolare, ad essere flessibili?
 
La famiglia? La scuola? Il modello organizzativo prevalente applicato nei luoghi di lavoro? il management privato e pubblico arrivato spesso al vertice non per i meriti ma.......? La classe dirigente politica e amministrativa a tutti i livelli? Il sistema delle raccomandazioni?
Perchè chi lavora all’estero dice che lì è tutto diverso? La nostra prevalente cultura gerarchica e autoritaria a tutti i livelli esprime un sistema niente affatto flessibile ma è in questi sistemi che il soggetto ”flessibile” dovrebbe muoversi.
 
E’ vero che si valorizzano i talenti nelle organizzazioni?
 
Potremmo dilungarci ancora ma è meglio non perdere di vista il problema della flessibilità.
 
Se poi non pensiamo ai giovani ma ai quaranta/cinquantenni espulsi dal sistema produttivo, di quale flessibilità parliamo? Cosa ci aspettiamo in materia di flessibilità? Educare e formare persone predisponendole alla flessibilità, compatibili con un sistema meritocratico ad alta produttività e competitività, è davvero essenziale.
 
Abbiamo titoli di studio legalmente riconosciuti, cui si perviene spesso da percorsi tortuosi, diversi, addirittura illogici e incomprensibili. Allora che senso hanno? A nostro avviso è importante ciò che una persona è, cosa sa fare, quali responsabilità sa prendersi, quali risultati è in grado di produrre. Garantito il diritto allo studio per tutti, sono la natura, le opportunità, le qualità di una persona che fanno la differenza.
 
Temiamo che il sistema da noi non voglia essere moderno ed adeguato. Facciamo un esempio: capita che un operaio o un impiegato di un’azienda sia scarsamente considerato e ritenuto poco meritevole di valorizzazione; poi si scopre che nell’organizzazione della protezione civile, da volontario, è un ottimo organizzatore, un capo stimato e seguito, molto affidabile, un vero lider, ecc. Qualcosa non torna; cosa non va? Eppure ci sono moltissimi casi del genere. Perchè questo operaio è così bravo fuori dal luogo di lavoro e magari dimostra da volontario qualità che sarebbero utilissime alla organizzazione che lo retribuisce?
 
Forse non abbiamo abbastanza attenzione alla persona, al suo saper essere, al suo divenire, come pare invece che accada più frequentemente in altri paesi più pragmatici,  ad esempio in Usa. Se penso alle operaie licenziate dall’Omsa di Faenza, che successivamente nella loro lotta hanno rivelato temperamenti addirittura artistici, mi chiedo quali delle loro risorse siano state effettivamente utilizzate dalla loro azienda, che invece le ha lasciate in mezzo a una strada. E’ flessibile, il nostro sistema produttivo, oppure è tradizionalmente rigido e in ritardo,  almeno nella maggior parte delle imprese, soprattutto le piccole, che sono la maggioranza?
 
Anche il sindacato si è distinto spesso, in questi anni, per rigidità e conservatorismo. Se non  cambia non si dimostra una risorsa utile per cambiare il paese, per renderlo più moderno, agile e competitivo, nell’interesse di tutti e non solo di qualcuno.
 
Le persone si trovano, prevalentemente, di fronte ai contenuti del lavoro, scarsamente preparate, e debbono sforzarsi molto per muoversi agevolmente. La tecnologia ha camminato più velocemente dei sistemi scolastici e formativi in genere. Si impara in azienda secondo processi e prassi che vanno assimilate in fretta, spesso acriticamente. Più subendo che conquistando. Le procedure divengono le guide di comportamenti e prestazioni: si fa così, o cosà, e così ancora: ma non dovete chiedere mai perchè, chiederlo non è percepito come segno di partecipato interesse ma come segnale preoccupante di insofferenza all’ordine costituito. I capi sono fatti così nella maggior parte dei casi; non sono disponibili o capaci o disposti a spiegare, insegnare, convincere. Meglio far finta di aver capito.... Ma è proprio giusto così?
 
Conoscete diplomati che inseriti nel lavoro trovino la loro preparazione scolastica veramente utile, adeguata ed in linea con le mansioni cui vengono adibiti?  A nostro avviso la frattura fra scuola e lavoro è ancora significativa e non aiuta a risolvere il nostro problema.
 
                                                                                         (Giambattista Liazza)
 
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Storia e storie

MIO PADRE

Piccolo e disadorno quadretto di esperienza personale e familiare, che non fu premiato allo storico Concorso pratese, ma che ci segnala un problema sociale vero, a volte drammatico, antico e non del tutto raro. Per la nostra consapevolezza e responsab ilità umana ed educativa.

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Quest’anno febbraio è arrivato con il suo consueto fardello di neve, creando il solito bellissimo paesaggio. Ma quella sera il vento gelido ululava per la valle, adagiando qua e là i suoi fiocchi di neve. Rincasando dal lavoro mi affrettai ad accendere il camino e dopo un po’ la legna scoppiettava, esalando i suoi fumi. Il mio gatto Fuffi, sdraiato accanto a me, faceva le fusa, beato di assaporare il tiepido calore, ed io, seduta alla scrivania, ero impegnata nella correzione del compito in classe dei miei alunni.
Pensai a questo mio secondo anno da insegnante, che aveva appagato tutti i miei sacrifici, dato che avevo impegnato tutto il mio tempo tra lo studio e l’osservazione dei bambini che creavano ogni giorno novità da scoprire e meditare.
Il tema che avevo dato da svolgere riguardava la famiglia: titolo “I tuoi genitori”; nei racconti i ragazzi esaltavano soprattutto la figura paterna con trasporto e amore, anche se adoravano non meno la mamma.
Mi addolorai però leggendo l’ultimo compito: la bimba parlava del legame tra lei e la madre, di una reciproca devozione che però veniva rattristata dalla mancata figura paterna, che la piccola non aveva mai conosciuto. Lentamente, copiose lacrime rigarono anche il mio viso: capivo l’amarezza del cuore di quella bambina per l’inferiorità di quel sentirsi senza padre.
E come la capivo! Lo avevo già fatto, quel percorso pieno di tristezza, e per mia sensibilità questo argomento mi era di un dolore particolarmente acuto.
Mia madre, una donna taciturna, difficile da capire, aveva in me una figlia con scarsa abilità a leggere la sua mente, e del resto lei non parlava quasi mai, alle mie domande si chiudeva in un silenzio assoluto mentre io aspettavo risposte che non arrivavano mai.
Da quella ragazzina introversa che ero non avevo avuto amicizie, mi allontanavo da tutti per paura che si scoprisse questo mio segreto dolore. A scuola mi arrabbiavo se le ragazze, parlando a bassa voce, mi additavano con occhiate di compassione come forse solo i bimbi sanno fare.
Convinta di aver seppellito tutto in fondo al cuore, ecco, leggendo il piccolo tema della mia alunna,  riaffacciarsi ora lui, quel padre al quale la mia mente aveva dato mille volti senza nome, e che le righe scritte da una bimba avevano reingigantito con amari ricordi.
Chiusi il quaderno perché invasa da emozioni troppo forti; la mia vista si era un po’ appannata e pensai di chiedere ancora una volta di mio padre per capire se ero una figlia indesiderata, ma erano tante le domande collegate con questa… “Ma a che scopo? – pensai; - Al cuore non si può comandare, forse, e ci si deve rassegnare…”.
Con questi pensieri mi avviai verso la mia cameretta, lasciando tutto al nuovo giorno che bene o male, tra problemi e gioie, avrebbe riempito quel vuoto creato a me da una vita di quesiti senza risposta. Tuttora presenti.

                                                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                    
                                                                                                  °°°°
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Diritti e doveri

LAVORO: NON UN SEMPLICE "VALORE FRA GLI ALTRI"

Mi hanno detto che sono forse un poco esagerato: ma resto convinto che hanno torto. Anche gli amici più stretti. Ne sono veramente convinto: il lavoro è un diritto soggettivo in senso stretto, anche giuridicamente parlando, ed è, correlativamente, un dovere altrettanto stretto. Così è perché lo è, innanzitutto, in senso morale ed in senso politico. Se qualche amico, come pure è accaduto, vuole per questo tacciarmi di “comunista”, io, mai comunista e sempre democraticocristiano, preferisco accettare senz’altro la taccia e confermare la mia convinzione.  La paginetta che segue fu scritta nel 2013, se ricordo bene, ed era destinata a un convegno.
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Tutte le volte che mi hanno chiesto: “Quale è per te la cosa più importante nella vita?”, sapendomi cattolico si aspettavano che io rispondessi “la famiglia”.
Ma non ho mai risposto così. Ho sempre risposto invece “il lavoro.
Perché se non hai il lavoro la famiglia non puoi neanche creartela, e se ce l’hai non avverti davanti ad essa serenità e dignità. Né di padre, né di marito, né di adulto. E non puoi darle serenità e dignità. Come fai a farne la cosa più importante della tua vita e della società?
Senza lavoro non c’è dignità umana.
Dunque non c’è neanche società ordinata.
Dunque non c’è neanche ordinamento giuridico che meriti di essere rispettato.
Questo è lo stato d’animo tendenziale di chi è senza lavoro. Abituiamoci a esaminare i problemi, ogni giorno, mettendoci nei panni di chi li vive!
Non è affatto un caso se il lavoro è messo a fondamento della nostra Costituzione: al suo inizio e al suo centro.
Piero Calamandrei, padre costituente, in un suo famoso discorso agli studenti precisò bene, sostanzialmente, che il “diritto al lavoro” è un vero e proprio diritto soggettivo della persona, non una semplice legittima aspettativa del cittadino. 
Il diritto al lavoro è per il pensiero democratico cristiano coessenziale al diritto alla libertà, alla democrazia, alla giustizia.
Il lavoro è la prima forma di solidarietà sociale. Vincolante come diritto e come dovere.
Il pensiero di ispirazione cristiana è in questo senso naturalmente alternativo al pensiero dell’economia liberista pura e semplice.
                                                                                                                                    
                                                                                      (Giuseppe Ecca)

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Politica

CATTOLICI E POLITICA: E' RICOMPONIBILE IL DIVORZIO?

 
Il titolo può sembrare stantio, ripetitivo, persino noioso. Ma Giuseppe Bianchi lo sottopone ad argomentazione particolarmente solida, non limitata ai consueti rilievi sociologici, ma spinta alla ricerca di una risposta fondata su ragioni più strutturali e di lunga gittata. Del resto, a nostro parere, fino a che una risposta chiara non venga data dalla stessa oggettività degli eventi del nostro paese, il quesito resta di importanza altissima, e non solo per l’Italia.
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L’occasione creata dal centenario della fondazione del Partito Popolare, ad opera di Don Sturzo, ha riproposto l’impegno dei cattolici in politica che, come è noto, è proseguito con la Democrazia Cristiana, asse centrale del Governo per oltre quarant’anni.
Una cultura ed una rappresentanza oggi dispersa sul piano politico con significative presenze rimaste nelle organizzazioni di volontariato. Analoga sorte è capitata ad altri movimenti politici laici portatori di culture altrettanto solide e consolidate sul piano della rappresentanza.
Fenomeno questo evocato come crisi delle ideologie del Novecento di cui i partiti erano espressione con le loro identità collettive in cui motivazione, ideali e azione politica si sostenevano tra loro, almeno nella rappresentazione offerta al comune cittadino. Sarebbe inutile ora parlare di questo passato se il presente non evidenziasse segni di regressione nella vita politica e civile del Paese.
Il dato emergente è che la politica post-ideologica, avviata da Berlusconi e proseguita dalle successive maggioranze per arrivare a quella attuale, ha assunto un connotato fortemente utilitaristico basato su uno scambio tra benefici economici e consenso politico. Nuove offerte politiche, in concorrenza tra di loro, che si fanno carico di offrire protezione al cittadino, disorientato di fronte alle nuove sfide della precarietà sia essa economica che valoriale.
Due sono gli effetti di accompagnamento di questa evoluzione politica: il cittadino non più partecipe della galassia dei corpi intermedi che, soprattutto a livello locale, lo legavano alla politica, cerca nuove identificazioni in qualcuno che lo rappresenti e lo rassicuri; la nuova concorrenza tra i partiti per acquisire consenso si realizza nella generosità delle promesse che avallano una concezione totalizzante della politica, destinataria esclusiva dei bisogni dei cittadini.
Questa riaccreditata concezione di Stato Provvidenza, alla prova dei fatti non ha prodotto i risultati attesi: sia in termini di soddisfazione dei bisogni economici ed occupazionali dei cittadini, sia in termini di risposta alle inquietudini derivanti dalla messa in discussione di consuetudini e di credenze sfidate dai nuovi sviluppi scientifici la cui irradiazione coinvolge l’insieme del loro vissuto.
A questo punto diventa legittima una domanda: questa politica ha le energie morali per offrire un futuro al cittadino visto che non tutto è riconducibile a decisioni politiche ispirate dalla razionalità economica (reale o presunta) e/o dalla soddisfazione degli interessi individuali?  Conseguente l’ulteriore domanda che ci riporta al tema iniziale: la cultura cattolica può contribuire a rendere le nostre società più sicure e solidali? Dal punto di vista astratto la risposta non può che essere positiva: per la centralità che viene data alla persona ed ai gruppi in cui si riconosce che riposiziona la politica al servizio dei loro obiettivi; per il rilievo accordato ai valori del pluralismo sociale, della sussidiarietà con cui sconfiggere l’isolamento dei cittadini facendoli partecipi di una rete di aggregazioni comunitarie.
Sul piano pratico tale prospettiva si presenta più problematica. Improbabile un nuovo partito dei cattolici, oggi minoranza dispersa, improponibile un ritorno nostalgico alla Democrazia Cristiana esaurita dal troppo lungo governo, fragile l’ancoraggio alla dottrina sociale della Chiesa alla luce dei mutamenti strutturali intervenuti.
Una soluzione può essere offerta da un rinnovato appello, a cent’anni da quello sturziano, agli uomini liberi e forti che condividono ideali di libertà e di giustizia e che si riconoscono nei fondamenti dei valori cristiani.
Un appello rivolto ai cattolici praticanti, ma anche ai cattolici insofferenti nei confronti delle prescrizioni ecclesiastiche troppo limitative delle loro condizioni di vita.
Un appello per un comune impegno culturale, prima che politico organizzativo, che accresca la consapevolezza pubblica della modernità e dei problemi inediti che essa produce sui diversi piani della vita in comune, grazie ad un supplemento di virtù che l’umanesimo cattolico può portare alla politica. I cittadini per partecipare alla politica chiedono che non solo i loro interessi ma anche che i loro valori, i loro progetti di vita trovino accoglienza nel dibattito pubblico nella condivisione delle procedure democratiche che ne determinano l’esito.
Questo circuito virtuoso di partecipazione presuppone cittadini informati e consapevoli che la pratica dei doveri è il presupposto per il godimento dei diritti.
                                                                                                                (Giuseppe Bianchi)
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Storia e storie

SOLIDARIETA' PRATESE

Piccola storia vera di città, memoria da salvare nella sua semplicità affinchè le nuove generazioni continuino a imparare che c’è sempre qualcosa di buono che possiamo fare per noi e per la comunità in cui viviamo, e che in fondo è quasi sempre il cuore che fa i miracoli. La traiamo dagli “Inediti del Premio Prato Raccontiamoci.
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Questa è la storia di alcuni pratesi che nel gennaio del 1951 decisero di dotare l’Ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato, del “Polmone d’Acciaio”. Si trattava di un macchinario all’avanguardia per quei tempi, usato con efficacia in tutti i casi in cui occorre la respirazione artificiale: e sono tante le patologie in cui può essere impiegato per salvare vite umane. La cittadinanza rispose con grande solidarietà all’appello, con donazioni piccole e grandi che in meno di due mesi raggiunsero la cifra record di due milioni delle vecchie lire. L’ospedale fiorentino di Careggi ne era già dotato e la stampa aveva riportato la notizia di questo macchinario che riscuoteva successo nel campo medico e salvava vite umane.
Per ritrovare questa storia pratese, rimasta viva dopo tanti anni nella mia memoria – io sono della classe 1927 e all’epoca del fatto che racconto ero milite della Pubblica Assistenza L’Avvenire – si deve tornare indietro più di mezzo secolo, quando Prato risorgeva dalle rovine della guerra e iniziava una nuova epoca che avrebbe cambiato la nostra città non solo nel tessuto sociale ma anche in quello lavorativo e generale, soprattutto con l’arrivo di tanti immigrati, e tutto il territorio avrebbe subito mutamenti grandi. Era l’anno 1951, appunto, avevo 24 anni ed ero appassionato di fotografia, ero impiegato alla fabbrica tessile Lenzi di Gabolana, a Vaiano. La sera quando tornavo dal lavoro mi fermavo volentieri allo studio fotografico dei coniugi Massai in via Ricasoli, a Prato, a fare quattro chiacchiere con la signora Nadina, che era una vecchia crocerossina e si occupava di volontariato.
Frequentava lo studio fotografico anche Giuseppe Giagnoni (detto Beppe) giornalista della Nazione, che ci informava soprattutto sulle ultime notizie. Il nostro argomento di conversazione una sera fu la novità del Polmone d’Acciaio già in funzione all’ospedale di Careggi. “Perché non attivarsi per acquistare anche per il nostro ospedale pratese quel macchinario così necessario?”. Decidemmo allora di costituire un comitato per raccogliere fondi e dotare appunto anche il nostro ospedale di questo prestigioso “polmone d’acciaio”.
In poco tempo aderirono al comitato il presidente della Pubblica Assistenza dottor Loengrin Payer, Giuseppe Giagnoni presidente del gruppo Stampa, Ferdinando Cetica, anche lui giornalista della Nazione, Nadina Massai crocerossina, Mario Baroni commerciante, il sottoscritto Renzo Tonfoni impiegato, Ivan Ventisette sottofilatore, Gloria Godi proprietaria del cinema Rosson, Manfredo Santini edicolante, Alimo Cocci industriale, Ferdinando Turreni rappresentante. Fu nominato presidente del “Comitato per il Polmone d’Acciaio” il dottor Marino Luchetti industriale. Spero di non aver dimenticato nessuno. E’ giusto ricordarli tutti.
Formato il comitato, per prima cosa interpellammo il ragionier Paris Masti, all’epoca direttore amministrativo dell’Ospedale, il quale accettò con gioia la nostra iniziativa. Essendo il ragionier Masti anche segretario amministrativo della Pubblica Assistenza offrì la sede per le nostre riunioni. All’inizio le offerte non furono molte e allora decidemmo di rivolgerci alla stampa per sollecitare i cittadini. La prima notizia dell’iniziativa venne pubblicata sul quotidiano “Il Mattino” del 21 gennaio. Spiegava l’utilità di questo apparecchio medico scrivendo: “L’iniziativa di dotare il nosocomio di Prato del Polmone d’Acciaio è sorta da alcuni militi della “Pubblica Assistenza L’Avvenire” e da alcuni cittadini che si sono uniti subito a loro. Ma l’apparecchio costa una cifra non indifferente, quindi il Comitato che ha preso questa bella e lodevole iniziativa ha sentito il bisogno di lanciare attraverso la stampa cittadina un appello ai pratesi, che in verità non sono mai rimasti insensibili di fronte a simili necessità. Ed ecco le prime offerte: C.C. lire 500; Calvano 150; Montemoni in memoria di Maria Poccianti 500. Ulteriori offerte possono essere versate all’edicola Santini in piazza del Comune sotto i loggiati, che ancora una volta si presta per uno scopo nobilissimo”.
Mentre sulla Nazione dell’11 febbraio 1951 si legge: “Molti consensi e interessanti iniziative per acquistare il Polmone d’Acciaio;  lo spettacolo Giramento del Mondo ritorna al Metastasio, all’Apollo si sta preparando una festa danzante. Si cammina a grandi passi verso il milione!”.
I pratesi risposero con generosità e velocità, e il 18 febbraio il giornale La Nazione pubblicò ancora: “La somma per l’acquisto del polmone d’acciaio è stata raggiunta ieri”, con nel sottotitolo “Le cospicue offerte di due industriali pratesi e l’attesa per la Rivista Goliardica al Metastasio (organizzata dagli studenti del Buzzi), nonché la festa danzante all’Apollo”. In seguito fu presa l’importante decisione ulteriore di acquistare anche il “Polmoncino d’Acciaio” (incubatrice). A sorpresa, due fratelli noti industriali pratesi, Agostino e Giuseppe Canovai, che avevano un lanificio in San Giorgio angolo via Cavallotti, consegnarono personalmente al comitato un assegno di lire 750.000.
Fu proprio questa ultima donazione che accelerò i tempi, oltre a quella della signora Godi che donò l’incasso di due serate del cinema Rosson, in Corso Mazzoni. Questo ci diede l’impulso a intensificare ancora di più l’attenzione della cittadinanza e finalmente la cifra fu raggiunta e anzi superata e fu deciso di acquistare perciò anche la “Culla Termica”, che ancora mancava in maternità; e addirittura avanzarono ancora dei soldi, che furono spesi per l’acquisto di biancheria, dato che l’ospedale ne era carente. Finalmente arrivò il fatidico giorno dell’inaugurazione, con nostra grande soddisfazione.
Il quotidiano Il Mattino del 27 febbraio 1951 riporta la notizia che “è stato inaugurato il nuovo reparto ortopedico ed è stato benedetto anche il “polmone d’acciaio” che la cittadinanza pratese, in pochi giorni, anche per il munifico contributo dato dai fratelli Agostino e Giuseppe Canovai, ha reso possibile realizzando l’iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese.  
L’inaugurazione avvenne dunque il 26 febbraio del 1951, insieme a quella del nuovo reparto ortopedico. Il giornale del 27 febbraio riporta: “La cerimonia svoltasi domenica mattina ha raccolto una gran massa di invitati e di popolo. Gli onori di casa sono stati fatti dal Commissario Prefettizio marchese Degli Albizi, dal segretario dell’Ospedale rag. Pari Masti, dal direttore dell’Ospedale e del corpo sanitario. Fra i numerosi presenti abbiamo notato: il comm. Avvocato Vanni in rappresentanza del Prefetto; l’on. Senatore Guido Bisori; il pretore avvocato Massimiliano Malenotti e Mario Luchetti presidente del comitato per il “Polmone d’Acciaio”; il sindaco ragionier Roberto Giovannini con gli assessori Adriano Pucetti, Pietro Zella, Ugo Cantini, Tarquinio Fini; il commissario capo di P.S. dott. Cesare Tarantelli; il maresciallo Luigi Nesti comandante interinale della tenenza dei carabinieri; i consiglieri comunali Leopoldo Pieragnoli segretario della locale sezione della Dc e Pietro Giusti; il prof. Alighiero Ceri presidente della Pro Prato; Giuseppe Giagnoni presidente del Gruppo Stampa Pratese; il presidente della società Corale “Guido Monaco” e presidente del Conservatorio “S.Caterina”; Michele Vinattieri; il presidente della società Corale  Giuseppe Verdi rag. Fernando D’Agiana; il presidente dell’Istituto “Rosa Giorgi” Giovanni Bacci; rappresentanti del Cif; rappresentanti dell’Udi; Lorenzo Ferroni rappresentante dell’Onmi anche in rappresentanza del presidente; il direttore della Cassa di Risparmio cav.Gastone Lenzi; l’ing. Tommaso Gatti; il cav. Alfonso Carlesi ufficiale sanitario; l’ing. Lorini; Angelo Pugi presidente della Casa di Riposo, con il segretario cav. Gracco Bruschi; il segretario della Casa Pia dei Ceppi dott. Arnaldo Gradi; la signora Nadina Massai che tanta parte ha avuto in tutta la preparazione; il prof. Vito Mori consigliere comunale; il prof. Sante Pisani direttore sanitario dell’ospedale; il prof. Aurelio Angeli chirurgo primario con l’intero corpo medico; Dante Lastrucci proposto della Misericordia; il dott. Payar presidente della Pubblica Assistenza “L’Avvenire”; il comm. Silvano Bini presidente della Croce d’Oro; l’intero comitato del Polmone d’Acciaio. Dopo la benedizione del nuovo reparto ortopedico il vescovo di Prato e Pistoia, monsignor Giuseppe De Bernardi, accompagnato dal vicario generale della diocesi mons. Eugenio Fantaccini, si è recato a benedire il polmone d’acciaio. Nel discorso del commissario prefettizio poi si legge: “Il nostro Ospedale deve assai alla collaborazione dei cittadini, che, ad iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese, hanno offerto il Polmone d’Acciaio”.
Alcune delle prime notizie apparse sulla stampa circa l’utilità di questo macchinario: sul quotidiano La Nazione del 20 gennaio nella cronaca di Firenze si legge: Per un caso di congestione, un paziente è stato sottoposto alle cure opportune fra le quali il trattamento con il polmone d’acciaio”. Mentre sulla Nazione del 15 marzo del 1952, in quarta pagina, alla cronaca di Prato, si riporta quanto segue: “La culla incubatrice in funzione al nostro ospedale. Quando si trattò di acquistare tra gli apparecchi spitalieri anche la culla incubatrice in virtù di quella non ancora dimenticata sottoscrizione per il “polmone d’acciaio” rilevammo la piena soddisfazione della nostra cittadinanza nel dare in donazione al nostro ospedale anche questo necessario mezzo moderno per i neonati prematuri per i quali prima si doveva ricorrere a Firenze al Mayer. In questi giorni un caso notevolmente specifico si è presentato agli occhi dei nostri sanitari, perché tale culla potesse essere usata nella sua essenziale funzionalità. Si tratta di due gemelli dati prematuramente alla luce dalla signora Zita negli Innocenti. I neonati, Piero e Paolo, grazie alle amorevoli cure dei medici e del personale ospedaliero, disposti immediatamente nell’incubatrice sono ormai salvi e continuano a sopravvivere in un ambiente come quello naturale, che potrà condurli al normale periodo di gestazione”.
Personalmente sono stato felice di aver contribuito anche solo in minima parte all’acquisto dell’incubatrice. Quando nel 1966 è nata la mia secondogenita ed ha passato il suo primo mese di vita nell’incubatrice, essendo nata sottopeso, ho capito quanto sia stato importante quello che avevano fatto i cittadini di Prato con la loro generosità. Il reparto di maternità, diretto con grande professionalità dal prof. Ruindi, già a quel tempo era dotato di diverse incubatrici moderne e funzionali.
                                                                                                                                     (Renzo Tonfoni)

(Ricerche di archivio alla Emeroteca della Biblioteca Lazzeriniana in Via del Ceppo Vecchio a Prato).

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Formazione

15 SETTEMBRE 2021: PARTE FORMAITALIA

La nota che segue è per tutti gli amici di Studisociali e per tutti gli interessati e appassionati alla grande e cruciale tematica della formazione profonda e integrata delle persone.

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Cari amici,

finalmente, dunque, parte Formaitalia, la formazione profonda e integrata per le persone (e per il paese).

Ne avevamo preannunciato l’inizio, volutamente e quasi provocatoriamente, per lo scorso luglio, alla vigilia del periodo delle vacanze,  con sede provvisoria… in un bar, proprio a significare l’assoluta libertà, il massimo decondizionamento, la dominante intenzione di qualità integrale, ma anche la non ulteriore procrastinabilità dell’iniziativa.

Le vicende covid hanno suggerito una piccola dilazione tecnica ma ora la data è fissata definitivamente per il 15 settembre 2021, alle ore 10, in Roma, al numero 51 della via Ostiense, duecento metri dalla stazione Piramide della metropolitana. Questa sede di inizio ci viene offerta dagli amici della Flaei, cui da tempo quasi immemorabile mi legano anche personalmente sensibilità, amicizia e attività di studio e formazione intensamente condivise.  

La domanda di una simile formazione integrata si è fatta sempre più intensa in questi anni, spinta particolarmente da ambiti legati alle iniziative di ripresa di un impegno politico di ispirazione cristiana per il nostro paese, ma anche da numerose persone di diversificati ambiti di impegno civile e sociale, accomunate dall’interesse al tema della crescita personale e comunitaria in chiave di umanesimo integrale.

In avvio, la formula prevede semplicemente un incontro al mese, in data e ora fissa, e della durata di non più di due ore, al massimo tre. Non è una formazione che prevede costi per i partecipanti: come per qualche altra iniziativa in passato (abbiamo utilizzato questa formula per la costituzione del piccolo gruppo di DemocraziaComunitaria) viene chiesto un euro (un euro, alla lettera) come valore simbolico di adesione e consapevolezza, e per rispondere a qualche possibile esigenza minima di materiali da fotocopiare o simili.

La docenza non si limiterà al sottoscritto ma coinvolgerà naturalmente via via esperti in diverse discipline ed approcci, secondo i casi, e valorizzerà esperienze e testimonianze. I tre temi di avvio, corrispondenti ai primi tre incontri, sono comunque:
1.           Prospettive della politica italiana: La dimenticanza più grave quando si parla di Democrazia Cristiana.
2.           Tornare a guidare l’Italia: Formare dirigenti o formare persone?
3.           Economia e lavoro:
Costituzione italiana tradita?

A seguire, i temi verranno via via concertati secondo il criterio dello “scorrimento continuo” in una strategia condivisa e nel quadro di riferimento metodologico che molti amici mi hanno sentito definire spesso come “modello monasteriale”, proposto già in passato anche per la citata e auspicata iniziativa di rinnovamento della politica.

Nella sostanza si tratta certamente di “formazione alta” ma… proprio perché alta essa non avrà nulla da spartire, anzi aborrisce esplicitamente, alti titoli e alti linguaggi, alte sponsorizzazioni e alti atteggiamenti accademici… e simili vuotaggini. E’ formazione alta proprio perché… non va in alto bensì, al contrario, in profondità: costruisce nel profondo delle coscienze per far crescere, integrati, valori e competenze. Per questo il risultato sarà anche “alto”, ma nel senso vero e pregnante. E per questo ogni incontro, pur essendo autonomo e dotato di valore proprio, è anche collegato agli altri dalla strategia della visione generale, che è appunto quella dell’umanesimo personalista e comunitario.
Scusandomi con voi per la relativa lunghezza di questo messaggio, mi permetto infine, per completezza conoscitiva dello spirito con il quale parte e con il quale fin dagli anni scorsi fu pensata l’iniziativa, di riproporvi la piccola sintesi di “filosofia della formazione” che fin dal 2016 era stata predisposta per i numerosi amici con i quali si cercava di porre le basi per la ripresa di un pensiero e di un’azione più specificamente rinnovati per la politica e per la società del nostro paese. Tale sintesi recitava:

“Che idea abbiamo della formazione?
Molto alta.
La formazione infatti è il cammino della persona totale verso il proprio orizzonte infinito, in armonia con la comunità in cui essa vive e cresce.
Tutte le sue potenzialità di sviluppo e miglioramento si mettono in movimento con essa.
E perché formarsi? Perché migliorarsi è vocazione fondativa e irrinunciabile della persona.
E anche perché, se è buona formazione, essa mette insieme armonicamente crescita personale e crescita comunitaria: cioè l’unica crescita che abbia senso compiuto per l’uomo.
L’uomo è infatti, nella sua pienezza, contemporaneamente, “persona e comunità”.
La formazione non è indottrinamento.
Non è semplice aumento di nozioni nel nostro cervello.
Non sono professori che fanno conferenze.
Non sono esami e promozioni o dichiarazioni di idoneità.
Tanto meno sono bocciature.
Queste ultime, quando ci sono, caso mai bocciano la capacità della scuola di essere utile alla crescita delle persone.
La formazione non è un “master” conquistato in una prestigiosa università
Da esibire stupidamente in un curriculum
O da contemplare narcisisticamente incorniciato a una parete
O da esibire allusivamente in un discorso pubblico.
La formazione è il tuo cammino di vita nel miglioramento continuo:
Quel cammino della tua anima e di tutto il tuo essere che non finisce mai
Che non delude mai
Che non inganna mai
Basta che tu sia leale con testesso.
La formazione sei tu sempre più consapevole dei tuoi limiti ma anche delle tue potenzialità
E della loro concretezza
Del tesoro nascosto che possiedi e che… sei un irresponsabile se lo lasci perdere.
La formazione è la tua occasione di tutta la vita:
Qualunque mestiere tu faccia
Basta che faccia il mestiere di esistere
E di essere una persona che si vuol realizzare compiutamente.
Ti trovi a fare la scommessa decisiva della tua vita se ti prendi cura della tua formazione permanente o te ne infischi.
In una comunità che... forse ne è inconsapevole ma si vuol realizzare anch’essa
ed è chiamata a dire a sua volta sì o no a questa sua e tua realizzazione.
Qualunque mestiere tu faccia:
Lavoratore dipendente o disoccupato o studente o imprenditore o anziano in quiescenza o politico o amministratore locale o studioso o libero professionista o sportivo…
Ed a qualunque gradino tu sia in quella idiota e immorale falsificazione di vita che chiamano scala sociale.
In qualunque ambiente tu viva
Da qualunque punto tu parta
sei dunque chiamato a decidere se ti prendi cura della tua crescita permanente
o se ti infischi del destino della tua vita.
Anche la formazione politica rientra pienamente in questi criteri e risponde a queste esigenze.
Formarsi in politica, in particolare,
non significa imparare a far comizi efficaci turlupinando la gente
Né apprendere a creare manifesti elettorali più brillanti di quelli dell’avversario di turno
E neanche trovare la battuta efficace per controbattere l’ultima berlusconata.
Formarsi in politica
Se davvero hai valori di ispirazione cristiana o comunque umanistica
Significa imparare ogni giorno a capire più profondamente te stesso e contemporaneamente gli altri
A vedere di te stesso e degli altri un futuro lungo e non solo dieci centimetri dal tuo naso
A saper affrontare tutti i problemi anche sbagliando, ma riconoscendo gli errori e migliorando sempre
Ad acquisire competenze crescenti nelle materie che hai scelto come tua specializzazione
Senza mai trascurare il miglioramento delle tue conoscenze più generali
E contemporaneamente a consolidare valori più alti per testimoniarli più fortemente
Mettendo tutto ciò a disposizione attiva della tua comunità
Oltre che di testesso.
La formazione usa anche le aule ma se occorre sa farne a meno.
La formazione, se è davvero buona, deve costare pochi soldi e molta costanza di impegno
Deve chiedere l’aiuto di pochi professori e di molti maestri di vita
Deve mettere insieme teoria e pratica
Perché la teoria senza la pratica è priva di vita
Ma anche la pratica senza la teoria è un cammino a rischio di dispersione.
Per tutto questo la formazione non ha età
Né cariche sociali né gerarchie che esentino da essa
Né sapienti che possano farne a meno
Né arrivati che non ne abbiano più bisogno.
Beh… vi interessa?
Se sì, siete sulla strada giusta.
Se no, riflettete sui pericoli della vostra situazione.
Qualunque cosa pensiate,
la nostra formazione sarà così
o non sarà per nulla, perché, diversa da così, non vale la pena farne.
Perché solo così essa ha un senso di bene
Per noi stessi, per le speranze del nostro paese e anche oltre il nostro paese.
Un sogno?
Se volete, sì: un sogno. E che c’è di più concreto e utile di un sogno di bene, per migliorare davvero la realtà?
In fondo, alla chetichella, abbiamo già cominciato da molto a tastare il terreno:
ci siamo visti con tanti di voi, in diverse occasioni
giusto per cominciare a immaginarla, questa formazione
giusto per cominciare a dirci che puntiamo in alto
puntiamo alla nostra persona totale da sviluppare
ed alla nostra comunità senza esclusioni
per migliorarle davvero entrambe e senza confini”.
(Giuseppe Ecca, giugno 2016)
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Ebbene, cari amici: chi di voi è interessato a vivere con noi questa esperienza può semplicemente scrivere per posta elettronica all’indirizzo giuseppe.ecca@gmail.com., o contattare il sottoscritto per telefono o secondo gli altri canali consuetamente utilizzati fra noi (compreso Feisbuc): ma sarà mia cura fornirvi in tempi rapidi e comunque fin dal primo incontro anche altri semplici riferimenti, ora in via di definizione.
A tutti voi un caro saluto.
                                                                                                                                     Giuseppe Ecca
Roma, agosto 2021
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Storia e storie

PORTO IL NOME DEL MIO PAPA' E MI SENTO SEMPRE ITALIANA

Ancora storie di emigrazione, ancora esperienze forti di vita, in semplicità di stile e di sentimento. Storie vere. E ancora Australia.

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Mamma mi raccontava sempre che a mio papà piaceva una famiglia grande, essendo lui figlio unico: aveva sofferto tanta solitudine nella casa dei suoi genitori, prima di sposarsi. Per questo la nostra famiglia era numerosa: eravamo sette femmine e due maschi. Mio papà aveva un tantino di amore particolare per me, mi è sempre parso. Ero la quinta dei nove figli ed eravamo comunque, così numerosi, una famiglia felice. Quando papà decise di partire in guerra, per l’Africa Orientale, i figli erano ancora soltanto quattro, tutte femmine. Papà decise di partire perché chi partiva volontario veniva pagato bene e qualche volta poteva tornare a casa in licenza. Insomma, per la famiglia si trattava di un bell’aiuto.
Essendo sempre innamorati, i miei genitori pensavano ancora di aumentare la famiglia e così mia mamma si trovò incinta della quinta figlia: ma questa gravidanza era diversa dalle altre quattro; tutte le donne le dicevano che sarebbe arrivato un maschietto; ma la risposta della mamma era invariabilmente: “Non m’importa che sia maschio o femmina: basta che ritorni mio marito dalla guerra e che il bambino sia bello e sano”.
Quando fu l’ora del parto, questo si presentò difficile: il bambino infatti aveva il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo. La mamma pregava Dio che si salvasse, e tutto andò bene; finalmente nacque la bambina: ero io! Mia mamma era felice e poiché papà si chiamava Vincenzo, quando andò al municipio per registrare la mia nascita fui chiamata Emilia Vincenza: ecco perché porto il nome di mio papà.
Subito dopo che fu registrata la nascita, il Duce, Benito Mussolini, mandò alla mamma il premio di lire 5.000, che in quei tempi erano tanti soldi, e così divenni “la figlia del premio”. Ancora più forte si fece il ricordo continuo di mio papà lontano dalla famiglia a combattere in guerra con il rischio di morire, per aiutare tutti noi. Il duce dava il premio a tutte le famiglie con bambini quando i loro papà erano in guerra come volontari.
Più crescevo e più la somiglianza con papà era forte; ero in particolare di pelle scura come lui; e mia mamma ripeteva: “Questa figlia suo padre l’ha portata dall’Africa e perciò è scura come lui”. Dopo di me, lei ebbe altri quattro figli, due femmine e due maschi: dunque, nove figli in tutto. Finalmente, con la nascita dell’ultimo finì la sua missione di avere bambini: non poteva averne più; in tutto aveva avuto diciotto gravidanze! E’ stata una mamma fortissima: oltre a crescere nove figli era anche sarta di uomo e di donna, lavorava all’uncinetto, faceva coperte da letto e centrini, lavorava il pane due volte la settimana e i biscotti tradizionali per Pasqua e Natale.
Quando ebbi compiuto diciotto anni di età decisi di partire per l’Australia: lì c’erano già due mie sorelle maggiori, sposate per procura; perciò anche io partivo contenta. Loro mi scrivevano sempre chiedendomi se volevo partire dato che lì si lavorava bene e la paga era settimanale. In effetti tutto procedette bene e in un anno di tempo per prepararmi partii: era il 29 ottobre del 1960.
Contentissima quando decidevo di emigrare, mi sono trovata triste all’atto di partire. Il giorno della partenza è stato in effetti il più triste della mia vita. Arrivata l’ora di lasciare mia mamma, le due mie sorelle più giovani di me e i due fratellini più piccoli, mi resi conto di quello che mi accadeva: ma ormai dovevo proseguire, e  così in compagnia di mio papà presi la corriera dal mio paese, poi il treno fino a Reggio e il battello fino a Messina. Finalmente arrivammo al porto, dove una grande nave mi aspettava: portava il nome “Roma”.
Quanta gente attorno a quella nave! Fra viaggiatori e parenti non si riconosceva chi erano gli emigranti, cioè chi doveva partire. Ad un tratto aprirono i passaggi per gli imbarchi nel grande bastimento, che fu subito carico di passeggeri, piccoli e grandi, giovani e meno giovani, uomini e donne. Mio papà venne con me dentro la nave, ricordo come fosse oggi; dopo pochi istanti la nave cominciava a dare i segnali di partenza e mio papà mi abbracciò forte forte, mi baciò e con le lacrime agli occhi mi disse: “Figlia mia, devo lasciarti; tu lo sai che devo ritornare a casa, questa partenza è stata la tua decisione: se ti piace stai nel luogo che hai scelto ma altrimenti ritorna qui, con tutta la ricchezza della tua bella giovane età; buona fortuna e a presto!”.
E mi lasciò. Io rimasi triste e con le lacrime agli occhi uscii fuori, dove tutti salutavano, col fazzoletto in mano, i loro cari. Vidi anche mio papà, col fazzoletto in mano, che diceva: “Ciao, Emilia!”. Man  mano che la nave si allontanava dal porto, le parole di tutti noi erano: ”Arrivederci, Italia mia, resterai sempre la mia patria!”. La giornata era al declino, il sole si nascondeva e incominciava ad imbrunire. Ognuno di noi cominciava a sistemarsi in cabina, perché avevamo bisogno di riposo, stanchi e straziati dopo una lunga giornata di lacrime per il distacco dai nostri cari.
I giorni passavano e il viaggio continuava con un tempo sempre variabile: un giorno sole, un altro burrasca. Si facevano nuove conoscenze e ci si raccontava il motivo di quel viaggio: alcuni perché sposati con procura, altri per trovare i familiari, altri per lavoro temporaneo ma con l’intenzione che se si fossero trovati bene si sarebbero sistemati definitivamente nella nuova terra. Dopo un lungo viaggio, ventotto giorni, siamo arrivati a Melbourne: era il 26 novembre 1960. La gioia che provai quel giorno del mio arrivo fu immensa soprattutto per la grande emozione nel vedere le mie sorelle dopo quattro anni di lontananza, insieme ai loro mariti e ai bambini. Ci salutammo e contenti, abbracciati a lungo come avevamo fatto prima di lasciarci, salimmo infine in macchina per andare a casa. Loro abitavano al numero 42 di Clifton St. Richmond.
Pranzammo e subito dopo cominciai a parlare di lavoro, contenta e piena di entusiasmo, e dicevo: ”Lo sapete che questo è lo scopo per cui sono venuta in Australia: lavorare!”. Per una settimana rimasi a casa per riposarmi, poi trovai lavoro proprio vicino all’abitazione delle mie sorelle: era un maglificio con pochi operai, lì si lavorava e si mangiava, e si faceva il tè, di cui mi diedero l’incarico nominandomi “tè girl”; dovevo preparare il tè tre volta al giorno, andare a fare la spesa con le note di ciò che i lavoranti volevano, scritte sulla carta in lingua inglese.
La paga era solo di sette sterline la settimana, ma io ero contentissima. Però un giorno, portando il tè, come al solito, al padrone per il suo pranzo, egli mi disse che non lo voleva sul tavolo e andò su tutte le furie, non so per quale ragione, chiamò una ragazza italiana e le ordinò: “Dì a questa girl che io oggi vado fuori per il lunch, perciò il tè non lo voglio”. La ragazza me lo riferì e io in quel giorno, con l’umiliazione che sentivo per questa scenata e per il fatto che non potevo replicare in lingua inglese, dissi a me stessa: “Che pazzia che ho fatto a lasciarti, Italia mia!”. In realtà l’Italia mi è sempre mancata molto.
                                                                                                      (Anonimo, Premio “Prato Raccontiamoci”)
 
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Storia e storie

1956: PRIMI GIORNI IN AUSTRALIA

Ancora una volta un racconto di vita inedito, tratto dalla serie “Prato Raccontiamoci”. Pubblichiamo questa storia e quelle simili così come ci pervengono, scritte da mani semplici di persone che hanno vissuto una vita intensa, nella prima metà del secolo scorso, quando ancora dall’Italia si emigrava quasi in massa;  e, il più delle volte, non hanno certo potuto permettersi lunghi studi letterari per scrivere con raffinatezza formale: ci raccontano la vita, semplicemente. E questo ci interessa più di tutto.

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Aprile 1956, Melbourne, Australia. Cielo nuvoloso, con la brezza che muove le foglie degli alberi. Il traffico non è pesante come a Roma. La casa che mi aspetta è sopra un negozio di generi alimentari. Dalla finestra vedo la Sydney Road, la gente che si appresta a salire sul tram per andare a lavorare nei vari sobborghi. La città è estesa, lunga e larga. Ci sono parchi, campi sportivi, polmoni di verde ben evidenti. Gli uomini hanno pantaloni larghi, camicie larghe, scarpe grosse e di color marrone, capelli tagliati corti e senza basette. Con la mano destra reggono borse pesanti. Molti si coprono la testa con enormi cappelli
Io trovo il mio primo lavoro in una fabbrica di scarpe. Sono giovanissimo e la paga è piuttosto magra. La fabbrica è gestita da una famiglia ebrea. Marito e moglie danno le direttive e comandano le operazioni del giorno; hanno un figlio che fa le scuole superiori, ma dopo scuola lavora anche lui per tre ore: poi va a casa per studiare. Una famiglia piccola, però unita e serena. I miei compagni di lavoro sono tre australiani. Uno di loro mi dice quando devo lavorare veloce e quando devo lavorare più lentamente e pigliarmi tempo. A mezzogiorno mi mandano a comprare il pesce e le patatine fritte con la Coca Cola.
Il cibo non è come il nostro… contiene tanto grasso! La carne di pecora non è che piaccia a tutti. Usano il lardo e non l’olio  d’oliva. E, invece del vino, bevono birra a non finire. Siccome i bar chiudono alle 18, dopo il lavoro scappano in questi locali onde poter bere la birra prima di ritornare a casa. Spesso ritornano a casa  un po’ brilli e litigano con le mogli… 
Le donne, quelle di una certa età, coprono le rughe con la cipria, tanta cipria! Non si fanno mancare il rossetto ed il cappellino, grigio o verde. Quelle giovani portano la gonna corta e mostrano la bellezza delle gambe. Un popolo di sportivi, questi australiani! Corrono anche sotto la pioggia, fanno ginnastica e nuotano come pesci.  Io ho una vecchia bicicletta e nelle ore libere giro per le strade di Coburg. Amo il ciclismo ed il calcio. Sognavo di diventare un portiere di qualità come Moro, Casari, Viola e Bugatti: ma dopo il lavoro non me la sento di andare a fare gli allenamenti. E poi incontro una ragazza italiana, Caterina, figlia di calabresi, ed incomincio a farle la corte. E’ più alta di me, più matura nel calcolare le cose della vita. Capelli lunghi e neri, due occhi vivaci, un nasino affilato, la bocca minuscola e con un viso fatto di lineamenti regolari. Mentre nel cielo brilla il sole e gli uccelli volano felici, decidiamo di fare una passeggiata al vicino parco. Ci buttiamo sull’erba verde, asciutta; ci guardiamo negli occhi come se fossimo imbarazzati, poi la mia mano trova quella di Caterina ed iniziano piccole carezze. Gioco coi suoi capelli, le bacio la fronte e subito sento le sue labbra sulle mie! I passeri saltellano sull’erba cercando qualcosa da beccare. Una ragazzina ci passa vicino e noi la smettiamo con le carezze. Due farfalle bianche si posano sui fiori. Il sole si avvia al tramonto ed è ora di lasciare il parco. Caterina non vuole che i genitori scoprano la nostra storia e rientra a casa con la solita puntualità: dice che i suoi genitori sono all’antica e quindi molto severi!
Certo, un bel paese, questa Australia! C’è serenità, allegria, lavoro, sole, pioggia e vento! A me però manca la piazza, il posto dove andare la sera per vedere gli amici, e manca il caffè corto. Qui fanno un caffè all’americana, cioè lungo e senza sapore: è come bere l’acqua sporca. Ancora non mi sono abituato a bere il tè, mentre gli australiani bevono tè e birra. Mangiano assai dolci e sono golosi. Adesso, finalmente, è arrivata pure la televisione! Appaiono le prime trasmissioni in bianco e nero, perlopiù sono pellicole americane oppure inglesi. Gli americani invadono l’Australia coi film western: sullo schermo appaiono cavalli, indiani, frecce, morti e feriti. La sera la famiglia si unisce attorno a questa scatola e commenta, di tanto in tanto, il corso delle azioni. C’è subito meno comunicazione di prima. Prima, di fronte al fuoco, si parlava di più e si raccontavano avvenimenti del passato realmente vissuti. Ora la Tv ci fa conoscere storie inventate e distanti dalla vita quotidiana. Divertimento in casa, cinema in casa. Le cose cambiano anche in Australia.
Frequento le scuole serali per imparare la lingua inglese. Bisogna conoscere la lingua inglese per fare la spesa, per capire cosa fare sul lavoro, per chiedere il nome di una strada, per pagare le fatture. A CoIburg c’è la chiesa cattolica di San Paolo. Molte donne italiane, la domenica, vanno a messa e a messa finita si trovano fuori e si scambiano le notizie. Parlano del marito, dei figli, della comare rimasta incinta prima del matrimonio, della casa da pagare, della nonna in Italia che sta male. Io sono cattolico, entro in chiesa e mi raccomando al Signore. Però al mio paese nativo era tutta un’altra storia! Al mio paese conoscevo i fedeli, il parroco, i santi, le varie cappelle. Qui, invece, non conosco nessuno. Nemmeno i santi mi sembrano veri, non mi destano fiducia. Il parroco non parla italiano e quindi io non mi confesso. Fortuna che di peccati ne faccio pochi! Quelli più gravi sono i baci che do a Caterina quando ci incontriamo sull’erba del parco: roba di poco conto, sfogo di gioventù! L’amore esiste anche a Melbourne, in Australia: lo si trova ovunque, l’amore. E non importa se uno vive in Australia o in Italia: l’amore è necessario e ci dà la forza di vivere, di combattere le avversità. Amo l’Italia dove sono nato, ma amo pure l’Australia dove lavoro e vivo: due amori, ma una sola vita.
                                                                                                             
                                                                                                                     (Anonimo, raccolta “Prato Raccontiamoci”)
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Società

L'INTEGRAZIONE INTELLIGENTE E RESPONSABILE

Non so se ancora operino, perché il mio incontro con loro risale a qualche anno fa e dopo di allora i contatti si sono diradati per esigenze diverse legate soprattutto ai miei impegni lavorativi. Ma la impressione lasciatami dal loro operare concreto, educato, portato direttamente sui problemi delle singole persone, e non sulle generiche posizioni astratte, mi aveva colpito e affascinato vivamente. Perchè cercava contremporaneamente il bene delle singole persone e quello di tutti.

 
La comunità si chiama Ripa dei Sette soli. Sono francescani e amici di francescani. Educati, senza insistere, ti offrono (così fu per me, nei paraggi di San Giovanni, a Roma, quando quasi casualmente li conobbi) questo loro piccolo pieghevole di presentazione: sono persone che hanno “trovato” l’unico modo davvero conreto e giusto concreto di affrontare il “problema immigrati” senza retorica e senza astrattezze. Il problema di quei profughi che sbarcano nel nostro paese, provenienti dall’Africa perlopiù, ed ai quali, una volta che abbiano messo piede in terra italiana, nessuno più dà una mano, lasciandoli a perdersi o a recuperarsi, per i fatti loro, altrettanto disperatamente, attraverso strade e campagne. Molti si salvano e molti si perdono, molti diventano risorse per la società ch eli ha salvati e molti altri diventano minacce e pericoli.
 
Mentre il resto d’Europa, generalmente, fa ancora peggio; da qualche parte (pare lo abbiano fatto più volte maltesi e spagnoli, ad esempio) sparano loro addosso perché non osino neppure mettere piede sul loro suolo.
 
Ripa dei Sette Soli ha letto il loro problema con semplicità ed efficacia immediata, con la semplicità di luce ispirata da San Francesco. Senza la barbara ostilità dei “nonvivogliamo” e senza la contrapposta stupidità irresponsabile dei “ venite-pure-venite-tutti-tanto-qualcuno-ci-penserà-basta-che-non-chiediate-nulla-a-me,  tipico di tanto pollame pacifista, buonista, sentimentalarcadico, compreso qualche cattolico dalla facile generosità retorica a carico dello Stato e in genere degli altri.
 
Da Ripa dei Sette Soli i ragazzi vengono invece raccolti e avviati immediatamente, con amore, a imparare piccolissimi mestieri di vita quotidiana, o a perfezionarli se per avventura già ne conoscono qualcosa. Di quei mestieri utili così spesso alla nostra vita cittadina, e, così spesso, introvabili o trovabili a prezzi esorbitanti fra i nostri connazionali: piccole riparazioni di impianti elettrici o idraulici, piccole riparazioni di falegnameria, tinteggiatura, intonacatura, muratura, pulizia di ambienti e cantine, lavaggio auto, raccolta ortaggi e frutta, piccoli traslochi, servizi di giardinaggio, assistenza ospedaliera, accompagnamento anziani alle commissioni di posta, municipi, medico, ospedali, e ancora taglio capelli e barba, servizi di igiene personale,  preparazione pasti, recapito a casa della spesa, pagamento bollette, cura animali, e vari altri  “problemucci”, come li chiamano loro stessi, per i quali tanti cittadini hanno bisogno di una mano di aiuto e… non sanno proprio a chi rivolgersi.
 
La relazione che si instaura non comporta rischi, nel senso che chi desidera avvalersi di questo “servizio garantito” non ha che da chiamare (così era quando ho conosciuto la comunitài) il numero telefonico 327.1790333, dalle ore 9,30 alle ore 17, o inviare una email a ripadeisettesoli@gmail.com: risponde una operatrice che prende in carico il problema, individuando la persona adatta alla sua soluzione. La prestazione non ha un prezzo o una tariffa: la regola è quella di una offerta libera lasciata al buon cuore di chi chiede il servizio. Si tratta di donazione, oltretutto fiscalmente deducibile, purchè il pagamento di essa avvenga attraverso operazione bancaria o postale.
 
Insomma, la parola d’ordine dei frati minori è: “Accogliamo nella nostra fraternità persone condannate alla vita di strada, per ridare una opportunità a chi non ha più lavoro né un luogo familiare dove vivere. Ma vigiliamo anche sui comportamenti”. La Fraternità di Ripadeisettesoli è in piazza San francesco d’Assisi 88, nel luogo, mi dicono, dove proprio san Francesco di Assisi amava stare in Roma.
 
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Italia

BELLISSIMA MA DISORDINATA

Circolano giustamente, in tv, su giornali e riviste, in films e documentari, nonostante il periodo di covid, immagini bellissime del nostro paese, delle sue attrattive incomparabili di arte, di storia, di paesaggio, di cultura, di spiritualità, di umanesimo. E’ vero: nessun altro paese al mondo assomma tanta bellezza e, in fondo, tanto bene.

Dirlo, raccontarlo, mostrarlo, tutto questo bene, è comportamento non solo legittimo al fine di riequilibrare tanta tendenza, a volte malata, all’autodenigrazione o all’autocommiserazione, ma anche doveroso in quanto gesto di responsabilità e di amore per ricostituire un’attenzione psicologica, morale, culturale e politica sulle dimensioni positive del nostro paese, e sulla loro sviluppabilità ulteriore a vantaggio anche di tutto il mondo.

Perché è questo l’approccio che, senza nascondere i limiti da correggere, consente un atteggiamento educativo e proattivo di incoraggiamento al fare per migliorare, al costruire il bene, che va oltre il limitarsi a criticare. Abbiamo cose immense e uniche da valorizzare, dunque, e abbiamo anche cose immense e uniche da recuperare: ricordiamolo, perché le cose belle, se non le custodiamo, rischiano pian piano e in silenzio di deteriorarsi. Abbiamo celebrato da poco il primo maggio, festa universale del lavoro e dei lavoratori: i tre sindacati confederali italiani, in genere non ricchissimi di fantasia negli ultimi anni, hanno coniato per l’occasione un bellissimo messaggio che incentra la sua attenzione sui due concetti del completamento delle vaccinazioni contro il carognavirus e della ripresa vigorosa e totale del lavoro (sia pure con rallentamento dei ritmi e distanziamento degli spazi) come metodo e via per il superamento decisivo del dramma pandemico.

Noi vediamo giuste queste due dimensioni: e ne allargheremo volentieri il significato verso una sanità nazionale pubblica nuovamente centrale nelle attività dello Stato come segno della civiltà solidaristica del paese, la sanità come servizio veramente per tutti e veramente efficiente, senza sprechi e senza parassitismi ma anche senza deleghe alla pur legittima sanità privata con fini di lucro; e verso il lavoro, in modo più specifico,  come diritto e dovere per ogni cittadino, effettivamente garantito senza assistenzialismi ma con reale sguardo permanente a una adeguata produzione di ricchezza e a una altrettanto adeguata redistribuzione  universale di essa. Non è tutto, perché a questo quadro di necessaria ripresa mancherebbero ancora altre dimensioni del bene comune e in particolare quelle della cultura e dello spirito: ma sarebbe già cosa immensa e davvero degna della grandezza di un paese che sa ancora e sempre migliorarsi. Comunque, godetevi le bellissime immagini che qui ho tentato (ci sarò riuscito?) di allegarvi. (No, non ci sono riuscito: devo ancora imparare... lo prometto).

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Economia e società

ECONOMIA E LAVORO: COSTITUZIONE TRADITA?

La centralità del lavoro, fondamento della nostra repubblica per dettato costituzionale fin dall’articolo 1 del nostro documento fondativo: eppure lottiamo ancora perché tale fondamento trovi attuazione vera e sostanziale. Giuseppe Amari, studioso di Federico Caffè e più in generale del mondo del lavoro e dell’ecponomia, se ne occupa in questo articolo, non per la prima volta, richiamandone la drammatica attualità.
 
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Il lavoro e del suo futuro; un tema sempre più centrale e drammatico, non solo in Italia, certo aggravato dalla Pandemia.
Possiamo cominciare dalla nascita della disciplina economica con Adam Smith che affermò, contro i mercantilisti, che la vera ricchezza delle
nazioni risiedeva, non nel denaro, ma nel lavoro e la sua produttività. Che dipendeva, a sua volta, dalla specializzazione del lavoro e dall'apertura dei mercati esteri come sbocco per la produzione. Purtroppo abbiamo visto un ritorno alla vecchia concezione; il
«neomercantilismo» con la pretesa di avere la bilancia dei pagamenti costantemente in attivo e con un ripresa quindi di egoismi nazionali. In
Europa è soprattutto la politica tedesca.

Smith, era anche consapevole che una spinta parcellizzazione del lavoro portava a conseguenze negative sul piano culturale e psicologico; quelle
che poi Marx chiamerà alienazione; approfondita in seguito da tanti altri intellettuali, economisti, sociologi, psicologi. Alienazione di prodotto e di
processo, che oggi si propone aggravata quando intermediata da un algoritmo. Dai tempi di David Ricardo, agli albori della Rivoluzione industriale, si discute se il progresso scientifico e tecnico distrugga o meno occupazione. Sappiamo che storicamente la quantità di lavoro umano è
progressivamente passata dal settore agricolo a quello industriale a quello dei servizi; investiti questi ultimi sempre di più dall'innovazione,
dall'intelligenza artificiale, dalla robotizzazione. Quale futuro per il lavoro?

Benedetto Croce chiamava «metereologiche» queste domande, e rispondeva: «I problemi morali, intellettuali, estetici e politici non stanno
fuori di noi come la pioggia e il bel tempo... Bisognando invece, unicamente, risolversi a operare ciascuno secondo la propria coscienza e la
propria capacità…». Il progresso scientifico deve essere al servizio dell'uomo e della collettività, servire a liberare dalla pena del lavoro faticoso, ma non dall'impegno a contribuire all'avanzamento della società: liberazione nel lavoro che evolve e non dal lavoro.

Secondo me questo è il vero senso e il vero obiettivo dell'art. 4 della Costituzione che «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». E se il lavoro del futuro sarà chiamato soprattutto
a quest'ultimo compito sarà un salto vero di civiltà, compreso quello in un mondo di pace e fratellanza dei popoli.

L'illustre storico dell'economia C. M. Cipolla chiede che il progresso scientifico e tecnico sia accompagnato a quello etico, perché si può
regredire allo stato ferino anche con tutta la «banda larga». Ma non si devono dimenticare i costi sociali che il progresso scientifico
comporta nei settori che ne sono investiti o penalizzati. Federico Caffè, concludendo un suo intervento all'Accademia dei Lincei
nel lontano 1968 sulle conseguenze dell'automazione, diceva: «Dopo tutto il fatto importante non è che si vada verso una società in grado
di avvalersi della moneta elettronica, ma che le già stridenti diseguaglianze sociali non vengano accentuate dai mezzi tecnici da noi stessi creati».
Nel secondo dopoguerra i paesi democratici e civili si posero l'obiettivo della «piena occupazione in una società libera».

Allora si usava molto il concetto di prodotto potenziale (oggi dimenticato): quel prodotto derivabile dalla piena occupazione degli
uomini e dei capitali disponibili. La differenza tra il prodotto potenziale e quello effettivamente realizzato, rappresenta la perdita di ricchezza sopportata. Ricchezza perduta per sempre. Perdita non solo materiale, ma anche spirituale per le persone, private di quel diritto e dovere, e per la intera società (art. 3 e 4 Cost.). La sensibilità sociale e democratica aggiunge alla piena occupazione la «dignitosa occupazione», nelle linee essenziali delineata tra l'altro dalla nostra Costituzione.

Joan Robinson, un'allieva di Keynes rilevava che oltre all'occupazione si doveva porre il problema di cosa, come e per chi produrre.
Questi sono obiettivi che non possono essere lasciati al mercato, ma appartengono alla responsabilità della politica, delle istituzioni e delle
stesse forze sociali in un contesto di democrazia progressiva e diffusa. Che investa anche il mondo della produzione e del lavoro (democrazia
industriale ed economica); un modo anche per rispondere all'alienazione. Ma è un problema di democrazia complessiva secondo il filosofo
Guido Calogero che afferma giustamente come «la più solida democrazia si fondi sulla pluralità delle democrazie» tra loro solidali, non meno delle
libertà.

Impegno politico e istituzionale se non si vuole tradire - diceva Caffè - «l'ideale che lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello
sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito». E aggiungeva: «una ripresa congiunturale che non comporti una
diminuzione della disoccupazione è una mera espressione contabile di scarso significato». Ma il «sistema economico in cui viviamo» (come Keynes chiamava il capitalismo, un concetto peraltro sfuggente) può sopportare la piena stabile e dignitosa occupazione? Gli studiosi hanno dato risposte diverse su cui non possiamo soffermarci.
Ne accenno a tre: Marx e coloro che a lui direttamente o indirettamente si richiamano, come Kalecki, Baran e Sweezy parlano di un «esercito industriale di riserva» necessario a tenere a bada i lavoratori e di ostacoli soprattutto politici; i neoliberisti (meglio pseudoliberisti) con il cervellotico concetto di «saggio naturale di disoccupazione»; i riformisti veri, come Keynes, Caffè e Roosevelt, concordando di fatto con le parole di Croce contro le domande «metereologiche», si ingegnano per raggiungere l'obiettivo di più avanzata civiltà. Oggi si cita il New Deal, ma il suo vero significato ce lo ricorda lo stesso FDR quando assicurava che «le attuali difficoltà economiche non devono fermare il nostro governo civile». E fece riforme civili e sociali insieme a politiche di ripresa economica. Prevedeva tra l'altro la diminuzione dell'orario di lavoro e il salario minimo.

Temi sempre attuali insieme a quelli del reddito di cittadinanza o meglio universale. Dopo i «Trenta Gloriosi» seguirono, con la Tacher e Reagan, i
«Quaranta Ingloriosi», o forse meglio i «Quaranta Miserabili». Da allora ad ogni crisi e recessione economica è seguita una regressione
civile e sociale. Della «Grande Regressione, il lavoro ne è stata la prima vittima: con disoccupazione e soprattutto con la mortificazione della sua dignità: anzi - con la responsabilità di economisti e ancor peggio giuslavoristi - si è preteso e si pretende di scambiare l'occupazione o meglio una minore disoccupazione con il peggioramente delle sue condizioni. Stiamo tornando alla condizione mortificante del bracciantato contro
cui si batteva Giuseppe Di Vittorio, ben rappresentata dalla canzone «Bella ciao» che nacque come un canto di liberazione delle mondine.
Oggi il padrone ha fatto dell'algoritmo il suo caporale, non meno violento ma più insidioso. Oggi analizziamo un caso emblematico di tale grave regressione civile e sociale; e che può rappresentare - se non fermato - la vera distopia del futuro.
                                                                                                         (Giuseppe Amari)

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Politica

DIZIONARIO PROGRAMMATICO A PARTECIPAZIOE DIFFUSA

I temi proposti non sono in ordine gerarchico bensì alfabetico: vogliono costituire infatti i tasselli di un lavoro collettivo di elaborazione “a scorrimento continuo” delle linee di programma dell’Associazione, con la partecipazione aperta e permanente di iscritti, esperti e cittadini. Soprattutto, di iscritti. E’ uno strumento di lavoro informale approvato dagli organi associativi e da essi vigilato, e che, con la loro approvazione ufficiale, acquista nei suoi contenuti, via via, il crisma del documento formale di impegno dell’Associazione.
 
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Acqua. E’ un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di garantirne qualità e quantità sufficiente a prezzi sociali appartiene alla mano pubblica in senso diretto. Alla mano privata non possono che essere riservati ruoli di carattere nettamente sussidiario, ininfluenti sulle politiche relative a questo bene. E’ escluso a priori che dall’acqua si possa trarre profitto privato a qualunque titolo.
Adesioni a DemocraziaComunitaria. Le domande devono essere presentate sul modulo predisposto dalla sede centrale e firmato dall’aspirante socio, con il corredo dei dati personali e della quota associativa o di una ricevuta del suo versamento. La domanda è perfetta ed accolta all’adempimento di tale modalità ed alla firma di accettazione del presidente nazionale. In ogni territorio comunale, il primo socio è anche referente organizzativo per la costituzione dei relativi organi non appena altri soci avranno perfezionato la loro adesione. In fase di avvio dell'Associazione possono essere stabilite modalità di adesione semplificate.
Ambiente. E’ un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di mantenerlo tale appartiene direttamente alla mano pubblica. La legge stabilisce la proporzione tassativa di superficie verde da salvaguardare in ogni opera manufatta, pubblica e privata.
Authorities. Le autorità di settore, gemmate, sul modello di organismi funzionanti negli Stati Uniti in diverso contesto culturale, sono venute manifestandosi organismi costosi e, alla fine, non adatti a costituirsi come garanti super partes nelle materie di cui si occupano: così da porre ormai la esigenza di un ritorno alle naturali fonti di garanzia costituite dal parlamento, dai comitati interministeriali e dai loro già storicamente sperimentati strumenti di lavoro. Risparmiando gran parte dei relativi costi.
Autonomia differenziata. DemocraziaComunitaria è contraria al principio delle autonomie differenziate. Le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato di tutti: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, in quanto sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse. Le regioni devono piuttosto venir sottoposte a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche affidate.
Autostrade. La rete autostradale nazionale italiana, cioè quella che collega fra loro tutte le regioni italiane  in un unico sistema strategico, intorno al quale vivono e pulsano le altre categorie di strade (statali, provinciali, etc,), appartiene per stretta e intima natura alla categoria tecnica e politica delle “infrastrutture critiche” del paese: quelle infrastrutture, cioè, che costituiscono l’ossatura strategica, ineliminabile e indivisibile, che sostiene  e realizza l’unità sistemica e la sicurezza del paese. Essa non può pertanto, in via di principio inderogabile, essere altro che pubblica e statale sia nella proprietà sia nella gestione. Qualunque sia stata dunque a suo tempo la motivazione che ha malauguratamente e inefficientemente indotto lo Stato ad affidare tale rete in concessione a privati, essa va assolutamente riacquisita alla piena e contestuale proprietà e gestione dello Stato medesimo, quale integrante, diretto e insurrogabile strumento del bene comune.
Banca. Il miglioramento verso semplicità, controllabilità e trasparenza delle leggi relative all’attività bancaria parte dal ripristino di una netta differenziazione fra banca ordinaria di risparmio e investimento, e banca d’affari o speculativa. DemocraziaComunitaria vede con particolare favore il ripotenziamento di una cultura diffusiva delle forme bancarie popolari e cooperative, la riacquisizione allo Stato di una banca nazionale per la tutela del risparmio dei cittadini, e la valorizzazione del risparmio collettivo in sede d’impresa.
Conflitti d’interesse. DemocraziaComunitaria propone una più tassativa definizione dei casi nei quali si debba dare esito a una pura e semplice incompatibilità non sanabile.
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. DemocraziaComunitaria ne propone il superamento puro e semplice per esaurimento dei suoi compiti storici. 
Consumo del territorio. Anche l’Italia è diventata un paese che, specialmente in alcune regioni, vede ormai diventare preoccupante il problema del “consumo del territorio”, un consumo talmente vasto e nello stesso tempo abusato, da porre al paese stesso un quesito urgente circa il suo equilibrio ambientale di lungo periodo. DemocraziaComunitaria propone di stabilire un vincolo rigido alla percentuale di territorio consumabile (cementificazione e forme assimilabili di scomparsa del terreno vergine) per ogni unità di costruzione. Inoltre propone di rendere concretamente più severa e snella la funzione di controllo e salvaguardia attiva del patrimonio forestale e idrogeologico del paese.
Costi della politica. DemocraziaComunitaria propone l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, a favore di un finanziamento libero da parte di ciascun cittadino nei confronti del partito in cui si riconosca. Riconosce il valore politico-istituzionale dei partiti nei termini esplicitati dalla Costituzione, e il relativo sostegno, esclusivamente nella forma della fornitura, a ogni formazione politica che abbia rappresentanza in parlamento, di una sede operativa, unica per tutto il territorio nazionale, con spazi limitati alle esigenze di funzionalità essenziali, con corredo di linea telefonica, computer, stampante, collegamento internet e similari secondo ragionevole coerenza. Escluso ogni altro supporto, che è da considerare strettamente riservato alla privata organizzazione del partito medesimo.
Diritto e obbligo della formazione. Fino alla maggiore età la vita dell’individuo è dedicata in misura privilegiata alla formazione integrale della personalità, affidata innanzitutto alla famiglia con il sostegno della scuola: quest’ultima deve costituire, prioritariamente, un sistema pubblico a costi sociali fino all’università, aperto a tutti, nel rispetto per la eventuale scelta della singola famiglia che preferisca rivolgersi a scuole private; le quali ultime non avranno diritto a sostegno pubblico che vada al di là della corresponsione alle famiglie del costo che lo Stato sostiene per ogni suo alunno della scuola pubblica. Le scuole private non potranno comunque rilasciare titoli aventi valore di legge.
Emolumenti per incarichi pubblici. DemocraziaComunitaria sostiene una equa proporzionalizzazione reciproca fra gli emolumenti riservati alle cariche pubbliche, elettive e non elettive, a tutti i livelli compreso quello parlamentare e tutti quelli dirigenziali, assumendo a riferimento i trattamenti previsti dalle normative collettive generali e l’andamento complessivo del reddito nazionale, nonché i carichi di lavoro effettivamente affidati e gestiti.    
 
Esame di Stato per l’accesso alle professioni. Con il riconoscimento del titolo di studio istituzionale esigito per accedere a una determinata professione, ad esempio la laurea in giurisprudenza per lo svolgimento dell’attività legale, o la laurea in medicina per l’accesso alla professione medica, il cittadino acquisisce il diritto di accedere effettivamente a tale professione, senza necessità di ulteriori “esami di Stato” quali lasciapassare, che rappresentano un abuso sia concettuale sia morale sia politico da parte dello Stato e delle organizzazioni professionali nei confronti del cittadino stesso. DemocraziaComunitaria sostiene pertanto la pura e semplice abolizione di tali “esami di Stato” per l’accesso alle professioni, e sottolinea piuttosto la logica, ove sia il caso, di restituire ai titoli di studio rilasciati al termine dei curricoli scolastici istituzionali una adeguata rispondenza di preparazione effettivamente certificata negli studenti.
 
Etica pubblica. L’etica dei comportamenti anche personali è esigita con particolare forza in tutti i soggetti che svolgono funzioni pubbliche. Ogni ruolo pubblico è proprietà morale della collettività ed è incompatibile con qualsiasi comportamento che violi la fede pubblica. Tale eventuale comportamento va perseguito d’ufficio.
Europa. Il ritorno ai padri fondatori, in particolare De Gasperi, Schumann, Adenauer, che anteponevano la messa in comune delle risorse e della solidarietà valoriale alla dominanza economica e finanziaria, è obiettivo esplicito e vincolate di DemocraziaComunitaria.
Farmaci. Impensabile che possano essere ambito di puro e semplice mercato privato, lo Stato cura sia il corretto controllo della loro qualità scientifica ed etica rispetto alla loro funzione di servizio nei confronti della qualità della vita personale e sociale, sia la loro equa accessibilità economica a tutti i cittadini nel quadro del Servizio Sanitario Nazionale.
Finanziamenti pubblici. DemocraziaComunitaria sostiene l’abolizione di ogni forma di finanziamento all’editoria, compresa quella di partito. Sostiene inoltre una politica di rigorosa severità in materia di controlli, in corso ed ex post, sull’utilizzo completo e tempestivo dei finanziamenti pubblici in generale, e sulla loro coerente finalizzazione.
 Fisco, sistema generale. Il controllo della evasione deve diventare più severo in parallelo con la semplificazione normativa e la riduzione della giungla delle differenziazioni impositive. All’autonomia impositiva di regioni e comuni va preferita una partecipazione delle stesse pro-quota nella fiscalità generale. Un trattamento fiscalmente incentivante è giusto prevedere a livello di impresa per gli utili reinvestiti nell’impresa stessa rispetto a quelli distribuiti ad azionisti e lavoratori.
Fisco e trasparenza. Oltre alle imprese-persone giuridiche, anche ogni persona fisica è imprenditrice in senso sostanziale, partecipando al processo produttivo e alla formazione del prodotto interno lordo attraverso il suo lavoro e la conseguente attivazione e spendita del suo reddito nel circuito dell’economia. In tale quadro DemocraziaComunitaria ritiene efficiente, equo e trasparente un sistema fiscale che incentivi la fatturazione di ogni transazione e, tendenzialmente, la generalizzi. Ogni spesa sulla quale viene pagata l’iva deve poter essere dedotta dall’imponibile in sede di dichiarazione dei redditi. Tale sistema consente, oltretutto, attraverso il concreto interesse del cittadino alla fatturazione del bene o servizio acquistato, una lotta efficace alla evasione fiscale ed alla economia sommersa, generando una massa di risorse fiscali tale da consentire anche una significativa riduzione dell’attuale iniqua ed inefficiente pressione del fisco stesso su cittadini e imprese.
Formazione dei prezzi. Un intervento più stringente, soprattutto di controllo, da parte della mano pubblica, è necessario in materia di formazione dei prezzi relativi a beni di pubblica utilità rilevante, come ad esempio la casa, i carburanti, i medicinali, a evitare distorsioni speculative. La stessa mano pubblica non deve escludere il suo intervento diretto come imprenditrice di libero mercato nei casi in cui non vi siano diversi strumenti atti ad assicurare prezzi equi a beni essenziali.
Formazione interna. DemocraziaComunitaria: è soggetto di formazione permanente nei confronti di tutti i suoi aderenti. L’attività di formazione, oltre a essere concepita come permanente e diffusa, è anche articolata fra coordinamento centrale e autonomie del territorio. Tenendo conto della sua missione, l’associazione può offrire opportunità formative anche ai non iscritti.
Giustizia. Lo snellimento dei tempi processuali, la effettiva esecuzione delle sanzioni e la effettiva accessibilità dei costi per tutti sono elemento essenziale per la credibilità e la giustizia amministrata dallo Stato nei confronti di tutti i cittadini, ed hanno importanza fondativa pari a quella della chiarezza, semplicità ed equità delle normative di riferimento.
Imposte, progressività e proporzionalità. DemocraziaComunitaria sostiene un criterio severamente proporzionalista della imposizione fiscale, ritenendo che esso costituisca nel ventunesimo secolo la lettura più avanzata, efficiente ed equa del concetto di progressività espresso dalla Costituzione italiana. Se tutti i cittadini pagano la medesima percentuale di imposte sul loro reddito, ciò costituisce una semplificazione gestionale del sistema e una conseguente facilitazione degli adempimenti relativi, uno strumento di più facile controllo e correzione equitativa degli eventuali squilibri ingiusti nella distribuzione del reddito, e insomma un elemento di trasparenza dell’intero sistema.
Impresa. Essa va sostenuta come bene di inestimabile valore per tutta la comunità; ne va perciò semplificato il processo burocratico di nascita, e facilitata la propensione allo sviluppo, soprattutto attraverso un tangibile snellimento delle normative riguardanti le autorizzazioni, i controlli ed il credito. DemocraziaComunitaria favorisce il modello d’impresa partecipativa nelle sue diverse forme possibili, dalla cointeressenza nei risultati alla cogestione ed alle forme variamente cooperative.
Impresa privata e impresa pubblica. Superando i contrapposti eccessi storici di interventismo assistenzialista e di privatizzazione pregiudizialmente preferenziale, DemocraziaCooperativa è favorevole a una ottica diffusa di liberalizzazione senza privatizzazione, per quanto attiene al campo delle imprese pubbliche che si occupano di beni e servizi essenziali o primari per la dignità e lo sviluppo delle persone. Senza rinunciare alla propria partecipazione diretta nella erogazione di tali beni e servizi, lo Stato e gli enti territoriali di decentramento consentono che l’iniziativa privata, sia con scopo di lucro sia senza scopo di lucro, partecipi competitivamente a tale erogazione, senza sussidi pubblici.
 Innovazione. DemocraziaComunitaria è per introdurre forme di tutela semplice ed efficace per quanti depositano  brevetti o sono autori di importanti  realizzazioni o idee artistiche e culturali. Nei limiti delle risorse disponibili, una politica di premialità per la innovazione efficace è tra le priorità che DemocraziaComunitaria sostiene nel contesto delle politiche di sviluppo.
Intervento dello Stato in economia. E’ possibile ed è doveroso l’intervento dello Stato, come pure, ai rispettivi livelli, della regione e del comune, sia direttamente come imprenditore in regime di liberalizzazione quando si tratti di beni incidenti direttamente sulla qualità essenziale di vita delle persone, sia indirettamente con efficaci politiche di sostegno ai consumi, sempre nel campo dei beni relativi alla dignità e allo sviluppo della persona.
 Lavoro. Fonte essenziale di dignità e fondamento della repubblica, il diritto al lavoro è un diritto soggettivo e non una semplice legittima aspettativa. DemocraziaComunitaria sostiene in tal senso una lettura precettiva della Costituzione. La realizzabilità di questo diritto si fonda su una politica sicura di redistribuzione sia delle opportunità di lavoro sia dei redditi in generale, a cominciare dalla riduzione della forbice immorale attualmente esistente spesso anche all’interno delle imprese. Il trattamento economico della dirigenza deve essere in questo senso collegato e non scorporato da quello di tutti gli altri lavoratori. DemocraziaComunitaria propone la riorganizzazione del sistema pubblico tradizionale di collocamento per trasformarlo in moderno istituto dell’accompagnamento attivo al lavoro. Correlativamente, una concezione precettiva del diritto al lavoro esclude che esso possa venir interpretato come diritto al “posto fisso”. Con pari importanza rispetto alla sua dimensione di diritto, infine, il lavoro è un dovere primario del cittadino e di chiunque viva nell’ordinamento giuridico dello Stato.
Legge elettorale. DemocraziaComunitaria ritiene una democrazia non compiuta, e anzi vistosamente e negativamente limitata, quella che si esprime attraverso sistemi a liste bloccate. Occorre che i cittadini abbiano la possibilità di scegliere persone, o persone e liste, ma mai solo liste. Il sistema elettorale che DemocraziaComunitaria valuta meglio rispondente alle esigenze della democrazia italiana è quello che ha come punto di riferimento il “collegio uninominale secco”. Centralizzando l’attenzione sulla singola personalità del candidato da eleggere, sia egli espressione di un partito o meno, essa stimola il candidato medesimo ad assumersi diretta ed intera la responsabilità di rappresentare la comunità che lo elegge.
Mediterraneo. Il “lago comune” delle tre grandi religioni monoteiste, nostro comune “lago di Tiberiade” secondo la fascinosa espressione di La Pira, è per DemocraziaComunitaria una dimensione di pari dignità rispetto a quella europeista, per una politica del dialogo permanente e solidale.
Mercato. Lo Stato è chiamato a svolgere funzione di garante del mercato per tutte le componenti di esso, operando attivamente, in particolare, per il rispetto e la tutela dei soggetti deboli nei confronti di distorsioni speculative. 
 Numero chiuso nelle università. Va superato in considerazione del valore intrinseco della formazione universitaria, che non può essere concepita come finalizzata al mercato del lavoro ed alle sue esigenze, bensì alla formazione compiuta e integrata della persona ed alla massima valorizzazione concreta della ricchezza culturale di tutta la società.
Onu. Il cammino delle Nazioni Unite è verso un autentico parlamento dei popoli; in tale spirito deve venir sviluppato, gradualmente ma senza attendere, il rinnovamento delle norme regolative del consiglio di sicurezza, sottraendone composizione e metodo di lavoro agli equilibri ormai inadeguati scaturiti dalla seconda guerra mondiale.
Ordini professionali. La semplificazione dell’accesso e una più evidente esigibilità del codice etico sono, per DemocraziaComunitaria, passaggi necessari ma che non escludono il possibile superamento degli stessi ordini, a favore di istituti di più snella, accessibile e trasparente tutela delle garanzie di professionalità e di etica nei rispettivi settori. Anche l’assetto istituzionale degli ordini ha infatti come valore di riferimento il bene comune.
Pandemia 2020. DemocraziaComunitaria è convinta, in linea generale, che le emergenze di carattere straordinario vadano affrontate innanzitutto facendo funzionare bene le strutture, gli strumenti ed i servizi ordinari. Nel caso specifico della pandemia 2020 da coronavirus vanno innanzitutto perfezionate dovunque la efficienza e la qualità del servizio sanitario nazionale. A tale impegno va aggiunto dovunque un supplemento di valorizzazione delle sinergie positive con le realtà della sanità privata e del volontariato ovunque sia possibile. Per quanto attiene a quello che DemocraziaComunitaria ha sempre definito “rischio di pandemia economica e sociale come effetto della pandemia sanitaria”, DemocraziaComunitaria ritiene che le attività economiche ed il lavoro non debbano essere bloccate ma semplicemente e adeguatamente rallentate e distanziate, utilizzando comunque le eventuali misure economiche di ristoro per realizzare occupazione aggiuntiva e investimenti di sviluppo che consentano appunto gli accennati rallentamenti e distanziamenti fisici del lavoro attraverso prolungamenti idonei dei tempi di lavoro e di servizio: mai per realizzare misure di puro assistenzialismo passivo.
Parlamento. DemocraziaComunitaria propone la riduzione del numero dei deputati da 630 a 500, e dei senatori da 315 a 250. Propone inoltre l’abolizione della figura dei senatori a vita di nomina del presidente della repubblica, e la unificazione, in logica di tendenziale unicameralità del parlamento, di un significativo numero di funzioni fra le due Camere.
Pensioni. Così come per la forbice delle retribuzioni all’interno delle imprese, adeguati rapporti di equità vanno costruiti nel campo delle prestazioni pensionistiche, senza eccezioni di categorie e con la universalizzazione rigorosa del metodo contributivo. 
Persona e famiglia. DemocraziaComunitaria è associazione di personalismo sussidiario e solidale. La persona è centro di imputazione di tutti i diritti e di tutti i doveri. Essa si sviluppa innanzitutto nella famiglia, che perciò deve essere protetta a sostenuta attraverso la tutela attiva della paternità e della maternità responsabile, attraverso servizi di assistenza, cura e formazione dei giovani, attraverso una organizzazione del lavoro che oltre ad assicurare il diritto a una occupazione produttiva faciliti forme di telelavoro e flessibilità organizzativa tutte le volte che siano compatibili con le esigenze oggettive della giusta produttività aziendale.  
Posizione costituzionale delle regioni. DemocraziaComunitaria ritiene maturati i tempi per parificare la dignità costituzionale fra regioni attualmente a statuto ordinario e regioni attualmente a statuto speciale. Appaiono infatti ormai superate le ragioni straordinarie che storicamente giustificarono tale differenziazione.
Progressività di pene e sanzioni. Sia la consapevolezza della fallibilità umana in generale sia lo scopo pedagogico che sempre deve accompagnare pene e sanzioni, esige un criterio di oculata ed efficace progressività delle stesse. In tal senso la legge stabilisce per ogni infrazione, sulla base della relativa gravità, la pena o sanzione minima di base: su questa il giudice applicherà in ogni caso di reiterazione di colpa la misura aggiuntiva esigita da equità e giustizia.
Province ed altri enti intermedi. DemocraziaComunitaria propone l’abolizione pura e semplice delle province, e di tutti gli altri enti territoriali intermedi fra comune e regione, fatte salve le possibili libere semplici fusioni o anche associazioni o consorzi di comuni per la gestione di singoli servizi.
Reati economici e finanziari. La certezza e tempestività di esecuzione delle sentenze è prioritaria soprattutto per i casi di violazione della fede pubblica. Si impone comunque una revisione del sistema che restituisca prudenza ed eccezionalità agli istituti degli sconti di pena, dell’amnistia e dell’indulto, particolarmente nel campo dei reati commessi ai danni dell’intera società civile e della citata fede pubblica.
Riferimento culturale e valoriale dell’azione democratico-comunitaria. Esso è costituito essenzialmente da: a. la storia del cattolicesimo democratico in Italia, nella sua interezza; b. la dottrina sociale della Chiesa e gli insegnamenti del suo magistero; c. la Costituzione italiana e tutto il patrimonio culturale e ideale di testimoni ed esperienze di umanesimo laico di consonanti valori, .
Sanità. Il bene primario della sanità dei cittadini non è considerato da DemocraziaComunitaria come appartenente al campo del libero mercato privato bensì a quello del diretto intervento dello Stato attraverso un sistema sanitario nazionale unitario, che pur decentrandosi a livello di regioni e comuni non vanifichi la effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini di fronte ad esso. La struttura centrale si sostituirà tempestivamente alle strutture regionali inadempienti o inefficienti, fino a che non siano ripristinate le condizioni di piena adeguatezza di esse. Ugualmente lo Stato farà nei confronti delle eventuali strutture cittadine ove non intervenga tempestivamente la struttura regionale di competenza. L’iniziativa privata opera liberamente e competitivamente nel campo della sanità, nel rispetto delle normative pubbliche che garantiscono la tutela e la promozione della salute dei cittadini come prioritaria rispetto al profitto d’impresa.
Stato di diritto. Ogni legge e normativa pubblica deve prevedere e garantire reale pari dignità e tutela tra il soggetto pubblico e il cittadino o entità sociale intermedia, in sede di contenzioso privatistico. In tal senso devono, ad esempio, essere garantiti i tempi e la certezza di pagamento da parte dello Stato e degli Enti pubblici verso fornitori e prestatori d’opera.
Strumenti e qualità della formazione. Prezzi e contenuti dei libri scolastici e degli strumenti didattici collegati devono andare rispettivamente in direzione di una evidente socialità i primi e di una altrettanto evidente caratterizzazione unitaria e integrata della formazione, i secondi, contrastando le spinte a una separatezza specialistica che DemocraziaComunitaria vede opportuna soltanto al livello universitario. Altresì, DemocraziaComunitaria annette valore essenziale e imprescindibile alla formazione permanente dei docenti, come di tutti gli adulti. 
Tassazione. Il criterio costituzionale della progressività, che trova la sua ragion d’essere nel principio valoriale della equità, va sempre ed in concreto misurato su di essa: vanno pertanto superate le condizioni inique prodotte tecnicamente sia dalla frantumazione distorsiva e sperequatrice delle norme sia da passaggi di aliquota mal calibrati quanto a gradualità.
Titoli di studio. La missione di formare la personalità dei ragazzi lungo tutta la loro vita fino alla soglia dell’università, è prioritaria rispetto a quella del rilascio di titoli di studio formali destinati al mercato del lavoro, e rispetto allo stesso mercato del lavoro, cui invece può essere più direttamente attenta l’università. In tal senso DemocraziaComunitaria propone di approfondire la ipotesi di superamento del valore legale dei titoli di studio, perché l’attenzione della scuola possa più e meglio concentrarsi sull’effettivo impegno formativo nei confronti degli utenti.
Tolleranza e rispetto in campo religioso. La laicità dello Stato si accompagna a una considerazione attentissima dei valori collegati con il riconoscimento della dignità integrale della persona e della dimensione trascendente della vita. DemocraziaComunitaria ritiene che la scuola, in particolare, debba accentuare la educazione alla citata importanza del trascendente ed al rispetto delle diverse vie attraverso le quali la persona realizza la sua esigenza di religiosità.  
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Democrazia Comunitaria

POLITICA: NOI RIPRENDIAMO LA VIA...

La espressione “ritrovare la via” fu di Luigi Sturzo, con riferimento ai grandi fondamenti necessari per una alta ed organica politica laica di ispirazione cristiana.
Il suo Partito Popolare, e la successiva Democrazia Cristiana che ne assumeva l’ispirazione e ne faceva evolvere  il programma, hanno costituito in questo senso esempi storici luminosi (basterebbe pensare allo stesso Luigi Sturzo e ad Achille Grandi per il primo partito, ad Alcide De Gasperi e ad Aldo Moro per il secondo): anche se, con il passare del tempo, hanno pure consentito, nei loro epigoni ed in un universo di adesioni diventato via via vastissimo e diversificato socialmente e culturalmente, esempi a volte mediocri e negativi. Come in genere capita nelle vicende umane, specialmente a partire dalla morte dei fondatori e dalla transizione della prima generazione. Del resto, ben pochi altri soggetti politici possono dire, nel mondo, di avere fatto meglio di questi due.
La storia di entrambi è ormai morta da tempo, come è morta la storia degli altri che, contestualmente con essi, determinarono la politica italiana per decenni. Ne rimangono oggi sparsi segnali soltanto a livello di singole testimonianze di persone e gruppi, anch’essi di diversificato valore morale e culturale; che manifestano sul piano complessivo caratteristiche comuni facilmente riscontrabili: molta buona volontà ma anche molta frantumazione, grande difficoltà ad autodisciplinarsi intorno a regole alte ed effettivamente vincolanti di comportamento e di metodo, prevalente orientamento alla critica degli altri soggetti politici piuttosto che alla costruzione del proprio, mancanza finale di un lider di sicuro e carismatico riferimento.
In questa situazione non sembra esserci molta e fondata speranza di conclusione positiva, a oggi 2021, del tanto auspicato progetto di ripresa organica del relativo movimento. Eppure non ci sentiamo di concludere neppure con un rassegnato quanto diffuso “non c’è nulla da fare, bisogna soltanto aspettare che qualcosa di meglio succeda”. Non possiamo accettare questo atteggiamento per due ragioni: la prima è morale, dato che ognuno deve comunque assumersi in ogni situazione la responsabilità di quanto dipende da lui, la seconda è politica, dato che è sempre meglio partecipare e sostenere le eventuali altre esperienze in atto nelle quali vi siano elementi di positività condivisibili e sviluppabili, piuttosto che limitarsi ad attendere passivamente “tempi migliori”.
Analizzando gli accadimenti degli ultimi trent’anni, ci sembra in realtà esserci stato un tentativo davvero organico e alto (uno solo) per caratura di impostazione morale, valoriale e programmatica, teso a riedificare un partito forte, nazionale e transnazionale, laico e di ispirazione cristiana: ed è stato quello che ha avuto a riferimento coordinativo Gianni Fontana, già deputato e senatore della Dc storica, ministro dell’agricoltura, studioso e cattolico impegnato. Nel novembre 2012 fu celebrato con il suo coordinamento il 19° congresso della Democrazia Cristiana storica, che avrebbe voluto riprendere giuridicamente, politicamente e culturalmente la eredità del partito già scomparso dalla scena politica italiana da oltre un decennio, adeguarne alle esigenze del ventunesimo secolo statuto e programma, riaffermarne ideali, valori e azione.
Ma fu un tentativo stroncato nel giro di poche settimane da un intervento annullatore della magistratura, sollecitato da controinteressati sulla base di istanze giuridicistiche formali, che rivelarono, a noi pare, l’esistenza marginale ma inquinante di ambigui interessi personali o di gruppo connessi sia al vetusto e disperso ma imponente patrimonio materiale della Dc storica (a partire dai non meno di cinquecento immobili) sia a inesauste speranze di riacquisizioni personalistiche e gruppuscolari di potere, sia infine, e soprattutto,  a una visione più ideologica che valoriale della ispirazione cristiana. Salve, naturalmente, le singole lodevoli eccezioni personali di diversi amici.
Da allora, la diaspora democratico-cristiana e popolare si è accentuata e si è dispersa ulteriormente. Avrebbe peraltro potuto venir ricondotta a sintesi alta e unificante, ancora una volta con il riferimento coordinativo di Gianni Fontana,  se non si fosse acceduto incautamente (la valutazione è nostra ma, riteniamo, ben comprovabile) a una scelta tendenziale di “ecumenismo organizzativo” che puntava ad accogliere in spirito di dialogo e unità di cammino tutte e singole le disparate, troppo disparate, realtà gruppuscolari e personali che aspiravano a partecipare all’impresa:  scelta rivelatasi tanto carica di ottime intenzioni quanto minata da mancanza di realismo.
A partire dall’impedito rilancio del 2012, e dal relativo documento di base di impostazione valoriale e programmatica, che era la relazione politica e programmatica presentata da Gianni Fontana, sono stati elaborati comunque via via documenti ulteriori di approfondimento, che consideriamo di alto valore e che fanno fede della piena e coerente adeguatezza e continuità della idea originaria di rinascita e rivitalizzazione del pensiero e dell’azione politica di ispirazione democratico-cristiana, cui manca, dunque, solo “capacità attuativa coerente”: sono stati elaborati, tali documenti, fino all’appuntamento del mese di ottobre 2018, quando parve che finalmente fossero maturate le condizioni di un pieno risanamento di tutte le questioni anche giuridiche frappostesi sul cammino di ripartenza, e fu indetto un nuovo congresso.
Ma toccò proprio a chi scrive la presente nota prendere formalmente atto finale, con rammarico, della assoluta e definitiva insussistenza delle condizioni statutarie e morali necessarie per tale ripresa, a motivo dello spettacolo avvilente di sotterfugi e forzature e falsificazioni e persino tentativi di violenza e proposte mediatorie fra interessi meno ideali e limpidi. Così dichiarammo definitivamente conclusa, almeno per quanto ci riguardava, la questione della Democrazia Cristiana storica. E tutto ciò che è seguito a tale data dell’ottobre 2018 è considerato da noi privo della caratura che occorre per poter rappresentare una speranza di ripresa strutturale per la qualità alta della politica nel nostro paese partendo da quella che fu la Dc storica-formale.  
E dunque, oggi? Oggi noi, con semplicità, umiltà e fermezza, ponendo fine a un tale tentativo rivelatosi sbagliato, decidiamo, semplicemente e onestamente, di riprendere la via originaria ma senza inquinamenti, la via che, dopo il blocco operato dalla magistratura nei confronti del congresso Dc del 2012, era già da noi sostenuta: dare vita cioè a una associazione e rete del  tutto nuova di cittadini di ispirazione cristiana, e laica di consonanti valori, decisi a riproporre semplicemente al paese, e a vivere essi stessi, la testimonianza di quegli ideali d’origine, convinti come siamo della loro altissima qualità intrinseca e della loro valenza e fertilità durature al di là di tutte le provvisorietà e contingenze della vicenda politica del paese, ma anche al di là di qualsiasi richiamo a un continuismo formale con quell’antica storia dei due partiti-matrice.
Non ci importa pertanto più, fra l’altro, il numero delle adesioni ma la loro qualità; non il successo elettorale ma la credibilità della testimonianza; non il ruolo di governanti ma quello di fertilizzatori di bene comune; non il colore delle possibili alleanze ma il loro orientamento effettuale al bene comune.
Ripartiamo con novità, dunque, Urge ripartire. E il modello più specifico intorno al quale ci organizziamo è quello che più volte abbiamo definito “monasteriale”: centralità della persona e insieme solidarietà comunitaria, statuto snello e insieme inderogabile nei confronti di tutti per la sua valenza etica e formativa ancor prima che organizzativa, formazione permanente e insieme integrata e per tutti, programma a scorrimento continuo ma orientato sempre dai valori e principi del bene comune, linguaggio semplice, chiaro, costruttivo.
I documenti principali di avvio di questo rinnovato impegno intendono essere lo Statuto, compresa la sua Premessa di Valori,  e il Vocabolario di programma, entrambi allegati alla presente nota. Si aderisce all’associazione con contestuali: a. accettazione integrale dello statuto stesso; b. versamento della quota annua di libero ammontare (a partire da un simbolico euro), c. firma personale per adesione. L’autore della presente nota provvederà, come ha già in parte fatto nei mesi trascorsi, a completare e mettere a disposizione di chiunque sia interessato la susseguenza storica degli altri documenti che testimoniano e fondano l’itinerario compiuto della presente iniziativa, a partire dalla già citata relazione introduttiva  congressuale del 2012 presentata dall’amico Fontana, e via via attraverso le successive fasi e analisi sviluppatesi presso la sede di Santa Chiara e fino alla evoluzione verso Democrazia Cooperativa e ora Democrazia Comunitaria, senza trascurare il notevole processo ancora in atto di Politicainsieme, di cui pure siamo stati, con Gianni Fontana, iniziatori e animatori.  
Come ogni corpo sociale vivo che nasce, i punti di partenza di questa nuova ripresa di cammino sono dati e certi attraverso questo documento e gli altri poco sopra citati, mentre la loro evoluzione possibile è affidata ai meccanismi di democrazia associativa, partecipativa e pluralista, ivi contenuti, secondo lo spirito ancora una volta sempre idealmente condiviso con l’amico Gianni Fontana.  
Crediamo soprattutto nella vocazione a sviluppo integrale della persona e della comunità, nel bene comune, nella ispirazione cristiana, nella fraternità universale, nel diritto e dovere al lavoro e alla formazione permanente per tutti, nella impresa partecipativa e nella economia di cointeressenza, nella famiglia e nella vita fin dal suo concepimento, nel ruolo attivamente equitativo dello Stato, nella democrazia personalista e solidale. Siamo “Democrazia Comunitaria”.
                                                                                                                                     (Giuseppe Ecca)
Roma, 10 maggio 2021.
 
                                                                                                       °°°°°

P.S. DemocraziaComunitaria, pur operando già da alcuni anni come libero gruppo di amici che condividono ideali, discutono e propongono, ha avviato dunque la procedura di regolare registrazione giuridica della sua realtà associativa. Comincerà pertanto fin dai prossimi giorni la sua graduale attività anche statutaria.
Chi desidera prendere contatto, ricevere il testo dello statuto o il Vocabolario di programma (già ricco di un certo numero di voci ma destinato naturalmente a crescere con gradualità secondo il metodo citato della democrazia associativa) può rivolgersi fin da ora, oltre che al sottoscritto, all’amico Maurizio Principali (democraziacomunitaria@gmail.com) il quale assume in questa fase di avvio il ruolo di referente operativo e politico insieme con lo stesso sottoscritto, salve le determinazioni che verranno fin dai prossimi giorni assunte e comunicate dagli organi provvisori anche per quanto riguarda tutti gli altri amici che concorrono a questa speranza e a questa impresa.
Mi è intanto gradito preannunciarvi che alla unanimità il gruppo di amici citati ha espresso, su mia doverosa proposta, l’auspicio che Gianni Fontana voglia assumere in tale impresa comune il ruolo di presidente onorario a vita, sancito dalla sua storia e dagli ideali condivisi.
Infine, a quanti leggeranno questo messaggio va la nostra richiesta di una ragionevole comprensione per la gradualità con la quale, in prima fase, saremo in grado di far fronte alle sollecitazioni di informativa e di iniziativa, in quanto l’associazione nasce (e di questo ci vantiamo) in assoluta e francescana povertà di mezzi. Siamo tutti volontari e… disponiamo per ora soltanto della nostra sincera buona volontà e dedizione personale. A tutti voi il nostro grazie per l’attenzione prestata anche soltanto a questo messaggio.
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Cultura e società

DAVANTI AL FENOMENO DELL'"IMBAGASCIMENTO DEL LINGUAGGIO"

Quando sentii la parola per la prima volta, pronunciata in un ambiente di studio tutt’altro che maleducato, come è da sempre il Censis di Giuseppe De Rita, rimasi interdetto: avevo capito bene? Eppure sì, la parola era proprio “imbagascimento” e si riferiva alla crescente banalizzazione, a volte trivializzazione, spesso sciatteria, e inzeppamento istupidito di gergalismi e inglesismi, all’interno della bellissima lingua italiana, da parte anche di giornalisti e divulgatori di ogni settore. Fenomeno strano, che in una certa misura ci riporta a tempi lontani, quando l’Italia insegnava arte e civiltà al mondo ma nessuna città italiana, orgogliosamente repubblica o signoria a sé, riusciva ad andare d’accordo con nessun’altra e tutte preferivano un dominatore straniero a un’alleanza con altri italiani. Il fenomeno preoccupante riprende in chiave linguistica? Non è davvero strano che questo fenomeno sia oggetto di studio da parte di autorevole istituto come il Censis, a sottolinearne la gravità. Nel 1917, in particolare, il Censis organizzò sul tema un intenso convegno, del quale riportiamo qui uno degli interventi significativi.
 
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Nel nostro paese è in corso, per dirla con Gadda, un processo di imbagascimento del linguaggio, che è un atto socialmente eversivo.
 
Il linguaggio per noi ordinario (quello dei lettori di libri e giornali… quello degli atti pubblici…) “è sempre meno connotante e unificante: tende a essere sostituito da un lessico gergale, strutturalmente povero, senza articolazioni, segnato da istinti pauperistici e nei fatti vocazionalmente plebeo; diventa sempre meno utilizzabile, quindi, per mobilitare scambi e convergenze di pensiero e opere”.
 
E’ comprensibile che fra noi cittadini italiani non si riesca a stabilire significativi rapporti di dialettica, o almeno di relazione. Il turpiloquio che inonda la nostra vita collettiva non aiuta a capirci, rimuove le relazioni fra i soggetti, anzi è fatto apposta per romperle (si pensi al valore a dir poco distanziante del “vaffa”).
 
Nella storia italiana sono arrivate prima le idee e le parole, e solo dopo sono arrivate le opzioni politiche, l’azione programmatica, l’azione operativa. Le parole che hanno guidato le trasformazioni sociali sono state fatte di atti amministrativi per costruire la macchina pubblica, di libri di testo per fare lo sviluppo scolastico, di retorica indipendentista per fare le guerre…
 
Allora il linguaggio modellava il corpo sociale, oggi sembra avvenire il contrario: la società si disarticola, si scompone, si deteriora, e tutto ciò induce silenziosamente la crisi della lingua.
 
E’ come se la società non volesse o non potesse più crescere, ma volesse restare così com’è, lasciando la lingua a logorarsi nella sua diminuita funzione, nella propensione a esasperare i toni per coprire il vuoto crescente di contenuti.
 
Si scorrazza a piacimento con una grande carica di soggettività anche etica e non senza una forte componente di rancorosità che è dentro i messaggi.
 
L’evoluzione degli ultimi decenni ha creato un enorme, indistinto ceto medio ma non ha costruito una borghesia capace di iniziativa autonoma e di responsabilità.
 
Si può arguire che la cetomedizzazione abbia lasciato come eredità in queste persone un atteggiamento più o meno consapevole di rancorosità per la incompiutezza di un processo che ha messo in circolo anche paure di regressione e di passività economica e culturale.
 
A oggi sembra di poter dire che si vadano delineando due realtà: una di soggettività ancora più spinta, vera “coriandolizzazione” dei comportamenti e dei linguaggi, un’altra di moltiplicazione di nuove tribù di interessi e identità, che a loro vota segmentano il linguaggio.
 
Va tentata l’impresa di risemantizzare la nostra lingua. Ancora, infatti, è la lingua che fa la nazione: se la lingua è povera, anche la società rischia di essere povera.
 
Si è detto che si tratta di impresa “difficilissima dall’alto perché ci vorrebbero troppi cicli di esercizi spirituali di stampo ignaziano”. Si può però egregiamente lavorare per un arricchimento del lessico quotidiano e della sua correttezza, in ottica di ricca poliarchia linguistica.
 
E’ stato detto che:
“Viviamo nel paese dove, sciatto, L’ok suona.
Il maestro mixa fuori delle sale di missaggio.
Il padre cancella panzane e passa a fake news.
Il bidello sbraita voci onomatopeiche.
Il compagno si crogiola nelle trivialità.
Il nonno convivente gronda burocratese.
La mamma non incoraggia lettura idonee”.
 
L’impoverimento nell’uso delle parole è il tema vero di oggi. Che avvantaggia i costruttori di false verità, i propagandisti, i populisti, le tecnostrutture che dietro gli specialismi e gli inglesismi nascondono interessi e poteri. Per uscirne serve rimettere buoni libri in mano ai ragazzi, fin dalle scuole elementari. E insegnare a leggerli, a raccontarli, a farne punto di partenza per una scrittura esatta. Essenziale, ricca di valori e di senso.
 
La lingua ha un potere ordinante (interpretativo) e mobilitante (emotivo) che, insieme contribuiscono a creare identità e destini comuni.
 
Togliatti (per non citare sempre Gramsci), aveva ordinato ai suoi redattori di non evitare le parole difficili e le complicazioni insite nella lingua colta: che gli operai imparassero e non gli si rendesse la vita artificialmente facile.
 
Probabilmente Togliatti immaginava che la classe operaia avrebbe fatto lievitare i suoi valori positivi e profondi: ma accadde che invece essa si imborghesì puntando ai falsi valori della borghesia, consumismo, macchina, frigorifero, vacanze e tinello.
 
Nella scuola andrebbe reintrodotto un principio di severità: ma si concilia il principio di severità con la ricerca del consenso sui cui è basato il nostro gioco politico?
 
Tra il Milleduecento e il Millequattrocento il rapporto fra latino e lingue volgari della penisola fu alto: il latino era correttamente parlato come lingua veicolare e le lingue volgari non venivano volgarizzate. Dante è stato maestro in questo, tanto è vero che oggi capiamo benissimo Dante, mentre un inglese e un francese o un tedesco non sono più in grado di capire le coeve lingue dei loro paesi.
 
Asor Rosa arriva a dire che nel Risorgimento italiano vinsero i moderati e non i radicali perché ai primi il Manzoni aveva dato una lingua capace di dialogare con lessici specialistici e dialetti, cosa che i secondi non avevano.
 
La decadenza linguistica fa parte di quel pensiero unico che ha rivoluzionato la cultura europea negli ultimi quarant’anni. La cosiddetta morte delle ideologie non è che una ideologia più forte delle altre perché si sottrae a qualsiasi verifica critica. E questa ideologia si è impossessata del nostro presente soprattutto a partire dalla rivoluzione mediatica che ci ha travolti.
 
Carlo Freccero osserva: “L’ibridazione della nostra lingua con l’inglese, che non è una lingua neolatina, e la trasformazione della lingua da fini teorici a fini pratici, hanno voluto rappresentare un veicolo per interagire con i nuovi media. La nuova scuola trasferisce l’obiettivo della istruzione dalla “formazione del cittadino” all’”avviamento al lavoro”, da un ideale astratto a finalità concrete, dal pensare al fare”. E lo fa ridimensionando la nostra lingua rispetto ai nuovi miti della comunicazione: l’inglese e il computer. Già adesso è prevista la discussione in inglese di testi classici.
 
La lingua italiana è transitata da strumento di pensiero critico a strumento del fare. E da strumento di letteratura a strumento di manualistica.
 
Oggi la cultura europea non è insidiata tanto da culture diverse, come l’islamismo, ma da appiattimento e depotenziamento, e additata come obsoleta dal pensiero unico.
 
Purtroppo prosperano tribù poliglotte che usano uno standard english ancora più povero dell’italiano standard “scritto come parlato”, da cui partono.
 
Nella primitivizzazione del dialogo si segnala un dettaglio che colpisce: l’immenso uso del turpiloquio nel dialogo tra i ragazzi nei contesti urbani, con particolare maniacalità nelle ragazze, fino all’uso, che purtroppo non è desueto, della bestemmia.
 
                                                                                                                   (Censis, anno 2017)
                 
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Politica e Società

IL CITTADINO IN AFFANNO CON IL SISTEMA SANITARIO PUBBLICO

Ampio estratto da una riflessione di Giuseppe Bianchi, svolta prima che la pandemia rompesse gli argini alterando tante valutazioni diffuse nei tempi di normalità, ed evidenziando punti deboli insospettati, come ad esempio quello lombardo. Tuttavia la riflessione torna a segnalare la necessità giusta di restituire al sistema sanitario pubblico ed alla politica sanitaria una centralità che non è soltanto affermazione necessaria dello Stato sociale ma anche fattore vivo di sviluppo economico e occupazionale.  
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Il rapporto cittadino-sistema sanitario, e soprattutto cittadino-sistema ospedaliero, è decisivo nell’influenzare la qualità del rapporto cittadino-Stato.  Rapporto che oggi viene vissuto in condizioni di stress reciproco: stress dello Stato le cui offerte di prestazioni sono sottodimensionate rispetto alla domanda; stress del cittadino nel percorrere le strade impervie per accedere alle prestazioni richieste.

Stanno così allargandosi alcune crepe nel sistema pubblico sanitario su cui intervenire per mantenere la sostenibilità dell’impianto complessivo.
La prima crepa riguarda il suo carattere universale e ugualitario. Gli squilibri tra domanda ed offerta stanno diffondendo pratiche oblique di accesso alle prestazioni sanitarie e soprattutto a quelle ospedaliere, basate su relazioni privilegiate. La visita privata del primario, la conoscenza di operatori interni, le raccomandazioni importanti, invertono spesso l’ordine di priorità con la penalizzazione dei ceti sociali più deboli.
La seconda crepa è l’arroccamento, a fini di autodifesa, delle strutture burocratiche di gestione (medici e figure ausiliarie) nei confronti di una pressione esterna alimentata da una domanda insoddisfatta. Situazione che provoca stress nelle condizioni di lavoro interne, ma che, nello stesso tempo, dilata l’area della intermediazione clientelare.
Tutti i dati disponibili di natura demografica, finanziaria, tecnologica, concorrono nel dire che le suddette crepe sono destinate ad allargarsi, compromettendo la conquista sociale più importante del secondo dopoguerra.
Non conforta il cittadino l’ormai cronica contrapposizione nel dibattito politico fra sanità pubblica e sanità privata che non rimuove le sue alternative nel caso del bisogno: indebitarsi per lungo tempo se ricorre alla sanità privata o attendere i tempi lunghi (non sempre disponibili) della sanità pubblica a costo zero.
Nel mezzo c’è un’ampia fascia di cittadini che vorrebbe soluzioni intermedie accollandosi una parte ragionevole dei costi. Si tratta di allargare l’offerta di servizi sanitari, integrando investimenti pubblici con investimenti privati, grazie a nuovi modelli di regolazione nell’accesso alle prestazioni sanitarie. E’ il caso del cosiddetto welfare aziendale che vede impegnate soprattutto le medio-grandi imprese nel creare fondi per una sanità integrativa a favore dei propri dipendenti. E’ anche il modello Lombardia la cui politica per la sanità, basata sul regime delle convenzioni, ha dato vita ad una struttura di eccellenza come il S. Raffaele anche se, nello stesso tempo, non ha impedito iniziative truffaldine promosse da investitori privati disonesti.
Ricondurre il sistema sanitario alle sue funzioni inclusive originarie non è un problema solo di regole che attraggono nuovi investimenti pubblici e privati e di più avanzate capacità manageriali ed organizzative. Occorre dare centralità all’autonomia di chi ha la responsabilità di vertice di queste strutture ponendo anche le strutture sanitarie pubbliche al riparo dalle interferenze politiche e da appesantimenti normativi e burocratici superflui.
In questo contesto va recuperata e valorizzata la funzione del controllo interno, non solo nella sua dimensione contabile per evitare ruberie rilevate ex post dalla magistratura anche in Lombardia, ma nella sua funzione di programmare, per poi controllare, un percorso di recupero di sprechi ed inefficienze così da combinare la migliore soddisfazione del paziente con il minor costo delle singole prestazioni sanitarie.
La prima conclusione da trarre è che il tema della salute deve tornare al centro del dibattito pubblico, come lo fu negli anni ’70, anche perché milioni di cittadini traggono dai loro rapporti con le strutture sanitarie il loro giudizio sullo Stato e le sue politiche.
La seconda conclusione deve prendere atto che il sistema sanitario è parte di una filiera produttiva (ricerca, industria, servizi) in grado di concorrere alla ripresa della crescita per soddisfare una domanda interna ed internazionale di salute in continuo aumento. L’Italia ha le competenze per aprirsi alle potenzialità della nuova sanità digitale.
In sintesi il tema della salute non è solo spesa pubblica da contenere ma pilastro potenziale di sviluppo di un sistema articolato e complesso che richiede una gestione pubblica e privata accorta e programmatica.
Una strada perché lo Stato ritrovi la fiducia dei suoi cittadini.  
                                                                               
                                                                                                                     (Giuseppe Bianchi, Isril)

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MM




 

Personaggi

A PROPOSITO DI DON CAMILLO E PEPPONE

“Peppone e don Camillo…”: e giù risate. Ancora, il grande capolavoro di Guareschi fa sorridere, rasserena e infonde positività. Ma per il misterioso destino che a volte colpisce autentici capolavori e i loro autori, si pensa diffusamente a Guareschi e alla sua opera come a una sorridente descrizione bonaria della realtà dell’Italia dell’immediato dopoguerra, tesa a togliere, quasi per principio, drammaticità e importanza effettivamente decisiva agli eventi che in quella società si svolgevano. Vale invece assolutamente la pena di sottolineare che Giovannino Guareschi è una grande personalità umana, civile e politica, e la sua opera, e i personaggi particolari di Don Camillo e Peppone, oltre che un capolavoro d’arte sono un capolavoro di cultura civile e politica, raffinato e impegnato. Ne riproponiamo una interessante segnalazione specifica.
 
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Guareschi è famoso soprattutto come autore del Don Camillo. Non molti, però, conoscono l’ampiezza della sua produzione, e soprattutto la sua forza di carattere.
 
Quest’uomo ha affrontato ben due prigionie: la prima in un campo di concentramento tedesco, la seconda nelle carceri italiane. Ed entrambe per una pura questione di principio (nel primo caso, in particolare, perché rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò).
 
Moralmente, inoltre, egli era una delle colonne portanti del campo, nonostante la salute declinante (quando arrivò pesava 86 chili; quando se ne andò, 46). Fondò persino una sorta di giornale clandestino: scriveva articoli che poi diffondeva oralmente, leggendoli nelle baracche per rialzare il morale dei compagni. “Signora Germania” fu, appunto, uno dei pezzi più fortunati.
 
In questo brano troviamo la stessa semplicità dei racconti di Don Camillo (una semplicità, peraltro, non priva di ricercatezza, perché tutto il testo è costruito su metafore e simmetrie). Guareschi stesso, infatti, si vantava di usare in tutto 300 parole per scrivere i suoi racconti. E tuttavia è riuscito a comunicare un’incredibile profondità di sentimenti. Ma da dove viene questa forza?
 
Sicuramente le sue scelte lessicali sono provocatoriamente incisive, e lo stile affabile cattura il lettore senza che se ne accorga. Ma non solo: Guareschi si sforza di trovare parole che abbiano un’eco diretta nell’esperienza del destinatario. Parole, cioè, tanto vitali da poter sopravvivere anche in contesti in cui ogni retorica si disgrega.
 
E non sceglie parole di odio, la cui potenza è più immediatamente percepibile. Sceglie invece di richiamarsi ad altre risorse: la dimensione affettiva (il ricordo di casa) e spirituale (la fede religiosa). Questo infatti è, secondo Guareschi, il nucleo profondo e universale dell’anima umana.
E dunque a partire da questo si può costruire un ponte tra gli uomini, ricordando loro la propria dignità. Una vera «fregatura» per ogni riduzionismo ideologico.
 
Ecco il suo pezzo “Signora Germania”, tratto da Diario clandestino:
 
Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. È inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. […] Entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. […] Tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. […]
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania.
 
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MM
 
 

Internazionale

PAPA FRANCESCO IN IRAQ TERRA DI ABRAMO

Nakia Matti Pauls è una carissima amica irachena, cristiana: di quell’antichissima comunità cristiana irachena che, mi ricorda sempre con commozione ed orgoglio, risale fino ai tempi degli apostoli, all’apostolo Tommaso in particolare. Nakia porta oggi dentro di sé le ferite di questa terra, una terra da anni senza pace, vittima del terrorismo ma, prima ancora, delle macerie lasciate da dubitabilissimi interventi della politica internazionale anche occidentale, dopo secoli di convivenza costruttiva fra religioni. Di grande cultura (fu docente e dirigente scolastica per lunghi anni prima di trasferirsi in Italia) Nakia vede nel viaggio-pellegrinaggio di Papa Francesco che oggi è cominciato, il segno di un inizio di ricostruzione di pace finalmente credibile. Forte del dialogo fraterno che in quel territorio le tre religioni monoteiste seppero testimoniare così a lungo: e ce ne parla in questo articolo, pubblicato nei giorni scorsi per la rivista “San Bonaventura”.

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Il logo del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq reca, in alto, la dicitura “Voi siete tutti fratelli” (citazione dal Vangelo di Matteo 23,8), scritta al centro in aramaico, a destra in arabo e a sinistra in curdo, a forma di sole sorgente sull’Iraq, con i due fiumi, il Tigre e l’Eufrate, e le bandiere del Vaticano e dell’Iraq con il suo tricolore orizzontale rosso, bianco e nero e al centro la scritta “Dio è Grande”, sormontate da una colomba che porta nel becco un ramoscello di ulivo. Alla base una palma e Sua Santità in atto di benedire questa terra, martoriata e ferita da aggressioni e violenze.
Papa Francesco intende, con questo viaggio desiderato da anni e voluto anche dal suo predecessore san Giovanni Paolo II (che aveva rinnovato senza sosta e con la massima chiarezza i suoi appelli alla pace nel 2003), portare il proprio amore paterno verso un popolo da anni sofferente, e trasmettere il significato della pace e del vivere in armonia e rispetto fraterno, seppur nelle differenze religiose, etniche, culturali, ecc..., perché l’amore e la misericordia di Dio sono più grandi di ogni differenza. Le immagini del logo simboleggiano per questo la pace, l’amore, l’unità, l’armonia e il rispetto.
Il logo speciale del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq e, in particolare, a Baghdeda (Qaraqosh), è frutto della creatività del giovane Ragheed Nnwaia e della convinzione che “è un dovere usare i simboli storici ispirati alla storia di Baghdeda, e questo è ciò che abbiamo fatto”. L’arco a volta presente nel logo è uno dei più importanti simboli di Baghdeda, denominato “Qantarat Al-Ina”, o “Arcata della Famiglia di Ina”, ora non più presente, ma che resta scolpito tuttora nella memoria e nella coscienza di tutti gli abitanti del Paese.
L’arco a volta fa da cornice all’immagine di papa Francesco, racchiudendola sotto di sè. Tale arco è stato, in passato e per lunghi secoli, un passaggio di accesso al centro di uno dei vicoli della città antica, prima della sua scomparsa, fino a diventare, durante tutti quei secoli, uno dei simboli identitari della città e dei suoi abitanti che l’hanno costruita con le proprie braccia. Al centro di questo arco vi è il Santo Padre nell’atto di benedire. L’arco delinea, nella sua forma generale, anche il profilo della Chiesa cattolica, simboleggiante la storia del Paese ma anche l’antico disegno delle porte lignee delle case di Baghdeda, a richiamare come il Papa entri nelle case di tutti gli abitanti dell’area, come segno del loro amore per Lui. Al centro dell’arco a volta è rappresentato il Santo Padre che porta sulle spalle una stola tradizionale ricamata a mano tipica di Baghdeda (tuttora indossata nelle festività), i cui disegni raffigurano la storia di questo popolo e del Paese, la profondità della sua civiltà e delle sue radici storiche.
L’anziana donna vestita di nero, nell’angolo inferiore a destra, sta a significare la terra che dona con generosità, la madre Baghdeda, madre dei martiri di tutti i tempi e, pertanto, indossa un abito nero, come vuole la tradizione del lutto nel Paese. È rappresentata nell’atto di lavorare all’uncinetto, per sostentarsi e poter sopravvivere in assenza degli uomini, come madre che deve ricostruire la storia di Baghdeda, come dovesse “ricamare”, appunto, e ricostruire la storia stessa del Paese. Si fa riferimento anche al sangue dei martiri come seme di vita: il martirio è un atto normale per i Baghdedani, in quanto cristiani fin dall’origine. Si ricorda il martirio dei due sacerdoti di Baghdeda per mano degli Ottomani, la cui commemorazione cade il 29 giugno (festa dei santi Pietro e Paolo). Essi sono il simbolo di tutti martiri del Paese, compresi quelli della guerra con l’Iran, che ha strappato alla vita migliaia di giovani e, ultimamente, i martiri uccisi dalle bande terroristiche di Daesh/Isis. Viene poi richiamata l’immagine dell’esodo e del ritorno, degli sfollati e degli esuli, fuggiti soprattutto nella metà del 2014, quando gli abitanti del Paese hanno dovuto lasciare le proprie case, le proprie Chiese e la propria storia, in una scena di vero e proprio esodo.

Ma quali sono le aspettative del viaggio del Papa? Si tratta di un viaggio molto importante, una tappa motivata dalla fratellanza universale. Fratelli tuttiè un messaggio molto forte e profondo, una prospettiva che fa abbracciare la civiltà antica con il presente massacrato dalla violenza, dalla crudeltà, dalle guerre e dalle sofferenze. Papa Francesco è il primo pontefice a visitare questa terra e il popolo iracheno che, provato dopo tanta sofferenza e distruzione, ha bisogno di questa visita con la quale il Papa porterà la pace, l’amore, la tenerezza di un Padre verso i suoi figli smarriti e sfiniti dagli eventi vissuti durante tutti questi anni.

Il viaggio del Santo Padre significa tanto per un popolo che proviene dal diluvio, cosi sofferente e provato da lunghi anni di guerra, afflizioni, attacchi, aggressioni settarie e terrorismo, ed è un punto di partenza per intraprendere un dialogo interreligioso, un incontro tra tutte le religioni, rompere la catena del rancore, gli ostacoli e le barriere che si frappongono, al fine di suscitare il sentimento della fratellanza, della collaborazione costruttiva tra tutte le comunità del popolo iracheno, sia a livello religioso che politico, per creare e costruire uno Stato Iracheno moderno e forte, e ridare lo spirito di speranza a tutti gli iracheni e, soprattutto, ai giovani che attendono un futuro migliore.
Il Papa aprirà per tutto il popolo iracheno una porta sul dialogo e il rispetto reciproco, come era una volta: un popolo che conviveva in maniera pacifica con tutti, prima che si intromettessero i nemici nel Paese; prima dell’azione divisiva di alcuni gruppi. Il dialogo e l’intesa tra i cristiani e i musulmani in Iraq non si erano mai interrotti: il Patriarca cristiano seguiva il Califfo musulmano quando questi cambiava la propria residenza, per continuare i loro incontri nell’ambito di un dialogo continuo.
La presenza del Santo Padre rafforzerà i rapporti tra tutte le componenti del tessuto sociale iracheno, sia dal punto di vista religioso, grazie all’incontro tra rappresentanti cristiani, musulmani sunniti e sciiti, ebrei, mandei, yazidi, bahai, ecc ..., sia a livello politico: un evento straordinario, che ridisegnerà gli equilibri interni ed esterni del mondo islamico e cristiano.

Questo viaggio sarà un incoraggiamento ad andare avanti e a restare attaccati alla terra dei propri antenati: alla Mesopotamia, terra del primo uomo Adamo, nel giardino di Eden; terra del padre delle genti Noè, e terra della prima rivelazione di Abramo, nato a Ur dei Caldei; terra della prima legge di Hammurabi, re di Babele; culla dei profeti Ezechiele, Daniele, Naum e Giona (nella cui ricorrenza i cristiani ancora oggi osservano il digiuno tradizionale locale di tre giorni, chiamato digiuno di “Ba’uth Ninawa”, ovvero “Rinascita della gente di Ninive”).
La presenza del Papa esorterà i profughi e gli esuli a tornare nella terra dei loro padri, dei loro nonni e dei loro avi. Il Cristianesimo in Iraq ha messo radici fin dal primo secolo dopo Cristo, per mezzo di san Tommaso apostolo. In passato, i cristiani dell’Iraq raggiungevano quasi 1,5 milioni di abitanti, ma dopo la comparsa di Daesh, si sono ridotti a circa 300-400 mila; nonostante ciò, l’elemento cristiano rimane una presenza meravigliosa e luminosa.

A Mosul, nella Piana di Nineve, il Papa pregherà per tutte le vittime della guerra, nella Chiesa costruita dai Padri Domenicani italiani nel 1762, chiamata Chiesa dei Padri Domenicani; successivamente, vennero i padri domenicani francesi, i quali portarono con sé un grande orologio che fu innalzato su un torre nella piazza della Chiesa e, da allora, la Chiesa prese il nome di “Chiesa dell’Orologio”.
A Qaraqosh, il Papa reciterà la preghiera dell’Angelus nella Chiesa dell’Immacolata (Al-Tahira), costruita nel XIII secolo; sin dall’avvento del Cristianesimo nel Paese, tale Chiesa prese il nome di “Chiesa della Madre di Dio” e, successivamente, “Chiesa della Vergine” (1129), mentre oggi viene chiamata “Chiesa dell’Immacolata” ed è, attualmente, un santuario afferente all’Ordine del Sacro Cuore di Gesù; accanto ad essa, venne costruita la nuova “Chiesa dell’Immacolata”, la cui prima pietra venne posta nel 1932, per essere,
in seguito, costruita dagli stessi fedeli, mossi dal proprio zelo e collaborazione reciproca. Le Chiese presenti a Qaraqosh, in ordine di antichità storica, sono la Chiesa dell’Immacolata (o Chiesa Vecchia dell’Immacolata, attualmente santuario dell’Ordine del Sacro Cuore di Gesù), Chiesa di Mar Zena, Chiesa di Sarkis e Bakos (Chiesa di Sergio e Bacco), Chiesa di Mart Bshmoni, Chiesa di Mar Korghis (Chiesa di San Giorgio), Chiesa di Mar Yuhana Al Ma’madan (Chiesa di San Giovanni Battista), Chiesa di Mar Yacob Al Muqatta’ (Chiesa di San Giacomo l’Interciso), Chiesa Nuova dell’Immacolata, Chiesa dei Martiri Bahnam e Sara (2008), Chiesa della Speranza, di cui è stata posta finora solo la prima pietra.
Nell’area si trovano anche diversi santuari e conventi: Santuario e cappella della Regina del Rosario dei Padri Domenicani (Ordine di Mar Abd al-Ahd), Santuario e cappella dell’Ordine di Maria Vergine Concepita senza peccato, Santuario e Cappella dell’Ordine di Mar Polos (San Paolo), Convento di Mar Yohanna Al-Daylami o Muqertaya, Convento di Mar Qiryaqos, al cui interno è stato, di recente, costruito il “Convento della Croce”, Convento di Gesù Redentore, costruito nel 2009, afferente alla Comunità di Gesù Redentore dei Frati di Gesù Redentore.
è anche interessante ricordare come Qaraqosh è una parola turca che significa “passero nero” e il Paese
ha assunto questo nome durante l’occupazione ottomana; alcune leggende attribuiscono tale nome agli
abiti neri che indossavano gli uomini e le donne del posto. Baghdeda è, invece, una parola persiana che
significa “Casa di Dio”, o“Casa degli Dei”. È difficile parlare dell’identità e dell’antichità di Baghdeda, perché essa comprende molteplici etnie, data la sua funzione di ponte che ha visto il passaggio di moltissime generazioni e di diversi popoli. Si tramanda anche che il borgo di Baghdeda sia di origine aramaica, mentre, secondo altre versioni, sarebbe di origine araba; la lingua parlata è l’aramaico, nella sua versione dialettale locale.
 
                                                                                                                      Nakia Matti Pauls
                                                                                               (lavora presso l'ambasciata della Repubblica dell’Iraq in Roma)

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Magistratura e politica

MBEH... E VOI?

Ministro della giustizia nel nuovo governo Draghi è Marta Cartabia, che viene dalla esperienza prestigiosa e autorevolissima della Corte Costituzionale, e della quale pare fondata una opinione largamente positiva. Costituisce dunque la speranza di un ministero autorevole e rigoroso, attivo, credibile e responsabile. Il paese ne ha bisogno, davanti a una situazione lenta, burocratica, a volte inaffidabile, quale è attualmente quella della giustizia italiana. A sintetizzarne le problematiche di fondo ci sembra utile ripubblicare una riflessione risalente al 2016, che prendeva spunto dalla recente (in quel momento) nomina di Pier Camillo Davigo alla presidenza dell’Associazioni Magistrati.
 
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Piercamillo Davigo, diventato da una manciata di giorni presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, alla notizia della sua elezione mi ha immediatamente fatto tirare un respiro di sollievo: perché quella di Mani Pulite, alla cui squadra storica egli appartiene, fu una fase di forte presa di coscienza del nostro paese su sestesso e sul suo incamminamento civile e politico da correggere.
 
Perciò, in un lampo, ho pensato (e per la verità penso tuttora) che un nuovo tassello di speranza si possa inserire nella travagliata situazione italiana proprio grazie alla sua azione.
 
Certo, furono anche commessi degli errori, da parte di quella squadra di magistrati, e specialmente da parte dell’irruento Di Pietro (basti ricordare il gaglioffo avviso di garanzia consegnato a Berlusconi proprio nei giorni nei quali il tronfio ma povero arcorino rappresentava, come capo del governo, il nostro paese in una importantissima assise mondiale; oppure qualche probo cittadino chiamato in causa e mandato avventatamente in carcere, e scosso nella reputazione, prima che il fondamento delle sue responsabilità venisse davvero chiarito): ma fondamentalmente vivemmo, in quella stagione storica e grazie a quella squadra di magistrati, una fase per la quale il paese ebbe un soprassalto di coscienza che avrebbe potuto costituire l’inizio di una grande ripresa anche etica, solo che la classe politica, la scuola, il movimento sindacale, altri gangli importanti della vita italiana, e la stessa magistratura nella sua complessività, avessero saputo coglierne l’opportunità per innescare potentemente e costantemente un’azione correttiva e moralizzatrice sui comportamenti pubblici e privati.
 
Non fu così ma, per le coscienze limpide, “Mani Pulite” resta tuttora un esempio di iniziativa reattiva di responsabili della cosa pubblica davanti a momenti di crisi, da non dimenticare e da cercar di reiterare, in ogni settore della vita nazionale, a cura di ciascuno di noi per quel che a ciascuno di noi sia possibile.
 
Piercamillo Davigo, dunque, con la sua elezione a presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati  ha riacceso oggettivamente una speranza che io credo possa ancora essere coltivata. Ma non posso negare, nello stesso tempo, che dopo appena qualche giorno dalla sua elezione, in questo stesso scorcio di fine aprile, egli ha riacceso anche un inquietante quesito. Se ho capito bene il riferimento della notizia televisiva che ho colto quasi per caso in quei giorni, egli ha rilasciato una dichiarazione, o intervista, nella quale ha perentoriamente ed esplicitamente affermato che “la classe politica italiana, dopo Mani Pulite, ruba più di prima e si vergogna di meno”.
 
Una dichiarazione pesantissima, che è assolutamente rispondente al vero anche nella mia coscienza: è infatti la medesima opinione che io stesso mi sono costruito in questi lunghi anni di esperienza di vita, immerso nel mare agitato della nostra società, comprese vicende e uomini e donne politici, amministratori, accademici, operatori economici, insegnanti, professionisti di ogni settore, semplici cittadini di ogni specie e territorio e ruolo.
 
Rubano assolutamente di più, e si vergognano assolutamente di meno. Per scrupolo doveroso di coscienza ho provato a chiedermi, molte volte, di fronte a tale drammatica constatazione, se non possa trattarsi in realtà di altro fenomeno: quello secondo cui, come a volte viene osservato, “non è che si rubi di più: è che ora le cose si sanno di più…”. Ma ogni verifica effettuata mi ha smentito: è vero che si ruba proprio di più, e ci si vergogna proprio di meno.
 
E questo terribile stato di cose non è l’effetto paradossale di Mani Pulite, come pure è stato insinuato da qualche superficiale: Mani Pulite è stato un banco di prova che ha semplicemente dimostrato alla parte peggiore del paese che, se si lasciano crollare contemporaneamente tutti i sistemi formativi del paese stesso, e se altri gangli vitali del paese non concorrono attivamente nella ripresa morale del costume diffuso, questa è la fine che il paese tende a fare: cioè, le cose non soltanto non migliorano ma possono peggiorare.
 
Ora, i sistemi formativi del paese, appunto, sono stati fatti crollare: tutti e contemporaneamente. Nel giro di trent’anni. Quelli dei partiti, quelli dei sindacati, quelli aziendali (dove c’erano), quelli amministrativi, persino quelli militari (almeno in parte, a me pare) e quelli generali e istituzionali, a cominciare dalla scuola di Stato (ma non esclusa la scuola cattolica: non si illudano i miei fratelli di fede!). Né altri gangli vitali del paese hanno testimoniato una capacità reattiva di fronte alla china negativa: non il sindacato, ad esempio, né la pubblica amministrazione… In questo quadro è comprensibile e logico, dunque, che si rubi di più, e che rubino di più soprattutto i politici, per il semplice fatto che tendenzialmente hanno più occasioni e più potere per farlo.
 
Nonostante ciò, Piercamillo Davigo ha sbagliato il suo intervento (e questo mi è molto dispiaciuto) in  almeno due dimensioni:
 
  • Quella dell’analisi; in effetti non “ruba di più” la classe politica, ma la più complessiva classe dirigente del paese, a cominciare da quella amministrativa (dirigenti e funzionari con poteri di rappresentanza e firma, centrali e periferici, a volte di fatto più potenti dei politici a cui formalmente rispondono: e mi pare addirittura che, in proporzione, le regioni e le realtà locali siano più pasticciate dello Stato) e rubano non meno, secondo le loro possibilità, tanti impiegati, pubblici e privati, giovani e vecchi, acculturati e non; rubano anche tanti operai, quando capita, fra gli attrezzi di lavoro, ruba in generale tanta “gente comune”; lo fa diffusamente: si ruba la carta igienica nelle scuole da parte dei bidelli, si rubano fotocopie negli uffici pubblici da parte degli impiegati, si rubano ore di lavoro facendocisi timbrare il cartellino di lavoro da colleghi corrotti, si rubano dichiarazioni false di malattia facendocisi prescrivere diagnosi false da medici di famiglia impossibilitati a verifiche – se io mi presento al medico accusando forte emicrania è oggettivamente difficile che il medico riesca ad accertare la mia bugia - si rubano, al contrario, da parte di sanitari corrotti, parcelle per prestazioni mediche non necessarie ma prescritte a pagamento per suddividerne i proventi con altri colleghi sanitari ugualmente corrotti, si rubano garze e medicamenti vari da parte di infermieri; e credo di capire che si rubi persino tra i militari, dalle dispense delle mense di caserma o da occasioni similari; hanno colto in flagrante persino il prete sbagliato di Montecassino, abate per gli onori del mondo, che rubava sulle elemosine….
 
E lo si fa effettivamente con sempre minore vergogna e con sempre minore scrupolo nonostante che si possa constatarne facilmente una delle più macroscopiche conseguenze nel fatto che, per limiti di bilancio, vengono poi fatalmente a mancare i giubbotti antiproiettile per i militari esposti in servizi pericolosi, o la carta igienica per i bimbi nelle scuole…).
 
Vi prego, ora, mentre leggete, di non eccepire un eccesso di genericismo in queste mie parole: non sto dicendo che “rubano tutti”; il nostro paese infatti è anche stracolmo di persone oneste, positive, e non raramente eroiche (altrimenti non avrebbe spiegazione la montagna di cose belle che esso continua a esprimere ogni giorno); sto dicendo che il vizio del rubare, diretto e indiretto, è diffuso e trasversale; ruba in tal senso, infatti, ad esempio, anche il direttore generale che usa il suo potere per attribuirsi lo stipendio che gli aggrada senza rapportarlo in alcun modo al quadro generale dei trattamenti economici  della sua azienda; ruba anche l’alto dirigente che approfitta della macchina aziendale per mandare in gita sua moglie a far compere, a volte persino accompagnata dall’autista; ruba il sindacalista che utilizza il suo permesso sindacale metà per assistere i lavoratori e metà per andare a pesca, ruba il vigile urbano (qui a Roma ne hanno arrestati un paio anche i giorni scorsi) che, mellifluo e sornione, entra ogni giorno proprio in quei bar a prendere cornetto e cappuccino e lancia messaggi ammiccanti e infastiditi al gestore che non ha ancora capito che quei cornetti e cappuccini lui non deve pagarli, ruba l’amministrazione comunale che fa truccare i segnali di traffico limitato per indurre in errore gli automobilisti e “fare cassa” …
 
Molto meglio avrebbe fatto Davigo a precisare il carattere davvero trasversale di questo scivolamento civile ed etico diffuso nel paese: chiarendo certo, come è giustissimo, che i politici hanno maggior colpa e maggior responsabilità in quanto hanno più potere; e chiarendo coraggiosamente anche, nello stesso tempo, che… rubano pure i magistrati! Come le cronache recenti ci fanno vedere con crescente chiarezza, e come anche a noi pare di capire dietro troppe cose che non funzionano e che non chiamano affatto in causa scarsità di mezzi o di organici: magistrati che chiedono sistemazioni per parenti in cambio di condiscendenza nelle sentenze, magistrati con tenori di vita poco facilmente compatibili con i pur dignitosi stipendi, magistrati con elenchi di consulenti tecnici un po’ troppo ricorrenti, magistrati le cui telefonate intercettate dichiarano sensibilità tutt’altro che indubitabili…;
 
  • Quella del metodo; nella sua nuova responsabilità di rappresentanza, Davigo ha un potere preziosissimo, che può usare con grande efficacia positiva, educativa e di giusta pressione culturale, professionale e morale, nei confronti della politica e della opinione pubblica, proprio per il passato forte e credibile da cui proviene: ma questo deve dettargli la saggezza di giocare la partita, nella guerra contro la corruzione, attraverso i suoi atti e comportamenti concreti di rappresentanza, che sono appunto, per loro natura, suscettibili di esercitare effetti pesantissimi di condizionamento benefico nella cultura istituzionale e giuridica del paese e nei conseguenti comportamenti; rispondendo caso mai con la consueta chiarezza alle domande che in relazione a tali suoi comportamenti gli vengano fatte dalla stampa: non deve invece servirsi di dichiarazioni o interviste polemiche rivolte alla pubblica opinione, scendendo nel campo della contesa miserabile fra fazioni (nel caso specifico, quella dei magistrati e quella dei politici, che tali diventano quando pongono il dibattito su questo piano), come è accaduto crescentemente negli anni a noi vicini.
 
Perché tale modalità gli fa correre il rischio altissimo e immediato di squalificare sestesso, le sue intenzioni e la sua credibilità, e di far perdere al paese la grande e preziosa occasione che il suo ruolo può rappresentare: quella della ripresa generale, appunto, di una speranza e di una coscienza civile alta e diffusa, capace di tornare a esprimersi anche attraverso rappresentanti ben visibili e credibili per esempio di vita e non per dichiarazioni televisive o interviste alla stampa.
 
 
Detto questo per rammaricata riflessione personale, mi pare però utile, nello stesso tempo, riproporre alla riflessione di tutti noi un altro pensiero fondativo di grande positività espresso dallo stesso Davigo lo scorso anno 2015:
 
“Mi è stato detto che è troppo difficile fare indagini sulla corruzione. Negli Usa, dopo le elezioni, mandano agenti sotto copertura a offrire denaro agli eletti: coloro che lo accettano vengono arrestati. A ogni elezione ripuliscono la classe politica.
E… quando qualcuno mi dice che rubano tutti, gli chiedo se ruba anche lui. Siccome mi dice di no, gli rispondo: “Neanche io. Come vede, non è vero che rubano tutti”. Occorre saper distinguere e prendere le distanze da chi ruba, anche se è della nostra parte politica”.
 
Questo sì, mi pare un pensiero e un approccio davvero giusto.
 
                                                    
                                                                                                                             Giuseppe Ecca
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Racconti di vita

LE PALME SICILIANE

Con semplicità di stile e linguaggio, le emozioni di una coppia di siciliani che dopo tanti anni di vita in Australia riescono a rivedere la terra da cui, ancora giovani, dovettero emigrare. Emozioni semplici ma profondissime. E  l'intramontabile dualismo della Sicilia e di altre regioni d'Italia: bellezza a profusione, quanto in nessun'altra terra al mondo, ma disordine e negligenza organizzativa. Il racconto è semplicisismo, sincero come una testimonianza commossa: non ha velleità letterarie ma il sapore della vita vera ed intensa. Fu la caratteristica nobile del "Premio Prato Raccontiamoci"
 
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Le palme di Palermo si protendevano maestose contro il cielo di un azzurro terso, un azzurro così intenso che forse solo la Sicilia può vantare. Era un raggiante mattino di primavera e svettavano festose come per dare il benvenuto a quell’aereo che arrivava da molto lontano e che stava per atterrare all’aeroporto di Punta Raisi. Fu in questa atmosfera radiosa che giungemmo in Sicilia e dall’aeroporto ci accompagnarono al “Grand Hotel Villa Igiea”. Dopo avere sistemato i bagagli e fatto colazione, intraprendemmo la nostra indimenticabile gita per le vie di Palermo: prima tappa il Teatro Massimo, paradiso dell’Opera. Una sola parola mi viene in mente per definire Palermo:  “incanto”; perché è proprio un incanto per gli occhi e per l’animo poter ammirare e godere delle sue superbe e grandiose opere antiche che ti scaldano il cuore. Fonte inesauribile dove poter bere per placare la bramosia di chi è sempre in cerca della perfezione.
E cosa dire dei quartieri caratteristici che abbiamo visitato dopo pranzo, i Quattro Canti e Vucciria, dove batte particolarmente frenetico il cuore di Palermo e dei suoi abitanti? E’ proprio lì che abbiamo comprato i souvenir da portare ai nostri amici rimasti in Australia. Anche quel giorno la città di Palermo era stupenda. Un corteo brioso di palme ci accompagnava nella nostra passeggiata  per rallegrarla e accoglierci con calore nella nostra terra, la nostra amata Sicilia che un triste destino ci ha costretto a lasciare e dove il nostro cuore è però sempre rimasto. Se ci penso, un dolore immenso mi stringe e amare lacrime mi solcano il viso e non riesco a fermarle. Le palme di Palermo, con la discrezione di chi non vuole entrare prepotentemente nei sentimenti della gente, e con timidezza, si avvicinano a me, raccontando il dolore della nostra amata Sicilia alla quale sono stati strappati i figli; e il mio dolore, mescolato al dolore della mia terra, si cheta.
Le palme di Catania si rincorrono per le vie, in fila come soldati in marcia sotto l’occhio vigile dell’Elefante, che dall’alto del suo piedestallo le guida, le guarda con stupore  e meraviglia, mentre gode alla vista del vibrante paesaggio disegnato con maestria dal pennello del Creatore. Nel nostro cammino incontriamo il teatro Vincenzo Bellini, che ci saluta allegramente e con ansia ci attende per applaudire i nostri grandi artisti siciliani: e il loro spettacolo è un inno alle maestose bellezze cittadine, e un invito a visitarle.
E Catania ci sorride col suo Duomo e con Sant’Agata, e su tutto sovrasta maestosa e imponente l’Etna. E’ difficile sottrarsi al suo fascino, alla magia di un paesaggio che la lava ha reso quasi lunare con crateri profondi dappertutto. Il rantolo della montagna ci accompagna, non si ferma un attimo, essa è viva, brontola ed è presente col suo forte respiro su di noi, la sua naturale bellezza e maestosità rimane impressa nella mente e nel cuore di chi ha la fortuna di visitarla e bearsi della sua bellezza ammantata di neve bianca e pura.
Siamo in cima, oltre i 2.500 metri, e sotto di noi si dondola Catania, bella e splendente tra l’azzurro mare e le sue palme che fiancheggiano il litorale svettando gioiose: un caloroso saluto è rivolto a noi, e i rami delle palme mossi dal vento si tramutano in braccia che attendono il nostro ritorno per stringersi a noi nella confusione della città. Anche l’ombra delle palme dell’Etna sovrasta i nostri sogni: esse sono cadute nello sfacelo delle eruzioni e risorgeranno quando brillerà per sempre il sole e la tranquillità regnerà suprema.
Quella sera, al termine della passeggiata, come sempre corsi a letto per leggere un pesantissimo libro che avevo comprato in una delle librerie di Catania; il mio hobby preferito, leggere a letto, mi accompagna sempre: non posso dormire se non ho un libro tra le mani; ma questa volta la stanchezza mi fece addormentare di colpo e il libro volò pesantemente sul mio viso facendomi strillare dal dolore, le mie mani si tinsero di sangue e mio marito, che guardava la tv, mi raggiunse subito e alla vista del sangue sulla guancia si spaventò e corse a chiamare il direttore dell’hotel, il quale mandò un’infermiera a medicarmi;  ci vollero anche due punti. Mio marito mi disse accorato: “Spero che adesso ti passi il vizio di leggere a letto, visto che per giorni dovrai andare in giro col cerotto in faccia!”. Ma il vizio non posso toglierlo, è radicato in me da sempre e pazienza se ogni tanto un libro cade sul mio viso provocando anche fragorose risate successive quando qualcuno s’accorge che porto i segni del reato.
A Caltagirone, poi, la bellezza delle palme rigogliose si confonde con quella dei mosaici e delle ceramiche che si propongono superbi, nella maestà della loro arte, per ammaliare i visitatori; ma palme bellissime e tante, tutte in fila, fanno bella mostra anche nel moderno Centro dei Negozi dandogli un fascino esotico e un’attrazione speciale per il turista, che esulta di felicità.
Sicilia mia, ad ogni passo bellezze rare, immagini superbe che s’imprimono nell’anima e che ci portiamo dentro, nella fortezza inespugnabile del cuore, per illuminare, con la loro luce, i nostri giorni nel ricordo delle meraviglie che un lontano giorno abbiamo lasciato, inconsapevoli di quanto dolore avremmo dovuto sopportare.
Due settimane favolose in giro per la nostra Sicilia, e sempre le palme ci hanno abbracciato con amore e calore, fedeli, seguendoci come nostri compagni di viaggio ovunque! Le palme di Vizzini ci hanno stretto al cuore come il figliol prodigo al suo ritorno, baci e carezze con il sole caldo di giugno che profumava di oleandri e gelsomini, e il calore della nostra casa che ci aspettava con l’ansia dell’attesa più viva.
Poi la passeggiata in piazza Umberto I, nell’atmosfera tesa delle elezioni regionali e dei comizi, che come al solito ci hanno messo davanti a uno spettacolo diverso con ingiurie e parolacce, fra i diversi partiti, che volavano come mosche ronzanti nell’aria diventata pesante.
Vota per questo, vota per quello, vota per lui e la Sicilia brillerà di luce e sfolgorerà di benessere perché questo gran signore è carico di generosità verso i siciliani tutti, specialmente verso quelli che vivono all’estero come voi...”. Okay, voteremo per questo gran signore che porterà ulteriore paradiso in Sicilia…  
L’indomani, domenica, ci siamo incamminati, colmi di buona volontà, per il Viale Margherita, sotto la protezione delle palme cariche di gioia fra i raggi di sole di un brillante mattino. Cammina e cammina, non trovavamo la sede delle votazioni dove ce l’avevano indicata. Chilometri e chilometri ma non la trovavamo, non sapevamo dov’era ed eravamo  di nuovo stranieri nel nostro paese!
Non c’era nessuno per le strade, dato che si passeggia con le macchine; io e mio marito continuavamo a camminare non sapendo dove andare di preciso. “Ma chi ce l’ha fatto fare ad accettare di votare? Nessuno in realtà penserà a noi, non ci hanno mai dato niente, siamo noi che abbiamo dato tutto, anche il cuore che è rimasto impigliato qui nonostante tutto”.
Finalmente una macchina si è fermata: era un amico, che ci ha chiesto dove andavamo; ci ha indicato poi a gesti la direzione giusta ed è ripartito come un razzo. Noi allora, camminando ancora tra mille sospiri e qualche imprecazione, siamo arrivati ad un edificio nuovo dove però non c’era nessuno ad accogliere questi poveri votanti stanchi: tanto qui il voto non è obbligatorio, se non voti non t’appioppano una pesante multa come da noi in Australia, e quindi se ne fregano tutti: ecco l’Italia dei menefreghisti che salta fuori. Gira di qua e gira di là, finalmente un giovane ci ha indicato dove andare per votare e quindi abbiamo fatto il nostro dovere, anzi siamo forse stati gli unici a farlo, dato che tutto era immerso nel silenzio più assouto.
Stanchi e sudati siamo tornati per riposarci sotto le palme del Viale Margherita, con un bel gelato da gustare prima della passeggiata alla villa e in piazza Marconi, a due passi da casa nostra; ci siamo seduti aspettando i miei fratelli, che ci avrebbero portati a mangiare al meraviglioso ristorante delle grotte della Cunziria, dove Alfio e Turiddi hanno duellato nella Cavalleria Rusticana. Nessuno ci ha ringraziati per aver votato, dopo averci pregato di farlo, e perciò ci è sembrato giusto dire “grazie” al nostro amico deputato rilevando che ci aveva mandato a votare nella più lontana sede che c’era, a noi del tutto sconosciuta; vicina però almeno al cimitero, dove invece delle palme ci hanno salutato i cipressi, che cupi e solitari sfilano in lunga processione per proteggere i nostri morti.
Ora, finita la bellissima gita, ci rimane comunque il dolce ricordo delle tre settimane straordinarie che abbiamo trascorso nella nostra bella Sicilia, bella ad ogni passo, un tesoro inestimabile scolpito per sempre nel nostro cuore nonostante abbia sulla guancia anche il ricordo del bacio un po’ violento di un libro. Un ricordo del tutto speciale rimane nel nostro cuore per la splendida settimana trascorsa nella nostra bella Vizzini, dove le radici sono rimaste per sempre ben attecchite e rigogliose. E tuttora un fluido magnetico mi scorre nelle vene pensando a quei momenti di grande gioia ed euforia. Stare insieme ai miei fratelli, ai miei nipoti e alle mie simpaticissime cognate è un evento raro che rallegra i cuori di meravigliose rimembranze adesso che la lontananza ci separa di nuovo come un castigo.
Ammiro anche le palme di Melbourne, verdissime, vibranti di luce e di mille sfumature, e quando sfrecciano svettanti verso il sole io mi sento in Sicilia. La mia Sicilia, colma di spassosissimi ricordi giovanili che m’inebriano di emozioni i sensi e l’anima.
La mia Sicilia luminosa di storia millenaria che è racchiusa nelle chiese, nelle cattedrali, nei templi e nei teatri greci, nelle catacombe, negli edifici in genere e in ogni via, anche nell’aria che è sempre esultante di magia. La mia dolcissima Sicilia, per sempre, nel cuore!
                                                                 
                                                                                                                                 ("Premio Prato Raccontiamoci", autrice anonima)

 
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Religione

DIO MIO PADRE

Il cristianesimo chiede adultità di adesione senza accomodamenti, e offre risposte senza trucchi a tutto l’uomo su tutti gli interrogativi dell’uomo: anche quelli che, di primo acchito, ci sembrano più complessi da affrontare. Il Padre Nostro, ad esempio… Comincia a rifletterci, introduttivamente, Viscardo Lauro.
 
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Credo in Dio Padre Onnipotente… Sublime, spinoso, inquietante, il Dio Padre ha sempre affascinato e fatto discutere. Il problema di Dio che si complica coi mille incerti della figura del padre, pensa tu…I maestri della psicanalisi hanno pagine indimenticabili sul personaggio-padre nella religione. Su tutte, il rapporto Dio-Abramo: fede a mille e mille domande senza risposta. E la figura del Padre, fondamentale nelle religioni, resta decisiva all'interno della nostra coscienza. Padre nostro che sei nei cieli: che scossa stringere a messa un'altra mano tremante come la mia. Padre nostro che sei nei cieli: pochi secondi, un minuto al massimo, ed è un piccolo paradiso.
 
Eppure…
 
Eppure in tanti di noi (e quasi ci vergogniamo ad ammetterlo) quante volte è affiorata una
punta di dubbio o di incertezza e perfino, ahimè, di rifiuto. Da rileggere l'inquieto romanzo di
Albert Camus La peste. La città di Orano è isolata, la paura dilaga di strada in strada, il
gesuita padre Paneloux è sotto accusa da parte del suo amico medico: come spiega la
religione una sciagura così grande? Dov'è il Padre vostro in questi giorni? Resta forse nei
cieli e abbandona i suoi figli? Dov'è finita la Provvidenza che tanto aveva illuminato le
pagine della peste nei Promessi Sposi?
 
Dio mio Padre. Chi è il Padre a lettere maiuscole, chi è quel personaggio che mi porto
appresso dall'infanzia? Chi è Il Padre. Attenzione, ho detto Padre, non semplicemente Dio.
Il Dio Padre delle antiche religioni nasce sulla figura rassicurante e temuta del capoclan, il grande anziano a cui spetta l'ultima parola: lui dice e decide, lui benedice e condanna. Nozze, parentele, guerre, patrimoni, transumanze e alleanze: a tutto provvede il Padre. Tutti lo venerano e tutti gli obbediscono. Tutto può il Padre Patriarca perché tutto dipende da lui. Questo il modello mentale che costruisce l'antica religione del Padre Onnipotente e soprattutto questo il modello religioso di figliolanza. Il figlio dipende e china la testa; il figlio forse rivolge domande ma alla fine subisce; a occhi chiusi il figlio accetta e si fida. È il Padre che decide il suo bene e dalla sua mano qualsiasi cosa. Il Padre promette la terra, il Padre sceglie la moglie e il Padre garantisce il futuro, magari prospero come un firmamento di stelle o una sabbia del mare. Dio mio Padre, mio calice e mia eredità reciterà poi il salmo. Scorrono sotto i nostri occhi le storie indimenticabili di Abramo, di Isacco e Giacobbe nel libro di Genesi; scorrono le strabilianti vicende di Mose nel libro dell'Esodo: la colonna di fuoco, la nube, la manna dal cielo, l'acqua dalla roccia, il serpente di bronzo che guarisce le piaghe. Premuroso, amoroso, sempre presente, il Padre.
 
Tutto facile, tutto bello, tutto scontato? No, non tutto torna e non tutto convince. Vediamoli
più da vicino quei testi e facciamoci pure qualche domanda (che spesso ci resta sulla
punta della lingua).
 
Il Dio di Abramo. Un Dio migratore che fra mille incognite guida clan e famiglia verso la
terra promessa: acquisti, piccoli scontri, alleanze. Un Padre assoluto al quale non si fanno
tante domande e una figliolanza vissuta talvolta in un vuoto di stomaco. Già estatico sotto
il cielo stellato Abramo è ora tremante e incredulo di fronte al tragico destino di Sodoma e
perfino atterrito alla voce che gli chiede il sacrificio dell'unico figlio. Una figliolanza incerta
e sofferta, quella di Abramo
, altro che facile.
 
Il Dio di Mosè, un Dio nomade e guerriero che non si fa scrupolo a invadere distruggere e
conquistare. E una figliolanza ancora più traumatica aspetta il giovane condottiero che
aveva sfidato Faraone. Lanciato in un'avventura senza margini chiari, pressato da clan e
da famiglie sempre più insofferenti, Mosè ha un continuo bisogno di interrogare il Padre.
Una missione, la sua, sempre più intessuta da angosce. Lo stesso colloquio che ogni tanto
riesce a strappare al Dio Padre si rivela un evento faticoso, appartato, segreto,
interminabile, quasi uno straziato oracolo da sibilla. Non tanto un privilegiato, Mosè, quanto un solitario e tormentato arrampicatore delle creste del Sinai. O magari un taciturno frequentatore della famosa Tenda del Convegno, il cubo vuoto e muto dove il Padre
pastore gli parlerà senza mostrare il suo volto. Ogni volta sarà supplica, trattativa impari,
grido: un'autentica lotta per strappare una clemenza e per ottenere un perdono quasi
impossibile. E per chi? Per gente ingrata, incredula, inquieta, scontrosa, insopportabile. Da
quel colloquio col Padre Pastore, Mosè esce prostrato, esausto, intrattabile: profeta
sconfitto, mediatore senza gloria e (ultima grande amarezza) mai gli sarà concessa la
terra promessa. Figliolanza non facile e proprio non incontra i nostri desideri. Da rivedere il
Dvd Moses et Aaron di Arnold Schoemberg: mentre il popolo corre ormai appresso ad
Aronne, il nuovo accomodante profeta, Mosè si accascia perdente al centro della scena.
Un finale da brivido.
 
La paternità di Dio resterà per secoli il lato più fascinoso ma anche il fianco più esposto
delle religioni che da lì a poco tenteranno di svincolarsi dalla stretta. Difatti. Non appena le
scuole pitagoriche, stoiche o socratiche si lanceranno a vagliare e a discutere la realtà,
fiorirà anche la critica serrata alla vecchia religione. E gli ambienti giudaici della diaspora, i
più disposti alla discussione nelle piazze e nelle scuole greche, non si tireranno indietro e
raccoglieranno la sfida. Così si evolve, così si trasforma, così cambia, anche radicalmente,
la figura del Dio Padre all'interno stesso della Bibbia. Anche presso Israele nascerà la
grande letteratura di critica religiosa: Qohelet, Giona e soprattutto Giobbe, il poema degli interrogativi spietati.

 
Perché Giobbe sta soffrendo? Da chi è colpito Giobbe? Giobbe è un giusto, Giobbe non
ha fatto male a nessuno, Giobbe è un servo fedele. Perché Giobbe, perché Auschwitz,
perché i bambini passati per un camino?
Un seguito ossessivo di saggi, di films, di
romanzi. Un processo senza appelli: unico imputato Dio e, conseguenza inevitabile, il grande Padre pastore che non esiste più.
 
Ancora. Uno, forse due secoli, e siamo ai vangeli. Orto degli Ulivi: si apre uno dei capitoli chiave, un vero spaccato sull'anima della religione. Non solo preghiera, non solo confidenza, non solo invocazione: la voce di Gesù è una discussione accanita: perché a me questo calice. Spasimo, corpo a corpo, sudore di sangue. Cosa è accaduto? Dov'è il Padre di Abramo? E soprattutto dov'è quella figura di Padre che tanto aveva appassionato e travolto Gesù per interi capitoli del Quarto Vangelo? Pagine che trasudano emozioni, è il caso di dirlo. E anch'io ho bisogno di riprendere fiato. Dio mio Padre. Credo in Dio Padre Onnipotente.
 
                                                                                                            (Viscardo Lauro)

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Gestire il 2021

SEMPLICITA' E CHIAREZZA MA ANCHE PROFONDITA' E LUNGIMIRANZA

Responsabili e nello stesso tempo consapevoli. Attenti e nello stesso tempo sereni. Disciplinati e nello stesso tempo correttamente liberi... Insomma, il difficile avvio del 2021 ci richiede un atteggiamento e un comportamento maturo, equilibrato e integrato. Da "costruttori di bene", insomma.
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Il presidente della repubblica, Mattarella, ha rivolto il suo messaggio di fine anno agli italiani con la sua abituale pacatezza e positività di tono e di contenuti. Un messaggio per “costruttori” di bene comune, come li ha chiamati, e non per divisivi protestatari. E’ bene tenerne conto, ma nello stesso tempo ci sembra doveroso delineare con concretezza immediata anche alcuni necessari punti operativi che urgono, fin da questi primi giorni del nuovo anno, alla ripresa del nostro paese, se tale ripresa vuole essere duratura ed equa. Mi permetto di dirlo a titolo personale ma anche a nome del piccolo laboratorio di DemocraziaComunitaria. E per cominciare osservo che:
  1. Il carattere nuovo e straordinario, per origine e diffusione, della pandemia da coronavirus;
  2. i tempi eccezionalmente rapidi di realizzazione dei vaccini proposti per combatterlo;
  3. i tempi più specificamente problematici di sperimentazione per testarli;
  4. la dimensione pervasiva e non bloccabile, a livello planetario, delle relazioni economiche e finanziarie, particolarmente commerciali, e di quelle personali (lavorative, di studio, politiche, etc.) che fanno da veicolo al virus;
  5. l’accresciuto peso degli interessi organizzati, diretti e indiretti, di carattere politico, economico e di potere (multinazionali e multisettoriali) coinvolti nella sua gestione;
  6. l’inadeguato sviluppo degli studi inerenti ai possibili effetti collaterali di più lungo periodo dei citati vaccini:
 
sono le sei ragioni più essenziali che suggeriscono, allo stato attuale delle cose, criteri di tempestività ma accompagnata da intelligente gradualità e da non rigida obbligatorietà iniziale nella somministrazione dei vaccini stessi. L’obbligatorietà, in particolare, potrà essere raggiunta eventualmente dopo un ragionato e ragionevole periodo di attenta osservazione e studio dei progressivi effetti dei vaccini.
Per converso, il distanziamento fisico (mai sociale!), l’igiene attenta, l’utilizzo delle mascherine, o schermature trasparenti, restano i tre criteri essenziali per l’affrontamento della pandemia a livello di comportamenti personali, mentre il funzionamento più efficiente delle strutture sanitarie ordinarie e una politica severa dei controlli lo sono a livello collettivo; per questo ultimo criterio, in particolare, cioè il controllo, è giusto e maturo e responsabile che venga utilizzato ormai anche l’esercito in funzione di ordinaria polizia di prevenzione e sanzione: più che mai sono infatti maturati, e in verità da ben prima che scoppiasse il coronavirus,  i tempi per una concezione molto più integrata del concetto di sicurezza del paese.
In sintesi, la grande medicina per le emergenze, il grande rimedio per le condizioni eccezionali, ancora una volta, vanno cercati nella maggiore efficienza delle strutture ordinarie, non nella brillantezza inventiva delle formule emergenziali; nella cultura della gestione evolutiva, non nella schizofrenia maniacale delle riforme. Questo vale anche per la gestione del sistema sanitario pubblico, irresponsabilmente impoverito in questi ultimi anni a vantaggio di dubitabilissime privatizzazioni e aziendalizzazioni.
Per quanto poi riguarda la pandemia parallela a quella sanitaria, cioè la pandemia che fin dall’inizio abbiamo chiamato economica e sociale, e che si concretizza soprattutto nella drammatica precarizzazione lavorativa e reddituale di molti cittadini, e nel frequente infragilimento psicologico di tante persone, da cui vengono anche suicidi e violenze familiari e destabilizzazione genitoriale ed altri gravi e a volte permanenti malanni familiari e sociali, ribadiamo che il problema non va affrontato chiudendo e assistenzializzando le attività economiche bensì rallentandole e prolungandole contemporaneamente: cioè facendo esattamente il contrario di quanto si fa.
Ad esempio, un ufficio postale o una banca, ma anche un ristorante o un ufficio amministrativo aperto al pubblico, non soltanto non devono accorciare l’orario di apertura agli utenti, come purtroppo stanno facendo, ma, esattamente al contrario, devono prolungarlo per consentire di servire con maggiore distanziamento gli utenti stessi, rassicurandoli e facendo fronte all’impegno, esattamente, attraverso assunzioni e collaborazioni cui vanno finalizzate le risorse della “politica dei ristori”, oggi irrazionalmente, assistenzialisticamente e improduttivamente, cioè scioccamente,  destinate a una miserevole e umiliante politica di elemosina diffusa e neppure equamente distribuita. Va ristorata l’economia sostenendo il lavoro, incrementando i servizi e rallentandone i folli ritmi, non vietandoli o limitandone la durata e la fruibilità.
Infine, un dramma che rischia di lasciare un segno negativo grave di disinvestimento umano e sociale per il futuro, è anche quello che vede chiusa o altalenantemente aperta la scuola, punto di riferimento psicologico e formativo fondante – per quanto impoverito – dei nostri ragazzi e della società. La scuola deve essere, anch’essa, permanentemente aperta e non chiusa: aperta riducendo ad esempio gli orari dei singoli turni a due o tre ore, aperta riducendo il numero degli alunni per classe a cinque o a dieci invece dei soliti venti o venticinque, e dunque rendendo gestibile e controllabile il distanziamento fisico, aperta riducendo i docenti per classe a uno o due rispetto agli attuali cinque o dieci, e…  ma calma, ragazzi: non tornate a ripetermi la grande sciocchezza secondo la quale un insegnante di italiano non può fornire un accompagnamento di base al ragazzo che studia matematica, perché stiamo parlando di elementi-base della formazione e non di specialismi universitari: dobbiamo formare i ragazzi, non tecnicizzarli specialisticamente, compito che tocca appunto all’università. Che se poi un insegnante non è in grado di fare questo, cioè di svolgere il ruolo di formatore-accompagnatore del cammino dei ragazzi, significa che insegnante forse  lo è ma formatore certamente no, e che bisogna dunque tornare a indirizzarlo in senso corretto e urgente a questa primaria e basilare funzione: e lo si può e lo si deve fare lasciando aperta la scuola.
Insomma, per far funzionare servizi ed economia non bisogna abolirli ma… organizzarli ancora meglio!
La brutta pandemia potrebbe in sintesi trasformarsi, in realtà, in una costruttiva opportunità di crescita, se adottassimo una decorosa base di scienza e coscienza, che sembrano invece latitanti e sostituite da verbosità e appariscenza.
In questo spirito, buon 2021 a ogni buona volontà. Anzi, fraternamente, buon 2021 a tutti: anche a quelli che di buona volontà non ne hanno molta, o non hanno molta fiducia in essa, affinchè vengano a far parte della nostra famiglia di volonterosi. Che per definizione accoglie tutti. Coraggio, forza e luce per tutto il 2021, anzi per tutta la vita!
                                                                                                         
                                                                                                                                 (Giuseppe Ecca)
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Racconti di vita

L'AMORE OLTRE LA VITA

Come abbiamo avuto modo di dire in occasioni precedenti, molti “racconti di vita” venuti alla luce grazie alla storica rassegna del “Premio Raccontiamoci Città di Prato”, cessata da alcuni anni ma vissuta a lungo e animata da figure autorevoli quali quella di Pamela Villoresi, sono rimasti sfortunatamente anonimi in quanto non  rientranti nel ristretto numero dei lavori premiati, ma ci pare giusto pubblicare via via quelli che riusciamo a recuperare dagli archivi del Premio, della cui giuria fummo componenti, in attesa che la organizzazione promotrice possa nel tempo realizzarne una più organica raccolta. Sottolineiamo che i racconti sono effettiva “vita vissuta”, essendo questa una delle caratteristiche vincolanti del Premio; e perciò particolarmente interessanti.  “L’amore oltre la vita” è omaggio vissuto alla presenza così spesso provvidenziale dei nonni nel contesto familiare.
 
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L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite incominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera e, coperta da una trapunta, attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro, accompagnato dalla senilità, aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione di avvocato, ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei: una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
 
Il comò, appesantito dai tanti medicinali, sembrava una farmacia ambulante e dove lei un tempo si specchiava vanitosamente, pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia della sua giovinezza, presente nella stanza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.
 
Il nonno amava tantissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto”, diceva, “è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando i momenti più belli all’oblio, e non invecchiare mai”.
 
Fotografava tutto ciò che lo affascinava: dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno ea una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.
 
Nonna lo amava anche per questo suo talento, questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono apparentemente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita, il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia è il mondo, e l’esistenza con le sue forme.
 
Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.
 
“Nonna mi hai sentit…”.
 
Non feci in tempo a terminare la frase che subito scoppiò a piangere.
 
“Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa.
 

In vita sua, due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno e una sera dopo aver litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione.  L’abbracciai, trattenendo la forza per paura di stringerla troppo: il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvarla dal triste destino. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmomanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare, il suo sguardo penetrava dentro il mio riuscendo a cogliervi ogni preoccupazione.
 
Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso, non facendole mancare mai nulla.
 
Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi.
 
“Michele, devi andare via!” esclamò con espressione seria. “Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo, ho realizzato le mie scelte e ora devi compiere le tue”.
 
La guardai per un istante, poi uscii dalla stanza senza dire nulla.
 
Mia nonna per me è stata come una seconda madre; fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, insieme al nonno vedevamo la tv e prima di addormentarmi pregavamo. Standomi vicino nei momenti difficili, mi infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava contraccambiare l’amore che mi aveva donato.
 
Le nonne sono delle sante perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.
 
L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia: il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata rendendo ovattate le ore passate insieme.
 
Come di consueto, doveva prendere la medicina: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla.
 
“Nonn… nonna, svegliati, devi prendere la medicina”.
 
Nessun movimento, né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce dicendo: “Nonna, sono Michele… la medicina… ti prego, apri gli occhi, ti prego…”.
 
Respirava a fatica, il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo.
 
Iniziai a sudare, un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe, salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica, dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.
 
Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo, già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani, pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena, che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena le lacrime non riuscivano a smettere di inondare le palpebre e scivolando fino alle labbra con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal ticchettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo, tra realtà ed irrealtà.
 
La vita continuava la sua corsa impassibile, intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco se non fosse stato per loro; forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce capii che non l’avrei mai più rivista.
 
Uscendo di casa andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco e respirando profondamente chiusi le palpebre, addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole risplendeva lontano e un arcobaleno dai tanti colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello di nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna, per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto fatto la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e morbido della sua carnagione.
 
Non so perché, ma da quel giorno, ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto; poi quando muoiono, dopo tutto l’amore donato, si accontentano di un semplice fiore, lasciato sulla loro tomba.
 
La vita è proprio strana, non c’è mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso, per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.
 
Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme, che tutto svanisce.
 
Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo, il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
 
                                                                                                                (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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Democrazia

SENSO DI INSICUREZZA E CLIMA ICONOCLASTA

Cosa succede alla nostra democrazia senza più partiti fortemente strutturati, che affrontino con una visione alta e nazionale i problemi del paese, e costituiscano un riferimento affidabile e stabile per i cittadini? Dal 2017, quando Giuseppe Bianchi scriveva questa riflessione, il problema non soltanto non ha avuto risposta ma sembra essersi acuito. Insomma, siamo in attesa più che mai di democrazia diffusa e partiti strutturati.

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C’è in giro una furia iconoclasta che non risparmia alcuna istituzione e chi la rappresenta. Un processo avvolgente che si è espanso a macchia d’olio. Ha progressivamente coinvolto le istituzioni della democrazia rappresentativa, la classe politica, i partiti, i sindacati, le istituzioni indipendenti di garanzia (per tutte la Banca d’Italia) l’alta burocrazia statale, per arrivare alle istituzioni locali che gestiscono i servizi di prossimità qualI scuole, trasporto, sanità. Riflesso di un disagio e di un senso di insicurezza che si esprime anche con lo sciopero elettorale da parte di molti che presumono di poter vivere meglio in una società senza politica, “impolitica”.
Presunzione errata perché da quando si sono costituite le società organizzate, il bisogno degli uomini di tessere relazioni sociali, di darsi libere regole di convivenza, ha portato alla nascita della politica e delle sue istituzioni quale condizione per risolvere problemi non risolvibili a livello individuale. E ciò non è meno vero oggi a fronte della constatazione che l’individualizzazione del conflitto, la guerra privata di tutti contro tutto, accresce la frustrazione dei cittadini ma non porta soluzioni.  Rimane la distinzione tra la buona e la cattiva politica, fra le istituzioni che funzionano e quelle che non funzionano.
Senza troppo assottigliare, i regimi politici sperimentati possono essere distinti fra regimi politici democratici e regimi politici autoritari e va anche detto che i regimi democratici sono stati nella storia un intervallo tra regimi autoritari, spesso camuffati sotto forme diverse, come oggi avviene con la democrazia del web.
Il problema è che la democrazia, nella sua forma pluralista, è difficile da gestire in società complesse ed articolate negli interessi espressi, con l’effetto di rendere tortuosi e lenti i processi decisionali della politica.
Da un lato ci sono sfide, quali la globalizzazione, la velocità delle nuove tecnologie, che aggravano i problemi sociali quali la disoccupazione, le ineguaglianze, dall’altro trovano limiti le tradizionali politiche socialdemocratiche basate su investimenti pubblici e welfare generosi. Questo perché il nostro Paese è entrato a far parte di una società politica più ampia, la UE (e non poteva essere diversamente) che ha offerto nuove opportunità, ma imposto nuovi vincoli.
In sintesi c’è un nodo di problemi irrisolti che pone la nostra democrazia in un bivio: o rilancia su sé stessa, ricostruendo ed allargando le sue istituzioni rappresentative, o si apre a nuove soluzioni autoritarie, largamente presenti nel mondo di oggi.
Ricostruire le istituzioni democratiche significa dire che le tradizionali istituzioni politiche rappresentative devono essere rafforzate con la diffusione di micro democrazie dal basso che allarghino la partecipazione dei cittadini nei luoghi di lavoro e nella gestione dei servizi di prossimità (scuole, trasporti, sanità) il cui funzionamento, più o meno efficiente, determina la qualità della loro vita. Si dice che il cittadino non è interessato: ma quale offerta di partecipazione gli è stata data? Non è forse vero che negli USA la democrazia sostiene la sua vitalità nell’amministrazione delle comunità locali?
Ricostruire le istituzioni democratiche significa anche far recuperare alla politica un sano realismo. Il gioco delle promesse elettorali al rialzo, se ripetuto nel tempo, sfiducia la partecipazione del cittadino ad un gioco palesemente truccato. Stiamo vivendo una stagione elettorale i cui esiti incerti alimentano preoccupazioni nel nostro Paese ed in Europa. C’è un dato nuovo. Il riallineamento di gran parte dei giornali e dei media su posizioni quasi massimalistiche. Un Corriere della Sera (11 novembre 2017) che parla di “crisi di regime”, di “vuoto di legittimazione che sta inghiottendo il sistema democratico”... Un messaggio ambiguo che può sollecitare il lettore all’impegno politico o al disimpegno a fronte di una situazione compromessa. Questa ambiguità non può essere condivisa dalle forze politiche, economiche e sociali, che hanno concorso alla costruzione dell’attuale sistema democratico. O diventano parte attiva nella sua necessaria ricostruzione, rafforzandone le fondamenta, o, quando si sveglieranno, troveranno una società politica in cui, per alcune di esse, non ci sarà più posto, o un posto di passiva rappresentanza.
                                                                                              
                                                                                                                                     (Giuseppe Bianchi)
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Società

NUOVA CLASSE DIRIGENTE PER UN MODELLO DI SOCIETA' PIU' UMANO: COME CAMBIARE LA FORMAZIUONE

E’ addirittura nel 2015 che Gianni Liazza scrive questa riflessione, facendo il punto sui pericoli del progressivo e preoccupante declino delle politiche formative nel nostro paese. Cinque anni dopo la riflessione di Liazza è uscito anche il mio libro di analisi e proposta (“Il sentiero stretto: formazione è un'altra cosa”), ma è da alcuni decenni che condividiamo, con lui e con tanti altri operatori sociali e studiosi dell’educazione, la medesima preoccupazione e i medesimi orientamenti di proposta. Dell’ampio scritto di Liazza pubblichiamo un significativo estratto che ne sintetizza spirito e contenuto.

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L’unico modo di uscire dalla crisi consiste nel cambiare il modo di fare formazione. Da troppi anni abbiamo inglobato acriticamente modelli anglosassoni, poco consoni alla nostra cultura e soprattutto alla nostra realtà imprenditoriale, fatta per lo più da piccole e medie imprese a carattere familiare. Ma lo stesso si può dire per le istituzioni e gli enti pubblici.  Dagli anni ‘80 ad oggi la formazione si è concentrata sull’acquisizione di tecniche e questo ha alienato le persone. Se facciamo dei bilanci, gli effetti sono nulli, se non addirittura devastanti. Le tecniche per fare cosa? Qualcuno ha mai insegnato ad un imprenditore o ad un manager ad essere più che a fare? Se non si torna alle origini e non si parte dalla ricerca autentica e creativa di sé, di ciò che vogliamo realizzare, apprendere una tecnica è solo tempo perso (e anche perdita di soldi…).
Occorre formare una generazione di nuovi imprenditori e manager saggi, solidali ed etici. Occorre ritornare all’essenziale: più alla sostanza e meno alla forma. Tutto questo per educare le persone alla libertà di essere se stesse e di amare sé, gli altri e l’ambiente che le circonda, quale premessa necessaria per innescare un cambiamento radicale del modello economico attuale, rendendolo più umano, liberandolo dalla subordinazione al profitto e magari riuscendo addirittura a renderlo socialmente responsabile e metterlo al servizio della comunità.
La strada è impervia, perché oggi la politica è arrivata a servire l’economia nella stessa maniera in cui i grandi paesi, gli industriali e le istituzioni commerciali o finanziarie si sono infiltrate o hanno subordinato i parlamenti e i governi. Non solo, le regole del gioco della nostra economia politica implicano ormai una subordinazione di ogni cosa a considerazioni meramente finanziarie, subordinazione che disumanizza e finisce per causare notevoli sofferenze. Il potere economico infine, attraverso le imprese a cui appartengono la maggioranza delle emittenti, ha reclutato i mezzi di comunicazione al servizio di una politica che serve all’economia e ai politici della nazione; eppure c’è uno spiraglio di luce: la speranza di un’iniziativa che parta dalle persone che ricoprono un ruolo di responsabilità e punti a sovvenzionare una riforma educativa di massa. Lo stesso vale per i sindacati, che dovrebbero rappresentare le vere istanze della gente ma oggi sembrano aver perso un contatto reale con la base.
Serve formare una nuova classe dirigente imprenditoriale, manageriale e politica.
Serve una riforma dell’educazione, i cui punti cardine devono essere il superamento dell’impronta patriarcale, delle azioni repressive volte a indurre l’essere umano a temprarsi per diventare una “macchina da guerra” in difesa o in offesa e dell’indottrinamento al conformismo nei confronti dell’ordine stabilito. Tutto questo perché se aspiriamo ad umanizzare le imprese, gli enti pubblici, la politica, le scuole, le istituzioni in genere, nulla sarà più rilevante quanto il progresso personale di coloro che le formano.
La crisi della civiltà, di cui oggi si parla, è, all’origine, una crisi della coscienza, che non può essere superata solo con il cambiamento politico ma richiede una trasformazione più profonda, interiore. Una nuova educazione che miri ad una formazione completa, che non si limiti ad un sapere nozionistico, ma fornisca competenze esistenziali in grado di migliorare il contatto e l’armonia con se stessi e gli altri, di sviluppare la creatività e l’intuizione, può essere il seme di luce, la spinta che favorisce il mutamento profondo di cui abbiamo bisogno. La coscienza che ha creato i problemi del mondo attuale non può essere la stessa che li risolve.
Il rapporto individuo–società, come recita uno dei principali assiomi della comunicazione, è circolare. L’individuo non può essere compreso fuori dal suo ambiente ma, a sua volta, il suo modo di percepire se stesso e la società contribuisce a creare, o meglio a dare forma al contesto che è in continuo movimento. La società è quindi un insieme dotato di senso ed è un organismo vivente che per sua natura si trasforma. Come la vita dell’individuo è segnata da situazioni di crisi, momenti traumatici e passaggi fondamentali, così avviene per la società nelle fasi di transizione da un’epoca ad un’altra. Nel nostro momento storico sembra esserci un’intensificazione di tale mutamento come se ci trovassimo a vivere tra due mondi: il mondo conosciuto che stiamo lasciando e quello sconosciuto verso cui tendere. Un cambiamento importante, o forse più una metamorfosi evolutiva, di rinascita, che segna il ritmo dell’ordito storico. Una fase di espansione della coscienza, di creazione, è seguita da una di contrazione, di ritiro, come nel battere e levare, nella inspirazione ed espirazione o nelle pulsazioni del cuore. In questo eterno ritmo vitale di ritiro ed espansione, nessuno è mai rinato prima di morire, prima di aver attraversato il vuoto (che i gestaltisti chiamano non a caso “vuoto fertile”) o, in senso ancora più profondo, quella che S. Giovanni della Croce chiama “la notte oscura dell’anima”. Riuscire a lasciar andare ciò che è diventato obsoleto e poter percepire, scoprire ciò di cui abbiamo realmente bisogno, sono le questioni di base da cui partire. Molti sono gli elementi obsoleti o che vorremmo di primo acchito lasciare indietro. Per esempio una politica delegittimata in cui personaggi scarsamente consapevoli non riescono a distinguere tra le proprie ambizioni personali o altre forme di nevrosi e la volontà di servire il bene pubblico.
Rappresentanti eletti così lontani che difficilmente possono rappresentare qualcuno, fosse anche sè medesimi. Anche l’idea di Nazione è ormai obsoleta da tempo. Il primo nazionalismo è parso positivo come modalità di unificazione dei popoli: tuttavia, la nazione di per sé è un noi che si distingue rispetto ad un essi. Una forma di amore di parte venuto meno con la presa di potere del mercato globale. E così è stato anche per l’idea di progresso legato ad una forma economica centrata sullo sfruttamento del pianeta. Ci si è resi conto, nella postmodernità, proprio con la questione ecologica, che non tutto ciò che possiamo fare è bene farlo, in quanto il rischio è di distruggere noi stessi.
 
La fine dell’idea di progresso ha generato un ulteriore vuoto di senso, molto profondo, ed un contemporaneo bisogno di trovarne uno nuovo. Tuttavia, per trovare l’origine del disagio e della crisi attuale è necessario andare più in profondità. Se si considera la società attuale come specchio di una situazione interna all’individuo, si scopre come da tempo sussista una condizione di dominio in cui una parte (l’ego) prevale sul tutto (il Sé). Viviamo in una dittatura interiore che si è accentuata in modo estremo nella modernità anche se al contempo si iniziano a cogliere i segni della sua messa in discussione. Sono piccoli segni che illuminano il buio, voci ancora troppo sottili che hanno a che vedere con la questione ecologica, il bisogno emergente di autenticità dell’individuo, la richiesta di risposte di senso, e di sacro, il ritorno ad apprezzare i valori del femminile come la solidarietà, l’accoglienza, il senso di comunità. Nonostante questi timidi segnali di speranza che caratterizzano il post moderno, attualmente siamo ancora come chi, pur possedendo una casa con molte stanze, ne abita solo una perdendo gran parte delle reali potenzialità della casa.
(…).
 La nostra società è sorta dal potere violento e dalla minaccia che oggi è incarnata dal denaro e dal potere commerciale. Si può ammazzare con decisioni economiche che hanno come conseguenza la morte di migliaia di persone. Morti che ormai sono solo dei numeri rilevati dalle statistiche. Si contano le vittime senza conoscerne il volto, senza la possibilità di riconoscere nell’altro il sestesso sofferente (Levinas). Abbiamo da secoli guardato il mondo e contemplato noi stessi dal punto di vista del razionalismo che dà attenzione ai dettagli, che misura, che segmenta, ma non permette di cogliere l’insieme, il contesto, il fenomeno che può essere rappresentato, percepito ma non capito intellettualmente. L’infinito non può essere pensato e chiuso in una scatola. Non essere capaci di cogliere “la forma” equivale a non essere capaci di comprendere ovvero di entrare in empatia, di sentire noi stessi, gli altri, il mondo di cui siamo parte. Senza empatia, che è una “distanza abitata” ovvero un movimento tra contatto ed osservazione, vicinanza e lontananza, non c’è conoscenza né valori e una vita senza valori diventa priva di senso. L’intelligenza intuitiva che comprende l’insieme, considera la coscienza individuale come matrice della realtà, dell’universo intero, per quella razionale la coscienza è come una secrezione del cervello che non serve.
 
Così la nostra società tende a porre un’enfasi su ciò che serve, soprattutto alla produzione e al consumo. Enfatizziamo ciò che è utile al mercato tralasciando ciò che ha valore e che è legato alla relazione, all’amore, all’essenza della persona umana. La nostra civiltà è quella dell’homo sapiens che idealizza la sua saggezza, anche se non ha tanta saggezza per capire che non è saggio. Idealizza tanto la saggezza che poi diventa, come dice Edgard Morin, homo demens, un incosciente attivo o un idiota che sa tutto e fa danni.
 
Cosa dobbiamo far entrare nelle nostre vite? E’ la domanda da cui deve partire una sana e responsabile formazione della classe politica oggi. Per riscoprire ciò che abbiamo smarrito e riempire questo vuoto siamo pronti a tutto, ma non sapendo bene dove cercarlo ci comportiamo come l’uomo descritto in uno dei più famosi racconti di Mullah Nasrudin: ”Una sera un amico lo vede mentre, carponi, cerca qualcosa sotto un lampione. “Cosa stai cercando?”, gli chiede. “La chiave di casa”. Così l’amico si china ad aiutarlo. Dopo diversi minuti di ricerca infruttuosa, gli domanda: “Nasrudin, sei sicuro di averla persa qui?” “No, l’ho persa dentro casa”. “Ma allora perché la stiamo cercando qui?” “Perché qui c’è più luce”. Cerchiamo nel luogo sbagliato perché in fondo non sappiamo bene cosa cercare e di cosa ci sentiamo vuoti.
 
L’essere di per sé è relazione, l’anima è ciò che genera relazione tra le parti sia a livello fisico che psichico e lo stesso vale per la società in quanto organismo vivente. A sua volta nessuno potrebbe vivere in virtù di se stesso ma solo all’interno di un contesto naturale ed in relazione con altri. Quindi, come dovrebbe cambiare la formazione? Una prospettiva educativa dovrebbe centrarsi maggiormente su abilità relazionali e personali dell’essere. Molte nozioni di per sé diventano presto obsolete, ma una persona completa, formata, sa essere resiliente rispetto ai cambiamenti della vita che oggi più che mai le vengono richiesti anche dal mondo del lavoro e da una società sempre più liquida e interculturale. Guardare alla persona, all’essere, in senso olistico. Significa educare alla conoscenza esperienziale della propria mente, fornire competenze relazionali e sociali, promuovere la libertà, la spontaneità e favorire la crescita spirituale e di senso coltivando i valori e l’etica (amore per ciò che è più grande di noi e di cui siamo parte, come afferma Viktor Frankl). In sostanza, si deve promuovere una formazione che permetta alla persona di diventare ciò che è seguendo l’imperativo “conosci te stesso”.
                                                                                                         
                                                                                                                           (Giambattista Liazza)
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Sindacalismo

VARIABILE INDIPENDENTE E' IL SINDACATO. MA I SINDACALISTI?

E’ del 2015, il pezzo qui pubblicato, che viene riprodotto per consentire a mestesso ed ai lettori il punto della situazione in materia di sindacato e in particolare di sindacalismo Cisl, a cinque anni da quando fu scritto. Devo subito dire che… avevo riposto male la mia speranza viva in un inizio di ripresa del pensiero alto e forte di quel sindacalismo. Annamaria Furlan ed i suoi amici non ce l’hanno fatta. Finora, almeno. Non nego certo la loro buona volontà e le loro buone intenzioni, ma mi paiono di nuovo piuttosto persi nella palude tatticistico-esistenziale di tutta la nostra società. Una speranza che viene delusa e ancora una volta rinviata. Speriamo che riprenda concretezza presto.
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Una felice sorpresa
 
Appena ho cominciato a leggerlo mi ha lasciato di stucco e felice, e per qualche momento anche incredulo, questo documento della Cisl intitolato Verso la Conferenza Programmatica Organizzativa, predisposto dalla grande confederazione sindacale di via Po per il suo più importante appuntamento interno dell’imminente autunno, e forse dell’intero anno.
 
In effetti, di primo acchito pare quasi incredibile: la Cisl, dopo oltre quarant’anni di storia, sta riuscendo a guardarsi davvero, almeno in sintesi e implicitamente, allo specchio profondo del suo passato, ed a farlo con parole e pensieri di una nitidezza non più vista da molto; sta riuscendo, in particolare, a guardarsi allo specchio implicito di quelle che furono la sua ragione originaria di nascita, la sua peculiare natura, la sua primigenia visione del lavoro e dei lavoratori; e, di conseguenza, sta riuscendo a riconoscersi nella missione ideale che ne motivò la fondazione, e che oggi sembra tornare a illuminarne anche il futuro possibile.
 
Quello che mi è stato fatto leggere è infatti un documento articolatissimo, di oltre quaranta pagine, dedicate ad analisi nella prima parte, e a programmi nella seconda: una carta di riflessione in cui – attraverso i contenuti di analisi organicamente affermati nelle pagine iniziali – la confederazione di via Po salta culturalmente a piè pari, appunto, oltre quarant’anni della sua storia più vicina: storia difficile da guardare in faccia, in quanto è stata in gran parte smarrita, in altra parte incoerente, quasi sempre superficiale, quasi mai all’altezza dei problemi; e riafferma piena consapevolezza e volontà di ritorno a quella sua originaria natura e missione, tuttora modernissime, con quei valori fondativi di riferimento che furono unici nella vicenda del sindacalismo italiano, e che nell’immediato dopoguerra lo cambiarono radicalmente, rendendolo non solo avanzato ma decisamente avveniristico.
 
E’ un evento importante da tenere sotto osservazione, dunque, questo documento, che rinforza decisamente piccoli e isolati segnali minori che nei tempi recenti lo hanno in qualche misura fatto presagire come possibile; è importante perché importante è la Cisl nel contesto del sindacalismo italiano, importante è il sindacalismo italiano nel contesto del mondo del lavoro e dell’economia italiana, e ben significativa è l’esperienza italiana nella prospettiva del lavoro e dell’economia mondiale.
 
L’inattesa carta cita giustamente, fin dall’inizio, il ventunesimo secolo e le sue tipiche tensioni e complessità, quali punto di riferimento doveroso per la riflessione sul ruolo che attende il sindacalismo italiano negli anni che sono davanti a noi, e lo fa non solo liberandosi da ingombranti pastoie passatiste inutili, ma adottando di nuovo il tipico e storico “metodo Cisl”: guardando cioè in faccia i lavoratori e il mondo del lavoro nella loro oggettività strutturale e nella loro persistenza etica, senza bende ideologiche, senza luoghi comuni, senza collateralismi partitici, senza contingentismi, senza sociologismi alla “università-di-Trento-anni-Sessanta” rivisitata: al contrario, con identità di nuovo inequivocabile e di nuovo fondata su una idea piana, chiara e duratura di uomo e di mondo del lavoro, concepiti come stabile comunità di persone a vocazione semplicemente integrale, liberi, democratici, pluralisti. Ed è davvero, questa, nella storia sindacale recente del nostro paese, una novità quasi incredibile, e una ripresa incoraggiante di maturità e ampiezza di riflessione.
 
Non che tutto quanto ha detto e fatto la Cisl negli ultimi quarant’anni sia robaccia da buttare via: qua e là sono balenati anche, come nel resto del sindacalismo italiano, atteggiamenti lucidi e adeguati, e scelte degne della grandezza delle origini; ma si è trattato proprio di singoli episodi stagionali, quasi lampi in un cielo generalmente bigio; e quasi “casuali”; comunque sempre contingenti e disarticolati a livello di sistema.
 
Nella realtà strutturale delle cose, dopo la incredibile distorsione, distruttiva e autodistruttiva, sviluppata a partire dal disgraziato 1969, la Cisl, come il resto del sindacalismo italiano, non ha avuto più né profondità, né continuità, né organicità, né coerenza; a partire da allora, cioè da un congresso confederale che fu ideologicamente ebbro, e forsennatamente giocato sul filo di due voti, o forse di tre, incerti fino alla fine e negoziati nottetempo fra i congressisti (c’è sempre una storia parallela che viene ignorata dagli atti ufficiali) la confederazione travolse, in una truce macumba mentale, quasi tutto quello che di originale e di grande aveva rappresentato fino allora, e, cambiando repentinamente sestessa e il sogno di Pastore, di Romani, di Saba, impose al sindacalismo italiano ed al paese, oltre che ai suoi lavoratori, tante bestialità da diventare parte direttamente corresponsabile della generale irresponsabilità e bassura che ha caratterizzato diffusamente la classe dirigente italiana nel citato quarantennio.
 
Bestialità concepite e diffuse prevalentemente in buona fede, è vero, sotto la guida di Storti, Carniti, e innumeri compagni e successori di ogni livello e regione: ma che sono state pur sempre del tutto cancerogene per l’economia e per il lavoro in Italia; dal salario variabile indipendente al potere contro potere, autentiche assurdità senza tempo contro cui né buon senso né senso di responsabilità hanno potuto nulla, per tanti anni.
 
Dopo una storia inadeguata
 
Nel momento in cui un così enorme stravolgimento, come risultato congressuale, si rivelò in tutta la sua distruttiva portata davanti agli occhi attoniti del paese e dei lavoratori che avevano conosciuto la Cisl delle origini, il grande Mario Romani, padre culturale della Confederazione come Pastore ne era stato il padre politico, informato di tale esito mormorò con malinconia: Questa non è più la Cisl.
 
E in effetti, da allora la grande Cisl delle origini, con la sua fresca e ineguagliabile novità di messaggio sociale e lavorista, e con la sua integralità di cammino, cessò quasi di esistere, se non in singoli isolati momenti e uomini. La testimonianza della espressione lucida e amareggiata di Mario Romani è, moralmente e storiograficamente, la più autorevole possibile: è quella di Vincenzo Saba, che con Romani, Pastore, e gli altri liders, aveva vissuto momento per momento tutta la esperienza confederale fino allora, e non aveva mai mancato di continuare a dialogare con tutti i suoi protagonisti, anche quelli che andavano perdendosi nella notte folle di un sessantottismo privo di luce e di guida; e non mancò mai, neanche successivamente, di riconoscere in tanti sindacalisti di allora il nocciolo di una buona fede, anche se  sbalorditivamente smarritasi in tanto ubriacante sballo e superficialismo ideologico che percorreva quasi tutto l’Occidente. Certo in buona fede erano i Luigi Macario, il giovane Morelli, lo stesso Carniti e moltissimi altri: ma il precipizio era diventato oggettivo e comune.
 
Da allora, in concreto, e guardando alla storia del paese nella sua complessività, la Confederazione si è trascinata a scatti, stizzosamente e bizzosamente, nelle vicende lavoriste italiane, guidata da tutti i vizi e da tutte le scipitaggini comuni al resto della società e della classe dirigente del paese lungo gli stessi decenni: a partire, per fare un solo esempio ma ben presente ai quadri ed ai lavoratori, dalla bislacca, devastante pretesa interna di imporre dall’alto a tutti gli iscritti, senza sostanziale democrazia, la forma associativa delle “federazioni accorpate per settori” secondo astruse concezioni elucubrate a tavolino per ragioni tattiche (caso tipico, quella che puntava a unificare i lavoratori elettrici, nientedimeno, con i lavoratori… delle ceramiche, della chimica e di altri comparti ancora più lontani da qualsiasi comunanza storica e merceologica con il mondo elettrico, “per mettere gli elettrici in condizioni di non nuocere nella dialettica interna”, come bofonchiò, senza giri di parole, un uomo vicinissimo all’allora lider Pierre Carniti).
 
Un tentativo di basso e volgare dirigismo anticislino che ha portato inevitabilmente frutti sostanzialmente fallimentari ed è stato in effetti, successivamente, in significativa parte rivisto e variamente ricorretto. Ma intanto ha seminato frutti profondamente diseducativi sul piano della cultura interna.
 
La bislacca pretesa interna era derivata da una mentalità ormai senza grande orizzonte neanche morale,  e trovava perciò bilancio speculare in altrettali vuotaggini esterne a crescente frequenza, a cominciare da quella dei permanenti o semipermanenti “tavoli delle trattative” o della “concertazione”, formali o non formali che fossero, tanto mediaticamente autocelebrativi quanto sostanzialmente improduttivi, culminanti in qualche caramellina salariale e in un crescente accumularsi di curriculum di amici e familiari sui tavoli delle dirigenze aziendali, al prezzo di vistosi arretramenti di ruolo sostanziale del mondo del  lavoro, e del totale fallimento di quello che era stato il sogno della Cisl delle origini: la partecipazione dei lavoratori nell’impresa, cioè l’impresa come comunità partecipativa, e il diritto al lavoro come diritto non programmatico ma precettivo.
 
A questo furfanteggio interno avviato con il 1969, e sviluppato fino circa alla metà degli anni 1980, cominciò a far seguito, gradualmente, una lenta, impacciata, confusa, claudicante, e mai concludente, presa d’atto del fallimento inesorabile di tali drammatiche scemenze; una presa d’atto avvenuta con scatti improvvisi di resipiscente dubbio e lucidità, qua e là, di buona volontà, e anche di orgoglio saltuariamente ritrovato sulla missione originaria: ma senza più qualità né anima profonda ed organica; infatti nel frattempo la Cisl aveva anche, semplicemente, smesso di studiare e di fare formazione (come del resto accadeva contemporaneamente a tutte le grandi organizzazioni politiche, sociali, ed anche imprenditoriali, e persino religiose, nel paese, salve le eccezioni personali). Contava ormai la sociologia di Trento e poche altre cianfrusaglie senza senso ma di grande sciccheria salottiera: un mondo di culturismo e non più di cultura. Un mondo di lauree e di masters, non più di studio. Con conseguenti effetti sul paese.
 
Parliamo di studiare e formarsi davvero, proprio nel senso impegnativo, serio, onesto, e doverosamente terragno di incollare strutturalmente le natiche ad altrettante sedie e studiare senza soluzione di continuità su libri e relativi approfondimenti, e verifiche sul campo, ed esercitazioni, e confronto di esperienze, e affiancamento agli anziani migliori: e fare tutto ciò a tempo indeterminato, in vera “formazione permanente”, fino a che si è sulla scena delle responsabilità sindacali. Perché è così che si connota il vero “sindacalista che funziona”. Ed è così che, in effetti, operarono i padri.
 
La Confederazione ha mandato invece i suoi quadri sempre più, con atteggiamento soddisfatto e beota, a laurearsi in quei postriboli della cultura che sono le università più o meno rinomate, e spesso rinomatissime, nazionali ed estere, possibilmente arricchite di quei master anglofonizzanti pieni delle tronfie baggianate che hanno rovinato, lungo il corso degli stessi anni, l’economia e la società italiana e mondiale, sfociando infine i loro risultati ultimi nella infame crisi del 2007. Fatte sempre le dignitose eccezioni personali, ancora una volta.
 
Sorgeranno indignati, a questo punto, sindacalisti grandi e piccoli della confederazione, orizzontali e verticali, e tanti loro veri e falsi amici, diversamente interessati, a respingere offesi queste osservazioni ricavate dalla semplice, palese e sofferta vita di ogni giorno: dai, Giuseppe, non esagerare…
 
Ma, cari amici veri della Cisl, andate a osservare, con doverosa serenità e umiltà, anche i concreti tenori di vita, le garantite sicurezze di carriera, i tranquillizzanti distacchi aziendali, le serene famiglie sistemate, le studiate frequentazioni televisive, il personale restar fuori da ogni crisi, i pasticci giudiziari di enti di emanazione sindacale per fatti di banale corruzione, il girare attorno alle frasi consunte dei fallimentari economisti di grido, nel tentativo di accreditarsi operando dei distinguo senza mai affrontare la sfida realmente costosa e strutturale e vera dei lavoratori…
 
E andate a fare il paragone con i tenori di vita dei loro padri sindacali, con i loro rischi, con le loro amarezze, con la loro condivisione, passo passo, di vita e rischi e faticosi successi dei lavoratori stessi, con la concretezza tangibile e poco accademica delle loro acquisizioni contrattuali e culturali, con i rientri a casa sotto minaccia, con i pasti condivisi fra gli operai a mensa aziendale… come fu per i Pasquino Porcu e Dante Bizzaro e mille altri, che, “orizzontali” o “verticali”, segretari generali o attivisti di sas che fossero, sempre lavoratori ed esempi di vita per i lavoratori sentivano di essere, non commentatori televisivi in attesa di successo.
 
Perché, cari amici, alla fine di tutti i conti, è pur sempre la vita personale ed esistenziale e quotidiana di ciascuno, che conta e testimonia davvero. Ed è su di essa, innanzitutto e soprattutto, che davvero possono formarsi le nuove generazioni.
 
Non è, insomma, l’insieme di tante lente trasformazioni del piccolo quotidiano costume sindacale, qui segnalato, un pretesto per rilevare il rischio di un pizzico di “moralismo” in noi che ce ne addoloriamo: è invece la considerazione che, nella storia plurimillenaria degli uomini, a tutte le latitudini, i cambiamenti interni delle società avvengono tendenzialmente proprio così: un po’ come accadde per la lenta e quasi inconcepibile consunzione dell’impero romano, a suo tempo… E del resto ciò vale anche per le conquiste positive.
 
 
La grande ripresa possibile
 
Infine, pur fra tanta confusione e ambiguità amareggiante, negli anni recenti la Cisl è venuta cominciando gradualmente, come si accennava, anche a mettersi su una sua via di Damasco: e ne sia data ampia e gioiosa lode alla onestà e buona volontà di diversi suoi uomini e donne, che non hanno mai cessato di vivere con una coscienza sanamente inquieta fra tante incongruenze, e di continuare a “cercare di nuovo la via”, anche alla luce di quegli antichi maestri più grandi.
 
Tanto che oggi accade, appunto, il piccolo miracolo che può essere prodromo del miracolo grande: questo documento della Cisl, che, a chi sappia guardare lungo, sintetizza bene, forse addirittura senza rendersene conto esso stesso in tutti i particolari, il travaglio ed il senso di fondo del cammino complessivo, e può essere visto veramente come la aperta, lucida, complessiva, finalmente non ambigua confessione di una Confederazione che riconosce di dover ritrovare sestessa in pienezza, e di volerlo fare senza indugi, pronta a riagganciare la potente scia che fu delle origini: il cammino di un grande soggetto nazionale collettivo dedicato totalmente alla promozione solidale della persona che lavora, ma con il metodo associativo e democratico e con l’obiettivo ideale di una impresa partecipativa e di una società fondata su equità corresponsabile. Un esempio di nuovo umanesimo, per essere completamente fedeli alla speranza e alla testimonianza dichiarata dei padri.
 
Nessuna segreteria confederale, in questo più che quarantennio, aveva mai saputo fare un passo tanto  coraggioso e così implicitamente organico, a parte la cauta e tattica annunciazione permanente datane, con circospetti e misurati passetti e passettini in tal senso, da Franco Marini, che in realtà aveva capito benissimo fin dall’inizio la sostanza della situazione storica, e la testimonianza sincera ma quasi isolata di Savino Pezzotta, un vero sindacalista cislino: quella annunciata dalla prima parte del documento firmato ora da Annamaria Furlan per l’assemblea organizzativa 2015 è invece, finalmente, di nuovo la prospettiva possibile della Cisl di Pastore, di Romani, di Saba, modernissima e pienamente adeguata alla realtà che il paese e i lavoratori vivono, in questo ventunesimo secolo ormai galoppante ed esigente nuova maturità vera e nuova corresponsabilità non accademica del mondo del lavoro e sindacale.
 
Non so chi abbia contribuito alla stesura del documento, né l’ho chiesto: ma certo si tratta di persone dotate di meditativa consapevolezza, ben indirizzate e sorrette dalla segreteria confederale di Annamaria Furlan (che personalmente non conosco): una lider capace dunque di indirizzare cammini di rinnovamento, o quantomeno di sostenerli, anche se a volte ella stessa appaia ancora indecisa se abbandonare del tutto l’antica e deleteria abitudine acquisita in questi decenni da un sindacalismo confederale gratificato dal suo sedere in permanenza, in palese goduria anche personale, davanti ai gradevoli schermi tv, a dare al governo ed a tutti lezioncine di economia non richieste e non utili, mentre la propria organizzazione svolge inadeguatamente il suo mestiere: ma, tutto sommato ed in sostanza, avendo pur sempre, ormai, chiara la forte visione autocritica necessaria e la volontà di rinnovamento annunciata.
 
Il documento parla dunque, in tutta la sua prima parte, di bellissime cose: e soprattutto traccia una analisi onesta, chiara ed attenta, delle incertezze e contraddizioni anche sindacali e cisline della lungasituazione di guado”, di cui urge affrontare i termini e superare i limiti senza più scarichi di responsabilità, concludendo alla necessità della ripresa franca dell’antico cammino verso l’obiettivo dell’impresa corresponsabile, partecipativa e solidale.
 
Ed è atteggiamento centrale e decisivo, questo, in quanto la piena riassunzione di coscienza è il primo pilastro di ogni ricostruzione; e, nel caso specifico, è il primo elemento di credibilità della riassunzione di missione annunciata dalla Cisl.
 
 
Ma c’e’ anche una seconda parte
 
 
La seconda parte del documento, invece, diventa improvvisamente cosa molto diversa: con la medesima buona volontà espressa nella prima, essa scade subito di qualità nella parte attuativa e torna a perdersi nel meandro disgraziato dei disegnini tecnici elucubrati a tavolino per la desiderata “modernizzazione anche operativa” del sistema confederale, quella che dovrebbe cioè servire al disegno politico ed etico espresso nella prima parte del documento; mentre in realtà lo sterilizza.
 
E’ una mancata “sapienza attuativa” che dice tutto della fatica del cammino coraggiosamente intrapreso: ma va aggiunto che, se la volontà espressa nella prima parte del documento sarà dotata di coerenza e costanza di impegno, vi sono i connotati perché il cammino possa proseguire fortemente anche nella dimensione attuativa.
 
Come si configura, più particolarmente, il limite della seconda parte del documento?
 
Il disegno operativo immaginato sterilizza il respiro politico e organizzativo della prima parte del progetto puntualizzando innanzitutto, con una meticolosità da ragionieri adusi solo alla scrivania e non al dramma dei luoghi di lavoro, il modo e il numero con il quale si comporranno tutte le segreterie territoriali e verticali della Cisl, il modo e il numero con il quale esattamente entreranno negli organismi della Cisl i rappresentanti degli immigrati e dei lavoratori “atipici”, il modo e il numero con il quale verrà assicurata la parità di genere (resiste ancora questa idiota e abusiva decrepitezza di concetto, al posto della limpida “cultura della persona” che era propria della Cisl, e anzi dei costituenti italiani quasi tutti…) negli organismi Cisl, quante volte alla settimana o all’anno si riuniranno gli stessi organismi, come il territorio dovrà essere suddiviso… e insomma tutto quello stagno oleoso e putrefacente di minchiatine tecnicistiche che fanno la goduria dei ragionieri sociali dimentichi totalmente dell’essenziale e dominati da abitudini che sono fissazioni personali, o, peggio, distillato di qualche costoso e sciocco master nordamericano, regolarmente anglofonico e convinto che la ragioneria tecnica di breve periodo salvi il mondo, esattamente come a Bildeberg sono convinti che la speculazione finanziaria salvi l’economia planetaria.
 
Non sono gli “schemini di breve” a far crescere l’organizzazione, bensì la cultura organizzativa! E questa si forma… con la profondissima ripresa della formazione! Dalla quale, e soltanto dalla quale, scaturiranno anche gli schemi efficacemente operativi per un sindacato di nuovo grande in mezzo ai lavoratori, a sostituire gli attuali esercizietti da parole crociate.
 
Tanto semplicismo culturale è ancor meglio mascherato in quanto… vuoi mettere? Si tratta, ancora una volta, di cose sentite, scritte e viste in inglese nei balordi salotti scolastico-manageriali, per i quali è così chic pronunciarle in tv e nei convegni… Solo a poter dire a voce alta davanti a un uditorio parole come skills oppure as-is-to-be oppure empowerment, la commozione porta a volte questi sindacalisti fino alle lacrime, e solo allora si sentono davvero all’altezza della situazione e abbraccerebbero commossi anche le controparti aziendali, inondati da un sentimento di deliquio per tanto work management e return on investments e cento non meno eteree cazzate, apprese all’università o da essa mutuate: gabbati, con i lavoratori,  ma… arrivati e gratificati, infine.  Vivono di questo.
 
Nel caso della Cisl, in fondo, non c’è vera malizia: tanti suoi quadri sono semplicemente cresciuti come adolescenti innocenti e un po’ vanitosi, perciò a tratti inevitabilmente tonterelli, nel vuoto di processi di formazione ormai a tenuissima sostanza: ad essi il trastullo del disegnino dà appagamento pieno, esattamente come per tanti tifosi della Roma è l’immagine di Totti appesa in camera da letto. Sindacalisti che hanno da troppo tempo, appunto, smesso di studiare e di fare formazione. Hanno fatto l’università ma hanno letto troppi libri e poche rughe, come dice un personaggio della cultura italiana  attuale. Si sono troppo preoccupati di laurearsi e poco di studiare. Hanno riempito la loro mente di formule e svuotato la loro anima di ideali. Hanno cessato di parlare in corretto italiano per non essere obbligati a pensare con corretta logica, e hanno imparato a parlare in inglese per sentirsi accettati nei salotti mentalmente borghesi, dove il dio che conta non è il nostro Dio degli uomini ma un dio che odora di denaro, successo  e riconoscimenti sociali.
 
Però, ripetiamo, potranno fare il loro magnifico cammino di recupero, se la riflessione e la volontà della prima parte del documento offerto a loro ed a tutti noi dalla confederazione è sincera e forte, come mi è sembrato.
 
E un problema di chiarezza
 
Senonchè, mentre scrivo queste note e mi ringalluzzisco nel sogno di una Cisl, e dunque di un sindacalismo italiano, che torni a essere una speranza strutturale per i lavoratori e per l’Italia, mi giunge anche, altrettanto improvvisa, la  notizia rattristante di uno scandalo di dirigenti Cisl i quali, in lunghi anni di poco lavoro e di molta carriera (di servizio ai lavoratori, essi dicono; di servizio a se stessi, altri dicono) hanno largamente approfittato, a quanto sembra, del loro ruolo di angeli sociali per cumulare, anche personalmente, redditi di diversi e contestuali incarichi “al servizio della collettività” (essi dicono, ancora una volta): patronato, centri di assistenza fiscale, istituti di formazione professionale, enti di turismo, rappresentanze istituzionali, e simili. Hanno adottato cioè il vecchissimo trucco di tutti i mediocri e di tutti i corrotti di ogni tempo: politici o sindacalisti o dirigenti d’azienda o alti burocrati o “trombati di lusso” e furbi di ogni settore, che siano.
 
Chi mi dà la notizia ha quasi le lacrime agli occhi per uno spettacolo semplice, e in verità agghiacciante: che la stessa confederazione, e gli ambienti sindacali in generale, invece che semplicemente prendere tempestivo, sereno e pubblico atto della relativa denuncia, e renderne essi stessi edotti i propri lavoratori e la pubblica opinione, e assumere i provvedimenti conseguenti del caso (non c’è nulla di che scandalizzarsi: ogni organizzazione è fatta di uomini e ogni uomo può cadere in tentazione: persino il papa ha fatto arrestare e incarcerare un monsignore pedofilo all’interno del Vaticano) si preoccupa, invece, di mettere le mani avanti e rassicurare la opinione pubblica che “si tratta di mosche bianche, il sindacato è pulito…”.
 
Ahi ahi, ancora la vecchia malattia… Ma che ci importa mai che il sindacato sia pulito? Ci mancherebbe che “il sindacato” fosse sporco!?! Sarebbe come dire che la politica è sporca: ma non è affatto sporca, la politica, sporchi sono invece i moltissimi politici corrotti o parassiti; la politica è, al contrario, servizio del prossimo e carità comunitaria, come insegnava Paolo VI. Immaginate oggi Papa Francesco che, con il suo sorriso bonario, si affacciasse al balcone di piazza San Pietro e, invece che provvedere a risolvere i casi concreti accennati, spiegasse ai cristiani del mondo che… “si tratta solo di qualche monsignore sbagliato, la Chiesa è pulita…”. Ci mancherebbe che la Chiesa fosse sporca!?!...
 
Giulio Pastore si trovò ad affrontare qualche caso relativamente simile, nella Cisl, già ai suoi tempi: e… quei sindacalisti si trovarono fuori della Cisl in poche settimane, anche se Pastore sapeva benissimo che, nel caso specifico più noto, un tale provvedimento avrebbe portato la Cisl a giocarsi gran parte della sua presenza nella più grande azienda automobilistica del paese. Se la giocò. Ma la Cisl restò grande e credibile. Oggi, con questi comportamenti diversi, non lo è più.
 
Ci importa in effetti ben altro: e cioè che di fronte a un accadimento, isolato o non isolato che sia, il quale tradisce ideali e norme, e tradisce le promesse fatte solennemente ai lavoratori ed al paese, l’organizzazione custode di ideali, norme e promesse, intervenga con serenità e pubblicamente, faccia giustizia con equità, e riprenda il suo cammino con credibilità: perché tale è il cammino delle organizzazioni guidate da ideali credibili e da responsabili onesti. Il resto, a cominciare dal mettere le mani avanti, è figlio del nascondimento, dell’incoerenza, della menzogna, del profitto usurpatore, della non credibilità, e soprattutto della manipolazione.
 
Ho sentito riecheggiare, in un improvvido sindacalista negatore del problema, la stupida affermazione che… “chi attacca un sindacalista della Cisl attacca la Cisl”. No, fratello mio: chi attacca un sindacalista della Cisl attacca semplicemente quel sindacalista della Cisl, e niente affatto la Cisl: anzi, probabilmente egli sta difendendo la Cisl da un suo cancro interno, che la sta rodendo, sfigurando e uccidendo. Non nasconderti dietro la Cisl per tradire la Cisl, fratello mio della Cisl!
 
E, fratello mio della Cisl (ma, in questo caso, anche della Cgil tutte le volte che è il caso) torna con forza a pensare con un pensiero elevato e compiuto, se non vuoi fare il male di te stesso, del sindacato, dei lavoratori e del paese insieme: non esiste affatto neanche un “diritto a riunirsi”, stupidone dirigente sindacale dei servizi turistici del Colosseo: sarebbe come dire che “esiste un diritto a votare” e ne volessi cavare la conseguenza che puoi  recarti a Montecitorio e decidere che lì voti, impedendo il normale svolgimento delle funzioni di quella istituzione: che è di tutti, non tua; il “diritto a riunirsi”, come il “diritto a votare”, e tutti gli altri diritti, vivono non solo dentro il contesto dei correlativi doveri ma anche dentro il contesto del “bene comune” e di tutti e singoli i “beni comuni” (che sono proprio di tutti, ma davvero di tutti, e niente affatto tuoi, anche se ne hai la custodia!).
 
La quale Cisl, per tornare al documento importantissimo in vista della sua prossima assemblea organizzativa, e in particolare all’analisi e alle prospettive annunciate nella sua prima parte, ha comunque appena cominciato, lo ribadiamo, il suo promettente, e, ci sembra, sincero, cammino di rinnovamento: questo resta, e noi le auguriamo di saperlo sviluppare con forza quotidiana e con lucidità di ideali testimoniati ogni giorno anche a livello dei singoli sindacalisti, senza troppi comunicati stampa, senza troppa ragioneria burocratica, senza troppe mani avanti, e senza troppe excusationes non petitae; altrimenti non giungerebbe alla meta ma continuerebbe a fare del male ai lavoratori ed al paese. E non vale davvero la pena che ciò accada.
 
Nello stesso tempo, nessun altro sindacato, né alcun’altra organizzazione del sociale o della politica, oggi, in Italia, possono ritenersi in diritto di guardare con sufficienza all’impegnativo guado cislino: essi sono esattamente nella stessa situazione sostanziale, anzi, nella maggior parte dei casi, sono un po’ peggio. E’ tempo che anch’essi riassumano le loro responsabilità e i loro ideali, insieme con l’esempio dei padri migliori, che in gran parte alle origini illuminarono anche loro: e si decidano a riprendere la via. E lo decidiamo tutti. Per il bene comune.
 
                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)
 
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Democrazia Comunitaria

SCUOLA: NON DIDATTICA A DISTANZA MA PRESENZA DISTANZIATA

Si susseguono i dpcm, strumento leggero per mentalità e impostazioni non profonde. Non inseguiremo l’ultimo in ordine di tempo, appena emanato, in ogni sua giravolta, a cominciare da quella che stabilisce confini regionali per un virus che cammina su frontiere ben più articolate; ma responsabilmente cercheremo di approfondire via via, con critica costruttiva e propositiva, le tematiche toccate da questo tipo di provvedimenti e dalle politiche normative in generale, meritevoli di attenzione e gestione meno superficiali. Per aiutare una maggiore responsabilizzazione concreta di tutti. Cominciamo con la scuola, e con chiarezza.
La “didattica a distanza” non è una didattica efficace, anzi, come didattica che sostituisce la normale presenza a scuola, è pessima. Questa constatazione è tanto più incontrovertibile quanto più l’età degli studenti è bassa. Nei bambini delle elementari la sua efficacia è quasi nulla e ampiamente aleatoria, nei ragazzi del liceo è scarsa ed in ogni caso, per tutti, è discriminatrice perché legata alla disponibilità di attrezzatture, di logistiche familiari e di capacità tecniche, per le quali non c’è stata alcuna preparazione significativa di lunga ed equa gittata negli anni scorsi.
Se poi, invece che di didattica, parliamo di pedagogia, che è il termine più appropriato per affrontare il tema della scuola, la situazione è ancora peggiore: a distanza non si fa pedagogia, per i ragazzi della scuola: la “pedagogia a distanza” non funziona se non per singole evenienze di brevissima portata e durata (un giorno, o al massimo una settimana).
Nello stesso tempo, sospendere la scuola è la peggiore cosa che si possa fare, subito dopo la pessima fra tutte, che è sospendere il lavoro. Come chiudere la vita, come chiudere il paese.
Allora? Allora il lavoro e la scuola vanno tenuti aperti. Ma come si fa? Oggi ci limitiamo a tornare sul tema della scuola (da anni, e ben prima della presente pandemia, andiamo trattando anche di come si fa a non chiudere il lavoro: e riprenderemo presto l’argomento). Come si fa, dunque, a non chiudere la scuola? I “banchi con le rotelle” sono l’emblema della scipitaggine estrema cui la mente priva di esperienza ma ricca di saccenza, priva di cultura ma ricca di superficialità, giunge ormai fra i politici anche più titolati (ma non solo fra i politici). E’ ovvio che non è affatto questa brillantezza superficiale di idee che consente di affrontare la serissima problematica della scuola (a parte la considerazione di costi, sprechi e affari non trasparenti collegati con simili ideuzze).
La scuola va tenuta aperta, dunque; ma perché funzioni bene senza cadere preda del carognavirus, l’orario di ingresso va scaglionato per singole classi e dunque l’orario complessivo di apertura della scuola va allungato; l’orario di presenza della singola classe va ridotto a non oltre due ore (più che adeguate per ogni didattica e per ogni pedagogia anche in tempi ordinari); ogni gruppo classe va a sua volta affidato a un solo insegnante che accompagna i ragazzi nello studio di tutte le materie; e ogni gruppo classe, specialmente nelle classi inferiori, data la istintiva e difficilmente controllabile spinta dei piccoli a non tener conto del necessario distanziamento fisico (fisico, balordini di politici e giornalisti che siete: fisico, non sociale!!), ogni gruppo, dicevo, va ulteriormente diviso non soltanto in sottogruppi più piccoli e controllabili, anche soltanto di cinque o sei persone, ma se occorre anche in tanti individui singoli per altrettanti incontri personalizzati di docenza: dentro la scuola, però, non a casa!
Ed è del tutto inaccettabile che si obietti sulla non preparazione degli insegnanti a guidare un ragazzo in tutte le materie: come si potrà pretendere infatti che il ragazzo diventi sufficientemente bravo in tutte le materie dando per scontato che il medesimo obiettivo è proibitivo per l’insegnante?! Ogni insegnante è particolarmente bravo in una materia ma è sufficientemente bravo in tutte, tanto quanto basti ad essere guida dei ragazzi per questo obiettivo: per definizione, altrimenti non è un insegnante!  
E naturalmente un simile adeguamento della organizzazione pedagogica e didattica esige che gli insegnanti si coordinino fra loro sui singoli ragazzi, e conseguentemente che il capo di istituto (preside o direttore didattico) sia effettivamente un “capo” di istituto, cioè un responsabile che curi effettivamente coordinamento e aggiornamento permanente dei docenti; ed esige che i livelli superiori di regione e di ministero sostengano tutto questo lavoro (sostengano, e smettano di sfornare circolari con la frequenza e la mentalità dei dpcm!). 
La realtà si affronta allontanandocisi il meno possibile da essa e governandola per quello che è, non travisandola e creando realtà diverse.  Solo in questo modo si può avere un anno scolastico eccezionale per difficoltà ma tutto sommato di normale efficacia, e forse anche di accresciuta efficacia formativa sulla coscienza dei ragazzi. Che è obiettivo essenziale, altrimenti si rischia di perdere un anno di formazione per una intera generazione e per il paese, con danni gravi e in qualche misura anche irreparabili. Non è lecito, con la scuola, giocare a rimpiattino né politico né professionale.
                                                                                                         
                                                                                                                                   (Giuseppe Ecca)
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Democrazia Comunitaria

UN DPCM DISTANTE DALLA REALTA'

Pubblichiamo l'ultima nota di DemocraziaComunitaria, rilasciata a immediato ridosso del più recente decreto del presidente del consiglio dei ministri in materia di covid. Nota nettamente critica, che riteniamo utile pubblicare in quanto gli accadimenti reattivi a tale dpcm confermano, con le manifestazioni vandaliche di protesta in corso in diverse città, e nello stesso tempo con le civilissime proteste di cittadini e operatori irrazionalmente impediti di lavorare, il carattere preoccupantemente astratto e inesperto anche di tale provvedimento, e la sostanziale assenza di un reale dibatitto parlamentare su tutta la tematica della lotta antipandemica: suggerendo una riflessione su come riprendere un più misurato e realistico modo di concepire la gestione del paese e il relativo potere normativo.


La chiusura di ristoranti, teatri e altre categorie di pubblici esercizi alle ore 18, denota nel governo buone intenzioni unite a lontananza palese e pericolosa dalla realtà concreta della vita economica e sociale: il provvedimento del governo avrebbe dovuto andare, caso mai, esattamente nella direzione opposta: allungare l’orario di chiusura possibile di tali esercizi, vincolando semplicemente i locali ad apporre ben in vista la loro scelta di orario e obbligandoli al distanziamento ed alla igienizzazione puntuale di clienti, personale e locali stessi. Perché è così che l’economia vive e il sacrifico comprensibile chiesto a tutti è solo quello di… lavorare più a lungo, se lo vogliono, per compensare la maggiore distensione di tempo e di persone degli utenti e dei collaboratori.
I sostegni economici in termini di elargizione di soldi pubblici, a loro volta, devono essere riservati alle aziende che adottano contratti di solidarietà o di compartecipazione ai risultati. Altrimenti si ha una semplice (e spesso politicamente clientelare) azione di sostegno parziale e aleatorio a una sopravvivenza grama e deprofessionalizzata senza alcun consolidamento strutturale né difesa della economia complessiva.
In una situazione che tende ad aggravarsi è giusto anche chiedere alle nostre forze armate di svolgere ordinarie funzioni di polizia in affiancamento alla insufficiente presenza di carabinieri, polizia di Stato e polizie locali, che si sta traducendo in deficit di controlli sugli assembramenti e sulle altre violazioni delle norme di sicurezza collettiva. Gli assembramenti infatti stanno continuando e con essi continua la irresponsabilità di tanti giovani ma anche di tanti genitori e operatori di diverse realtà sociali. Le imprese e le persone colte in reato di non osservanza delle norme di distanziamento e igienizzazione vanno semplicemente (soltanto esse) assoggettate alla sanzione della chiusura immediata, con durata di progressiva gravità, o della clausura personale stretta.
Anche la scuola può e deve essere organizzata in efficace distanziamento fisico, che non significa affatto didattica a distanza. A parte la sintomatica incongruenza del parlare di didattica a distanza mentre il concetto giusto è quello di “pedagogia a distanza” o “scuola a distanza” (improprietà linguistica che la dice lunga sulla confusione mentale circa la funzione della scuola, diventata nozionificio e titolificio incapace di educare), la non equiparabilità della scuola a distanza con la scuola in presenza è chiara a chiunque nella scuola abbia vissuto. Il problema si risolve aggiungendo al ragionevole e controllato distanziamento fisico dei ragazzi fra loro, lo scaglionamento dell’entrata delle singole classi lungo la giornata, tenendo conto di due elementi essenziali per la rivitalizzazione anche pedagogica dell’attività scolastica: 1. l’incontro in presenza non ha alcun motivo né pedagogico né didattico di durare oltre le due o al massimo le tre ore, il che fa guadagnare appunto la possibilità di tenere scuola in presenza per più classi distanziate; 2. va reintrodotta gradualmente la figura del docente unico per ogni gruppo-classe, affiancato dove possibile da un assistente o tutor che è anche naturale supplente quando occorra. Necessita infatti una figura univoca e unitaria di educatore per i ragazzi e per il gruppo, non l’affastellamento di diverse figure spesso di fatto educativamente incoerenti fra loro. I docenti, bravi ciascuno nella sua (o nelle sue) materie particolari, è bene che riapprendano l’antica capacità e umiltà di essere sagaci ed educativi accompagnatori dello studente in tutte le altre materie. Altrimenti non sono educatori.
I provvedimenti di chiusura pura e semplice di attività economiche decisi dall’ultimo dpcm, in sintesi,  suonano come arbitrii, oltre che dannosi all’economia, ingiusti se si pensa che vengono indiscriminatamente castigati anche  i migliori operatori, cioè quelli che per ingegno o moralità riescono a far funzionare correttamente attività esposte all’assembramento. Si castigano i bravi e non si controllano gli irresponsabili! E rischia così di crescere quella che all’inizio della pandemia medica, diversi mesi orsono, chiamavamo “la pandemia più rischiosa: quella economica e sociale”. Ogni giorno è buono per tornare a imboccare la via del buon senso e della giustizia, se davvero lo si vuole.
                                                                                                                                             
                                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)

                                                                                                       
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Comunicazione

SE QUESTO E' COMUNICARE... PREFERISCO IL CINESE

Uno dei modi in cui la lingua può uccidere: il burocratese. Ne abbiamo fatto cenno anche sulla pagina Feisbuc, per i profili della crescente difficoltà che la complicatezza espressiva causa ai cittadini. Il problema è antico, molto più antico di questa nota, che fu scritta nel 2015 per la rivista “50&Più”e che riproponiamo per la sua confermata attualità.
 
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Da decenni innumerabili l’Italia è dotata del legislatore più prolifico e più bislacco di tutto il mondo avanzato: un legislatore che fa troppe leggi, e per giunta quasi mai sono leggi che il cittadino, da solo, riesce a decifrare (parlo proprio di decifrazione della lingua italiana). La conseguenza è il più micidiale stato di pericolo permanente di fronte al quale il cittadino stesso si trova, e il più abbondante pascolo lucroso per legulei e profittatori di ogni risma.
 
Ma la disdetta veramente lacrimevole è quando gli “spiegatori” della legge, commentatori, docenti, divulgatori, chiosatori, giornalisti, persino sindacalisti, vogliono “delucidare” il significato delle norme a favore dei cittadini, della “gente qualunque”: e invariabilmente, a loro volta, lo fanno imitando il legislatore.
Sentite questa, ad esempio: è la “spiegazione” che un sindacato dà ai lavoratori su alcune norme previdenziali di legge. Me la ritrovo tra le mani, oggetto di una discussione di qualche anno fa, e mi obbliga a constatare che il vizio della comunicazione astrusa non è nel frattempo migliorato in nulla, anzi…
 
…Ciò determina, però, come conseguenza, che l’ipotesi delle lavoratrici del comparto scuola e AFAM che, ai sensi dell’art. 1 comma 9 legge 243/2004 optano per il metodo di calcolo contributivo e accedono, entro il
2015, al pensionamento ad età inferiori rispetto alle regole generali, dal momento che sono fatte salve dal
comma 14 dell’art. 24 della legge 214/2011 (e non rientrano tra i commi da 6 a 11) non godono della disapplicazione della finestra e, pertanto, se maturano questi requisiti dal 2012 si vedranno applicato l’art.
1 comma 21 legge 148/2011 con la conseguenza che l’accesso al pensionamento viene differito al 1 settembre o 1 novembre dell’anno successivo.
Quest’ultima interpretazione, seppure fondata sul tenore…
 
Vi supplico, chiunque voi siate: non spiegate più. Non commentate. Non raddoppiatemi la difficoltà di capire. Lasciatemi alla mia disperata lotta con la masnada criminosa dei legislatori. Caso mai, piuttosto, aiutatemi a farli rinsavire…
 
Una mia carissima amica, che fa l’avvocato, e che più o meno la pensa come me, ha inventato un bellissimo modo per aiutare gratuitamente i cittadini in questo ginepraio pieno di spine velenose: invia loro, ogni tanto, delle “pillole di diritto”: mezza paginetta per volta, mai più di una, in cui, con estrema semplicità di linguaggio e con pazienza, spiega il significato sintetico di una parola, di una norma, di una sentenza, di un “caso” risolto. Lo fa come per gioco, “così, per curiosità, fino a che ne avrò voglia: e intanto do una mano a diminuir la confusione”, mi dice tranquilla. Controcorrente anche rispetto alla sua categoria professionale.
 
  • Ma, Manuela – le osservo: - devi farlo a vita, questo lavoro: devi soccorrere la gente che ogni giorno è in mano alla cricca delinquenziale che comincia con i legislatori e finisce… con la tua categoria, quella degli avvocati!... La conosci, la triste realtà del legislatore che… non sa che leggi fa perché i parlamentari si limitano a votare “sì” o “no” secondo la indicazione del loro capogruppo, ma non capiscono nemmeno l’oggetto di ciò che stanno votando. Proprio non lo capiscono, in lingua italiana: e si rimettono al loro capogruppo, il quale a sua volta si è rimesso agli “esperti”. E, del resto, anche se non facessero così per ignoranza dovrebbero farlo per disciplina di partito.
 
  • Beh – mi risponde: - sì, la questione dell’astrusità delle normative è antica, e bisogna proprio che l’avvocato, di fronte a ogni caso, si metta una mano nella coscienza e non aggiunga la sua parte di complessità.
 
  • No, no! – le rispondo; - non basta: siamo ormai in una situazione sociale nella quale l’avvocato deve sentirsi esattamente come la maestra dei tempi deamicisiani, che prende per mano il bambino (bambini, di fronte alla immonda babilonia normativa, siamo tutti, anche noi superlaureati) e li accompagna, così, proprio come si fa con i bambini, affinchè non si facciano male: spiega loro, con pazienza materna, via via, la traduzione italiana di questo nero linguaggio da settimo continente… E’ la scuola popolare, che dovete fare, voi avvocati onesti, nei confronti dei cittadini, per difenderli davvero…
 
Manuela sorride. Lei lo sta già facendo. E, per il vero, non è l’unica. Vi sono, sempre, anche i missionari del bene: come Manuela. Persino tra gli avvocati.
                                                                                                         
                                                                                                                       (Giuseppe Ecca)
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Rinnovamento della politica

UN NUOVO PARTITO DI ISPIRAZIONE CRISTIANA?

Ventisei anni di “diaspora” politica dei cattolici. Tante volte è sembrato che si riuscisse a porle termine, e altrettante essa si è reimpadronita del grande movimento che cerca di ritessere le fila, aggiornate al ventunesimo secolo, di quella che fu la Democrazia Cristiana nei primi quarant’anni della repubblica italiana e soprattutto con De Gasperi e i personaggi che meglio ne accompagnarono il cammino: da Mattei a Dossetti a Moro a Fanfani etc.. Potrebbe finalmente accadere che l’impresa riesca, in questi mesi: ma… è prudente essere prudenti. Occorre comunque, al nostro paese, un grande partito che sappia riportare nella politica italiana la credibilità e grandezza di una concezione alta, solidale, coerente di sviluppo per tutti gli italiani. Il 3 e 4 ottobre si è riunita a Roma una notevole assemblea nazionale di esperienze e gruppi decisa a fondersi in un rinnovato partito di ispirazione cristiana, dal nome “Insieme”. Abbiamo svolto il nostro intervento, in tale sede, per sottolineare quella che ci è sempre sembrata la premessa necessaria per puntare con coerenza a un obiettivo così alto. E lo pubblichiamo qui di seguito.
 
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Cari amici,
lungo il cammino politico di questi ultimi mesi ho assistito a un moltiplicarsi inatteso, e spesso trafelato e polemico, di scambi telefonici e di riflessioni scritte, di incontri incrociati interni ai gruppi e fra i gruppi di ispirazione cristiana che si interessano alla politica: moltiplicarsi che mi induce ad alcune osservazioni personali anche critiche, condivise peraltro con non pochi amici, su determinati punti del cammino stesso e del costituendo nuovo soggetto politico: ve le sintetizzo di seguito quale contributo al perfezionarsi progressivo dell’impegno verso il traguardo auspicato, possibile ma nello stesso tempo complesso.
 
  1. Il clima referendario e i suoi segnali. Il referendum sul taglio del numero dei parlamentari mi ha visto schierato per il sì, come sapete, conformemente a una posizione che sostengo da tantissimi anni. La maggioranza dei miei amici ha sostenuto invece il no, per ragioni che ritengo altrettanto legittime delle mie. Con tali amici nulla è mai cambiato nel rispetto e nella stima reciproca: e si è continuato a dialogare e costruire positivamente insieme. Quello che mi ha invece lasciato molto sorpreso (parlo in generale del grande coacervo di persone e gruppi del mondo di ispirazione cristiana impegnato in politica) è stato la tonalità diffusamente astiosa e intollerante, non raramente offensiva e bellicosamente contrappositiva, a volte inattesamente carica anche di pretese dogmatiche dal dubitabile impianto logico, per le quali a quesiti istituzionali si sono contrapposte valutazioni di opportunità politica anche tattica, a osservazioni giuridiche hanno fatto riscontro assiomi ideologici, in un affastellamento culturale che mi ha fatto pensare a una diffusa disabitudine dall’antico costume della discussione attenta e distesa fra tesi a confronto, e anche dalle esigenze permanenti di rigore logico e sistemico tipiche della tradizione democratico-cristiana e popolare. Avrei addirittura preferito che vincesse il no ma su un livello superiore di civiltà del dibattito. Ideale da vecchio seminarista? Non saprei: ma ho percepito, anche nel nostro mondo cattolico, un diffuso livello di pensiero strategico piuttosto misero, e di metodo del confronto ben poco rispettoso. Bassa cultura politica, a me sembra: del medesimo livello offerto oggi da quei partiti dei quali vogliamo essere una decisa alternativa di superiore qualità.
 
  1. La divisione immascherabile del mondo cattolico. In secondo luogo, i segnali diretti e indiretti, numerosi e forti,  di una divisione addirittura crescente fra i gruppi di ispirazione cristiana interessati alla politica, a mano a mano che si sono venute intensificando le notizie della prossima costituzione di nuove soggettualità politiche, non parlano di semplici distinzioni e di confronto ma di divisione e pressochè di frantumazione confermata, di riserve mentali reciproche e di riferimenti strategici anche distanti. Unito nella teoria, negli auspici e in una certa eccessiva professoralità dottrinale, il mondo cattolico appare del tutto diviso nella pratica e nella disponibilità a una ipotesi di reale autodisciplina organizzativa. Dal mondo cattolico, compresa la struttura ecclesiale, non pare facile dunque, allo stato attuale, sperare un atteggiamento autorevole e unificante. 
 
  1. Dalle persone ai personaggi? L’immagine tendenzialmente emersa anche nella percezione della stampa e degli osservatori esterni di questo cammino, in questo periodo, è parsa inoltre accentuare un trasferirsi progressivo della dinamica di confronto dalle persone ai personaggi, cioè ai protagonismi particolaristici e individuali dei gruppi, evidenziando via via più preoccupazioni di territori e ruoli da occupare che verifica di valori da condividere. Ora, per la nostra impresa occorrono persone, più che personaggi. Occorrono persone dotate di personalità, più che personaggi dotati di visibilità. Questa è la mia idea netta.
 
  1. L’inversione del retroterra prioritario per la costituzione del partito: comunicazione e formazione. Continua a sembrarmi un errore l’anteporre la costituzione del partito, e le relative aspettative elettorali, alle due condizioni senza le quali, secondo me, la edificazione del partito stesso o non è possibile o resta fragile. Tali due condizioni preliminari sono: a. uno strumento univoco, condiviso e unitario, per la comunicazione; b. uno strumento univoco, condiviso e unitario, per l’avvio immediato della formazione profonda e diffusa delle coscienze (ben più che delle competenze, le quali sono già frequentemente sovrabbondanti fra noi). Ha prevalso finora l’idea che i due strumenti citati debbano derivare dal partito una volta che sia costituito, piuttosto che concorrere decisivamente a costituirlo. Temo che si tratti di un convincimento dagli effetti negativi sulla qualità del cammino verso il costituendo partito. 
 
  1. Partito di persone e non di gruppi o associazioni. Nel mio modo di vedere, il futuro partito di ispirazione cristiana non può essere che un partito di persone, mai di gruppi (altra, “altrissima” – scusate l’abuso linguistico -  cosa è la dinamica delle future correnti interne di pensiero e di opinione, che possono essere ricchezza). Il lavorare con la mentalità di gruppi già costituiti porta a negoziare spazi e ruoli più che valori e programmi, e tende a generare, invece che il partito di persone (anche questo è personalismo), un partito di personaggi, come accennato: i quali personaggi possono essere anche figure di grande dignità individuale all’interno dei rispettivi gruppi, ma sono inevitabilmente poveri di reale consistenza agli occhi della pubblica opinione del paese, compreso il futuro elettorato potenziale specifico di questo partito, anche quando abbiano in passato rivestito ruoli di rilievo. Non rendersi conto di questo vuol dire vivere in un mondo che non c’è. Abbiamo bisogno di uniformarci su un’alta cultura, non di evidenziarci su alte individualità.
 
  1. La cultura e la prassi delle regole. Un partito che voglia rappresentare una novità forte e ricca di speranza per l’Italia ritengo non possa che essere una comunità associativa che si fonda su regole statutarie di funzionamento a un tempo semplicissime e rigorosissime: direi  fanciullescamente semplici e rigorose. E’ quello che spesso mi sono permesso di chiamare “modello monasteriale”, fuori del quale il “partito nuovo” non direbbe praticamente nulla a nessuno nel paese. Il disincanto dei cittadini nei confronti della politica e dei partiti attuali non avrebbe motivo di non verificarsi anche per il nuovo partito, se ai cittadini non offriamo questa “differenza competitiva”. Senza soffermarci su quella che ritengo la inadeguatezza culturale del continuare a ragionar per categorie, come ad esempio si fa quando si prevede una composizione degli organi calibrata fra generi e fra generazioni: offensivo per le donne e offensivo per i giovani, a mio modo di vedere, il vedersi garantire la valorizzazione della loro presenza e del loro ruolo per via di previsione statutaria. Al centro è la persona, non la categoria: e, ancora una volta, anche questo è personalismo. Ritengo che sia grave errore anche un sistema elettorale interno concepito per liste e non per persone.  Io sono anche in questo caso rigorosamente per la persona: la lista può esserci, può essere utile, ma serve semplicemente a identificare e garantire meglio la visione, la proposta e la responsabilità del candidato-persona.
  2. Il partito “soggetto sociale” prima che soggetto politico. Un partito di grande prospettiva nazionale e internazionale, e popolare, deve essere in realtà, innanzitutto e paradossalmente, un forte soggetto sociale prima che un forte soggetto politico. Deve essere cioè un soggetto che fa del suo vivere quotidiano in mezzo alla gente, con trasparenza di modalità associativa democratica, la base per la sua azione anche elettorale e istituzionale. Non viceversa. Il partito deve essere un soggetto sociale proprio per poter essere un soggetto politico nel senso forte e direi sturziano del termine.  Non un partito che “parla alla gente” ma un partito che “vive in mezzo alla gente” anche come soggetto diretto di servizio oltre che di rappresentanza politica.
 
  1. La patologica insistenza sulla questione del “posizionamento”. Questione che mi pare denunciare implicitamente un impoverimento micidiale del livello di pensiero strategico del dibattito. Ho già in passato avuto modo di rilevare che più alto è il livello qualitativo del partito, meno ha senso porsi il quesito dello schieramento; più basso è tale livello, più è importante tale problema. L’accennato recentissimo episodio dello scambio di messaggi fra amici noti, autorevoli e stimati dei nostri gruppi, non ne è che un ennesimo esempio, piuttosto scoraggiante nonostante l’indubbia sincerità e consistenza di impegno degli interessati.
 
Cari amici,
queste riflessioni, e altre che molti di voi conoscono da tempo, mi fanno pensare che, tutto considerato, noi ci troviamo oggi a rivivere la medesima esperienza sostanziale ripetutasi sempre e senza eccezioni in questi ventisei anni di diaspora democratico-cristiana: un’alta unità teorica succube di un basso profilo di disponibilità all’autodisciplina operativa nella trasparenza.
Una analisi sociologica (se si vuole anche di sociologia religiosa oltre che politica e culturale) mi pare vada affrontata. Ho insomma la impressione che le condizioni storiche di diaspora non siano effettivamente ancora superate come realtà culturale e psicologica e che l’auspicato nuovo soggetto politico non sia ancora del tutto maturo: salvo arrischiare di costituirlo formalmente, ma di vederlo anche rapidamente naufragare come i tanti soggettini a dichiarata ispirazione cristiana che hanno immalinconito la vita politica del nostro paese in questi ventisei anni.
Cosa fare, allora? Non certo fermarci, non certo arrenderci, e… neanche rinviare.
Propongo di considerare anche l’assemblea oggi in svolgimento come un momento di accresciuta presa di coscienza, non meramente speculativa ma volta senz’altro a partire rapidamente per la realizzazione del partito, cominciando però dalla realizzazione concreta dei suoi due punti preliminari, quelli che ho accennato sopra: operativamente propongo perciò di costituire il coordinamento stabile, paritario, a incontri rigorosamente almeno quindicinali ma possibilmente anche settimanali, direttamente fra i massimi responsabili dei gruppi oggi presenti e disponibili, affiancato magari da una segreteria di sintesi operativa, per far decollare immediatamente a livello unitario sia l’azione formativa per costruire coscienza civile e politica condivisa nei mondi di riferimento, sia la comunicazione interna ed esterna. Con assunzione diretta e personale di responsabilità da parte dei suddetti due organismi. Una piccola, implicita modalità federativa pro tempore, insomma, in funzione direttamente preparatoria e fertilizzatrice del terreno culturale e psicologico per la costituzione del partito, cui potrebbe essere ragionevole giungere in avvio del nuovo anno o poco dopo.
                                                                                                                           
                                                                                                                            (Giuseppe Ecca) 
                                                                                                          (con gli amici di DemocraziaComunitaria)
Roma, 4 ottobre 2020.
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Prospettive

ECONOMIA: ITALIA CHE RIPARTE

E’ del 3 agosto 2019, cioè di un anno fa, questa riflessione di Achille Colombo Clerici sulla situazione effettiva dell’Italia, e in particolare della sua economia, scremata dalle polemiche interpartitiche e divisive della opinione pubblica, e vista secondo la ottica, non priva di autorevolezza, di uno studio congiunto fra il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e l’Istituto Bancario Intesa San Paolo. La riproponiamo, per segnalare che a quella data la solidità economica del nostro paese, sia pure con la tipica organizzazione amministrativo-burocratica pesante e confusa, era evidente agli osservatori attenti.  
 
Ebbene, contrariamente a quanto generalmente si dice, a un anno di distanza, cioè nell’attuale periodo di pandemia, la stessa situazione economica, pur fra le difficoltà gravi di congiuntura portate dalla stessa pandemia, è secondo noi del tutto lontana dall’entrare in crisi strutturale. Salve non impossibili follie della politica.
 
Rifletteva dunque Achille Colombo Clerici un anno fa:
 
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Giunge più di una sorpresa dall’indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, svolta da Intesa SanPaolo in collaborazione con il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi: resuscita il ceto medio, la casa rimane l’investimento preferito, la diseguaglianza economica si riduce.
 

Innanzitutto i dati: un milione e trecentomila famiglie sono rientrate a far parte del ceto medio o vi sono entrate per la prima volta, riallargandolo dopo il record storico negativo raggiunto nel 2013 quando solo il 39% delle persone riusciva a risparmiare. Ora i risparmiatori (52%) superano di nuovo i non risparmiatori (48%) e la percentuale di quanto si accantona tocca il 12,6%, massimo storico, delle entrate.
 
Gli italiani continuano a resistere alle sirene della finanza mantenendo la casa al primo posto quale destinazione del risparmio. E continuano a investire nel mattone nonostante il 63% del patrimonio sia già rappresentato da immobili: il 57% ha ristrutturato la casa o un altro immobile. Anche la disuguaglianza è meno accentuata che nel resto d'Europa: il 10% degli italiani più benestanti detiene il 42,8% della ricchezza netta complessiva, percentuale che in Germania sale al 59,8%, a prescindere dal record di disuguaglianza della Gran Bretagna.
 
E ancora: i redditi da attività professionale e da lavoro dipendente sono aumentati; negli ultimi tre anni i bilanci delle famiglie hanno riacquistato parte della prosperità perduta durante la lunga crisi.
La percentuale di coloro che ritengono sufficiente il reddito per sostenere il tenore di vita corrente sale nel 2019 al 69% degli intervistati, massimo storico del decennio.
 
Nonostante la base produttiva dell’economia stia rallentando, i bilanci familiari sono simili al colore roseo dell’alba (parliamo sempre di media statistica). I primi a notare come l’Italia sia ben lontana dal baratro, come profetizzano alcuni, sono stati i signori dello spread che hanno portato l’asticella sotto i 200 punti.
 
Ho sempre sostenuto, in buona compagnia d’altronde, che la ripartenza del Paese poggia sulla fiducia dei suoi cittadini e delle sue imprese. Se la politica riuscisse a convincerli ad utilizzare, per spese e investimenti, anche soltanto una parte dei 1.400 miliardi di euro di risparmi inattivi nei conti correnti, potremmo forse assistere ad un nuovo mini-miracolo economico italiano.
 
D’altronde, nelle emergenze riusciamo sempre a stupire positivamente i consoci  europei. E'questa la forza dello zoccolo duro socio-economico del Paese che poggia su una impalcatura di cultura, tradizioni, valori etici dei quali la famiglia e'stata il vero storico motore, come centro di vita sociale ed economica.
 
                                                                                                                        (Achille Colombo Clerici)
 
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Politica

REFERENDUM: CON SERENITA' E RISPETTO VOTEREMO SI'

Cari amici,

mancano ormai pochi giorni alla celebrazione del referendum sul taglio del numero dei componenti il parlamento italiano (oggi sono 945 più gli ex presidenti della repubblica).
Non ho fatto e non faccio alcuna “campagna di voto”, pur avendo da tantissimi anni una mia idea precisa sulla materia.  E volutamente ho atteso questi ultimi giorni prima del voto per sintetizzarvi la mia riflessione finale, con serenità e rispetto per quanti pensano diversamente da me.
Ho trattato spesso l’argomento della consistenza numerica del parlamento, l’ho trattato da tanti anni, e certo ben prima che si profilasse l’attuale referendum, e ben prima che si pensasse alla modifica del numero dei parlamentari da parte del governo in carica e di quello precedente e di quello precedente ancora. Anzi, ne ho trattato ben prima che esistessero tutti gli attuali partiti dello schieramento costituzionale.
Ne ho parlato e scritto fin da quando studiavo diritto costituzionale e comparato all’università, e poi via via che mi sono occupato di problemi istituzionali sia nell’apparato della direzione centrale della Dc storica sia in altri ambienti di studio e di lavoro. Ne ho parlato in modo particolare in un mio volume del 1982 dal titolo “La società istituzionale”. Sono tanti anni, dunque; veramente tanti. E, come deve fare ogni onesto studioso e ogni bravo cittadino, ho sempre cercato anche, appunto con onestà, motivi adeguati per cambiare idea. Ma non ne ho trovati.
Anche del problema più complessivo dell’ipertrofia dell’apparato istituzionale e pubblico più generale del nostro paese, del resto, ho parlato sostanzialmente da tanti anni, e l’ho fatto, come per il problema della efficienza della funzione parlamentare, in compagnia di studiosi e cittadini ben più autorevoli di me, non solo italiani: il problema di come possa funzionare al meglio un’assemblea rappresentativa democratica, e in generale uno Stato, è in realtà di tutti i paesi e di tutti i tempi, naturalmente, fin dall’antica Grecia e ancora prima; l’ho fatto a cominciare dai maestri sui cui libri e sul cui insegnamento si sono svolti i miei studi universitari, come accennato, da Mortati a Calamandrei a Crisafulli a Barile a Onida ai padri costituenti della nostra repubblica e via via fino a Moro e Fanfani.
Ne ho parlato ancora più intensamente a partire dal 2012, perché dal 2012 ad oggi si è intensificato il tentativo di ricostruire, in compagnie ben significative come quella di Gianni Fontana, un grande partito popolare di ispirazione cristiana per il ventunesimo secolo, che collegasse la forte tradizione del cattolicesimo democratico popolare sturziano con la migliore esperienza della Democrazia Cristiana storica a partire dal nucleo fondativo dei citati padri costituenti che diedero vita alla nostra repubblica, e fino agli altrettanto citati Moro e Fanfani; e facesse funzionare al meglio le rispettive istituzioni rappresentative.
Nei documenti elaborati per queste vicende e per questo impegno un capitolo particolare è stato sempre dedicato, particolarmente da Gianni Fontana e dal sottoscritto, al concetto di “Stato snello”, cioè di come appunto far funzionare le nostre istituzioni repubblicane (e l’apparato pubblico in genere) secondo lo spirito con il quale i padri costituenti le pensarono: effettivamente rappresentative ed effettivamente democratiche.  
Sono tanti, questi documenti, a partire dalla organica relazione che lo stesso Fontana presentò a novembre del 2012 per l’assemblea nazionale di rivitalizzazione del pensiero e dell’azione democratico-cristiani, e dagli altri successivi, che gran parte dei miei amici, e non solo loro, conoscono. A tali documenti rinvio per il ragionamento sviluppato a motivazione della mia opinione, parendomi eccessivo citarli nuovamente qui. Essi sono sempre a disposizione di tutti.
E spiegano in sintesi perché e come siano da considerare ormai maturate, e ancora di più lo siano a ventunesimo secolo inoltrato, le condizioni storiche per snellire ed efficientizzare, oltre agli apparati complessivi dello Stato (la baraonda  che comincia con il Cnel e prosegue con le miriadi di enti ormai  realmente inutili, nazionali e regionali, con la duplicazione relativa delle competenze scoordinate, e con l’elefantiasi delle normative che a tutti i livelli tormentano i cittadini) la composizione numerica del parlamento nazionale incamminandolo sia verso la unicameralità sia verso una ragionevole riduzione del numero dei suoi componenti. La proposta finale elaborata dal sottoscritto e da Gianni Fontana considerava e considera il numero di cinquecento parlamentari pienamente adeguato a un grande ed efficiente parlamento nazionale.
Lo snellimento numerico del parlamento una volta superata la fase di consolidamento della repubblica, è stato visto sia dai padri costituenti sia da studiosi di tutte le appartenenze politiche come semplice, naturale e necessario strumento tecnico di efficientizzazione e coerentizzazione del lavoro parlamentare e della sua rappresentatività. Con questa prospettiva di efficientizzazione non c’entrano i governi di destra o di sinistra o di centro e non c’entrano i partiti politici. C’entra trasversalmente l’amore e la preoccupazione per la veridicità e credibilità della nostra democrazia e del funzionamento delle sue istituzioni. Lo snellimento è, e deve essere,  una misura tecnica, non una misura politica.
Né si può ironizzare miserevolmente sulla storia del risparmio rispetto ai costi abnormi dell’attuale parlamento, risparmio che equivarrebbe semplicemente a “un caffè all’anno per ogni italiano”. Nessun padre di famiglia ragionerebbe in questi termini quando fra i suoi figli ci sono ancora tanti problemi seri da risolvere: è immorale ragionare così,  e infatti tendono a ragionare così soltanto i lorsignori ben pagati per i quali un caffè è effettivamente  quasi nulla. Per i poveri e i disoccupati non è affatto così. La triste ironia sul caffè mi ricorda i casi nei quali qualche dirigenza aziendale di mia conoscenza pretendeva di attribuirsi un aumento di stipendio di “soltanto” mille euro mensili ma contemporaneamente per i dipendenti non ne ravvisava disponibili nemmeno dieci.
Mi sembra scorretto anche richiamare enfaticamente la difesa della “Costituzione più bella del mondo” e dello “spirito dei padri costituenti” senza effettivamente conoscere cosa ciò significa, e cioè conoscere a fondo la storia di quel testo e di quei padri. Quando ci si riferisce alla costituzione più bella del mondo ed allo spirito grande dei padri costituenti ci si riferisce esattamente alla prima parte della costituzione, quella dei valori, principi, diritti e doveri. L’altra, quella delle tecnicalità, gli stessi padri costituenti la consideravano evolutiva a mano a mano che la società italiana avrebbe consolidato il suo sviluppo economico, sociale e culturale. E’ in questo senso che dobbiamo essere strenui difensori del testo della nostra costituzione. Non con la fessaggine della fissaggine.
Di fronte all’attuale referendum sulla proposta di portare il parlamento italiano da novecentocinquanta componenti a seicento, dunque, la mia serena valutazione è che sia del tutto opportuno votare sì sulla scorta di tutto ciò che insegnano la storia e la scienza dell’organizzazione in materia di funzionamento di tali organizzazioni.
Con me voteranno sì tantissimi amici di diversi orientamenti politici e di diverse esperienze professionali e civili, mentre altri amici voteranno no per ragioni diverse, collegate soprattutto all’attuale quadro politico e partitico del paese , dal quale a me sembra invece doveroso prescindere perché il funzionamento strutturale delle nostre istituzioni va molto al di là e molto al di sopra, ed è molto più importante, di tale quadro. Ci rispettiamo reciprocamente, comunque, e sinceramente, al di là del nostro voto, come è normale e giusto tra amici e cittadini democratici.
Mi ha molto colpito ed amareggiato, invece, l’atteggiamento di chi, tanto sul fronte del sì quanto su quello del no, ha fatto del referendum un astioso tema di polemica partitica pro o contro questo o quel partito attuale, caricando la polemica con una virulenza e offensività di toni e motivazioni che francamente mi sembra nulla abbiano da vedere con la dinamica democratica e con la civiltà del nostro paese. E che il più delle volte manca anche di fondamento storico e persino giuridico.
Non faccio nessun conto della superficialità dei Di Maio e degli altri che con lui riducono a slogans palingenetici il loro schieramento per il sì, né della irresponsabilità dei Zingaretti che, incivilmente e diseducativamente, hanno definito “quattro buffonate di quattro buffoni” le posizioni del governo avversario salvo cambiare opinione e linguaggio quando al governo ci sono andati loro… con il partito già da loro dichiarato buffone. Un autentico squallore che non merita neppure commenti ma solo evidenziazione, come è anche per quelli del fronte opposto il cui misero mestiere quasi esclusivo è quello di apparire in tv a sputare sugli avversari con i quali, proprio in parlamento, rappresentano il popolo italiano.
 
Provo ammarezza, piuttosto, per quei tanti sostenitori del no che tacciano quanti come me hanno deciso di votare sì, definendoli (e cito alla lettera) “seminatori di odio e di antipolitica”, “allocchi”, “populisti”, “qualunquisti”, colpiti da “aurea imbecillitas”e altri epiteti non meno offensivi e privi di rispetto e di senso di responsabilità. Non mi ci vedo davvero come seminatore di odio, cari amici, né come allocco, né come populista, né come “servo della incipiente dittatura di sinistra” (hanno scritto anche questo), né altro di simile, per il semplice fatto che ho deciso di votare sì al referendum. Questo lo dico sul piano morale.
Sul piano culturale, poi, non mi fa una impressione meno penosa il vedere un tema così delicato come quello del referendum sul funzionamento tecnico del nostro parlamento nazionale venir ridotto, come ho accennato, a una miserevole polemica pro o contro gli attuali partiti, siano essi al governo o all’opposizione. Mi sembra davvero che si tratti di immaturità civile e politica e di veduta culturale dannosamente corta.
Detto questo per onestà verso chiunque mi conosce ma anche verso chi in passato mi ha letto senza conoscermi personalmente, confermo con serenità che voterò decisamente sì al referendum, e che invito gli amici di consonanti ideali e amore per il paese a votare sì.
Confermo non meno il mio onesto rispetto per quanti voteranno no, e mi auguro comunque che insieme si possa, dopo questo referendum, affrontare l’ancora più importante, anzi centralissimo, tema della legge elettorale, quella legge elettorale che da molti anni ha tolto ai cittadini il diritto di scegliere direttamente i nomi dei loro parlamentari lasciando loro, soltanto, il diritto di votare liste di cooptati dai partiti stessi: e impedendo qualsiasi alternativa con gli strumenti  più subdoli e disonesti, a cominciare dall’abnorme e impediente numero di firme occorrenti per presentare le candidature. Democrazia trasformata in oligarchia, con la connivenza attiva, da molti anni a questa parte, di tutti i partiti di destra, di sinistra e di centro. Sarò con non minore impegno su quest’altra battaglia. E considero intanto il mio voto per il sì al referendum sul taglio del numero dei parlamentari una tappa significativa di tale più complessivo impegno.
                                                                                                         
                                                                                                                                                  (Giuseppe Ecca)

Roma, 15 settembre 2020.
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Formazione

CIRCOLODELMEGLIO: RIPRENDE LA FORMAZIONE. ALTA, INTEGRATA

 
Con la fine del prossimo mese di settembre si riavvieranno gradualmente le attività formative del Circolodelmeglio, e in particolare i corsi. Riprende dunque il nostro cammino per la missione del miglioramento continuo delle persone, del resto mai del tutto interrotto.
 
Come abbiamo già in passato spiegato, quello di Studisociali è un laboratorio che può chiamarsi anche scuola ma che in sostanza resta, alla lettera, un “circolodelmeglio”, cioè una comunità circolare che fa ricerca, ascolto, apprendimento, insomma formazione, nello spirito del “miglioramento continuo e integrale” di conoscenze, competenze e valori. Che è anche il nostro concetto di cultura.
 
Non dà spazio ai professori con la puzza sotto il naso, a meno che vogliano convertirsi a essere umili e forti testimoni di vita, anch’essi in ricerca, cioè maestri di vita in senso autentico; non dà spazio ai sapienti che pensano di non aver più nulla da imparare, a meno che depongano la loro sapienza per cominciare da capo a dubitare e cercare con onestà; non dà spazio ai primi né agli ultimi della classe ma semplicemente a tutte le persone di buona volontà che vogliono continuare a scrutare l’importanza e la bellezza sconfinate della vita, del suo mistero, dello “scoprir conoscenza, competenza e sapienza”.
 
Un laboratorio di cultura e di vita, come in realtà dovrebbe essere ogni scuola vera, che non si lascia distrarre da un orizzonte solo generalista, ma non si lascia mai neanche obnubilare dalla pericolosa idea che possa esserci valore autentico nella sola specializzazione o nel mero tecnicismo: il quale, se è appunto solo, depriva la persona di autentica grandezza ed adeguatezza, in quanto la vita umana è per sua natura integrata, totale e complessa.
 
Direte che paroloni come questi preannunciano chissà quali materie sofisticate con chissà quali titoli astrusi e metodologie intorcinate, come piace ai professori: invece è proprio la vita quotidiana a interessarci, con i suoi interminabili quesiti, e il suo metodo, e i suoi orizzonti; ma nella loro interezza, andando in consapevolezza integrale e in profondità su tutti i loro aspetti.
 
La nuova stagione di esplorazione si svilupperà secondo itinerari tematici in parte già sperimentati e in parte nuovi, cominciando dalle loro radici ma mantenendo sempre aperte anche le prospettive: dal mondo del lavoro e del sindacalismo (il lavoro è elemento fondativo della dignità umana) alle istituzioni della democrazia ed ai partiti politici, dalla comunicazione (giornalistica, di marketing, verbale, scritta, implicita, formale, informale, d’impresa, di organizzazione, con le loro tecniche e le loro politiche) ai sistemi ed alle tecniche formative lungo tutto l’arco della vita compresa la preziosissima anzianità, dalla organizzazione d’impresa alla gestione delle persone, dalla dottrina sociale della Chiesa alle tecniche di negoziazione e alla gestione dei gruppi e dei  conflitti, alla rilettura critica dei grandi capolavori della letteratura mondiale, conosciuti e sconosciuti, alle prospettive di scienza e tecnologia…
 
Gli itinerari si articoleranno, operativamente, non perdendo mai di vista le esigenze specifiche e personali degli interessati. Quindi con flessibilità e con metodo attivo, dialogato e circolare. Itinerari annuali con incontri settimanali, corsi mensili o settimanali con incontri quotidiani, semplici giornate di “caffè formativo”, e simili, appunto secondo esigenze. Senza escludere incontri con testimoni ed esperienze specifiche di settore.  Cominceremo quasi certamente con l’itinerario dedicato a Storia e prospettive del sindacalismo e del lavoro in Italia e nel mondo. Ne riparleremo a breve entrando nei dettagli.  
                                                                                                                                           
                                                                                                                                ​(Giuseppe Ecca)

 
 
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Orizzonti

GLI ANZIANI HANNO SOPRATTUTTO IL DOVERE DI RESTARE GIOVANI. I GIOVANI HANNO SOPRATTUTTO IL DOVERE DI INVECCHIARE CON SAGGEZZA

Fra poco mi concederò una manciata di giorni in Sardegna, terra dei miei avi e della mia casa paterna. E non farò a meno, andando a trovare i vecchi amici che vivono nell’isola, di fare una visita anche verso Ozieri e Thiesi, nel cui piccolo cimitero riposano, in attesa della resurrezione dei giusti, i resti mortali di Vincenzo Saba, mio grande maestro di cultura sindacale e di vita.
 
E mi piace, mentre penso a questa visita, riandare in compagnia degli amici di Studisociali alla riflessione che stendevo nel 2012, ad appena un anno di distanza dalla morte di Saba, per fissare fra noi suoi allievi ed amici il suo più insistente messaggio culturale e di vita nei nostri confronti.  Eccolo, dunque.
 
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A un anno di distanza dalla sua morte, ricordare Vincenzo Saba significa per me riassumere una sensazione che ebbi immediata, pensando alla sua dipartita, appena ne ebbi notizia: “Saba – mi dissi – mi ha insegnato il sindacalismo ma mi ha insegnato che vale la pena essere uomini completi, nel fare i sindacalisti come nel fare qualunque altra cosa nella vita”.
 
E questa in realtà considero la sua eredità principale per me, insieme allo spirito dal quale traeva il modo di incarnare questo impegno: lo spirito cristiano creduto profondamente e vissuto personalmente.
 
Come ci si forma a diventare uomini completi?
 
Tra Vincenzo Saba, morto a oltre novantacinque anni di età, e noi, che operiamo ancora nel pieno delle nostre energie, passa in qualche caso una generazione, in qualche caso più di una: eppure i ragionamenti che egli ci ha lasciati da meditare si manifestano di giorno in giorno di validità altissima per tutte le generazioni: era un’altra delle sue caratteristiche, questa: ragionare per concetti che fossero validi non solo per l’oggi ma anche per il domani. E in questo modo mettere insieme le generazioni, farle alleare fra loro, arricchire le energie dei giovani con la esperienza degli anziani, e viceversa. Ricordo che ogni tanto mi ripeteva: “In fondo… gli anziani hanno soprattutto il compito di restare giovani, i giovani hanno soprattutto il compito di invecchiare bene”.
 
Noi abbiamo in effetti, fra gli altri, il compito importante di restituire alla società il sentimento di una solidarietà che non ha ragione di essere divisa per generazioni, né per sessi, né per religioni, né per censo, né per altre categorie. E’ importante, dire questo, perché l’ansimare della crisi attuale e la difficoltà di strumenti culturali atti ad affrontarla con efficacia stanno operando variamente per dividere ulteriormente il paese in categorie che competono fra loro per contendersi la presunta sicurezza o prosperità che ancora il paese possiede, danneggiando in realtà il contesto del quale esse stesse hanno bisogno per svilupparsi. Caso esemplare può essere la questione delle pensioni e del mercato del lavoro, ad esempio: anziani che vogliono restare al lavoro contro giovani che vogliono entrare, e viceversa. “Contro”, non in collaborazione.
 
Sono problemi né piccoli né pochi. Un ulteriore esempio è la vera e propria menzogna istituzionale che ci dipinge la grave crisi che ci attanaglia dal 2008 come una crisi economica: non è una crisi economica, ma solo una crisi finanziaria! Diverse aziende non sono state toccate dalla crisi o ne sono rapidamente uscite: sono quelle che hanno saputo sottrarsi da tempo alla morsa della piovra finanziaria che passa attraverso il sistema bancario, a sua volta vittima della finanza speculativa. Un caso di successo che è riuscito forse meglio di tutti, in questi anni, a venire alla ribalta dell’attenzione di una pubblica opinione attenta anche se numericamente limitata, è quello dell’azienda Loccioni, che opera nelle Marche soprattutto con il settore informatico, che eccelle a livello mondiale, e che ha adottato un sistema di gestione assolutamente partecipativo, diremmo olivettiano. Un sistema che rende e mai si è lasciato imprigionare dalla finanza. Una concezione della economia che alcuni chiamano, con un voluto gioco di parole, “noiconomia”, cioè “economia del noi, economia solidale di tutti quelli che, facendo comunità, operano nell’impresa; di contro alla tradizione cinica della “economia dell’io”, cioè dell’imprenditore come soggetto di affari rispetto al quale le persone lavoratrici sono puro fattore di produzione alla stregua delle macchine.
 
Ma, per promuovere con coraggio superiore la frontiera della “noiconomia”, che tipo di sindacato, in particolare, occorre? Oggi, nel ventunesimo secolo dell’era cristiana, il sindacato, ormai consacrato in Italia e in tutto il mondo come soggetto istituzionalmente importante per le politiche del lavoro, non può accontentarsi di dare “qualcosa di più” alla elaborazione di tali politiche: perchè il mondo del lavoro del ventunesimo secolo è un mondo inopinatamente in crisi assai più strutturale che congiunturale: alla crisi finanziaria violenta esplosa nel 2008 è stata collegata una più vasta inadeguatezza di modelli e riferimenti culturali, che hanno fatto perdere lucidità e smalto a quella visione armonizzatrice per costruire la quale il movimento sindacale, al di là di tutte le schizofrenie contingenti della sua storia e della storia sociale, è nato, e per la quale Vincenzo Saba non aveva mai smesso di lottare.
 
 
Il sindacato deve oggi offrire qualcosa di “decisamente” più avanzato. Vincenzo Saba avrebbe peraltro subito precisato che questo deve essere fatto non già sovrapponendo il sindacato o sovrastimandolo rispetto al contesto sociale globale: avrebbe insegnato che la forza intrinseca e diremmo ontologica della ragione di essere del sindacato è così evidente nell’uomo che il sindacato deve, con tutta questa sua dignità fondamentale di ragion d’essere, pretendere e affermare il suo diritto a partecipare effettivamente all’impegno di tutta la società per migliorare se stessa concretamente, senza lasciarsi irretire da ritorni indietro di origine egoistica, corporativa, settorialista.
 
E questo il sindacato lo fa assumendosi per primo la sua ampia quota di responsabilità sociale e, in senso ampio, anche politica: innanzitutto, costruendo per i suoi uomini e le sue donne un livello di formazione qualitativa elevata e sempre crescente, attraverso processi di formazione continua e integrale. Una formazione a carattere globale, affinchè la specializzazione nelle materie lavoriste poggi sul solido terreno di una visione totale dell’uomo. Ad accompagnare una politica generale che sa servirsi dell’ausilio delle università, dei centri di ricerca, dei luoghi di studio che hanno qualcosa da insegnare: ma senza soggezione, come si deve a una organizzazione fondativa della società, conscia e responsabile. Non l’università si serve del sindacato (salvi ovviamente i fini di studio) ma viceversa, il sindacato si serve dell’università, come di un suo strumento di ausilio nel proprio cammino di ricerca e di sviluppo delle sue linee di azione e della sua cultura. E non i professori guidano la formazione, ma i maestri di vita.
 

Dobbiamo inoltre cominciare questo lavoro da noi stessi, dalla nostra realtà diretta, aggiungeva Saba, per non rischiare di restare nell’astratto che spesso rimproveriamo agli altri. E dobbiamo fare questo lavoro in quattro direzioni contestuali:
  • Su noi stessi;
  • Sul sindacato come comunità associativa;
  • Sulla  impresa;
  • Sulla società.
 
Mentre rifletto sul messaggio di Saba mi torna alla mente che un vecchio capo del personale di Selenia, azienda di grande storia e prestigio, a suo tempo, nel panorama industriale italiano, mi diceva nel 2011, proprio l’anno in cui Saba ci ha lasciati: “Quando entravamo in azienda ci si diceva innanzitutto che un dirigente Selenia doveva essere senza partito, senza sindacato e senza sesso. Poteva sembrare una espressione esagerata ma in fondo faceva funzionare l’azienda meglio di come funzionò successivamente”.  Saba avrebbe osservato che un autentico dirigente sindacale, quando entra nel sindacato, deve essere “senza partito, senza padroni e senza clienti”. E che un autentico uomo politico, quando entra in un partito o in una istituzione, deve essere “senza clienti, senza finanziatori, senza nemici”. E avrebbe spiegato ante litteram quel concetto di “bene comune” che in realtà fu sempre suo riferimento di pensiero e di azione.
 
                                                                                                          (Giuseppe Ecca)
 
 

Managerialità

CHE VE POSSINO VUCA'...

 
Il “Dirigente”, mensile di Manageritalia, nel suo numero di ottobre 2017, alla pagina 18, pubblicava un articolo intitolato “Management: Lavorare in un mondo Vuca”.  Firmato dal “direttore Institute for Enterpreneurship and Competitiveness”, e dal “presidente di Akron”, di cui omettiamo i nomi; per le persone infatti esprimiamo rispetto e comprensione, per alcune idee invece, quando è il caso, come questo, siamo presi da brividi di meravigliato sconforto e di decisa criticità. Quanta superficialità viene ripetuta con sussiego e passata per cultura d’impresa…
 
Ci è tornato in mente quell’articolo perché, in piena durissima lezione di carognavirus, non ci pare di cogliere, nella imprenditoria mondiale né in quella patria di questi giorni tormentati, alcuno sforzo serio per capire più profondamente il mondo nel quale viviamo e le sue esigenze di bene comune anche in economia. Come sarebbe necessario. Ed è come se quel povero articolo fosse scritto oggi. Il lato positivo del carognavirus, contraltare di quelli negativi, avrebbe proprio dovuto essere infatti quello di insegnare come va stabilmente corretta l’economia, e con essa anche l’organizzazione del lavoro, o meglio i loro attuali putridi vizi, perché siano entrambe, economia e organizzazione del lavoro, un poco più a misura di persone e non di “business”, e la prossima possibile epidemia ci colga meno impreparati.
 
Così va infatti, purtroppo, ancora oggi, il mondo del “business” A colpi di “business”, come in una sorta di malmascherata logica permanente di “profitto di guerra”. Non si è in pace se non si parla e non si venera e non ci si mostra adeguati al mondo del “business”, se non è il “business” che regola l’economia e il lavoro. Non c’è nulla da imparare né da migliorare, c’è il “business”…
 
Il mondo del “business”… Che non è il mondo del lavoro, badate bene, e non è neanche il mondo dell’economia, e non è neanche il mondo della sana impresa, non è comunque il mondo della comunità umana solidale che lavora (non fatevi illusioni e non lasciatevi trarre in inganno da chi vi dice il contrario!).
 
E’ il mondo del “business”, appunto: cioè, il mondo di quelli che fiutano l’occasione e ci provano, o ci si gettano a capofitto, scommettono con astuzia e tentano con tecnichette avvolgenti di arraffare affari per scappare subito dopo, far perdere le loro tracce e andare in cerca di altre occasioni similari, in altri ambienti o con altri volti, fuggendo sempre, abbrancicati a un malloppo che sperano sempre più consistente, che a volte lo è ed a volte invece li schiaccia improvvisamente come vermi e si sparge in altri rivoli in attesa di chi lo acchiappi con la stessa famelica voracità per venirne schiacciato con la stessa demoniaca crudeltà. E’ il business, signori…
 
In mezzo a un turbinio di vincitori che banchettano e di macelli sociali che sono le carni vive delle relative vittime. E il mondo va avanti: o, per esprimerci correttamente, indietro…
 
Il mondo del business… insomma, il mondo di quelli per i quali l’economia è sostanzialmente furbizia in affari, è fiuto dell’opportunità contingente, e questa è la cosa essenziale nella vita. L’unica consistenza che misuri veramente il successo personale o di famiglia o d’impresa, alla fine, sono infatti i soldi, il più grande accumulo di soldi che sia possibile. E, per farcela, occorre vincere sugli altri il più possibile, e occuparne lo spazio. E mantenere ben salda e alta la bandiera dei profitti, degli utili e dei diagrammi annuali o semestrali o addirittura mensili e settimanali (tanta è la follia) di budget. Poi, si potrà anche fare qualche elemosina o qualche “progetto sociale” per tacitare qualche sussulto di coscienza o di buonsenso.
 
Il business scambiato per economia: un’autentica droga inebetente, a danno di chi ci casca ma anche di tutta la comunità, che siamo noi, con i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri vicini meno fortunati o meno forti, il nostro pianeta, il futuro di tutto.
 
Ma voi, ripeto, non temetela, questa droga: la potete individuare e neutralizzare, e combatterla attivamente; a patto di guardare bene in faccia la sua anima demoniaca e tenerla lontana da voi: a voi, a noi, deve infatti interessare, al suo posto, la sana e semplice e produttiva e intelligente e creativa e lungimirante economia che condivide fra tutti e con tutti il lavoro utile e i suoi risultati e le sue opportunità, in trasparenza, facendo crescere il bene-essere di tutta la comunità. Il lavoro produttivo che mette in opera i talenti individuali a beneficio di tutti, ed a tutti offre utilità in servizi e prodotti, senza inventare bisogni fasulli o indurre motivazioni artificiose con l’aiuto di tecnichette  di marketing scaltro e ingannevole che tende a cogliere di sorpresa l’inconscio dei clienti ed a frastornarlo… La sana impresa produttiva che condivide i risultati anche economici con i suoi lavoratori e con la società complessiva… Come insegnava Olivetti, ad esempio, ma con lui tanti, tanti altri stranamente trascurati da cronache e università. Basterebbe pensare a Caffè, a Keynes, a Roosvelt…
 
 
Oggi, in barba al carognavirus ed anche al semplice buonsenso (senso buono) quelli del business sembrano addirittura più che mai intenzionati a continuare a inocularvi in modo particolarmente insistente e accattivante, come fosse cosa lecita e seria (anche il manicomio universitario, dove loro dominano le cattedre di economia, ogni triennio o quinquennio rinnova il suo pieno di matti e di matte novità sloganistiche) che il business è fra l’altro, nientedimeno, come scrivevano i due amici dell’articolo citato, Vuca:
  • Volatility
  • Uncertainty
  • Complexity
  • Ambiguity.
 
Ma va’?!...
Mio nonno e mio padre, caprari analfabeti della Sardegna di quasi un secolo fa, sapevano benissimo questa banalità sociologica ma non la trasformavano in cretinata prosopopaica da master a pagamento. Restava conoscenza della banale quotidianità della vita e ne traevano piccola ma tenace saggezza di vita quotidiana. Saggezza notissima da millenni a tutte le persone sagge: quelle che fuggivano il male e cercavano il bene e il buonsenso (il “senso buono”, dicevamo), anche in economia, quelle che producevano e non speculavano, e neanche… sentivano il bisogno di esprimere tanta saccenza con tanto rumore di parole, e tanto meno di esprimerla nello stucchevole grugnibelato anglofono, ma, caso mai, in dignitoso sardo o in sano e meditoso italiano. Quelle, insomma, che una saggezza millenaria,  espressa in una frase o proverbio, la sapevano far durare per generazioni senza sentire il “bisogno di marketing” di imbellettarla con una formuletta accattivante e stupida ma dal suono nuovo e dalla veste inebriantemente bocconiana.
 
Manageritalia mia, e tu dai retta e ospitalità e tempo e spazio a simili scempiataggini, senza sentire, neanche tu, il dovere culturale e morale ed etico e politico di assumere, a ventunesimo secolo inoltrato, il timone della nostra barca culturale verso un vento meno disperato, insensato e puerile?! Ma dai, svegliati e torna a casa, la casa di una cultura sindacale e dirigenziale dove regnano valori e tecniche al servizio di valori e di benessere condiviso…  
 
                                                                                                                                      (Giuseppe Ecca)
 
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Politica

NUOVO SOGGETTO POLITICO DI ISPIRAZIONE CRISTIANA: O NASCE VERGINE O NON VALE LA PENA CHE NASCA

Il punto della situazione, secondo noi, mentre ininterrottamente fervono i tentativi di raggiungere finalmente la meta: cosa, oltre che pienamente legittima, del tutto auspicabile per l'Italia, politicamente povera di cultura politica e partitica allo stato attuale delle cose.

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Venticinque anni di diaspora del movimento di ispirazione cristiana nella politica italiana, seguita alla scomparsa per autoscioglimento della storica Democrazia Cristiana, costituiscono un lasso di tempo sufficiente per una visione compiuta e limpida di quanto accaduto nel nostro paese, e rendono ormai necessario che tale visione si traduca in una nuova assunzione di responsabilità attiva e preclara nei confronti del paese stesso, ponendo fine alla sterile profluvie retorica, documentale e a prevalenza recriminosa.

Due elementi risaltano incontrovertibili dall’analisi di tali venticinque anni:
  1. il primo è che la Democrazia Cristiana storica si dissolse essenzialmente per le proprie debolezze morali e culturali interne, nel quadro di un dissolvimento più complessivo che colpiva contemporaneamente tutto il quadro politico e socio-culturale del paese: non si dissolse per oscure congiure di nemici esterni, come troppe volte viene ripetuto a modo di autoscusante; ed è onesto e soprattutto utile riconoscerlo;
  2. il secondo è  che i venticinque anni di diaspora sono venuti evidenziando una strutturale frantumazione del movimento volto a ricomporre in unità coerente, credibile e operativa quella esperienza storica e quella cultura politica, aggiornandole alle esigenze del ventunesimo secolo: frantumazione nella prevalenza dei casi non assimilabile a un sano e fertile pluralismo dialettico di idee e proposte ma piuttosto riconducibile a quelle medesime patologiche debolezze morali e culturali interne sopra accennate, che hanno reso sterile fino a oggi il pur copioso proliferare di proposte, ipotesi, auspici e tentativi di dar vita alla citata ricomposizione.
Proliferare dovuto, a sua volta, alla permanente ricchezza di stimoli e individualità positivamente testimonianti in tutto il nostro paese; ricomposizione drammaticamente esigita, dal canto suo, dalle condizioni impoverite del Paese stesso sotto il profilo di una legislazione sempre più caotica e meno trasparente, di un sistema di istituti educativo-formativi sempre più smarriti pedagogicamente e valorialmente, di una economia priva di timone e di bussola orientati al bene comune.

Orbene, nel quadro complesso, ma a volte più complicato che complesso, di tale frantumazione, le iniziative che continuano a proliferare per la ripresa di un ruolo politico di ispirazione cristiana di alto e universale respiro si rivelano assunte in grande prevalenza da personalità variamente ricche di esperienza ai diversi livelli della vita del paese, amministratori locali, parlamentari, docenti universitari, animatori sociali, tecnici delle istituzioni, sindacalisti, professionisti, e così via, alla guida di gruppi di cittadini di diversificata consistenza.   

E’ una situazione che richiama la doverosità, quanto meno, di un valore di principio e di due conseguenze operative. Il valore di principio è che l’auspicato nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana non può che avere il carattere di una associazione di persone, mai di organizzazioni o espressioni organizzate di interessi. Perché è solo la persona a essere portatrice iniziale e finale di diritti, doveri e responsabilità (anche questo è personalismo).

La prima conseguenza è che principio inderogabile di successo dell’impresa comune resta quello secondo cui ciascuna singola persona, qualunque siano il suo pregresso e attuale ruolo presso la opinione pubblica interessata, non può che aderire al nuovo soggetto politico in assoluta pari dignità rispetto a tutte le altre persone. Lo diciamo con accorato convincimento davanti alla constatazione negativamente sintomatica di persone che prospettano per sé l’aspettativa aprioristica di vedersi riconoscere nel nuovo soggetto politico ruoli garantiti o comunque di maggior riguardo, siano esse parlamentari che vantano il peso di una già operativa spendibilità istituzionale ed elettorale, sindacalisti che vantano una pregressa copertura di ruoli nazionali, cattedratici che vantano una già riconosciuta notorietà nei mondi accademici, rappresentanti di organismi portatori di potenziali consensi collettivi, e così via.

Una simile pretesa di ruoli pregiudizialmente riconosciuti è incompatibile con il necessario carattere di assoluta e trasparente connotazione democratico-associativa incarnata nei valori del personalismo e popolarismo politico di matrice cristiana che si vogliono riproporre, conosciuti dalla tradizione valoriale sturziana come da quelle degasperiana e dossettiana e lapiriana e morotea e così via.

La seconda e correlativa conseguenza è che, posta l’accettazione piena dello statuto del nuovo soggetto politico e le sue prescrizioni valoriali e comportamentali, a nessuna persona che lo desideri può essere preclusa a priori la partecipazione al nuovo partito. Come a nessun gruppo di persone può essere precluso di concorrere alla sua costituzione.

Ove così non fosse, la nuova realtà organizzata, piuttosto che rappresentare per l’Italia e  per il mondo una grande speranza, rappresenterebbe la sterile reiterazione di modelli di oligarchia negatori in radice dei valori richiamati. Quando occorre invece un rinnovato potente modello di umanesimo ad alta caratura di cultura delle regole e di visione comunitaria, che in altre occasioni abbiamo già avuto modo di definire “di rigorosità e luminosità monastiche”.

Mi permetto infine di richiamare per sintetiche espressioni alcuni altri concetti già in passato illustrati, e cioé:
  1. più elevata è la cultura del nuovo soggetto politico, meno senso ha porsi un problema di schieramento al centro piuttosto  che al centrosinistro o al centrodestro della politica italiana: Il popolarismo è altro;
  2. il nuovo soggetto politico non è in funzione centrale del momento elettorale, bensì quest’ultimo è conseguenza diretta e forte del partito immerso socialmente ed operativamente fra la gente;
  3. la sovraproduzione particolaristica di proposte programmatiche per l’Italia costituisce un gigantismo verboso che nuoce alla chiarezza e identità forte del programma: la nostra storia e la nostra identità valoriale sono bastantemente espresse da pochi e chiari caposaldi, fra i quali il diritto al lavoro, l’impresa partecipativa, lo Stato snello, la formazione di base umanistica, e pochi altri.  Il restante è corretto e sacrosanto e rispettoso che venga riservato alla futura elaborazione democratica degli organi democratici del nuovo partito.
 
                                                                                                                            (Giuseppe Ecca)
 
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Prospettive dopo il coronavirus

LAVORO AGILE (O SNELLO)

Il coronavirus lo ha brutalmente imposto, il lavoro snello, come risorsa di ultima istanza per affrontare una pandemia che altrimenti avrebbe avuto effetti di gran lunga più drammatici, connessi con il puro e semplice blocco di una grande quantità ulteriore di attività economiche.
 
Ora, terminata la fase acuta della pandemia, sarebbe un errore molto grave limitarsi a tornare al semplice modo di lavorare precedente, perdendo la occasione di studiare, perfezionare, implementare e diffondere la modalità del lavoro snello, articolandola intelligentemente con la necessaria quota di lavoro “in presenza e collettivo”, che non può essere superato.
 
Sulla tematica, molto prima che il carognavirus facesse sentire  la sua mano pesante, si esprimevano già diversi studiosi, e la giurista Manuela Lupi, in questo quadro, due anni fa precisò in un breve essenziale articolo lo stato, appunto giuridico, alcuni aspetti della situazione. Riproponiamo la sua riflessione per la attualità concreta che essa esprime a livello di chiarimento concettuale, e dalla quale è corretto ripartire dopo la pandemia per non limitarci stupidamente a riprendere tutto come se nulla fosse stato.


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La legge 22 maggio 2017 n.81, intitolata  "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato" e' entrata in vigore il 14 giugno 2017.
 
Essa istituisce presso i Centri per l'Impiego uno sportello dedicato al lavoro autonomo per raccogliere le domande e le offerte di questo tipo di prestazione,  e dare informazioni alle aziende che ne facciano richiesta.
 
Fermiamoci a considerare il capo secondo della legge, che regola il “lavoro agile” o “smart working” o “lavoro snello”.
 
La legge colloca questa modalità di lavoro nell'ambito del lavoro subordinato, differenziandola dal telelavoro. E’ una forma di lavoro stabilita mediante accordo tra le parti, con forme di organizzazione per fasi, cicli ed obiettivi, senza vincoli di orario o di luogo di lavoro, senza postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario. 
 
Il lavoro agile si basa sull'utilizzo da parte del lavoratore di strumenti tecnologici del cui buon funzionamento è responsabile il datore di lavoro. Le disposizioni si applicano anche ai dipendenti della pubblica amministrazione e gli incentivi di carattere fiscale e contributivo devono essere riconosciuti anche a tale lavoro.
 
L'accordo relativo al lavoro agile va stipulato per iscritto e deve individuare i tempi di riposo, le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche al termine degli orari di lavoro, e deve individuare quelle modalità di esercizio della prestazione che possano dare origine a sanzioni disciplinari. 
 
Il lavoro agile può, inoltre, essere a tempo determinato o indeterminato: e in questo secondo caso il recesso può avvenire con un preavviso non inferiore a 30 giorni.
 
In materia di trattamento economico, poi, la legge introduce:
 
1) il diritto a un trattamento non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei colleghi che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all'interno dell'azienda;
2) il diritto all’apprendimento permanente e alla periodica certificazione delle relative competenze.
 
Il datore di lavoro garantisce anche la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di “lavoro agile”, e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro.
 
Il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali.
 
Il lavoratore ha diritto inoltre alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa resa all’esterno dei locali aziendali.
 
Il lavoratore ha diritto infine alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, quando la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative, e risponda a criteri di ragionevolezza.
                                                                           
                                                                                                                                         (Manuela Lupi)
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Prospettive

CORONAVIRUS PRIMA STAGIONE: E POI?

Giuseppe Bianchi, con il suo Istituto per le Relazioni Industriali e di Lavoro, traccia un quadro della prospettiva del nostro paese in uscita dal coronavirus, che sottolinea la necessità di tornare a vitalizzare il meccanismo fondamentale della nostra democrazia  e della nostra tensione civile, per restituire all’Italia una speranza che non sia sempre e solo quella miseramente congiunturale. Proponiamo la riflessione.

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Con la pandemia, la dimensione del tragico è tornata nella realtà. I fantasmi della morte, della malattia, del dolore, oscurati dal vitalismo rampante delle nostre società, sono tornati. I camion militari carichi di bare, l’ansia per una malattia sconosciuta, il dolore in solitudine per la perdita di persone care, hanno creato una depressione labirintica senza via di uscita. Perché, nel contempo, l’aggressione totalizzante del virus ha reso impossibile la fuga verso rifugi sicuri, rendendoci prigionieri entro le mura di casa. Contrariamente alle guerre del passato, non è venuto a mancare il pane, ma le libertà che hanno arricchito la qualità del nostro benessere: libertà di viaggiare, di incontrare persone, di disporre delle proprietà.
 
Ed è difficile prevedere quanto durerà questa sorveglianza da parte dei tutori della salute pubblica in un mondo aperto, globalizzato, esposto al rischio di nuove epidemie e nello stesso tempo tanto avverso al rischio.
 
Ma non c’è solo la pandemia: ci sono altri fattori che si muovono nella stessa direzione, che vanno a destabilizzare i nostri modelli di vita. È in atto una rivoluzione tecnologica con i robot, con l’intelligenza artificiale, destinata a modificare il nostro modo di produrre, di lavorare e di consumare. Ci sono le applicazioni digitali, già sperimentate nel corso dell’epidemia, che consentono di tracciare i nostri movimenti, di disporre dei nostri dati più personali, configurando nuovi strumenti di controllo sociale che possono ingabbiare le nostre libertà. E come non evocare i nuovi bisogni di sicurezza che nascono dai mutamenti climatici in atto o dai progressi delle biotecnologie, che sono in grado di manipolare i due punti chiave del nostro percorso umano: la nascita e la morte?
 
In sintesi, siamo in presenza di forze dirompenti dei nostri equilibri economici e sociali, i cui poteri sono concentrati in mano di pochi: le privative che governano le nuove piattaforme digitali, i grandi centri di ricerca scientifica e tecnologica, i grandi gruppi finanziari e industriali, la politica di potenza di paesi illiberali (Cina, Russia).
 
Sorge a questo punto la domanda: di quali strumenti di governo dispongono le nostre società democratiche per affrontare l’onda lunga di questi cambiamenti imposti da istituzioni sottratte al controllo democratico? In altre parole, quale sarà la capacità dei nostri sistemi democratici di mantenere i loro tratti libertari nel futuro che si sta delineando?
 
Lo schema classico dei sistemi democratici è costituito da un insieme di procedure che legittimano, tramite il voto, la rappresentanza del popolo nel Parlamento, che delibera quanto il Governo deve realizzare. Questo schema si è già andato evolvendo sotto la pressione di nuove emergenze (sia sanitarie che economiche e sociali) spostando l’asse decisionale a favore del Governo e di organismi tecnici di vario tipo, in nome della governabilità. Si è ridotta la sovranità del popolo rappresentata nelle assemblee legislative. Una evoluzione, come già detto, trainata dalla domanda di protezione dei cittadini che, nelle situazioni di crisi, sono tentati di delegare alla politica la tutela della loro sicurezza e del loro benessere.
 
La pandemia in corso ha però reso evidente l’inadeguatezza dell’attuale politica nell’esercitare tale tutela. A due mesi e oltre di distanza dal nostro confinamento, test sierologici, tamponi ed app di tracciamento non sono ancora in grado di tenere sotto controllo la diffusione del virus, mentre le generose promesse fatte dal Governo sul fatto che nessuno rimarrà indietro rimangono ancora in gran parte inevase.
 
In questa Nota non interessa evocare, ancora una volta, la fragilità della nostra finanza pubblica o le inefficienze strutturali di un sistema debilitato nella sua capacità di crescita. C’è una specificità del nostro sistema politico nel contesto europeo da ricordare. La perdita di ruolo dei partiti e, sia pure in misura minore, delle altre organizzazioni di rappresentanza collettiva degli interessi (Confindustria, Sindacati e altre) che, nel passato, esercitavano una funzione di selezione e di contenimento delle domande sociali, svolgendo una funzione educativa e di selezione delle classi dirigenti. La condivisione dei cosiddetti vincoli macro-economici (in parte di origine europea) delimitavano il campo entro il quale regolare il conflitto politico e sociale.
 
L’epidemia del coronavirus ha creato una situazione inedita di un Governo assediato dai molteplici interessi che rivendicano risarcimenti (veri o presunti) senza che lo stesso Governo abbia una bussola che orienti i suoi interventi. Rimane aperta la questione se la capacità di indebitamento del nostro Paese, considerando anche gli apporti dell’Unione Europea (ancora da precisare) sarà tale da soddisfare tutte le richieste e soprattutto quanto spazio rimarrà per attivare gli investimenti pubblici e privati necessari per riattivare la crescita economica ed occupazionale.
 
Ma dietro la crisi dei partiti e delle rappresentanze sociali c’è un altro effetto non meno importante. La perdita di valori comunitari rappresentati nelle grandi ideologie partitiche del Novecento e nelle strategie delle parti sociali che presentavano una indissolubile mescolanza di interessi e di ideali.
 
I cittadini, pur nella difformità delle loro appartenenze sociali, riponevano nelle istituzioni democratiche le aspettative riguardanti i loro progetti di vita, partecipando ad un’etica della responsabilità.
 

Non è un caso se nel corso dell’attuale pandemia si sia tornati a parlare di speranza, di solidarietà, di cooperazione: la riprova che un sistema democratico vive non solo di risorse economiche, ma richiede anche una dotazione di energie morali, di virtù pubbliche. La pandemia in atto ha aggravato le disuguaglianze sociali, ha ridotto le nostre libertà, ha scoraggiato le speranze dei giovani, ha evidenziato la carenza di beni pubblici. La leva degli interessi appare inadeguata a sollevarci da una crisi sanitaria che è diventata sistemica nella misura in cui ha messo in crisi gli equilibri già precari del nostro sistema economico e sociale.
 
Nell’emergenza sanitaria sono prevalsi la tutela della salute e il sostegno alle strutture produttive. Uno stato di eccezione che ha legittimato il decisionismo del Governo al di fuori delle normali procedure. È però difficile pensare che la paura del contagio e l’assistenzialismo risarcitorio dello Stato possano costruire un futuro per il Paese, all’interno di uno scambio tra diritti dei cittadini e tutela della politica.
 
Occorre riannodare i fili che legano economia, liberà ed uguaglianza in un progetto di sviluppo che, all’interno di un orizzonte temporale utile, consenta di riattivare la normale dialettica politica e sociale. Un impegno di rinnovamento che chiama in causa la qualità della spesa pubblica, la riattivazione degli investimenti, le politiche per l’occupazione e così via.
 
Ritorna il quesito: il nostro sistema politico ha una dotazione di solidarietà e di virtù pubbliche per gestire una tale sfida? La politica si è sconnessa dalle culture presenti nella società civile: culture religiose, laiche, civiche che un tempo alimentavano il dibattito politico. Un pluralismo di valori incassato nello stato di cittadinanza dei cittadini che creavano legami sociali e sostenevano la partecipazione alla vita democratica. Un patrimonio di valori pre-politico che arricchiva la ragione pubblica alla base delle decisioni politiche.
 
È difficile pensare che la solidarietà manifestata nella paura epidemica regga di fronte al conflitto degli interessi della fase successiva di difficile ripresa economica. La divisione è un tratto antropologico della nostra popolazione.  Ma ora siamo in una fase di disincantamento. Si ritornerà a crescere ma l’alta marea prevista non sarà in grado di alzare tutte le barche. L’Italia – “nave senza nocchiere” rischia di infrangersi contro gli scogli.
 
Ritorna il vecchio dilemma storico: o le nostre istituzioni democratiche recupereranno la loro autorevolezza con un supplemento di virtù pubbliche in termini di solidarietà o di coesione, o ci sarà una deriva verso politiche illiberali, a dimostrazione che il potere non arriva a chi sa farne l’uso migliore bensì a chi è più abile a conquistarlo.
                                                                                                                   
                                                                                                                                    (Giuseppe Bianchi)
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Racconti di vita

SCHIOCCHI DI CHIOCCIOLE

Traiamo questo “racconto di vita” dall’antico gradevole forziere, in parte rimasto tuttora non pienamente valorizzato, di quello che per diversi anni è stato il pregevole “Premio Prato Raccontiamoci”. Rendiamo omaggio, pubblicandolo, all’anonimo autore che, come molto spesso accadeva ai partecipanti al concorso, condivideva così una effettiva esperienza personale di vita nello spirito di trasmettere alle generazioni più giovani conoscenza e spunti di riflessione.

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Bari rosseggia ad ovest, in un tramonto scarlatto dipinto su di una tela color cobalto. Riflesso cristallino da Oriente, dell’Adriatico increspato dalla brezza di maggio. Cammino su via De Rossi verso la chiesa del convento delle Carmelitane Scalze. Una folata di grecale mi alita alle spalle. Riesce ancora a sorprendermi, in una città caotica che tossisce, sbuffa, e strombazza.
Sono in anticipo sull’ora fissata per la celebrazione della messa di suffragio per Angelo. Sono passati sei mesi, ormai, dalla sua dipartita. Nella chiesetta ritrovo Mina, sua moglie, e i suoi amici più cari. Ci salutiamo timidamente. L’atmosfera è austera. Rimaniamo in silenzio, durante l’attesa. Un silenzio che evoca riflessioni in un momento in cui sento claudicante la mia religiosità: tanto fragile da infrangersi sotto la mole dei miei interrogativi razionali.
Una imponente inferriata si affaccia alla sinistra dell’altare. E’ dietro quel diaframma che iniziano ad apparire le religiose. Mi sorprende la loro pelle, diafana come la luna. E’ la prima volta che entro in un convento di clausura. L’idea di cristianità vissuta tra la comunità dei fedeli con il tramite di una cancellata mi turba. La mia razionalità si intriga di argomentare i suoi teoremi. Articola sillogismi. Scandisce deduzioni logiche a cascata. Infine, sentenzia: “anacronistica!”. Quella realtà appare semplicemente anacronistica. Anche l’ubicazione del convento sembra fuori luogo. Era sorto un secolo fa nelle campagne. La città ora lo ha fagocitato tra palazzi vanitosi di cemento. I lati sud e ovest sono lambiti da una direttrice di traffico che scorre fragorosa come un torrente in piena. Un rombo continuo di autovetture in corsa, dal quale emerge l’urlo straziante delle sirene e degli strilli molesti dei clacson. Clamori di una bolgia infernale, invadenti e irritanti, che le spesse mura del convento non riescono a trattenere. Quella dislocazione mi appare inadeguata per un luogo di meditazione. Non vedo nulla di bucolico. Non sento il canto degli usignoli. Nè lo schiocco delle chiocciole cadute dagli steli di avena all’ondeggiare del vento. Già, lo schiocco delle chiocciole… Fu proprio Angelo ad insegnarmi ad ascoltarlo. Eravamo nel suo giardino. Mi indicò una chiocciola che aveva raggiunto l’apice di un filo d’erba sul quale si era lentamente inerpicata. Mi invitò ad osservarla nel più assoluto silenzio mentre danzava con il vento. Non capivo il perché, fino a quando una folata di brezza marina la staccò facendola cadere sul dorso del suo guscio. Lo vidi chiudere gli occhi e annuire con il capo. Uno dei pochi movimenti che gli erano rimasti dopo che il suo sistema nervoso era stato devastato dal processo di demielinizzazione. Era la metafora della sua vita. La storia di un corpo con una vitalità straordinaria che il vento impietoso della malattia e della senescenza aveva trasformato in un guscio inchiodato al suolo. Sì, perché Angelo prima della disabilità ne aveva fatte di scalate... Tutta la sua vita era stata una sfida. Rimasto orfano di madre, morta di parto, aveva giurato di combattere contro la causa della sofferenza della sua infanzia.
Era stato un dramma che non riusciva ad accettare, quello che una madre perdesse la propria vita nel momento in cui ne generava una nuova. Fu la sua missione. Divenne medico e ginecologo. Ogni travaglio fu il suo travaglio. Ogni parto, lotta e rivincita sugli incubi della sua infanzia. Migliaia di bimbi emersero dall’apnea delle acque placentali confortati dalle sue mani grandi e possenti. Mani che raccontavano storie di vita. Mani sulle quali, poi, la malattia era calata come l’autunno sulle foglie. Un autunno durato venti anni.
Perché mai un albero così rigoglioso di frutti può rinsecchirsi così  impietosamente? Perché mai la malattia può trasformare una vita così meravigliosa in un supplizio senza fine, tanto straziante?! La mia razionalità non trova risposte.
Una campanella mi fa riemergere dai miei pensieri. La messa ha inizio. L’officiante inizia la liturgia. Da dietro le grate si ode un coro. Le suore cantano: la loro voce mi sorprende. Le loro labbra vibrano impercettibilmente. Un fremito mi scuote come una carica elettrica. Scruto attraverso il diaframma che ci divide. Tutte hanno lo sguardo fisso nel vuoto, quasi rapite dal loro cimento. Un canto che emerge dalle corde più profonde del loro spirito. Un suono celestiale si propaga soave nella chiesa. I clamori della strada si sono spenti d’incanto. Mi sento irretito. Quelle voci hanno spalancato una porta della quale non conoscevo l’esistenza, e illuminano una stanza buia del mio animo. La catarsi mi spinge ad entrare. Mi avvicino timidamente a quella porta. Nella penombra di quella stanza intravedo uno scrittoio con l’album dalla copertina verde di finto cuoio delle fotografie della mia infanzia. Qualcosa mi spinge ad aprirlo. Nella prima pagina, però, trovo una foto mai vista. Mi ritrae nei miei primi giorni di vita. Sono solo in una culla di ospedale. Mia madre non c’è.
La voce della prima lettura mi riporta in chiesa. E’ quella di una lettera degli Apostoli: ”… La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”. L’immagine è suggestiva. Lo è tanto più quando i miei pensieri identificano il costruttore che è in me. La mia razionalità sempre pronta a erigere castelli logici e bastioni  deduttivi… a discernere il granito dall’arenaria… a sovrapporre la compattezza delle certezze del primo e a scaricare la friabilità dei dubbi della seconda. L’arroganza della mia razionalità dispensa giudizi troppo disinvolti. Scarta ciò che non si piega. Setaccia il bene e il male con la spocchia dello scolaro capo della classe, che con il suo gessetto sulla lavagna diventa misura dei buoni e dei cattivi. Devo riconoscerlo. I lumi della mia ragione sono come quelli del crivello della massaia. Con quale arbitrio ci ho messo dentro gli anni della malattia di Angelo, e la clausura di quelle suore dalla voce angelica? Provo rincrescimento verso me stesso.
Un nuovo canto mi proietta davanti all’album della mia infanzia. In seconda pagina la foto di una puerpera in coma, abbarbicata ad un flebile alito di vita tra medici che  si disperano per salvarla. Mi avvicino timidamente. Mi trovo dentro quella foto. Non sono un medico. Ma vorrei fare qualcosa per aiutarla. Un muro di camici si frappone fra me e lei come uno sbarramento. Si apre un varco. E’ un incubo. Quella donna è mia madre. Sì, è proprio lei! Me l’avevano detto. Il mio fu un parto difficile. Dopo la mia nascita mia madre entrò in coma per giorni. Anch’io mi ero trovato allo stesso bivio di Angelo. Ma mia madre era sopravvissuta. Se l’avessi persa, quanto la mia vita sarebbe stata più simile a quella di Angelo? L’interrogativo mi appare crittografato in una espressione matematica disegnata su una lavagna. Il gessetto tra le mie dita scorre sull’ardesia. Pretende di svelarmi le sue stridenti soluzioni. Il calcolo è ambizioso: scoprire i connotati della nostra esistenza dagli accadimenti che la caratterizzano. Ricerco un’incognita combinando le sue variabili indipendenti. La presenza di una identica variabile in due espressioni diverse non può non rendere simili le sue incognite. L’ipotesi mi appare verosimile. E’ in qualche modo estrinsecazione degli assiomi della logica. Almeno, così credo. Se A è uguale a B e quest’ultima è uguale a C , il risultato inoppugnabile è che A e C sono uguali. L’ipotesi che un accadimento tragico possa assimilare l’esistenza di persone diverse mi appare logicamente motivata. Ma, Dio, Il labirinto della ragione mi trascina nel suo vortice davanti ad un terribile quesito: chissà quanto una malattia invalidante possa accomunarci? Se avessi avuto la malattia di Angelo come sarebbe stata la mia vita? L’ipotesi mi terrorizza. Mi manca il respiro. Mi sento prigioniero in una sfera di cristallo.
La messa è finita. Mi riprendo dalle mie inquietudini. Le religiose escono in fila. Si ritraggono come un rigagnolo nel deflusso dell’onda sulla battigia del mio animo. In quel solco rifluiscono i granelli del basamento del castello di sabbia delle mie certezze. In chiesa si ode il pianto sommesso di una donna. Tiene per mano un adolescente. Non comprendo la ragione del suo lamento. Una voce alle spalle mi sussurra: ”Fu l’ultima paziente del dottore. Scoprì di aspettare un bambino. Era sola. Senza un lavoro. Senza famiglia. Palesò l’intenzione di interrompere la gravidanza. Angelo, ormai debilitato dalla malattia, le disse: “Se quello che ho basta per la mia famiglia, basterà anche per te. Tuo figlio nascerà! E ora, eccoli”.
Mi commuovo. Quell’uomo aveva continuato la sua sfida anche quando la disabilità lo aveva atterrato. La malattia gli aveva tarpato le ali, ma egli aveva continuato a volare. Forse ancora più in alto. Tutto comincia ad avere un senso. La debilitazione fisica non era stata per Angelo un limite, così come non lo era la clausura per quelle suore. Il perseguimento della loro missione, nella costrizione delle loro barriere, mi ammalia. Mi incanta come il corso di un fiume che, giunto davanti a un ostacolo naturale, lo supera con il fragore di una cascata e riprende placido il proprio corso. Nel canto di quelle suore lo scroscio di una sorgente nella quale ho avvertito la presenza divina come non mai. Nell’altruismo di un anziano disabile, il frastuono di una cateratta nella quale ho percepito l’Uomo in tutta la sua grandezza. Chiocciole che nonostante il loro guscio continuano ad inerpicarsi verso le loro mete. Pietre scartate dai costruttori, diventate pietre d’angolo.
“E’ proprio così – prosegue la voce alle mie spalle: - nessun guscio è un limite!”.
Ma chi sta parlando?! Mi giro di soprassalto. Non c’è nessuno. La porta della chiesa è socchiusa. Uno spiffero la riapre. Il grecale entra accompagnato dai soffusi profumi del sole del crepuscolo. Mi alita sulla pelle. Ormai, non ha più  motivo di sorprendermi.
                                                                                                                             
                                                                                                                                   (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci”)
 
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Democrazia Comunitaria

QUALE RINNOVATO UMANESIMO SOCIALE PER L'ITALIA CHE RIPRENDE?

La evidenza e la forza dei problemi posti in luce dalla pandemia di coronavirus in corso sottolineano per l’Italia (ma sostanzialmente anche per tutti i paesi del mondo) tre priorità e urgenze strategiche ai fini di una ripresa che non sia effimera e che, nello stesso tempo, sia socialmente equa.
La prima priorità e urgenza è quella di restituire al Paese una politica alta ed organica, con impostazione valoriale fondata realmente sulla Costituzione e sui suoi principi, segnatamente sulla sua Prima Parte, finora o parzialmente inapplicata o parzialmente distorta da una legislazione, e ancor più da una normazione attuativa, prive di luce e di coerenza.
Tale politica alta fa oggi drammaticamente appello a tutti i cittadini di buona volontà, e nella coscienza di Democrazia Comunitaria fa appello soprattutto al senso di responsabilità dei cattolici, affinchè, questi ultimi in particolare, sappiano superare l’attuale frammentazione patologica e sterile di atteggiamenti e comportamenti, e trovare nelle loro energie storiche, culturali e spirituali, la forza di offrire all’Italia, in concreto, un nuovo partito politico nazionale in grado di riprendere organicamente e attivamente il pensiero, il programma e lo stile che furono dei De Gasperi, Dossetti, La Pira, Olivetti, Mattei, Tina Anselmi, Moro e gli altri grandi padri anche non cattolici della nostra esperienza democratica, da Einaudi a Pertini a Calamandrei e, ancora, a tanti altri. Superando, essi cattolici, non soltanto l’attuale infertile frammentazione ma anche la frequente incultura per la quale prevale inavvertitamente nella loro iniziativa, di fatto, la critica alle insufficienze altrui piuttosto che la tensione ai concreti doveri propri, compresa la esigenza di una coraggiosa e responsabile autodisciplina di organizzazione nel campo dell’azione politica e sociale per il bene del Paese.
Occorre al Paese, ed al movimento cattolico in modo specifico, un nuovo partito che sappia dare altissima testimonianza in materia di democrazia interna, di pluralismo, di cultura delle regole, di dedizione al servizio della comunità, di etica della responsabilità individuale e collettiva, di alto senso dello Stato unito armonicamente ad alto senso delle autonomie al servizio della sussidiarietà e intorno al valore delle persone e della comunità a partire dalla famiglia. Un partito fondato comunque su persone, sempre titolari finali di ogni diritto e di ogni dovere, non su realtà organizzate portatrici di interessi di tipo direttamente o indirettamente lobbistico.
La seconda priorità e urgenza è quella di oltrepassare con franchezza il drammatico Rubicone dell’economia e del lavoro, caratteristico di questi ultimi quarant’anni di parziale democrazia e di piena libertà di mercato, e decidere definitivamente e coraggiosamente la transizione verso l’impresa partecipativa e l’economia solidale: introducendo il criterio generale della cointeressenza istituzionale di tutti gli operatori, e segnatamente dei lavoratori dipendenti, nei risultati d’impresa, e tenendo presente che anche lo Stato è, in questo senso, impresa: impresa di tutti i cittadini. Olivetti, Ferrero, la Economia di Comunione, il primo Eni di Enrico Mattei, l’attuale Loccioni, e molte altre realtà, possono costituire esempi significativi di riferimento per sviluppare tale politica economica di efficienza permanentemente collegata a equità.
Nell’attuale contingenza particolare di pandemia, inoltre, DemocraziaComunitaria ritiene molto più importante liberare e sostenere il lavoro che non seminare fra imprese e cittadini finanziamenti a fondo perduto con pura logica e psicologia assistenziale.
In questo spirito di rinnovamento i due principali provvedimenti da assumere quale stile di governo sono da un lato la effettiva e materiale semplificazione della burocrazia compreso lo snellimento dell’apparato statuale e regionale (ogni normativa semplificata per liberare il lavoro e la vita dei cittadini vale, anche in termini di potenziale economico, più di una erogazione finanziaria a fondo perduto) e dall’altro la finalizzazione dei sostegni finanziari soltanto ai concreti e verificati investimenti in ripresa e sviluppo di ogni singola impresa, quali sono non solo macchinari e tecnologie ma anche spazi e organizzazione del lavoro innovativi atti a consentire  stabilmente un distanziamento e rallentamento nei ritmi dell’ormai becero e antiumano produttivismo meccanicistico da massimo profitto, per transitare a una moderna produttività di benessere diffuso e integrale: che non è nemico del profitto ma è, al contrario, suo esaltatore di stabilità e qualità totale. Il lavorare meno per lavorare tutti presenta in questo quadro la sua massima attualità, insieme con la transizione tendenziale alla settimana lavorative di quattro giorni ed alla giornata lavorativa di sei ore, mentre va posto drasticamente fine, per converso, all’immorale concetto di reddito di cittadinanza, da sostituire con il reddito da lavoro collegato con il diritto soggettivo ed  effettivo, e l’altrettale dovere, al lavoro stesso.
La terza priorità e urgenza è costituita dalla restituzione ai sistemi formativi del paese, a tutti i livelli, di un approccio profondamente umanistico e di pedagogia integrata e integrale per la comunità e per la persona lungo tutto l’arco della vita di questa.
Gli attuali sistemi formativi si caratterizzano essenzialmente e negativamente, dalla scuola elementare all’università ed alle tipologie variamente manageriali, politiche, sindacali, professionali, aziendali, etc., come una incoerente galassia ricca di nozioni e povera di pensiero, e spesso ancor più povera di consistenze valoriali, finendo per immiserire la caratura sociale della comunità e l’autorealizzazione compiuta delle persone.
Un cammino di ripresa credibile e sollecito in tale spirito può venire indicato, ad esempio, dal recente studio “Il sentiero stretto: formazione è un’altra cosa”, che delinea appunto i criteri irrinunciabili per un’alta e diffusa ripresa della centralità della questione pedagogica nel nostro paese, facendo riferimento sia alle generali esperienze degli ultimi cinquant’anni nel mondo sia alle migliori testimonianze educative della nostra storia, da Giovanni Bosco a Lorenzo Milani, da Maria Montessori a Piero Calamandrei, da Carlo Carretto a Vittorio Bachelet.
Vogliamo una Italia realmente democratica e realmente pluralista, realmente valoriale e realmente solidale, realmente protagonista e realmente al servizio “di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”. E intendiamo doverosamente assumerci in questa impresa anche la nostra personale e collettiva responsabilità.

Roma, 16 maggio 2020.
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Economia e società

CORONAVIRUS, ANZIANI, GIOVANI: PROVIAMO A RAGIONARE DI OPPORTUNITA' CONDIVISE...

Il coronavirus non fa sconti agli anziani e li sta falciando. La combinazione con patologie pregresse è l’attestato per il congedo dalla vita. Non avevano la fedina sanitaria pulita. Giustificata la compassionevole rassegnazione della collettività nei confronti di un virus impensabile la cui rapida diffusione impone anche il calcolo probabilistico della sopravvivenza nell’uso delle risorse mediche rese scarse dall’emergenza.

Occorre dire che l’anziano ha già fatto i conti con la residua sabbia rimasta nella sua clessidra e ha la dimensione del futuro disponibile di cui è privo il giovane, immerso in un presente senza confine.

La dignità della morte per l’anziano è il compimento della dignità della vita.

La cultura greca a latina hanno coltivato il valore della “buona morte” rappresentata dal termine euthanasia. Noi siamo eredi di una cultura diversa, forgiata dalla rivoluzione cristiana, che non è estranea alla dignità della morte. Che dire, oggi, di fronte alla sofferenza degli anziani contagiati, isolati da ogni conforto umano, che annaspano nella fatica di riempire d’aria i polmoni che non funzionano più? Un evento tragico che ripropone il tema, sempre presente, della ricerca di un equilibrio etico tra la sacralità della vita e l’autodeterminazione del malato come espressione terminale della sua libertà di coscienza. Due valori compresenti nell’umanesimo cristiano. Certo, una libertà rischiosa che deve misurarsi anche con i progressi della scienza medica e dell’ingegneria genetica che hanno superato i limiti che si pensavano invalicabili e intrinseci nella natura umana.

Ma torniamo anche alla realtà dell’anziano che è sfuggito al contagio. Nessuno oggi è in grado di prevedere quanto durerà l’emergenza sanitaria né di escludere altre ricadute fino a quando non si avrà un nuovo vaccino. Ci sarà una lunga fase di transizione che ritarderà, soprattutto per gli anziani, il ritorno alla vita normale. Essi avranno bisogno di cure e di assistenza, di solidarietà da parte della collettività ad integrazione di quella fornita dalle famiglie che escono stremate dalla crisi.

Ricevere solidarietà significa anche porsi nella condizione di offrirla agli altri. Il vasto mondo degli anziani è variegato nella sua composizione. L’allungamento della vita ha allargato il numero di anziani in pensione che hanno ancora la capacità di partecipare alla vita economica e sociale.
 
In primo luogo gli anziani sono mediamente più ricchi delle generazioni successive. Hanno vissuto stagioni di crescita economica e di stabilità occupazionale che ne ha fatto dei buoni risparmiatori, anche perché sobri nei consumi. Questi anziani, divenuti nonni, si sono prodigati nel sostegno economico alle loro famiglie in difficoltà e soprattutto a favore dei nipoti, svantaggiati da un sistema sociale che premia gli interessi più forti e rappresentati. Hanno dato vita, a seconda delle loro possibilità, a un welfare familiare di cui avvertono il breve respiro. L’esperienza di vita ha loro insegnato che se il sistema economico non torna a produrre nuova ricchezza, il loro impegno solidale è destinato a naufragare nel declino del Paese. Ma nello stesso tempo il loro diretto coinvolgimento nelle crisi precedenti, per lo più irrisolte, li rende particolarmente consapevoli delle discontinuità da gestire per uscire dall’emergenza in corso, senza precedenti per gravità.

In secondo luogo gli anziani sono anche portatori di conoscenze e di competenze, un bacino potenziale di opportunità, nella prospettiva, ormai data per certa, di una prossima e grave recessione economica. Il Paese, nel suo processo di ricostruzione, dovrà attivare un forte processo di deburocratizzazione per ridare vigore all’iniziativa dei diversi attori, pubblici e privati, dello sviluppo. In questo processo si possono anche prevedere forme organizzative flessibili per il reinserimento nel ciclo produttivo e del volontariato sociale delle competenze maturate dagli anziani. Così come i medici in pensione si sono mobilitati per rispondere alla crisi sanitaria, altre categorie professionali di pensionati possono dare il loro contributo al rafforzamento delle strutture tecnico-scientifiche che hanno manifestato la loro fragilità nel corso della crisi.

In conclusione, gli anziani possono ancora dare solidarietà, oltre che riceverla. Una occasione per uscire dagli steccati corporativi. Nella crisi torniamo tutti ad essere comunità. Tutti dobbiamo remare nella stessa direzione per evitare che la barca affondi nella tempesta perfetta che è in atto.
                                                                                                                                                             
                                                                                                                                       (Giuseppe Bianchi)

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Orizzonti

L'ORIZZONTE DI PAPA FRANCESCO

Giovanni Ghiselli è uno dei più profondi e completi conoscitori della cultura classica latina e greca: una conoscenza non astratta ma innervata in una concreta vita professionale trascorsa per oltre trent’anni nella scuola come docente di liceo, a insegnare soprattutto il senso di quella cultura rispetto alla vita di oggi e di sempre. E continua a farlo: non solo nella scuola, ma anche in sedi istituzionali e culturali diverse, richiesto spesso di riflessioni che aiutino a orientarsi in una società che sembra fare molta fatica a riconoscere il senso del suo andare. Il ministero della pubblica istruzione lo ha fra i suoi consulenti.
 
Ci è parso utile riproporre un suo commento al messaggio che Papa Francesco ha rivolto al Parlamento e al Consiglio europei nel 25 novembre 2014: un inedito confronto fra società attuale e mondo dei classici, alla ricerca di utili suggerimenti per non smarrire il timone del mondo che viviamo.
 
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Cercherò di trovare analogie e differenze tra i punti cruciali dell’allocuzione del Papa e alcuni topoi
presenti nei miei autori classici.
 
Sua santità Francesco ha detto che l’Europa è “alquanto invecchiata e compressa”. Il tema
dell’invecchiamento di una civiltà e della terra sulla quale essa è nata ricorre nella letteratura antica.
La causa di tale senescenza è spesso individuata nell’empietà e nell’immoralità degli uomini.
 
Nell'Antigone di Sofocle, Tebe è malata: la città che è di tutto il popolo è sottoposta a un morbo
violento  per l'empietà del tiranno, accusato dal vate Tiresia di amare i turpi guadagni e di
infliggere violenza ai concittadini.
 
Nell' Edipo re lo spengersi degli oracoli procede parallelamente al declinare della polis e il Coro
depreca la miscredenza nei confronti dei responsi, in particolare dei vaticini delfici:
infatti già estirpano
gli antichi vaticini di Laio consunti
e in nessun luogo Apollo
risplende per gli onori
e tramonta il divino
(vv. 907-910).
 
Sofocle insomma fa dipendere dalla empietà la decadenza della vita umana fino alla sterilità delle donne e perfino a quella della terra e degli animali. Leggiamo come il sacerdote nel prologo della tragedia descrive il flagello a Edipo:
 
la città infatti,come anche tu stesso vedi, troppo
già fluttua e di sollevare il capo
dai gorghi del vortice insanguinato non è più capace
e si consuma nei calici infruttuosi della terra,
si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti
senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,
scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,
dalla quale è vuotata la casa di Cadmo, e il nero
Ades si arricchisce di gemiti e lamenti"
(Edipo re, vv. 22-30).
 
Empietà secondo Sofocle è la noncuranza degli oracoli e l'abbandono dei riti tradizionali.
 
Isocrate nell'Areopagitico (del 356) condanna più in generale lo sconvolgimento delle tradizioni
antiche:"Ritenevano che la devozione stesse nel non cambiare niente di quello che gli antenati avevano loro tramandato”.
 
Su un'analoga linea di tradizionalismo si trova Sallustio il quale lamenta la decadenza della virtus in seguito alla troppo alta considerazione del denaro:"Operae pretium est (…) visere templa deorum
quae nostri maiores religiosissumi mortales fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas
gloria decorabant (Cat. 12): vale la pena di visitare i templi degli dèi che i nostri antenati, uomini
religiosissimi, avevano costruito. In effetti quelli ornavano i santuari degli dèi con la devozione, le
case con la gloria”.
 
Gli dèi sono offesi dal venire meno della pietas, dalla immoralità, dall'irreligiosità, dall'idolatria
degli uomini adoratori del denaro.
 
Sentiamo Petronio che “dipinge in una lingua da orafo i vizi d'una civiltà decrepita, d'un impero che si va sfasciando” (Huysmans) : "ego puto omnia illa a diibus fieri. Nemo enim caelum caelum putat, nemo ieiunium servat, nemo Iovem pili facit, sed omnes opertis oculis bona sua computant. antea stolatae ibant nudis pedibus in clivum, passis capillis, mentibus puris, et Iovem aquam exorabant. Itaque statim urceatim plovebat: aut tunc aut numquam: et omnes redibant udi tamquam mures. Itaque dii pedes lanatos habent, quia nos religiosi non sumus, agri iacent…" (Satyricon, 44, 17-18): io credo che tutto questo derivi dagli dèi. Nessuno infatti considera il cielo, nessuno rispetta il digiuno, nessuno stima un pelo Giove, ma tutti a occhi chiusi fanno il conto dei loro possessi. Prima le matrone in stola salivano a piedi nudi sul colle del Campidoglio, con i capelli sciolti, i cuori puri, e supplicavano Giove per l'acqua. E così subito pioveva a catinelle: o allora o mai più: e tutti tornavano bagnati come topi. Ora gli dèi hanno i piedi felpati. Poiché non siamo religiosi, i campi sono abbandonati.
 
Sono parole di un liberto ignorante, eppure per l’espressione opertis oculis si può trovare una
analogia nell’Antico Testamento a proposito degli idolatri:"Gli idoli dei popoli sono argento e oro,
opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi
e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi
confida" (Salmi, 135, 15-18).
 
Properzio fa dipendere il tramonto degli dèi, della pietas, della fides, della lex, del pudor, dal lusso e dalla lussuria di uomini e donne, e dalla maledetta fame dell'oro già esecrata da Virgilio:
 
At nunc desertis cessant sacraria lucis:
aurum omnes victa iam pietate colunt.
Auro pulsa fides, auro venalia iura,
aurum lex sequitur, mox sine lege pudor":
 
“ma ora sono trascurati i santuari nei boschi deserti: vinta la devozione, tutti venerano l'oro. Dall'oro è stata messa fuori corso la lealtà, con l'oro si compra la giustizia, la legge obbedisce all'oro, presto il pudore sarà fuori legge”. Tutto questo porterà alla caduta di Roma:"frangitur ipsa suis Roma superba bonis": la stessa Roma superba viene spezzata dalle sue ricchezze.
 
Nella letteratura latina, del resto, c'è un'altra spiegazione. Lucrezio con la visione materialistica ripresa da Epicuro smonta questo tipo di pietas legata, secondo lui alla superstizione (religio) e confuta il " tristis… vetulae vitis sator atque vietae (De rerum natura, II, 1168), il rattristato coltivatore della vigna vecchia e vizza, il quale
 
Temporis incusat nomen saeclumque fatigat,
et crepat, antiquum genus ut pietate repletum
per facile angustis tolerarit finibus aevum,
cum minor esset agri multo modus ante viritim.
Nec tenet omnia paulatim tabescere et ire
ad capulum spatio aetatis defessa vetusto:
 
“accusa il corso del tempo e insulta la sua età,
e brontola che l'antico genere umano pieno di devozione
sosteneva assai facilmente la vita entro confini ristretti,
sebbene molto minore fosse prima la misura del campo per testa.
E non capisce che tutto a poco a poco si consuma e va
verso la tomba, spossato da lungo spazio di tempo”.
 
Sono gli esametri conclusivi del secondo libro. In questo poema c'è dunque una concezione organica della terra che invecchia come tutto nell'Universo.
 

Ma torniamo al nostro Papa.
"Una volta - ha detto - c'era la fiducia nell'uomo in quanto persona dotata di una dignità
trascendente". Tale fiducia significa non trattare uomini e donne come strumenti da usare e buttare
via quando non servono più. Platone raccomanda agli uomini l’assimilazione a Dio (Teeteto): quella che sarà l’Imitatio Christi per i Cristiani. Tale assimilazione alla divinità significa essere buoni. Agostino ricorda Platone in questi termini: habemus sententiam Platonis dicentis omnes deos bonos sse (civ. Dei).
 
La deduzione della bontà del creato dalla bontà del creatore si trova, com’è noto, dal Timeo
ove si legge che Dio, creatore di un cosmo bellissimo, è il migliore degli autori.
Il Timeo viene riecheggiato ripetutamente da Agostino attraverso la traduzione ciceroniana. Per
esempio: “hanc etiam Plato causam condendi mundi iustissimam dicit, ut a bono Deo bona opera
fierent (civ. Dei); anche Platone afferma che la causa più giusta della creazione del mondo è
che le opere buone sono fatte da un Dio buono.
 

Pure Seneca aveva tradotto il medesimo passo del Timeo: “ ita certe Plato ait: Quae deo faciendi
mundum fuit causa? Bonus est. E ancora: “Quae causa est dis bene faciendi? Natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt. L’uomo che non si è allontanato da Dio dunque è buono e in questo Gli assomiglia.
 
Torniamo a papa Bergoglio. L’uomo non è una monade, ma una persona associata ad altre con diritti e doveri e il divenire individuale deve svilupparsi in maniera sociale, tendendo al bene comune, non senza dialogo e discussione. Siamo infatti animali politici e animali linguistici. Orrendo, anzi infernale, è, a parer mio, il costume di tanti individui che invece di dialogare con altre persone, magari addirittura sedute allo stesso tavolo in quella che dovrebbe essere la comunione del pasto, maneggiano per tutto il tempo telefonini o altri strumenti del genere senza mai rivolgere parola ai vicini o alzare gli occhi per guardarli.
 
Il Papa ha denunciato il male della solitudine. Ora le persone vi si sprofondano senza nemmeno
accorgersene o compiacendosene, data la paura e la diffidenza che distanzia ciascuno dal prossimo
suo. Nella tragedia greca l’isolamento è vissuto come un male tra i peggiori: Filottete (questa tragedia di Soflocle è del 409) lasciato solo dai compagni nella deserta Lemno lamenta di essere “uomo infelice, solo, abbandonato, così e senza amici”.
 
La solitudine di Filottete dunque è penosa per un greco antico, tipicamente, come ha notato bene
Kierkegaard. Secondo il filosofo danese, per l'uomo greco che viveva nella democratica la solitudine dell’impolitico è una condizione innaturale :"benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato. Questa determinazione sostanziale è la vera e propria fatalità della tragedia greca, e la sua vera e propria caratteristica."
 
L'abitudine e il desiderio di stare soli sono già condannati come disumani da Omero nella figura
mostruosa del Ciclope, e, dopo Sofocle, da Menandro nel prologo dove il misantropo Cnemone viene definito uomo disumano assai.
 
Invece più avanti nel tempo, con la degenerazione brutale dei rapporti umani, con la trasformazione delle persone in turba, folla, diventerà non solo dignitoso ma necessario rimanere soli. Seneca, tornato dal Circo dove ha assistito a mera homicidia , omicidi veri e propri, scrive:" Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui: “Torno a casa più avido, ambizioso, amante del lusso? anzi più crudele e più disumano proprio perché sono stato in mezzo agli uomini”. Il consiglio allora è:"recede in te ipse quantum potes ", rientra in te stesso quanto puoi. La posizione si radicalizza nell'incipit di un'altra lettera: “ Seneca Lucilio suo salutem. Sic est, non muto sententiam: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum”: Seneca saluta il suo Lucilio. E' così, non cambio parere, evita la folla, evita i pochi, evita anche uno solo.
 
Infine Nietzsche: “C’è da dir male anche di chi soffre per la solitudine- io ho sempre e soltanto
sofferto per la moltitudine”. La solitudine dunque è un portato della difficoltà nei rapporti umani, della loro disumanità. Eppure noi uomini, come ha scritto l’imperatore Marco Aurelio “siamo nati per darci aiuto reciproco, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire uno a danno dell'altro è cosa contro natura (Ricordi).
 
In questa Europa non più fertile e vivace, ha detto ancora papa Bergoglio, siamo passati dai grandi ideali ai tecnicismi burocratici. Chi scrive queste note ha trascorso quasi tutta la vita nella scuola e ha sofferto l’invadenza di troppi tecnicismi anche nel campo che dovrebbe essere quello della cultura. La valutazione del fanciullo (pais), e a maggior ragione la sua paideia, educazione, non può ridursi a una serie di questionari o quiz senza anima, senza idèe, né sentimenti, né bellezza, né verità. Una serie di formule da imparare a memoria. So di ragazzi che nella scuola media devono rispondere qual è la differenza tra “favola” e “fiaba” senza avere mai letto nulla di Esopo né di Fedro. Non si leggono più gli autori nelle scuole.
 
Eppure gli auctores sono i nostri “accrescitori”. Ma se i giovani non crescono mentalmente è più
facile tenerlo sottomessi e farne dei consumatori bulimici. Prevalgono le questioni tecniche e gli affari economici in una sorta di tirannide contraria all’indagine sui sentimenti, alla discussione sulle idèe. Questo male viene già denunciato da Giacomo Leopardi :
 
un franco
di poetar maestro (…) lascia, mi disse,
i propri affetti tuoi. Di lor non cura
questa virile età, volta ai severi
economici studi, e intenta il ciglio
nelle pubbliche cose, Il proprio petto
esplorar che ti val?”.
 
In questo culto dell’economia, del mercato e del profitto l’uomo viene trattato come l’ingranaggio
di un meccanismo. E’ la cultura “del consumismo esasperato e dello scarto”, ha detto il nostro
pontefice. Il culto del consumo, del profitto e del Pil arriva a ritualizzare le guerre.
Seneca nel De ira ricorda che i re incrudeliscono e compiono rapine e distruggono città costruite
con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"Reges saeviunt
rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in
cinere urbium scrutentur ".
 
Quindi cito di nuovo la Palinodia al marchese Gino Capponi di Leopardi:
 
…coverte
fien di stragi l’Europa e l’altra riva
dell’atlantico mar (…) sempre che spinga
contrarie in campo le fraterne
schiere/di pepe o di cannella o d’altro aroma
fatal cagione, o di melate canne
o cagion qual si sia ch’ad auro torni” (vv. 62-68).
 
Papa Francesco ha ricordato La scuola di Atene di Raffaello Sanzio urbinate. Ha fatto notare che tra
i filosofi presenti e vivi in questo affresco del 1510, Platone punta l’indice della mano destra verso
l’alto, mentre Aristotele tiene la mano davanti a sé, con la palma rivolta verso la terra.
Noi uomini siamo creature anfibie e non possiamo perdere il doppio contatto con la terra e con il
cielo, se non vogliamo rinnegare la nostra natura composita. Ciascuno di noi è la metà di un segno di riconoscimento, uno spezzone da completare. Dobbiamo congiungere il non
eterno con l’eterno: senza spregiare il transitorio, il mortale, dobbiamo trovare in noi l’immortale. Il Faust di Goethe si chiude con il Chorus mysticus che canta: “Tutto l’effimero è solo un simbolo”.
 
Papa Bergoglio ha poi ricordato la centralità della persona umana e l’educazione che deve dare la
famiglia, la scuola, la società. Educazione al rispetto della dignità propria e di quella del prossimo. Quindi il diritto-dovere del lavoro la cui mancanza inficia la dignità dell’uomo. Quanto alla questione dei migranti, il Papa ha detto che il nostro mare Mediterraneo non deve diventare un
grande cimitero.
 
Infine la questione centrale dell’identità: tanto quella delle singole persone quanto quella dei popoli non va portata all’ammasso di una globalizzazione alla quale non dobbiamo permettere di annientare il principium individuationis con il “conosci te stesso”, proprio mentre con stridente
contraddizione incentiva l’egoismo più feroce.
 
Alcune aggiunte ha fatto Papa Bergoglio parlando al Consiglio d’Europa, sempre il 25 novembre a
Strasburgo. Il pontefice ha indicato la via della pace. Per incamminarci su questa strada e percorrerla “metodicamente” dobbiamo riconoscere nell’altro un fratello da accogliere, da cui imparare. L’umanesimo è amore per l’umanità, come la fanciulla di Sofocle :(Antigone): “certamente non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore”.
 
Ed è espressione di umanesimo quanto dice Teseo a Edipo nell’ultima tragedia del poeta di Colono: ( Edipo a Colono): so di essere un uomo. Sapere di essere uomo è la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile. Sapere di essere uomo significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo vecchio, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande:" e sentendo compassione-continua Teseo- voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui”. Poi significa ascoltare e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte. "Anche io - dice il re di Atene al mendicante cieco, incestuoso e parricida – sono stato allevato fuggiasco come te. Dunque so di essere uomo e che del domani nulla appartiene più a me che a te".
 
Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e disponibilità ad ascoltarlo,
leggiamo nel più famoso verso di Terenzio:" Homo sum: humani nil a me alienum puto ". "Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti" sono le prime parole del Decameron.
 
Papa Bergoglio recentemente ha detto di stare dalla parte dei poveri. In questo è davvero imitator
Christi e del santo suo eponimo. Già Papa Ratzinger ha sottolineato il fatto che “Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me” (Matteo, 25, 40). Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme: nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio”. Sentiamolo in latino: “Amen dico vobis: Quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis, mihi fecistis”.
 
E in greco. Anche questa forma di umanesimo, di alta umanità, non era ignota ai Greci: Nausicaa nel VI canto dell’Odissea, poi Eumeo nel XIV dicono a un Odisseo malridotto che vogliono aiutarlo perché vengono tutti da Zeus gli stranieri e i mendichi, e un dono anche piccolo è caro per loro.
 
Occorre combattere la cultura del conflitto, ha detto il Papa: bisogna fermare la corsa agli armamenti. Dobbiamo opporci al traffico degli esseri umani, alla loro mercificazione, alle nuove
forme di schiavitù che possono essere più dolorose e degradanti di quelle antiche. Per fare questo ci
vuole coscienza e ci vuole cultura. Coscienza di noi stessi, del presente e del passato. Senza la conoscenza del passato si vive come entità casuali, come un albero senza radici. Non siamo qui per caso. Niente avviene per caso. “There is a special providence in the fall of a sparrow" c'è una provvidenza speciale perfino nella morte di un passero (Amleto, V, 2). C’è un fatum che è il fari (il parlare) di Dio: Fatum nihil aliud est quam series implexa causarum (Seneca, de beneficiis), una serie di cause concatenate.
 
Paolo VI definì la Chiesa come una istituzioneesperta in umanità”. L’uomo umano ha bisogno di dialogare, di meravigliarsi, di considerare se stesso e la vita intera come problema. Non può accontentarsi dei luoghi comuni della propaganda pubblicitaria avida, interessata al lucro. E’ necessaria una nuova agorà dove confrontare le idèe, dove cercare la verità che è , non Latenza, disvelamento. La cultura, , come educazione e come apprendimento, nasce sempre dall’incontro, dall’attenzione, dall’ascolto e dalla cura degli altri.
 
Bologna 27 novembre 2014
                                                                                                          (Giovanni Ghiselli)
 
 
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DIritto e giustizia

QUANDO LA GIUSTIZIA PUO' DIVENTARE INGIUSTA

Lo avevamo preso per quello che voleva essere, in quell’anno 2013 nel quale elaboravamo ipotesi di ripresa di politiche alte e forti per il nostro paese, con una iniziativa di ispirazione cristiana tuttora in corso ma tuttora incapace di assumere dimensione organizzata e nazionale.
 
Lo avevamo preso per quello che voleva essere, cioè una testimonianza personale drammatica, di un cittadino del quale non possiamo naturalmente in questa sede riportare il nome, sul tema della “giustizia ingiusta” che così spesso attanaglia e uccide le persone: a volte per la persecutrice burocrazia, anche in questo campo, a volte semplicemente per i tempi che a loro volta costituiscono una ingiustizia, a volte per lo stravolgimento del valore della giustizia che le stesse normative pongono in essere a favore di un diritto formalistico arbitrario. Anche nel settore della giustizia pensavamo infatti di proporre una evoluzione strutturale di prospettiva.
 
Ci sembra che un poco d’acqua (poco, veramente) sia passata da quel 2013, e che una riflessione sia stata avviata anche in sede di poteri competenti, sul rapporto fra diritto e giustizia anche in materia di separazioni familiari. Qualcosa di meno ingiusto è stato avviato, ma molta resta la strada da fare. Giudicate voi.
 
Quanto al perché abbiamo deciso di pubblicare proprio in questi giorni una simile drammatica  testimonianza, le ragioni sono soprattutto due: la prima è che pensiamo doveroso, proprio in tempi di “carognavirus”, non perdere affatto l’orizzonte dei tempi di normalità, per consentirci di tenere costantemente presente la strutturalità dei problemi che dobbiamo affrontare oltre a quello di emergenza del virus stesso, e affrontare così con più lungimiranza anche questo; la seconda è che proprio tale emergenza incrementa, a esperienza storica di tutti i casi similari, in una fascia già debole di famiglie, il drammatico fenomeno della rottura dei legami familiari, delle violenze domestiche, degli inconfessati disagi di convivenza, che fanno da triste parallelo ai casi positivi di famiglie che invece trovano nella difficoltà dell’emergenza un motivo di rinsaldamento della loro coesione.
 
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Noi  italiani siamo  convinti di essere  fortunati e di far  parte di uno dei paesi più civili del mondo.
La Costituzione italiana garantisce i diritti, l’ uguaglianza e la libertà.
 
Il primo comma dell’ art. 3  recita testualmente: “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali“.
 
Ma è realmente  così? Ci sono seri dubbi, almeno per quanto concerne l’uguaglianza tra i sessi.
 
C’è solo da augurarsi di non avere a che fare con una moglie che, dopo alcuni decenni di normale matrimonio,  all’improvviso e senza alcun preavviso decide di cambiare il percorso della propria vita; prende la macchina e se ne va di casa per circa un mese abbandonando persino un minore. Poi rientra, si  rifiuta  di parlare ed avere contatti con il marito ed arriva a chiedere la separazione inventandosi di tutto con la complicità dei suoi parenti più stretti  e di uno  studio legale:  e  per il malcapitato  consorte sono guai seri, nonostante la sua intenzione  di ricucire il rapporto  o  quantomeno di arrivare ad una separazione consensuale.
 
Alla donna hanno fatto capire  che può assicurarsi una  vita agiata a danno del consorte che “ ormai  ha   un’età  avanzata  e  qualche  problema  di   salute“,  e  la  facilità di raggiungere l’obiettivo dal quale possono trarre vantaggi in parecchi, visto il consistente patrimonio familiare (diversi immobili in comproprietà ed uno stipendio da dipendente statale). Non a caso viene,  inspiegabilmente  ed in tutta fretta, depositata in tribunale una richiesta di separazione per le vie giudiziali, sebbene  vi sia una comunicazione  a mezzo missiva con la quale  viene dichiarata la piena disponibilità a  definire il tutto  in via bonaria. Evidentemente, la consapevolezza  di poter ottenere gli scopi prefissati (intera casa coniugale e consistenti  mantenimenti) già in sede di udienza preliminare invoglia  a tale scelta.
 
Con l’attuale legislazione, infatti, e consolidate consuetudini giuridiche,  il cosiddetto “sesso debole” ha la facoltà di far “buttare fuori di casa” e portare alla rovina la controparte impadronendosi praticamente di tutto (figli, immobili, stipendio del marito, risparmi e quant’altro).
Poi, specialmente se la donna è casalinga, può assicurarsi il futuro a spese di  chi  ha sempre lavorato  e  dovrà  continuare a farlo  per il resto della vita  per mantenerla  (e  chi  glielo fa fare di andare a lavorare?  Eppure, lei è un’esperta  artigiana,  che, tra  l’ altro,  in passato è stata  titolare  di una  propria  attività  svolta  per  diversi  anni e,  tutt’ora,  percepisce  redditi  propri  tali che le garantiscono di essere perfettamente  autonoma ed in grado di mantenersi. Con il suo  mestiere  le sarebbe molto facile trovare un lavoro da dipendente  oppure riaprire la  sua  ex attività  disponendo ancora  dello stesso locale di  prima  con relativi arredi ).
 
Non importa  di  chi  sono le  colpe  del fallimento del matrimonio (il marito  si è  sacrificato  per assicurare  alla  famiglia in cui credeva un buon futuro ed ha cercato di essere un  buon  padre  e un buon marito); l’importante  è  fare la “ vittima “: e persino  in presenza  di  documentate falsità,  si potrà  avere  la  “giustizia” dalla  propria parte; la quale, in pochi minuti (con il cosiddetto “provvedimento presidenziale”), non esiterà ad ordinare l’allontanamento del marito dalla  casa coniugale  acquistata  con sacrifici, nonché a disporre, inspiegabilmente, il versamento di un cospicuo mantenimento per lei ed il figlio, sebbene in affido condiviso (ben 3/4 dello stipendio, corrispondenti a  quasi il doppio di un normale salario corrisposto  alla  maggior parte dei lavoratori italiani ), violando  in  modo  evidente  i  principi  costituzionali  e  la  legge  54/2006. 
 
Al marito che  si alza  tutte le  mattine  per  andare  a  svolgere un  duro lavoro  rimarrà  una modesta  cifra  (meno di quanto  deve  versare mensilmente  per  il  solo  figlio ed in alcuni mesi le sue competenze si riducono persino a soli  58,oo  € con cui dover vivere e pagare un consistente affitto di casa )  e  se  non  dovesse  provvedere  a  corrispondere  tutto  quanto  è stato  deciso (e ci sarebbe la tentazione di dire “  estorto “, con  abuso  e  favoreggiamento!) verrà  pure  emesso un “decreto penale di condanna” per  violazione  dell’ art. 570  c.p.  e  si  procederà  persino  con il pignoramento delle competenze; tanto, per la  cosiddetta  “giustizia“  bisogna assicurare lo stesso tenore di vita  alla  donna  e  c’è   un  “provvedimento”  al  quale  bisogna  attenersi, tutto il resto  non conta  (non importa nemmeno se il malcapitato nei suoi primi 50 anni di vita si è sempre comportato bene e non ha mai avuto a che fare con la  giustizia, perché improvvisamente gli piomberanno addosso tante di quelle azioni legali da superare i più  conosciuti personaggi mafiosi).
 
Ma  poi,  qualcuno  si  chiede  se  anche  il marito  può  mantenere  lo  stesso tenore di vita ? Qualcuno  si  vuole rendere  conto  che  il  malcapitato  è  costretto  ad  andare  a  vivere  in  affitto e  viene  ingiustamente   umiliato, denigrato ed  offeso  e  non  potrà  che  vivere  in  condizioni  di  assoluto  disagio  pur  non  avendo  fatto  nulla?
 
Non  conta  neppure  se  la  casa  coniugale  è composta di  due  grandi e  distinti  appartamenti per  due  famiglie,  perché,  tanto,  verrà  comunque  assegnata  esclusivamente tutta a lei sebbene è documentato che quest’ ultima ha altre possibilità alloggiative (vuole così, il marito potrà  arrangiarsi  andando a vivere  altrove e se dovrà pagare un esoso  affitto  e vivere  il  resto  dei  suoi  giorni  in  condizioni  di  precarietà  saranno problemi  suoi ).
 
Anche se poi il figlio diventa maggiorenne, la Giustizia farà in modo che la donna continui a disporre a suo piacimento del mantenimento per lui  stabilito  con prelievo diretto dallo stipendio del malcapitato  consorte e contestuale versamento sul conto corrente esclusivo della donna ) e poco importa se il figlio ha raggiunto la maggiore età  già  da alcuni anni ed abbia chiesto al Giudice  di avere ciò  che  è un suo diritto, comunicando  le coordinate del proprio c/c  appositamente aperto.
 
Ma non basta…. per decisione della “Giustizia”,  lei continuerà a disporre, comunque, anche della intera casa coniugale e la motivazione addotta sarà che il figlio non è economicamente autosufficiente . Cosa importa se a mantenerlo  è il padre e se il ragazzo ha  un proprio stipendio  perché arruolatosi nelle  FF.AA. e , ormai ventunenne, abbia esplicitamente manifestato la volontà di volere il padre vicino ?
 
Dopo anni di durissime  e costosissime battaglie legali, l’uomo dopo 5 anni riesce a rientrare nella ex casa coniugale, che condividerà con il figlio,  ed il mantenimento alla donna viene revocato perché  la “giustizia”  è costretta a prendere atto della realtà dei fatti poiché la donna detiene immobili propri  dati in affitto e quindi possiede redditi idonei e sufficienti al proprio sostentamento. Persino il  decreto penale di condanna  viene revocato ( dopo aver cagionato molti danni )  poiché  l’ uomo  viene  assolto  perché  “il fatto  non  sussiste”. L’ uomo viene scagionato da qualsiasi addebito di colpa, ma tutte le denunce/querele presentate per calunnia, ecc. nei confronti della ex, caso strano, vengono puntualmente archiviate (eppure di qualcuno deve pur essere la colpa di quanto accaduto! ).  Si scopre, poi, che la donna svolge  pure lavoro   “in nero”, ma, sebbene vi siano le segnalazioni fatte, nessuno interviene al riguardo. Anzi, l’uomo viene pure preso di mira dal  “Fisco”  perché, ovviamente aveva portato in deduzione dal reddito  gli importi effettivi corrisposti a titolo di mantenimento ed ampiamente documentati per effetto dell’avvenuto pignoramento dello stipendio disposto in virtù dell’assurdo Decreto Penale di condanna di cui sopra e, così, subisce un nuovo pignoramento dello stipendio  (questa volta da parte del  “fisco” ), sebbene  vi  sia  un ricorso alla Commissione Tributaria in atto, per il quale detto  Organo non si è neppure ancora pronunciato (strano, però: il “fisco” non entra nel merito del lavoro in  nero svolto dalla donna e si limita a prendere per buone le dichiarazioni della  donna ).
 
Ma non finisce qui !!! Infatti, dove non arriva l’ ex consorte  subentra la ex  suocera, la quale  dopo circa 10 anni richiede esclusivamente all’ ex genero una somma volutamente elargita per l’acquisto della casa coniugale della quale è proprietario il nipote per espressa volontà della stessa. L’ elargizione  a titolo di  “regalia”  risulta anche dall’autorizzazione rilasciata dal  giudice tutelare ad  entrambi gli  ex  coniugi per l’ acquisto dell’ immobile  in nome e per conto del figlio, all’epoca minore. Nonostante all’epoca dell’acquisto dell’immobile i coniugi fossero in costanza di matrimonio, in  regime di comunione dei  beni e la  casa fosse intestata al nipote,  la ex  suocera dell’uomo pretende, a distanza di dieci anni e soltanto dopo l’avvenuta separazione dalla figlia, la restituzione della cifra soltanto dall’ ex  genero. Quindi, improvvisamente e senza alcun preavviso avvia l’ azione legale ed ottiene l’emissione di un decreto ingiuntivo al riguardo, sebbene  vi sia una dichiarazione di rinuncia alla restituzione della grossa cifra elargita (ovviamente, poi, disconosciuta)  e non considerando che la somma sia pari quasi ad 1/4 di quella totale spesa dall’uomo per l’ acquisto dell’ immobile. Nonostante l’evidenza dei fatti, l’uomo viene condannato a pagare la grossa cifra e così ove non era riuscita la ex  moglie a raggiungere l’obbiettivo prefissato (portarlo alla rovina ) ci riesce la ex suocera con l’ausilio della  “malagiustizia”. A nulla serve neppure il ricorso in appello avverso il decreto ingiuntivo emesso, alla mancata ammissione delle prove a proprio favore, al comportamento della  Ctu, alla  vistosa  “sentenza punitiva”  che ha tutto il sapore di una vera e propria  “vendetta giudiziaria”,  ecc. La  definizione della causa viene rinviata  a  distanza di oltre  tre anni dopo, e viene intanto confermato il pagamento di quanto stabilito in decreto ingiuntivo  con aggravio di spese ed interessi ( e così  si arriva a circa 200.000, oo €. ed il gioco è fatto !!! ). L’ uomo sarà, cosi,  costretto a  pagare  subito ( quindi rovinato ) e  non avrà  neppure  la  possibilità di  poter ricorrere in Cassazione perché la causa non è stata  neppure definita dalla  Corte d’Appello ( se tutto va bene se ne parlerà tra  4/5  anni ) ed ogni commento al riguardo appare più che superfluo. All’ uomo non resta altro da fare che rivolgersi alla  Corte  Europea per i  Diritti dell’ Uomo perché è inutile intentare  azioni legali contro appartenenti alla  magistratura, i quali, godono della più ampia impunita’ e non risponderanno mai in prima persona  per il proprio operato.
 
I  giovani  uomini  prima  di  pronunciare  il fatidico “sì”  riflettano  e  si regolino di  conseguenza.
E  poi  ci si  meraviglia  quando  accadono certi fatti di  cronaca…..
 
Ma ciò  che  lascia  davvero  indignati  è  l’ operato  della  Giustizia,  che  tale proprio non è,  e la  totale  indifferenza  delle  istituzioni  che al massimo  si limiteranno  ad esprimere solidarietà, ma che  si  guarderanno bene  dall’andare  a  fondo  delle  questioni.
 
Di certo alle Istituzioni non  conviene  sindacare l’operato della  Magistratura  e magari dover assumere provvedimenti impopolari che potrebbero generare l’ira  del  cosiddetto “sesso debole”, che, ormai,   ha  ben  compreso  come, nella maggior parte dei casi, separarsi  dal marito diventa una vera “convenienza”  ed  equivale ad  una  specie  di  “polizza  assicurativa a vita” a proprio vantaggio ed  a  totale  nocumento  dell’ ex  marito  ridotto  così  in stato di schiavitu’ perché costretto a dover lavorare per  mantenere la ex ed assicurarle una  vera e propria  rendita  vitalizia  e parassitaria.
 
In tal modo le donne conseguono contemporaneamente due  vantaggi: quello di  assicurarsi il futuro e quello di “rovinare” per  il resto dei suoi giorni  il loro ex (grande  risultato !!! ) . E  tutto questo in nome della   civiltà  e della giustizia di questo Paese.
 
In materia  di  separazioni  matrimoniali,  poi, difficilmente si troverà un giudice disposto a modificare i provvedimenti assunti in precedenza dai colleghi  ed a far emergere le eventuali responsabilità  di questi ultimi, per cui il povero uomo  sarà costretto ad avviare  tutta una serie di azioni legali per  cercare di difendere la propria  persona ed i propri interessi. Passeranno  anni per cercare  di   rimettere  a  posto  le cose  e verrà spesa una vera  fortuna per spese legali e giudiziarie (oltre duecentomila  €, per i quali il malcapitato deve indebitarsi per 5  anni,  e… non  è   ancora  finita !!!!  ). Intanto i  “media”, la stampa,  la Tv ed i politici  continuano  a parlare  di “violenza” e di  “ingiustizie” che riguardano esclusivamente il sesso femminile, trascurando totalmente l’altro sesso. Tutti  i giorni assistiamo ad intere  trasmissioni televisive ed articoli di stampa in materia di violenza  alle donne  e di  disparità verso il sesso debole,  ma  delle  violenze subite  dagli  uomini  da parte  delle  donne e dai loro legali (e  sono  tantissimi ! )  chi  osa  parlarne ??? In questo Paese le donne  hanno  ottenuto “ la  licenza  di  uccidere”  ( è chiaro, non ancora dal  punto di vista  materiale,  ma  sicuramente  dal punto di vista  morale  e psicologico ). Hanno distrutto la loro  femminilità e  i valori della  famiglia  e le  ripercussioni sull’ intera  società sono ben  noti,  basta  guardarsi  intorno.

In  un  Paese  che  si  vuole  davvero  ritenere  civile  le  violenze e le ingiustizie vanno combattute  in  ogni  caso, sia  se  riguardano le  donne  e  sia  se  riguardano  gli  uomini, senza fare distinzioni di sesso. E’  sicuramente  questa  la  vera  civiltà ! I  politici  ne  prendano atto e  si assumano le  loro responsabilità;  trovino il coraggio per  cambiare le  leggi  in materia  di  separazioni  che,  allo  stato attuale dei fatti e con la  corresponsabilità  della  Giustizia,  sono nettamente  di  parte ( e …..non si venga  a dire  che il tutto  viene  fatto per  tutelare  i  figli, perché  anche  i padri separati hanno il sacrosanto diritto ad esercitare  la  patria  potestà  e ad amare la  prole,  esattamente  come le  madri ). Occorre sicuramente togliere alle donne “furbe”  l’ “interesse economico di separarsi”  ( casa coniugale e mantenimento che spesso restano alla donna a vita ). Solo così si potranno salvare moltissimi matrimoni  e fare davvero gli interessi dei minori i quali hanno diritto ad  avere  un padre .

L’ operato dei  Giudici in  materia  di  separazioni  andrebbe  sicuramente  sottoposto a  controlli rigorosi  perché  non si  può  continuare a  permettere loro  di assumere  provvedimenti con  superficialità e rovinare  la  gente  per bene dietro falsità e calunnie  di  chi  agisce  in  malafede ed il guaio è  che,  poi,  tutte le  false  accuse  restano pure  quasi sempre  impunite. Alcune  statistiche evidenziano che negli ultimi dieci anni le separazioni  anno causato circa un migliaio di  suicidi/omicidi e nel  93 %  dei casi  chi si toglie la  vita è il padre. C’ è da domandarsi:

a)- Quanti altri morti ci dovranno essere prima che le istituzioni si decidano ad intervenire per cambiare la legislazione esistente e per controllare l’ operato dei giudici  e per obbligarli ad  essere più attenti, meno superficiali ?

b)- E’ mai possibile che si debba continuare a rovinare la gente per bene dietro falsità e calunnie di chi  agisce  in malafede ?

c)- E’ normale che per buttare fuori di casa un uomo (spesso senza alcuna colpa ) e per togliergli  tutto (casa, stipendio, affetto dei figli, dignità, ecc.) basta solo qualche mese ed una  udienza presidenziale che dura solo pochissimi minuti, ma poi, per rimettere a posto le cose in        qualche modo occorrono moltissimi anni e tanti soldi ( nel caso di chi scrive  oltre  duecentocinquantamila €.) e, nel frattempo,  la  donna  continua  a mantenere  la sua posizione di comodo ed  a  percepire  una vera e  propria  rendita vitalizia a danno dell’ ex consorte ??? Intanto, il malcapitato è costretto ad indebitarsi per sostenere le spese legali necessarie a difendersi dalle evidenti falsità, menzogne e cause varie  avviate dalla  ex  con i suoi legali, che comunque, per anni,  si è goduta la casa coniugale utilizzandola a “mò di albergo” per parenti ed amici  per  diversi anni (la madre, pur avendo un proprio appartamento poco distante,  si era  sistemata quasi stabilmente  nella medesima casa coniugale con la figlia ) .
 
 Tutto ciò  deve certamente far riflettere, visto che, a questo punto,  le separazioni  causano più vittime  di  tutte le  organizzazioni  criminali  messe insieme. Non  occorre  certo  creare  ministeri   o  numeri  verdi  (es.  1522) dedicati  esclusivamente  alle  donne  ove  gli  uomini  non   possono accedere  e  non  è  necessario  neppure  creare  “quote  rosa” (a modesto avviso di chi scrive, che  assicura  si  è sempre  battuto in difesa delle donne ed è sempre  stato  contro il “ maschilismo”, ciò  è  offensivo  per  le stesse  donne.  ). Il  successo  va  conquistato  sul campo  e per  meriti, senza  fare “vittimismo sfrenato” .

Ci si auspica  che  qualcuno  si decida ad intervenire al più presto per far cambiare le cose e la  soluzione alle  problematiche  potrebbe essere  raggiunta  con :
 
 1)-  L’ abolizione di  ogni  forma  di   mantenimento  a  favore di uno dei  coniugi (quasi sempre la donna ) con conseguente    istituzione    del   mantenimento    diretto  ed obbligatorio  dei   figli   da     parte    di  entrambi    i  genitori,  in  percentuale   e  sulla  base del loro reddito  accertato  ( salvo accordi diversi  o casi eccezionali, da motivare e documentare in sentenza ) ;

2)-  l’  assegnazione   della   casa    coniugale   a  chi   e’   il   legittimo proprietario   (qualora l’ immobile  sia  di   entrambi  i coniugi  andrebbe  diviso   o venduto  per  suddividerne il ricavato );

3)-  Tempi di permanenza  paritetici dei figli  presso entrambi i genitori, con conseguente istituzione della doppia residenza  per i minori ( salvo accordi diversi  o trasferimento di uno dei genitori in  diversa  città o  per comprovati e giustificati  motivi ) ;

4)-   Certezza della pena  per chi inventa  falsità  e  menzogne  allo  scopo di  conseguire i propri obbiettivi a discapito della controparte;

5)-   Responsabilità dirette  per gli  eventuali  legali che danno assistenza  a  clienti scorretti  o che forniscono  il   proprio  operato on    coscienza   e   volontà    e   “senza  scrupoli”   o  che fomentano   gli animi  dei    separandi    aiutandoli   a  fornire  versioni distorte dalla realtà alle  ompetenti  Autorità  Giudiziarie  per  ricavarne  lucro ;

6)-    Responsabilità  civile   per   i   magistrati    che  emettono  provvedimenti  con colpa grave  o dolo, con  conseguente  abolizione  dell’ attuale  diffuso concetto  di  “intoccabilità”,  affinchè rispondano   per   le    proprie   responsabilità   come  tutti  gli  altri  cittadini  italiani  per   gli eventuali danni arrecati a  terzi.

Per  le  responsabilità di  cui  ai  precedenti punti  5 e 6  non possono essere sufficienti semplici “polizze assicurative”, ma  occorre la  cessione  del  quinto dello stipendio e la confisca dei beni quantomeno nei casi di responsabilità gravi ed eclatanti. Le  citate  soluzioni   “a costo  zero”, a  quanto  pare,  però,  non   sono  ben accette  da chi,  magari,  ha    interesse  a   tenere  alto   il   tasso di  conflittualità  ed   a  lasciare  inalterato  l’attuale  assurdo  ”sistema”   in atto  (  il  “divorzificio”  in atto, fa comodo a molti  per poter  lucrare sulle disgrazie altrui  ed è questo che bisogna eliminare  per salvare molte famiglie e tantissimi bambini ).

Gli  interessi economici  che ruotano intorno alle  separazioni  sono tantissimi e  vistosissimi. Senza  voler  minimamente  generalizzare,  sono  tante  le  donne  “furbe”  ed     “in  malafede”  che ricorrono  volutamente  alla  separazione  di tipo giudiziale  per  potersi costituire la rendita ( casa e  lauti mantenimenti ) a discapito dell’ ex  marito . Ciò  costituisce  senza   dubbio   il vero incentivo alla  separazione  conflittuale  che va eliminato  con un’ adeguata ed  urgente  riforma  legislativa. I “ padri separati”  devono avere gli stessi diritti e gli stessi  doveri delle  madri ,    quindi    anche    pari     dignita’ ,  e  non si  venga  ancora  a  sostenere  che il tutto viene fatto nell’  “interesse e  per la tutela dei   minori”  perché  cosi   non   è  ( anche i padri  hanno il diritto di amare  ed assistere  nella crescita  la   prole  e non  si  comprendono  le ragioni per le quali dovrebbero essere esclusi/emarginati ).
 
Con    l’ attuale   sistema,  infatti,   i   figli   troppo   spesso  diventano  “ lo   strumento”   per  arrivare   all’ obbiettivo  da  raggiungere  e  non a  caso  diventano  “ contesi “  dai  genitori  con  le  conseguenti   problematiche che ne derivano. Pertanto, se davvero si vuole  l’ auspicata  “ bigenitorialita’  “  e fare  gli interessi dei figli  è  necessario  correre  ai ripari  con  urgenza.
 
P.S- :  Chi  pagherà  mai  per i danni  cagionati all’ uomo ??? Sulla    base    di    quale ragionamento   il   giudice  aveva   inizialmente assegnato  l’ intera  casa  coniugale , che   si  ribadisce è composta  di due grandi  e   distinti   appartamenti,   alla  donna,   costringendo  l’  uomo  ad  andare  in affitto ???  Quale  criterio   fu   adottato  per  assegnare  alla  donna,   provvista    di redditi  propri  documentati  i  3/4 dello  stipendio dell’ uomo  a titolo di mantenimenti, per una somma  di  €.  1.500  mensili, quando lo stipendio delle  due  sorelle  dell’ uomo  –  una  Dirigente   scolastico  con   doppia  laurea  e   due  figli    e   l’  altra  impiegata con regolare  assunzione - era  rispettivamente  di  €.  1.300   e  900  circa  mensili ??? - Sono  sicuramente   misteri  difficilmente  risolvibili  ! Ma,  purtroppo,  c’è  ancora di  più. Infatti,  non appena  si  viene a sapere che  l’ uomo riprenderà   la  casa  coniugale,  per  volere  del   figlio  intestatario  dell’immobile, inspiegabilmente, arriva un  improvviso trasferimento di  sede  a distanza  di  600  Km. e  tale  trasferimento  viene  motivato  con  generiche  e  dubbiose  esigenze  di   servizio ( ma  che  strano  !!! )  ed   il  tutto  dopo  che,  per  imposizione  dell’  Amministrazione di  appartenenza  l’ uomo  aveva  prestato  onorato servizio  per  circa  35  anni  sempre presso    lo    stesso  Reparto.  Inutile  presentare  istanza  motivata  di   revoca  del  trasferimento  o  quantomeno  di  trasferimento  ad  una  sede  più  vicina al  figlio  ed alla ex  casa coniugale. Tra l’ altro,  alla  nuova  sede  si  cercherà  in  tutti  i  modi  di rendere  la  vita  difficile  all’ uomo   e  così  il  mistero  continua .  Forse  è  il  caso  di poter   serenamente  affermare   che   è    un    caso  vergognoso   per   un  Paese   civile quale vuole essere  l’ Italia.
 
                                                                                                          (Anonimo)
 
 
         
 
 

Democrazia Comunitaria

IL RISCHIO DI UNA PANDEMIA AGGIUNTIVA CHE DOBBIAMO SCONGIURARE

Le grandi ed essenziali armi concrete per combattere oggi il coronavirus sono il distanziamento personale e la accurata igiene di tutti e di tutto, in parallelo con l’avanzare della ricerca medica specifica.
 
Nel quadro drammatico che si è creato, comprensibilmente è stato deciso, insieme con il distanziamento fra persone e con le misure di igienizzazione, anche il blocco complessivo delle attività economiche, salve quelle direttamente connesse con la immediata sopravvivenza delle persone stesse e della collettività relativamente alle loro esigenze primarie.
 
Pensiamo peraltro che, messa in tal modo sotto controllo, per quanto possibile, la crudele dinamica della pandemia nella sua attuale fase imperversante, sia ora indispensabile procedere con grande tempestività, e insieme con grande saggezza e prudenza, anche a riavviare le altre attività produttive, al fine di rimettere in piedi gradualmente i mezzi stessi con i quali sarà possibile affrontare l’altro lato del coronavirus, cioè il dopo-coronavirus.
 

Infatti, per una  politica sociale di sostegno affidabile alle persone ed alle famiglie in difficoltà occorrono risorse, e le risorse possono ottenersi soltanto con una economia che riprende a produrre con rallentata e controllata ma pur sempre strutturale  e completa continuità.
 
Se il blocco delle attività economiche continuasse con l’attuale sostanziale totalità, infatti, il rischio gravissimo, e già profilantesi,  può essere addirittura peggiore dell’attuale pandemia: è il rischio di una spaventosa pandemia a base di suicidi da fallimenti d’impresa e da disoccupazione; pandemia morale che tragicamente è spesso accompagnata dal rischio di un crescere di incomprensioni e violenze anche domestiche, di cui pare intravedersi l’inizio, per quanto poco annunciato.
 
Capacità tipica e necessaria di una politica alta è insomma sempre, e in particolare in casi come questo, quella di vedere ogni problema nella sua piena contestualità, oltre che nella vistosa urgenza dell’oggi.
 
Ebbene, l’attuale tempesta del coronavirus, maledetta ma anche potenzialmente provvidenziale, ci offre nostro malgrado un potente stimolo per cominciare concretamente a rivedere, con attenzione alle singole situazioni ma con visione generale, soprattutto l’organizzazione del lavoro, perché diventi, e resti anche per il futuro, meno demoniacamente dominata dalla velocità parossistica e dall’assembramento umano ubriacante, entrambi schiavi della pazza logica del massimo profitto, e più guidata dalla saggia e ponderata distensione di tempi e ritmi capace di dare spazio armonicamente a tutte le esigenze di vita, non solo materiale, e di rigenerare con ciò, in particolare, dimensioni umane, civili, sociali e lavoristiche di autentica comunità.
 
Quello che né politica, né impresa, né sindacato, né scuola, né altre istituzioni, né la società complessiva, hanno saputo fare in questi ultimi decenni, preoccupati pigramente, vigliaccamente, stupidamente e parassitariamente di gestire rispettive certezze e prebende di status dove comode, urge che sia avviato adesso dietro il pungolo violento del “carognavirus”, e che anzi venga, ove necessario, imposto: con la coscienza e il ragionamento, dove sopravvivono, con la lotta culturale e politica dove solo questa sia l’arma rimasta.
 
L’organizzazione del lavoro va rivista in generale, per essere avviata a diventare veramente comunitaria, come dicevamo, cioè a misura di persona e di comunità, e non di profitto speculativo e finanziario riservato ad azionisti e giocatori di borsa. Il profitto non viene certo da noi negato, anzi resta fonte di giusta stimolazione migliorativa, ma deve essere da un lato strutturalmente condiviso con tutti i lavoratori coinvolti, dall’altro sottomesso al criterio del “limite fino a un certo tetto”. Ai nostri amici laici ricordiamo fra l’altro che questo duplice criterio non appartiene soltanto a noi cristianamente ispirati ma è anche l’insegnamento e la testimonianza di grandissimi maestri laici di vario orientamento politico e ideologico, da Federico Caffè a Luigi Einaudi a Francesco Forte (cui si riferisce il virgolettato di poche righe sopra riportato) ed a tanti altri. Anche i salari devono essere avviati ad armonizzazione fra tutti i lavoratori di ogni impresa, senza eccezione alcuna, cioè compresi i trattamenti della dirigenza, pubblica e privata, compresa quella politica. Armonizzazione che per essere vera esige una trasparente e non aggirabile relazione di proporzionalità fra i diversi gradi di inquadramento dalla base al vertice. Solo così si riprenderà una economia forte, sana, stabilmente capace di crescita e di solidarietà attiva.
 
Sul particolare versante della politica, per lo stesso obiettivo generale urge restituire ai cittadini quel principio e valore centrale della democrazia, per il quale gli elettori si recano alle urne per scegliere nominativamente i loro singoli parlamentari e amministratori, non per scegliere liste o partiti, i quali sono soltanto strumenti per evidenziare e garantire meglio programmi e orientamenti delle persone candidate. E per il quale, inoltre, va contestualmente ridotta a decenza e buon senso (senso buono ed onesto) la strangolante e vituperosa e mafiosa numerosità attuale delle firme burocratiche da raccogliere oggi perché un cittadino possa candidarsi: massonica macchinazione concepita con la connivenza attiva di sostanzialmente tutti i partiti politici attuali per impedire l’ingresso in politica a chi non sia cooptato dalle segreterie partitiche; dando esito a quella che con piena precisione anche tecnica può oggi essere chiamata non già democrazia ma oligarchia.
 

Quanto alla scuola, essa deve tornare rapidamente e gagliardamente a svolgere programmi di formazione umana e umanistica della personalità dei ragazzi, a tutti i livelli ed in tutti gli ordini, ponendo fine alla barbarie delle sedicenti competenze tecniche che riducono le persone a macchine stupide e manipolabili. Occorre umanesimo per fare civiltà autentica, ma occorre umanesimo anche soltanto per fare buona e utile scienza. Non dovrebbe esserci davvero ulteriormente bisogno, oggi, di dimostrare la insulsaggine e irresponsabilità radicale della sloganistica politica che ha portato alla miserevole “scuola delle tre i, cioè internet-inglese-impresa” di berlusconiana memoria.
 
Al movimento sindacale, e oggi specificamente ed esplicitamente a Landini-Furlan-Barbagallo, chiediamo la lealtà umana e morale e civile di riprendere sollecitamente a pensare, studiare e assumersi responsabilità, ponendo fine al tradimento degli slogans a base di “rivendicazioni e piattaforme accolte oppure sarà sciopero”, che costituiscono, in sestessi e  radicalmente, un approccio privo di contenuto responsabile, oltre a lasciare i lavoratori e la intera società in stato rancoroso, sperequato e rimminchionito. A loro ed ai loro colleghi della dirigenza aziendale ricordiamo anche una nostra antica proposta di portata più tecnica ma ugualmente densa di significati anche morali, e cioè la necessità di porre fine alla di differenziazione di contratti fra “dipendenti” e “dirigenti” per unificare entrambe le categorie in un unico contratto collettivo. Né ci si rimproveri di demagogia a buon mercato: questa proposta veniva da noi formulata anche quando avevamo personalmente la qualifica ed il ruolo di dirigenti d’impresa. E’ in realtà semplicissima questione di trasparenza e onestà.
 
Così come alla impresa chiamata a gestire beni comuni chiediamo, aggiuntivamente allo spirito di comunità che deve caratterizzare ogni azienda anche privata, di porre termine alla rovinosa mentalità bocconian-luissina per la quale i risultati vengono valutati in chiave di finanza e di borsa piuttosto che in chiave di benessere prodotto e condiviso, cioè di bene comune. E’ la realizzazione di quest’ultimo che qualifica il successo d’impresa, non la droga artificiosa dell’azzardo borsistico né dello spread né del fognante operato delle agenzie di rating.
 
Agli inadeguati gestori della pubblica istruzione degli ultimi lustri, se ancora  si occupano di formazione, ed agli odierni loro successori e attuatori, chiediamo di porre termine all’immorale e autolesionistico criterio del numero chiuso per l’accesso al sapere universitario, cioè allo sviluppo dei talenti, diritto assoluto di valore sia naturale sia costituzionale. Come ai loro colleghi dell’economia e delle finanze chiediamo di semplificare e ridurre a criteri umani e civili la tassazione persecutoria e frantumata, adottando il criterio trasparente della deduzione delle spese, da parte dei cittadini, in dichiarazione dei redditi.
 
Cine al legislatore in generale, diventato responsabile di un pessimo bizantinismo normativo, chiediamo di tornare a parlare la semplice e trasparente lingua italiana tutte le volte che legiferano: quella lingua italiana che, lo ricordiamo loro, deve far sì che la legge venga capita direttamente dal comune cittadino, secondo il principio morale che, se “la legge non ammette ignoranza”, nello stesso tempo “la legge non deve ammettere neppure difficoltà a essere evidente e semplice per tutti in quello che prescrive”: altrimenti essa è abusiva e anticostituzionale. Oltre che essere stupida, come insegnavano già gli antichi romani collegando giustamente il gigantismo della normativa con la ingiustizia della normativa.
 
All’Europa, infine, o meglio ai suoi governi, chiediamo di uscire dal tradimento da essi perpetrato nei confronti di tutti gli ideali con i quali l’abbiamo fondata, autentica matrice di esempio per la progressiva costruzione di un mondo unito, e non camorra finanziaria di un gruppo di Stati potenti della terra: ai quali ultimi, o meglio ai loro geverni, ricordiamo in particolare che la nostra Italia, se può essere rimproverata, come effettivamente deve essere fatto, di avere un’amministrazione e una dirigenza spesso colpevolmente disordinate e affastellate, e un’opinione pubblica spesso frantumata, è pur sempre, e di gran lunga, da duemila anni ininterrotti, la nazione in possesso del più grande patrimonio culturale del pianeta, e che tale patrimonio essa ha generosamente dato a tutto il mondo, in bellezza, diritto, cultura, arti, religione, scienze e scoperte scientifiche e realizzazioni tecniche e civili ed umane e spirituali. Un primato che merita rispetto, solidarietà attiva e ammirazione, oltre che esigere dagli stessi italiani il dovere assoluto della coerenza gestionale. Se l’Europa non si mostra in grado di garantire tale fondativa e storica esigenza di lealtà, logico e doveroso sarà infatti per il nostro paese rivolgersi a costruire elementi di comunità alternativa con i paesi del mondo che meglio ne capiscano l’afflato ideale, come di recente hanno testimoniato anche nazioni e realtà di piccola e umile caratura economia e geografica quali l’Albania.
 
Tornare persone, tornare comunità. Tutti. Senza che nessuno, ma davvero nessuno, possa sentirsi esonerato, a nessun livello, dall’adempimento onesto e attivo del proprio personale dovere e del proprio contributo.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Cultura

IL NOSTRO TESORO INESAURIBILE MA IN PARTE SPRECATO

Mario Guadalupi riprende  un pensiero antico, la cui consapevolezza si è indebolita negli ultimi decenni della vita politica e della consapevolezza civile italiana, ma che va attivamente riscoperto se vogliamo dare al nostro paese una prospettiva davvero solida e stabile di nuovo sviluppo e di rinnovato ruolo mondiale, soprattutto di fronte alla emergenza pesante che ci verrà lasciata dal dopo-coronavirus. Riflette Guadalupi:
 
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Quando si parla di Arte e Cultura Italiana vale la pena di partire dall’ottima sintesi fatta da Benigni, che qui di seguito viene riportata:
 
La parola eccellenza l'abbiamo inventata noi italiani. Siamo sempre stati l'eccel­lenza nel mondo, abbiamo inventato la cambiale, la finanza, le banche. All'epoca di Dante, senza una lingua e senza uno stato, abbiamo inventato la cassa, il credito e il debito che adesso lo abbiamo noi: prestavamo soldi a re e papi, Edoardo I d'Inghilterra deve ancora restituirceli adesso. Dovremmo andarli a chiedere indietro. Ab­biamo inventato la prospettiva, lo sfumato, l'opera di San Benedetto che ha rifatto l'Europa e infatti ne è il patrono. Ha anche aggiunto il «labora» all'«ora» e così ha fatto lavorare tutti i monaci. Vedi che bella lista. Poi abbiamo alfabetizzato la musica, dato i no­mi alle note e ai tempi come forte, fortissimo e con brio, inventato il pianoforte, il violino e la viola. Se si suona nel mondo, è perché ci siamo noi italiani. Che bellissima lista, che gran gusto a dirla: e ancora strade, acquedotti e fogne, terme, igiene e pulizia, abbiamo insegnato al mondo a darsi la mano nel 1200 a Firenze. Le due corsie, il senso unico a Roma con Bonifacio VIII. Abbiamo inventato il bacio moderno, quello con la lingua, con Caterina de' Medici che poi lo insegnò a Enrico II e infatti si chiama «alla francese». Fu uno scandalo enorme, a quei tempi. È una lista bellissima quella delle no­stre eccellenze. Il tovagliolo e le posate; il sonetto, senza il quale non sarebbe esistito neppure William Shakespeare; la lirica, l'affresco, il primo artista moderno, Giotto; il primo intellettuale, Giovanni Boccaccio, che veniva pagato per scrivere; il primo architetto, Filippo Brunelleschi; il diritto, il Barocco, il Manierismo; la scienza politica con Niccolò Machiavelli. Un elenco bellissimo, che non finisce più. Abbiamo inventato l'Europa con Pio II, mentre a Lepanto gli italiani sotto le insegne di Venezia morirono per fare l'Eu­ropa; un italiano ha scoperto l'America e qualche anno dopo un altro italiano le ha dato il suo nome. Che lezione dal passato. Rinascimento, Risorgimento: questo è il Paese della resurrezione e del miracolo permanente. La nostra capacità di superare le crisi è stata presa a modello da tutti gli altri. Che lezione per il futuro. Oggi Renzo Piano è Brunelleschi, Claudio Abbado è il più grande direttore d'orchestra del mondo, Federico Fellini è stato il più grande regista. Che bell'elenco, non finisce più; che piacere dirveli tutti. La Ferrari è il simbo­lo dell'automobile che è la più bella che incontri sulle strade; la dieta mediterranea l'abbiamo inventata noi; Ennio Morricone che è classico e pop, che sta tra Giacomo Puccini e Jimi Hendrix; Umberto Eco è il più grande intellettuale vivente al mondo; Giorgio Armani è il Michelangelo della moda. E poi siamo generosi, noi italiani, che bell'elenco che ho fatto, quanti doni abbiamo dato noi italiani all'umanità. Ma, … e se continuo occupo tutto lo spazio. Roberto Benigni (testo raccolto da Carlo Piano).
 
Come fare allora per mantenere questo straordinario livello culturale che ci rende assolutamente primi nel mondo dell’arte, della cultura e dell’innovazione? Quale deve essere il progetto di una forza politica per sostenerlo? Questi sono strumenti strategici e non tattici e trascurarli porta a sicura sconfitta. Bisogna, oggi riappropriarsene. Capire che oltre alla tattica va inserito nel progetto politico la strategia e la strategia è il progetto culturale sotteso al percorso politico significa fare il grande balzo verso il futuro.
 
Di seguito vengono proposte tre ipotesi su cui lavorare: MECENATISMO – COMUNICAZIONE - FORMAZIONE
 
  1. IL MECENATISMO per l’imprenditore di cultura. L’intuizione strategica dell’importanza di sostenere arte e cultura risale, probabilmente, a Gaio Cilnio Mecenate, importante consigliere di Ottaviano Augusto, il quale instaurò un circolo di intellettuali e poeti che sostenne nella loro produzione culturale e artistica. Da Gaio Cilnio si origina l’uso della parola Mecenate. E’ stato il mecenatismo che ci ha reso i più grandi artefici di arte e cultura di tutti i tempi. Nel rinascimento il mecenatismo diviene un importante strumento di successo adottato da principi imprenditori del territorio, si sviluppa e si moltiplica con i mercanti, che non lo fanno per motivi specificatamente etici. Lo fanno per amore della bellezza, del prestigio, della reputazione, della credibilità nei confronti della concorrenza. Gli artisti, senza mecenati e senza impresa culturale, non sopravvivono. Deve essere capito che la cultura, l’arte e la conoscenza, affondano le loro radici nella storia e nella tradizione, e finiscono sempre per dimostrare che senza cultura non vi è economia. L’ignoranza ed il disinteresse generano solo povertà ed annichilimento per tutti. La grandezza dell’Italia ed anche il suo successo attuale sui mercati mondiali si origina proprio dalla sua capacità di fare arte e cultura. Non c’è cultura senza un potere economico illuminato. Oggi, tutto ciò non può essere sottovalutato, soprattutto in un contesto globale di sfida dei mercati mondiali (Cina, India, etc.). L’obiettivo è, dunque, consentire che oggi si possa condividere e consolidare il passato per dare forza e credibilità al futuro.  Investire in cultura ed arte, ma investire insieme. Il perno centrale e determinante attorno al quale ruota tutta l’attività economica è la cultura, alla quale si offre poco spazio di interazione con la realtà economica dell’impresa anche nel contesto della cosiddetta Responsabilità Sociale dell’Impresa. La cultura, l’arte e la conoscenza, affondano le loro radici nella storia e nella tradizione, e si finisce sempre per dimostrare che senza cultura non vi è economia, e l’ignoranza ed il disinteresse generano povertà e annichilimento per tutti. E’ necessario mettere l’accento e rendere palese che chi produce ricchezza e conoscenza deve partecipare alla creazione di valore culturale anche in considerazione del fatto che la globalità degli sforzi restituirà vantaggi a tutti singolarmente e moltiplicherà, nel tempo, la ricchezza del territorio (come i mecenati del passato hanno creato ricchezza per noi, oggi). Riaggregare l’imprenditoria italiana attorno ad un progetto culturale significa essere una forza politica lungimirante che fa del futuro il suo obbiettivo finale.
 
  1. L’INFORMAZIONE e la comunicazione. Non si può fare comunicazione politica senza inserire in qualsiasi documento anche sinteticamente annotazioni culturali. Non abbiamo, attualmente, alcun partito in Italia che parli o difenda gli interessi culturali dell’Italia nel suo territorio e soprattutto nel mondo. Nessun partito che riconosca il nostro immenso pozzo petrolifero: la cultura, riconosciuta invece da tutti nel mondo. Noi non sappiamo utilizzarla, venderla, difenderla. Importiamo materia grezza e sporca come il petrolio e non sappiamo esportare e difendere l’immensa nostra ricchezza; il nostro petrolio che non va nei motori ma direttamente negli occhi, nelle orecchie, nella bocca ed infine nel cervello di 7 miliardi di persone. Quale pazzia è questa? Bisogna chiamare a raccolta gli imprenditori e spiegare loro che la cultura fa ed ha fatto da sempre ricchezza molto più di qualsiasi altra risorsa anche perché è un prodotto umano e non un’estrazione di materiale terrestre. Inoltre, volendo, è una fonte inesauribile. Trascurare in qualsiasi discorso politico la cultura significa banalizzare qualsiasi progetto, significa portarsi allo stesso livello degli altri, significa parlare come al solito del Pil e basta, mentre “… il Pil non tiene conto della salute dei nostri ragazzi, la qualità della loro educazione e l'allegria dei loro giochi. Non include la bellezza delle nostre poesie e la solidità dei nostri matrimoni, l'acume dei nostri dibattiti politici o l'integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né il nostro ingegno né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione per la nostra nazione. Misura tutto, in poche parole, eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta. Ci dice tutto sull'America, eccetto il motivo per cui siamo orgogliosi di essere americani. » (Robert Kennedy - Dal discorso tenuto il 18 marzo 1968 alla Kansas University). Come si direbbe in musica, bisogna cambiare registro. Offrire suoni nuovi, voci nuove, visioni nuove sia per gli anziani sia per i giovani.
 
  1. L’EDUCAZIONE e la formazione a tutti i livelli, non solo scolastici. Bisogna riformare i quarantenni, quelli ai quali la scuola ha proposto solo informazione e conoscenza senza dare educazione e cultura. Purtroppo si confonde molto spesso addestramento con formazione. La scuola oggi addestra ma non forma né educa. Se vi chiedessero qual è il miglior investimento in senso assoluto, cosa rispondereste? Vi è una sola risposta possibile: Formazione Comunicazione Informazione Educazione. Il miglior investimento è sempre mettere i soldi “nel cervello” delle persone, nello sviluppo dell’intelligenza, della capacità di essere creativi, competenti, capaci di adattamento al mondo moderno. La formazione-comunicazione ha un'importanza talmente rilevante che molte università hanno facoltà dedicate proprio alla Scienza della Formazione, dove si studia la materia in ogni suo aspetto. La formazione si riferisce, infatti, a ogni contenuto di sapere, sia esso di area tecnico-scientifica, di area umanistica e di area di ricerca. Alla formazione (crescita culturale) della persona devono partecipare tutte quelle forze politiche che vogliono rendere l'uomo diverso da tutte le altre creature della terra. La formazione-comunicazione, nel suo complesso, è indispensabile per preparare una persona allo svolgimento di un'attività; ma innanzitutto prepararla alla comprensione dei tempi e delle situazioni, o molto più semplicemente a vivere coerentemente con quello che fa e con quello che è, ed a contribuire al successo della società in cui vive.
 
Concretamente:
  1. Ogni documento politico deve riportare alcuni elementi di progetto culturale.
  2. Ogni sito deve aprire un’area dedicata al progetto culturale con un blog rivolto a imprenditori, studenti, professori, appassionati, neofiti.
  3. Creazione di un forum e di un comitato dedicato alla cultura e all’arte.
  4. Una manifestazione eclatante rivolta ai giovani e agli imprenditori per il ritorno alla cultura.
  5. Uno strumento periodico cartaceo dedicato alla cultura: un trimestrale politico incentrato sul progetto culturale.
 
In conclusione, non parlare ma agire con fatti concreti attraverso la partecipazione ed il coinvolgimento, senza paura e senza incertezze ma con una grande speranza perché “Senza la speranza è impossibile trovare l'insperato.” Eraclito (535 a.C. – 475 a.C). «Fare, o non fare. Non c'è provare» (Yoda a Luke Skywalker). Dunque bisogna iniziare da capo insegnando a noi stessi ed ai giovani che “C'è un'unica verità elementare la cui ignoranza frena innumerevoli idee e splendidi piani. Nel momento in cui uno si impegna a fondo anche la Provvidenza si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo. Cose che altrimenti non sarebbero mai avvenute. Qualunque cosa tu pensi di fare o sogni di poter fare, cominciala. L'audacia ha in sé genio, potere e magia. Comincia da subito!” (Johann Wolfgang von Goethe). Le risorse di un territorio non sono le “cose” che possiede, ma gli uomini che lo abitano, che vi hanno vissuto, che vi sono nati; loro, solo loro, sono la ricchezza ed il successo del territorio. Solo loro potranno costruire il benessere ed un futuro per se stessi e per i propri figli ricordando che "Il futuro appartiene a quelli che credono nella bellezza dei loro sogni“ (Eleanor Roosevelt).
 
                                                                                                          (Mario Guadalupi)
 
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Società

COSTA DI PIU' FIDARCI O NON FIDARCI?


 
 
Lo stile di Ugno Righi, esperto consulente di gestione aziendale: uno stile essenzialissimo, veloce, senza fronzoli di sorta: ma una buona occasione, per chi legge, di riflettere sulla importanza centrale dei rapporti di fiducia e sui loro meccanismi, nella vita in generale e nel lavoro in particolare.
 
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Chiunque trascura la verità nelle cose di poco conto non può essere degno di fiducia con le questioni più importanti. (Albert Einstein). 
 
Parla, lo guardo, lo ascolto, è credibile ma non lo sento vero. Quindi non mi fido.
 
Quante volte accade questo, e sempre di più…
 
Nel micro dei contatti quotidiani e nel macro degli scenari.
 
Stiamo assistendo da tempo a questo fenomeno in politica, dove la percezione diffusa di sfiducia e inaffidabilità (intreccio di assenza di etica e di competenza) è che esse prevalgono su tutto.
 
Il tema della fiducia è davvero complicato, complesso, pieno di contraddizioni e di vicoli ciechi.
 
È difficile darla, la fiducia, e a volte non conviene farlo. È difficile riceverla, e a volte è bene che non ce la diano perché neanche noi abbiamo fiducia in noi stessi.
 
Si perde facilmente ed è difficilissimo riaverla; nelle relazioni d’amore o di amicizia è quasi impossibile.
 
Fidarsi dei banditi è da stupidi; fidarsi degli stupidi è da incoscienti.
Siamo circondati da banditi e da stupidi, che, giustamente, non si fidano tra loro.
 
Però sappiamo, ed è inesorabilmente vero, che la fiducia è fondamentale per il benessere sociale ed economico.
 

Possiamo fare tanti bei corsi di formazione, incitare le persone, usare parole luccicanti, avere capi «ispirati», ma se non c’è fiducia tutto crolla.
 
Ferrero ha successo perché ha come valore fondamentale quello della fiducia e come lui le imprese o le nazioni di successo: creano valore prima di prodotti.


Fiducia che le parole coincidano con i pensieri di chi le esprime, fiducia che siano tali anche i fatti, fiducia che non ci sia uno scopo dannoso verso chi si fida.
 
La fiducia è legata alle convinzioni che noi ci facciamo rispetto al comportamento degli altri, e spesso le nostre convinzioni rispetto al comportamento degli altri sono negative.
 
La sfiducia è diffusa, è cresciuta ed è diventata maestra di vita, la prassi e l’esperienza l’hanno resa dura e tenace. Sguardi attenti e un po’ bassi, espressioni corrucciate, cuore in allarme permanentemente. La minaccia è sempre presente, non si può abbassare la guardia.
 
Sembrerebbe quindi che le condizioni per agire bene siano rese impossibili: ma siccome dobbiamo vivere e agire pur non avendo, nella prevalenza dei casi, informazioni o percezioni sufficienti né per fidarci né per fare l’opposto, spesso “ci fidiamo” ma con bassa cooperazione.
 
La fiducia serve per partire e solo la fiducia può generare fiducia e quindi cooperazione.
 
La fiducia è dunque un prodotto potenziale della cooperazione e non una sua pre-condizione inevitabile (anche se quando c’è è un vantaggio).
 
Spesso la fiducia data in avvio di una relazione è leggera, incerta, debole, e piano piano si consolida pur rimanendo leggera; e quando diventa forte è ancora più «rischiosa» perché il tradimento di una fiducia che si è alimentata di fiducia è dolorosissimo.
 
I grandi professionisti della sfiducia sono esperti di questo gioco. Nel film La casa dei giochi si vede come il grande truffatore aveva come suo strumento base proprio la creazione della fiducia. Ma si vede ovunque,  questa perversa abilità.


Tale considerazione determina, quindi, la legittimazione del proprio scorretto comportamento perché fondata sulla percezione negativa del comportamento dell’altro o sulla valutazione della percezione negativa dell’altro su di noi, confermata poi, reciprocamente, dal risultato! “Faccio bene a non fidarmi perché vuoi danneggiarmi”.
 
L’alibi è quindi impeccabile e il gioco delle opportunità diventa subito quello della droga del conflitto, in cui a un certo punto l’obiettivo diventa «far fuori quel nemico».


Poter collaborare, cooperare, o addirittura vivere con gli altri, richiede, quindi, non solo che noi ci fidiamo di loro ma che siamo convinti che loro si fideranno di noi.
 
Anche se può essere di cruciale rilevanza avere motivi per cooperare (in aziende, con conoscenti, ecc.) è un errore pensare che ciò avverrà certamente, così come può esserlo pensare che se non avverrà è perché si preferisce il conflitto.
 
Come far capire che la cooperazione, spesso, può essere attraente e vantaggiosa al punto tale che valga la pena di investire un po’ di fiducia? Ecco la sfida!  Bisogna essere affidabili: tutto qui!
 

E bisogna che gli altri lo riconoscano. Se vuoi averla, la fiducia, devi darla. Poi devi confermarla con comportamenti che la aumentino.
 
Il contributo che una persona può dare nel far crescere ulteriormente la fiducia riguarda la sua capacità di fidarsi (non ciecamente) ma anche, se non soprattutto, di suscitare negli altri questo sentimento verso di sé.
 
Un aspetto che è presente spesso nel nostro tempo e nella nostra nazione esprime una variante rispetto a questo ragionamento: accade quando ci sono vantaggi elevati a operare con qualcuno (o costi elevati a non farlo) ma il livello di fiducia è basso. In questo caso, le relazioni vanno avanti ugualmente perché i soggetti in gioco, pur non fidandosi, hanno un alto vantaggio nel mantenere la relazione. È un’apparente paradossalità: «Non mi fido di te ma son sicuro che non mi tradirai perché farlo non ti conviene». È un gioco pericoloso, dove entrambi sanno che alla fine l’altro tradirà, e «vincerà» chi lo farà per primo neutralizzando la possibilità dell’altro di reagire.
 
Giochi velenosi riempiti di miele. Conferme verbali di lealtà e trucchi sommersi d’inimicizia. Giustificazioni morali sul proprio comportamento che senza le ali dell’ipocrisia striscerebbero nel fango. Ma fino allora (quando si dovrà sferrare il colpo) le carezze raffinate, le danze d’amore, i modi delicati saranno abbondanti e impeccabili.


Concludendo, voglio dire che la fiducia è un bene scarso e, come altre virtù sociali, aumenta con l’uso: quindi la sfida non è di presupporla ma di generarla e fare in modo che chi ci è vicino, chi lavora con noi, per effetto anche del nostro contributo aumenti la fiducia in se stesso.
                                                                          
                                                                                                                                                                (Ugo  Righi)
 
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Religione

"EFFATA'": LA STRADA E' APERTA

Il seguito del precedente articolo dello stesso autore, pubblicato il 3 marzo: o, meglio, la sua seconda parte.
 
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Una scia luminosa, e chiunque ci resta impigliato: è il battesimo di un bambino.
 
Nel battesimo di un bambino ci entri in punta di piedi, e non solo perché sei in chiesa. Ti fai avanti piano
piano e svicoli per la navata laterale perché già lo senti, già lo sai che oggi, qui, tutto sarà lieve e di mano
leggera.
 
Il battesimo forse più bello l'ho celebrato in un giardinetto di condominio e neanche mi ricordo come
strappammo il permesso. Tutto improvvisato, eppure che emozione, che commozione fra preghiere, canti,
chitarre e tamburelli: un rito un po' hippie come solo il battesimo di un bambino può diventare. Eppure, se lo
lasci scorrere liquido liquido, quel rito prenderà l'anima a tutti, anche a chi ci è venuto un po' così, anche in
una chiesa affollata e distratta. Durante il battesimo si snoda una scia talmente luminosa che chiunque ci
resta impigliato.
 
Il battesimo di un bambino è una cosa fragile, è un rito fatto con niente: gesti, parole, oggettini che lì per lì
fanno ridere: ma è quello il suo profondo, è quella la sua serietà e mai come adesso tornano le parole di Gesù: se non vi fate come bambini nel regno di Dio non ci entrerete mai. Difatti. Cose minute e cose minuscole ha preparato don Filippo: banchettino, tovaglietta, boccette, vasetti, batuffoli, brocca, bacile, asciugamani, candeline sigillate nel cellophane, vestina bianca. Tutto in miniatura, niente ingombro, non pompa magna: riti che durano un secondo, frasi brevissime, cenni, simboli, cifre, metafore.
 
Favolosamente misterico, il battesimo di un bambino mi si svela passo passo: l'importante è che io mi lasci trasportare senza pretendere e senza aspettarmi granché. Qualche dubbio? La grande teologia cristiana campeggia sullo sfondo e non la tradisco con la poesia, sta’ tranquillo. Se poi hai bisogno di un'immagine per ispirarti meglio, lascerei da parte le grandi tavole del battesimo di Gesù (Piero della Francesca, Verrocchio, Leonardo mi perdonino) e mi rivolgerei piuttosto ai ghirigori di Mirò, ai colori pastello di Klee, agli asini che volano di Chagall, o alle forme intrecciate di Vassily Kandisky. Ci stanno, ti assicuro, e mano nella loro mano entreremo nel tempio a misura di neonato.
 
Eppure l'inizio del rito, secondo me, è sconvolgente. Il nome, si comincia dal nome del bambino. E non per
iscriverlo, come all'anagrafe, no: adesso è per pronunciarlo, per proclamarlo, per gridarlo ai quattro venti. Quasi tutti lo conoscono, quel nome, sono giorni e mesi che gira fra i parenti: ma… che gli fa. Ora è un atto solenne, ora è una svolta, ora è una ribalta e tutti vogliamo sentirlo forte quel nome, perché è importante, perché è necessario, perché é insostituibile: e pare che qui tutto cominci da capo. Come si chiama il vostro bambino, ditelo a voce alta, fatelo risuonare, il suo nome, fatelo correre con l'eco di tutta la navata. Matteoooo… Agneseeeee… Andreaaaa… Elenaaaa….
 
Il tuo nome: comincia così il tuo battesimo, piccolo mio. Che mossa straordinaria, questo preludio, che tocco: in una società di numeri, di posti in fila, di codici a barre, di password, di nickname. Il tuo nome. E così dovremo chiamarti e così apprezzarti e così conoscerti e mai far finta di niente e guai a metterti nel mucchio: ficcarci bene in testa chi sei tu, che cosa sei tu, e no, scusa, m'ero sbagliato, t'avevo scambiato per un altro. E proprio qui, proprio adesso, giureremo di distinguerti, di guardarti negli occhi e mai girarti la faccia. Quel nome tua madre, tuo padre (domani la tua innamorata, chi lo sa) se lo stanno già incidendo come un sigillo sul cuore, quasi un tatuaggio che non si leva con niente. Così scrive il Cantico dei Cantici e così lo stiamo ripetendo noi, con le lacrime agli occhi. Il tuo nome scritto nella mano di Dio e abbandonino, bambino mio, non ci diventerai mai, e buttato lì da una parte coi videogiochi dalla mattina alla sera non ti ci lasceremo mai. Ora che ci sentono tutti, è il primo giuramento che ti facciamo.
 
Poi, rito rito, arriviamo all'effatà. E cos'è l'effatà? Effatà è un verbo aramaico all'imperativo: apriti, fatti largo, esci fuori. Insomma, vorremmo aprire la tua bocca e per assurdo pretendere che tu cominciassi a parlare adesso, qui, come nelle favole. Ci viene addosso il vangelo ed eccolo Gesù che si avvicina ai muti, eccolo che si fa largo tra i senza parola, eccolo accostarsi ai colpiti da ictus con la bocca storta e lui che gli spalma chissà che fango e chissà che intruglio e gli grida effatà, apriti, e quelli che cominciano ad articolare la mascella,  a incespicare, a sputare fra lingua e denti,  e poi una smorfia e piano piano una mezza parola e alla fine un mugugno di frase. Che miracolo la parola, che meraviglia poter parlare. Tu, amore mio, parlerai fra un anno-un anno e mezzo, man mano che matureranno le zone del tuo cervello: ma aspettando aspettando a noi ci prenderà l'ansia e proprio da quell'ansia oggi vorremmo partire mentre ti tocchiamo lievemente le labbra. Parla.
 
Parla, parla: questa è la nostra benedizione e la parola fiorirà nella tua bocca. Guarderai la gente negli occhi e
non ti chiuderai mai, non ti nasconderai, e mai ti metterai all'ultimo banco. Sarà il tuo vanto parlare e ridere e
gridare e farti sentire e dire la tua. E nessuno ti metterà sotto, e nessuno ti ridurrà al silenzio, e nessuno mai ti
chiuderà la bocca. E tu, soprattutto, tu di tua scelta, tu di testa tua, mai resterai in silenzio e mai farai scena
muta di fronte a nessuno dopo un sopruso, una vigliaccata o un tradimento. Ti ribellerai, alzerai la voce,  gliene dirai quattro. Coraggiosamente, sempre, con chiunque voglia fare il padreterno con te. Già ti vedo che ti esponi, ti fai avanti, ti presenti: senza paura di urlare in faccia a quei padroni, a quei dittatori a quei vigliacchi.
 
Effatà, amore mio: questo rito e questo sogno e questo augurio diventeranno realtà: sarà fatto, sarà compiuto,
sarà una grazia. Effatà, che verbo. Mentre lo pronuncio mi vengono i brividi. E siamo al cuore del battesimo, l'acqua. La faccio scorrere sulla tua testa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e la mia mano chissà che sia la fontanella giusta per te.
 
L'acqua è la vita: sei stato immerso nell'acqua di tua madre per nove mesi e oggi la vai cercando fra di noi,
l'acqua: che azzardo, e va bè: provaci. Prendila e immergiti quanto vuoi nell'acqua che ti offriamo: chissà che
non tu non guarisca dai graffi che t'hanno lasciato le generazioni precedenti e che tu sia migliore dei tuoi
antenati. Migliore? Te lo auguro, ma lo sarai soltanto se conserverai una sete quotidiana, se non ti contenterai
di bere a un'unica fontana, se cercherai di bere da tutte le parti. Un assetato perenne, ecco come ti sogno. Mai sazio, mai soddisfatto, sempre alla ricerca di un'oasi successiva. È un pozzo senza fondo, l'acqua del battesimo.
 
Ma ancora non basta. Al centro della chiesa don Filippo ha piantato il grande cero acceso nella notte di
Pasqua. Una specie di faro che domina la comunità e la veglia notte e giorno. Viscardo, per favore, resta qui
anche questa notte; ma certo, dove vado, ancora la sento la voce di mio padre in ospedale. Ti accorgerai presto che vuol dire restare al buio, e che disperazione non trovare chi ti faccia luce sul pasticcio in cui ti sei
cacciato. Si farà giorno quando finalmente troverai qualcuno che ti libera da quella dipendenza, uno che ti
costringe a riflettere, uno che ti strilla “ripensaci” e poi ti strattona, dai, vieni via verso l'uscita di sicurezza.
Eccola la candelina che il tuo padrino di battesimo va ad accendere dal cero: sembra un faretto sul casco da
minatore per uscire dal tunnel.
 
Una conquista: vorremmo che la tua vita avesse sempre un traguardo più in là, che fosse una candidatura
perenne all'oscar, che diventasse una continua presa di responsabilità. La madrina ti infila la veste candida: la
tunica bianca che i pretendenti a una carica politica indossavano alla vigilia. I candidati: perché fosse chiaro
a tutti che erano senza macchia, che non avevano addosso ombra di sospetti e non si portavano dietro tracce
di precedenti. Candidato alla vita. Te ne accorgerai, piccolo mio, che fiatone e che faticaccia è la vita, ma vale la pena correrla. Mai imboscarti, mai arrenderti e mai tirare indietro la gamba: ti vogliamo a testa alta e con un cuore grande così. Conta su Dio e sulle tue forze, ma non ti avvilire subito e non ti squalificare da solo e, per favore, metti ogni giorno l'asticella un centimetro più in alto.
 
Siamo alle benedizioni finali. Ora il tuo battesimo è completo e non ci resta che festeggiare. La strada è
aperta: che sia lunga e felice.
Ciao, fatti grande.
 
                                                                                                          (Viscardo Lauro)
 
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Religione

IL BATTESIMO, E POI LA VITA...

Sempre potente e sempre stimolante, la riflessione di Viscardo. Anche se personalmente non condividiamo l’auspicio di superare il tradizionale “registro del battesimo”, che davvero non fa male a nessuno e anzi può avere una sua utilità pratica nel futuro del bambino pur senza riguardare il sacramento del battesimo in quanto tale, vi proponiamo la periodica meditazione interessantissima del nostro autore.
 
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Una promessa, quasi un giuramento: il battesimo di un bambino ci prende in parola.
 
Un po' di nostalgia ce l'ho, inutile negarlo. Sto parlando del battesimo di una volta, il battesimo in casa,
proprio lì dove tra i mille dolori di mamma la levatrice mi aveva tirato fuori. I fiocchi, i cuscini, le brocche di
acqua calda, il parroco con la sua piccola attrezzatura, alla fine biscottini e rosolio. Tutti lì, mamma, papà, il
compare, la comare, le vecchie zie, i parenti più stretti, nel calore affettuoso e un po' stantio delle osservanze
religiose. Nessun problema, niente domande, tutto procedeva da solo. La religione l'avrei assorbita piano
piano a piccoli sorsi e senza complicazioni.
 
Nostalgia? Di che, nostalgia? Ma, non so dirti, forse perché il battesimo di un bambino io continuo a sentirlo e ad amarlo solo se è una stretta, un abbraccio forte e uno sguardo intenso. Insomma, qualcosa di unico. A certi battesimi tirati via mi viene voglia di uscire.
 
Un bambino, te lo ripeto, e non ti annoiare, un bambino non è solo un regalo, la sua nascita non è solo una
festa e la sua apparizione fra noi non è soltanto un respiro in più, quasi che tutta casa avesse riaperto le
finestre e… ah! che aria nuova. No, no: quel lieto evento, come lo chiamano, è di più, è molto di più, è un mondo a sé, eppure, lì per lì, tutti presi e tutti euforici, non ci pensiamo.
 
Un bambino chiede, esige, pretende. Si pianta proprio nel mezzo della nostra vita e ci costringe (silenzioso o a furia di strilli) a un'attenzione, a una presa in carico, a uno scombinamento di piani tale che ci scordiamo tutto, rimandiamo tutto, e le cose che ci piacevano ieri le faremo più in là. Un ribaltone. Cose terra terra, ma proprio lì dentro c'è il battesimo come lo intendo io.
 
Quel giorno, quel rito, quella mezzoretta, rappresenta, almeno per me, una parola solenne, una promessa
dichiarata, stavo per dire un giuramento. Proprio così: il pronunciamiento (alla maniera dei sudamericani),  una specie di golpe che… noi ci compatteremo attorno a te, che… per noi tu sarai davvero importante, e che… tutti tutti, quelli che ci vedi qui stamattina, ci daremo da fare per te. Ti pare poco?
 
Ecco perché lascio perdere le nostalgie e mi scordo il battesimo di una volta, tutto intimità, quasi una religione in scatola. Presto quel bambino si affaccerà su un mondo intricato, dovrà sbrigarsela in una rete complicata, sarà chiamato a rispondere a domande troppo più grandi di lui. Ti rendi conto allora che il clan famigliare e quel calore così necessario, così decisivo, così indispensabile nei primi anni, poco alla volta non sarà più sufficiente, non arriverà a tutto, non coprirà tutti i suoi bisogni? Una ragnatela fitta fitta che egli troverà (si spera) fuori di casa per avvolgerlo, rassicurarlo, guidarlo.
 
Un battesimo è quindi un rito pubblico, celebrato in una chiesa aperta in faccia al mondo perché nessuno possa dire un domani io che c'entro? e nessuno mai tradisca la parola data.
 
“Viscardo, sono la tua figlioccia, è un anno ormai che ci siamo persi, ho bisogno di te”. “Eccomi, corro,  amore mio”. La mail si è appena accesa sullo schermo e già prendo in mano le chiavi della macchina.
 
Ho appena iniziato a celebrare il battesimo (mio Dio, quanti ne ho celebrati in vita mia?) nel nome del Padre
del Figlio dello Spirito Santo… e San Rocco si è accesa. Questa piccola chiesa del centro di Roma sembra fatta apposta. San Rocco una delle tante chiese dei fiumaroli, nasce come cappella di ospedale e la sezione
femminile diventa quasi subito reparto di ostetricia. Fine 1.500: tutta Roma si mobilita a favore dei più sfortunati. Sono i giovani che si organizzano in Confraternite, si danno la voce, chiedono sostegno, e sulle rive del Tevere nascono gli ospedali dei poveri. La confraternita della riva piccola, Ripetta come la chiamano i romani, ha mandato in giro alle donne di Roma un messaggio straordinario e modernissimo: se partorite un bambino e non avete intenzione di tenervelo, non lasciatelo sugli scalini delle chiese e non andate neanche dall'altra parte del fiume a ficcarlo nella ruota di Santo Spirito. Venite da noi. Vi faremo partorire tranquille in un letto e nessuno potrà mai conoscere il vostro nome. Avrete tutta l'assistenza necessaria e, dopo il parto, al bambino, se volete, penseremo noi. Nasce l'ospedale delle velate, le madri che non potranno mai essere identificate. Addirittura, se il parto dovesse andar male sarà garantita perfino una sepoltura gratuita e segreta in un angolo di piazza del Popolo, a due passi. Pensa tu dove sto celebrando il battesimo.
 
Per dire…. Senza una comunità che si rimbocca le maniche non esiste battesimo. E solo a questo punto sono in grado di rispondere a quelle domande pressanti che mi facevi la volta scorsa. Perché battezzare un bambino? Perché, senza che lui se ne renda conto? Perché non aspettare il suo consenso? Perché addirittura iscriverlo nel registro di una chiesa? Perché?... Hai ragione, intanto quel registro lo toglierei di mezzo perché il battesimo di un bambino non è l'affiliazione a una confessione religiosa. Il concilio anche da questo peso ci avrebbe liberato: ma siamo così lenti ad applicarlo… dài, Papa Francesco, accelera.
 
Però, ancora una volta, qui dovrei fermarmi perché la questione si fa complicata e prima di continuare
dovremmo metterci d'accordo su termini e vocaboli. Cos'è una religione? Che significa? Che posto prende, o dovrebbe prendere, una religione, all'interno, certe volte nel cuore stesso, di una società moderna?
 
La religione, ieri, oggi, e forse domani, non risponde solo a un bisogno personale. Non è soltanto un angolo
della mia struttura mentale (semplifico, lo so), quella parte di cervello che pretende un sogno e uno sguardo al di la delle cose che si toccano e dei giorni che passano. Poesia, cinema, pensieri amorosi, musica, fantasie, e lo stesso sogno religioso (permettimi di chiamarlo così) sono pane necessario e io lo chiedo mattina e sera, se no… andrei ai pazzi. Ma c'è di più.
 
Io non sono solo, io non vivo da solo, io non me la posso vedere da solo. Mi giro e m'accorgo che tutto un
popolo, un parentame, un'etnia, un clan, si trova unito e sorretto da convinzioni, tradizioni, devozioni, credenze, che s'impastano con le cure e gli impegni della mia e della loro vita. La religione la penso come una spinta superiore che ci trascina, e tutti siamo affezionati e grati a quelle credenze e a quelle figure e a quelle usanze e a quei riti che ci ricordano, ci rafforzano, e spesso ci spingono, alle cose migliori. La religione è uno dei legami forti e stretti che compatta una tribù, una famiglia, addirittura una società. Una grande idea che circonda e vincola un gruppo umano, a volte così strettamente da diventare una difesa e certe volte purtroppo uno strumento di aggressione. Una forza inarrestabile che ha bisogno di istituzioni, di guide, di solchi, di argini: se no, come tutte le passioni, si fa pericolosa e distruttiva. Proprio come la politica e lo sport.
 
Un bambino nasce in quel bacino, in quel golfo e in quel letto caldo. Per ora la religione vissuta dai genitori
sarà per lui l'espressione di una cura, di una veglia e di un tetto che giura di non crollare mai. Immaginazioni,
racconti, simboli, modi di dire, tutto si mescolerà nella fantasia del mio bambino e tutto farà corpo con le
usanze e le attenzioni di casa. Dio, Gesù, la Madonnina, il Papa, Natale, Pasqua, i morti, saranno tutt'uno a come si mangia, come si sta a tavola, come si rispettano i nonni, come ci si lava e ci si veste. È un clima, un lessico, un certo tipo di odori e di sapori, che non dimenticherà più. Non dovremo meravigliarci se Gesù Bambino non sarà poi tanto distinto dai cartoni che lo appassionano in tv. Parlerà, gattonerà, correrà, e insieme ci sarà Biancaneve e l'albero di Natale, le grandi feste e Peter Pan, le preghiere brevi e i mostri di Walt Disney, la scoperta della chiesa e i suoi miti infantili: tutto diventerà uno spicchio di anima perché a lui arrivi rassicurazione, custodia, trasmissione di cose belle e di figure importanti. Se saremo accorti, se sapremo scegliere bene, se lui resterà il nostro pensiero, anche la religione gli assicurerà la buona salute della mente che gli sta maturando dentro.
 
Non è ancora sua la religione, non fa ancora parte delle sue decisioni, perché solo più tardi la corteccia
cerebrale gli permetterà i primi ragionamenti e solo più in là gli si affaccerà il senso critico: una progressione
inarrestabile:  sei, dieci, quindici, diciotto anni… E proprio le soglie della maturità potrebbero essere gli anni della sua cresima, quando esprimerà la sua adesione convinta, perché solo allora scoppierà la consapevolezza, la capacità di discussione e la scelta dei valori forti. Sarà così in grado di una professione di fede personale. Ecco perché è sbagliata la cresima a dieci o a tredici anni: ho speso i miei anni giovanili per questa causa, che per ora sembra persa.
 
Di cosa avete paura? Se un giorno quel ragazzo lascerà la religione domandatevi se per caso avete mancato a
interessarlo, se avete continuato con le devozioni e i catechismi ingenui e noiosi senza rispondere con
intelligenza ai suoi interrogativi e al suo dissenso. Forse sarà stata la nostra ignoranza, forse il nostro e il suo
disinteresse, chi lo sa, non certo il battesimo alla nascita: quello sì, fu un atto di amore. Spesso coloro che
rimandano il battesimo non faranno mai niente perché quel ragazzo conosca le religioni e ne apprezzi il valore.
                                                                                                                                

Anche stavolta, come vedi, mi sono fermato ai preliminari. Mi concedi un'altra stanza? Non ti ho ancora presentato le meraviglie e i simboli che il battesimo ci mette sotto gli occhi. Per oggi basta così.
 
                                                                                                    (Viscardo Lauro)
 
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MM

Politica

I PARTITI SONO STRUMENTI DELLA DEMOCRAZIA E DELLA SOCIETA' NON PROPRIETARI DELLE ISTITUZIONI NE' DELLA POLITICA


 
 Recita come segue, il nuovo comunicato di DemocraziaComunitaria:
 
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Viene mossa in questi giorni a DemocraziaComunitaria, da alcuni gruppi, anche amici,  la critica di aver annunciato che sosterrà il “sì” alla riduzione del numero dei parlamentari, su cui gli italiani sono chiamati a decidere attraverso referendum il prossimo 29 marzo. Anche nel mondo organizzato di ispirazione cristiana, dunque, a quanto pare, DemocraziaComunitaria… è quasi sola a sostenere il “sì”, contro una prevalenza di opinioni (a quanto pare) favorevoli al “no”.
 
Non solo questa relativa solitudine non ci scoraggia, ma ci invita a tornare ancora una volta a rimeditare e riapprofondire (va fatto sempre e per tutti i problemi e da parte di tutti) il perché della nostra scelta. In questa sede peraltro non replicheremo alle ragioni di nessuno dei gruppi citati, in quanto la nostra posizione, attenta alla costruzione di quello che da anni chiamiamo “Stato snello” per realizzare con coerenza ed efficienza il dettato della carta costituzionale italiana nel ventunesimo secolo e lo spirito dei suoi padri costituenti, è espressa da anni nei nostri documenti, che ne esplicitano continuativamente tutte le ragioni di lunga gittata, giuridiche, politiche, culturali e morali, al di là delle contingenti maggioranze di governo. Confermiamo dunque con semplicità e convinzione, semplicemente, il nostro “sì” alla riduzione del numero dei parlamentari.
 
Nello stesso tempo, confermiamo anche la necessità di una riforma elettorale che restituisca ai cittadini italiani il diritto di scegliere effettivamente e direttamente tutti i loro parlamentari, deputati e senatori, attraverso il criterio democratico del “collegio uninominale secco”. Ribadendo ancora una volta che i partiti politici, secondo la costituzione italiana e lo spirito dei padri costituenti, e secondo la nostra tradizione valoriale personalista di ispirazione cristiana, non sono affatto gli affidatari della politica italiana, e men che meno ne sono i proprietari, ma sono semplicemente, e devono essere fortemente, degli strumenti attraverso i quali la democrazia viene aiutata a realizzare due fondamentali suoi obiettivi:
 
a. aiutare i cittadini medesimi a identificare  e impegnare meglio personalità, orientamento, programma, rifermenti valoriali e culturali, dei singoli candidati;
 
b. costituire per il paese, in vista dei momenti elettorali ma, non meno, nel quotidiano svolgersi della vita istituzionale, sociale, civile, economica, culturale, soggetti attivi e permanenti di formazione della coscienza dei cittadini e di servizio alle loro istanze, di rappresentanza delle loro posizioni, di vigilanza su tutti i comportamenti istituzionali, e ben radicati nel territorio: insomma, appunto, strumenti vivi della società democratica e pluralista, vere comunità di elaborazione politica, mai proprietari e gestori oligarchici della democrazia. Riassumiano, dunque: democrazia è scegliere persone, non scegliere partiti. Che queste persone facciano riferimento a partiti o siano candidate da partiti è qualificante ma non essenziale.
 
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MM

Racconti di vita

Piccola storia di cura del creato

Abbiamo conservato questo piccolo “racconto di vita” dal 2011, quando pervenne alla giuria di un concorso che chiedeva appunto “racconti di vita”; non potè essere premiato, questo piccolo racconto inviatoci da una signora di Vercelli, per via di alcune caratteristiche anche formali che gli scritti partecipanti dovevano osservare, ma è rimasto ben custodito fin da allora nei nostri cassetti: è una bella piccola storia di umanità, di quella umanità che sa anche prendersi cura del creato con armonia e amore; e perciò non può, alla lunga, non essere raccontata.
 
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Era un giorno caldo, profumato, di molti anni fa, che prometteva una bella settimana agli anziani arrivati da tutta Italia al Villaggio di Alimini.
 
Non sapevo ancora che qualcosa sarebbe cambiato nella mia vita e nella mia famiglia, che qualcuno di nuovo avrebbe fatto parte di noi.
 
Comparve un pomeriggio, all’improvviso, di corsa, con in bocca una pallina: era un cuccioletto di pelo bianco e irto, con macchie color arancio sulle orecchie pendenti, un grosso naso tondo e due occhi dolcissimi.
 
Scoprimmo poi, a casa, essere uno spinone italiano di un anno, sano e molto bello ma, purtroppo, decisamente sottopeso, trascurato e con il terrore dei maltrattamenti subiti fino ad allora.
 
Per quindici anni la mia famiglia aveva preso, da allora, a tornare a Vercelli dalla montagna per trascorrere con lui il Capodanno affinché non soffrisse in solitudine il baccano dei fuochi di fine anno.
 
Così non sarà per il 2011 perché, purtroppo, Valtur ci ha lasciati nell’ottobre del 2010.
 
Non ricordo bene, ancora adesso, come scoppiò il nostro amore, ma so con certezza che lui mi scelse subito tra centinaia di persone.
 
Era carino con tutti, accettava carezze e “grattini”, si vendeva per un pezzo di pane (cosa che fece per anni) poi, alla sera, spariva e scoprimmo solo dopo che nel suo rifugio aveva decine di palline da golf, cercate inutilmente dai ragazzi del villaggio.
 
Era sempre stato maltrattato, abbandonato, legato per molto tempo, e avrebbe dovuto raggiungere, da lì a pochi giorni, l’inceneritore di Ostuni.
 
Fu allora che non mi posi neppure la domanda di cosa fare, quel cane era mio, lui mi guardò con quegli occhi umidi e ci capimmo all’istante; chiesi di tenerlo ed occuparmene. Sembrava tutto sistemato quando, all’improvviso, scomparve.
 
Scomparve così, all’improvviso, e mi ero rassegnata a perderlo in quanto mancavano solo due giorni alla partenza, quando si ripresentò davanti alla mia camera.
 

Leccate, lacrime, abbracci e carezze e poco dopo, aiutata dagli amici di Trento, gli facemmo un profumatissimo bagno, sponsorizzato da Valtur,  che era la compagnia turistica con la quale viaggiavamo, e fu allora che gli dissi: “”Questo sarà il tuo nuovo nome: Valtur”.
 
E’ stato un cane bravo, divertente, sembrava non invecchiare mai, aveva una copertina che negli anni era diventata come un fazzoletto che non abbandonava.
 
Non capì mai come funzionavano i comandi, era un autodidatta, tutto il cortile, i vasi, le auto, erano un suo terreno per fare pipì; non andò neppure tanto d’accordo con il pastore tedesco, ma correva dietro al mio adorato gatto Pepe; e, così, ci recammo al canile e gli mettemmo insieme Ferdi, cucciolotto di razza sconosciuta.
 
Valtur lo prese in consegna: lo educava, lo faceva giocare quotidianamente, si faceva fare tutto da lui insegnandogli anche (questa volta) che un cane perbene non fa pipì ovunque. Poi, all’improvviso, si spense. Io avevo cominciato a pensare che Valtur fosse eterno ma a un certo punto mi resi conto che dimagriva e invecchiava ogni giorno di più.
 
Purtroppo era arrivato il giorno di salutarci, ma prima di farlo, accarezzando il suo corpo ormai scheletrico volevo sentisse quello che non gli avevo mai detto: “Valtur, sei stato un grande cane “ !
 
Ci eravamo incontrati lontano, nel verde di Alimini, e alla fine gli ho trovato un angolino nel nostro giardino ben esposto al sole; sopra, non so come, è cresciuta una ridente piantina di camomilla.
 
Io e Ferdi lo salutiamo tutti i giorni passandogli vicino, consapevoli che lui è tornato sano, bello, giovane e, sempre di corsa, con la sua pallina in bocca …. mi aspetta !!!
 

                                                                                                          (Daniela Balbiano)
 
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MM
 
 
 
 
 
 

Democrazia Comunitaria

IL NUMERO DEI PARLAMENTARI VA RIDOTTO: E' ESIGENZA DI EFFICIENZA OLTRE CHE DI COSTI

E' sempre bene distinguere con chiarezza i problemi contingenti da quelli strutturali, le prospettive di breve periodo dalle esigenze di lungo. Crescentemente ci sono stati proposti in questi anni quesiti relativi alla possibile "modernizzazione" della nostra meravigliosa costituzionie della repubblica italiana, davvero la più bella del mondo. Ci siamo sempre opposti a qualsiasi modifica, ma precisando in materia un criterio di riferimento che pochissimi mostrano di conoscere: la intangibilità della costituzione, nel pensiero e nei valori solidissimi dei nostri padri costituenti, riguarda la prima parte della costituzione stessa, cioè quella dei principi e valori, e dell'assetto strutturale dello Stato, non riguarda le tecnicalità della seconda parte, a proposito della quale anzi gli stessi padri costituenti erano consapevoli della probabile futura esigenza di adeguamenti in conseguenza del prevedibile evolversi delle condizioni del paese. Questo è il caso che riguarda l'abnorme numero attuale dei componenti il parlamento italiano. La proposta di ridurre tale numero è stata avanzata da molto tempo da studiosi di diversi orientamenti, proprio come fattore di efficienza tecnica e perfezionamento della rappresentanza, oltre che come economia di costi: oggi una tale proposta è stata formulata dalla maggioranza di governo in carica, che non brilla per lungimiranza nè di metodo nè di contenuti della sua azione, e che infatti ha affrontato il problema con la superficialità e la supponenza che la caratterizzano, mentre ben diversa avrebbe dovuto essere l'apertura di un dibattito di lunga gittata in tutto il paese e fra tutte le forza politiche. Resta però evidente che la riduzione del numero dei componenti l'attuale parlamento nazionale italiano è doverosa per ragioni profonde, di lunga gittata, attinenti alla efficientizzazione sia della rappresentanza sia dei costi del parlamento. Così, mi è parso alla fine indispensabile confermare agli amici che mi hanno posto il quesito un ragionamento di sintesi che in documenti pregressi era già stato sviluppato con più ampia e documentata estensione.

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Davanti al crescere di differenziazioni di posizione anche fra gruppi e movimenti di cattolici impegnati in politica, DemocraziaComunitaria conferma la posizione sempre espressa a favore di una ragionata e ragionevole riduzione del numero attuale dei parlamentari nazionali.
 
Si tratta di una posizione non motivata in effetti dal dibattito pro o contro l’attuale maggioranza di governo, bensì di un convincimento antico, che trova piena ed organica illustrazione, più specificamente,  nel capitolo intitolato alla esigenza di “Stato snello” contenuto nei documenti fondativi elaborati fin dal 2013 insieme al più vasto movimento di amici che intorno a Gianni Fontana hanno operato per una piena rivitalizzazione e attuazione, in chiave di ventunesimo secolo, dei valori politici, culturali  ed etici riconducibili allo spirito dei padri costituenti e fondatori della nostra Repubblica, non solo cattolici.
 
Come abbiamo più volte ricordato, l’Italia repubblicana, alla sua fondazione, decise molto saggiamente ed opportunamente una composizione particolarmente vasta ed articolata del suo parlamento in quanto si trattava di avviare e consolidare inequivocabilmente la esperienza di democrazia a carattere universale e popolare che il paese aveva scelto, e per la quale era necessario che tutte le espressioni territoriali, culturali, sociali, economiche e storiche del paese, fino allora il più delle volte reciprocamente sconosciute, si incontrassero e si integrassero – per la prima volta nella storia del paese – in un “luogo di rappresentanza e di elaborazione nazionale” compiuta ed armonica.
 

Con tali modalità e spirito il parlamento italiano  ha operato egregiamente lungo i primi decenni della vita repubblicana, adempiendo magnificamente alla sua missione. Ebbene, questo tempo storico è oggi superato – lo è almeno dall’aprirsi del ventunesimo secolo – e va riassorbito in una visione che, proprio per rispettare lo spirito della Costituzione repubblicana e dei padri costituenti, consenta alla massima istituzione di rappresentanza e di decisione nel paese un ruolo ed un operato efficienti e coerenti secondo quei medesimi valori.  
 
A chi – a nostro avviso del tutto infondatamente - sottolinea in particolare che la diminuzione del numero dei parlamentari diminuirebbe la rappresentatività e la rappresentanza del parlamento, rispondiamo che si tratta di affermazione, fra l’altro, contraddetta vistosamente da tutte le esperienze democratiche e rappresentative del mondo. Per citare un solo esempio, la Camera dei Rappresentanti negli Stati Uniti – paese che conta una popolazione sostanzialmente tripla rispetto  a quella italiana - è composta di 478 membri contro i nostri 630 deputati: e non ci sembra che essa rappresenti il popolo americano meno di quanto la nostra camera dei deputati rappresenti il popolo italiano. E’ infatti problema di cultura della democrazia e di modelli tecnici e valoriali di operatività, non di numero dei rappresentanti.
 
Non è irrilevante inoltre la evidenza del fatto che la pletora numerica dei parlamentari non solo non ha diminuito in nulla, ma anzi ha aggravato, la ipertrofia malata e incontrollata della legislazione più elefantiaca, affastellata e confusa del mondo avanzato, quale è proprio quella italiana.  Si obietta a volte, a questo proposito, che si tratterebbe di problema riguardante piuttosto  il modo di lavorare di commissioni e comitati e uffici parlamentari: ma è evidente che il sovraffollamento delle aule parlamentari non è riuscito neppure a risolvere questo semplice problema tecnico dei suoi uffici operativi, cosa che avrebbe dovuto senz’altro fare se il suo pletorico numero fosse, appunto, fattore di efficienza e di garanzia.
 
Si obietta ancora, per altro verso, che una diminuzione del numero dei parlamentari impoverirebbe la condivisione vasta dei processi legislativi: senonchè è davanti agli occhi di tutti il fenomeno della grave e frequente deresponsabilizzazione dei singoli parlamentari, spesso addirittura inconsapevoli del merito pieno di quanto sono chiamati a votare nelle aule e limitantisi a seguire più o meno passivamente le indicazioni di voto dei rispettivi capigruppo, quando non a occuparsi improvvidamente e impropriamente di normazione amministrativa piuttosto che di legiferazione.
 
Si è ironizzato, ancora, sul punto che “appena” cinquanta milioni di euro verrebbero risparmiati sul costo attuale del parlamento a seguito della proposta riduzione dai circa mille componenti ai circa seicento previsti. Rileviamo semplicemente che alla “diligenza del buon padre di famiglia” non possono essere certo indifferenti cinquanta milioni di euro in un paese nel quale ancora ci sono cittadini senza lavoro o senza casa o nella impossibilità di acquistare medicine oltre un certo costo. Senza contare il grande valore morale di un contenimento di costi sia pur “simbolico” (sic!) come questo.
 
Da ultimo, DemocraziaComunitaria rileva che lo snellimento del numero dei componenti il parlamento nazionale non basta certo a snellire ed efficientizzare lo Stato e la sua rappresentanza e rappresentatività democratica: occorre anche restituire agli italiani il diritto, sottratto loro dalle normative elettorali degli anni recenti, di eleggere le persone dei parlamentari e non semplicemente le liste formulate dalle oligarchie dei partiti. Questa è stato infatti un autentico tradimento della democrazia, che va non meno sanato.
 
Lo snellimento numerico dei componenti il parlamento, il ritorno a un voto diretto dei cittadini sui candidati al parlamento stesso, un graduale processo di unificazione tendenziale dei due rami del parlamento verso una futura e compiuta unicameralità, e il superamento dell’istituto dei “senatori a vita”, sono passi graduali ma coerentissimi e significativi verso la possibilità di attuare effettivamente, nel ventunesimo secolo, lo spirito valoriale della costituzione repubblicana, realizzando un parlamento nazionale semplicemente e pienamente democratico e pluralista fondato sulla responsabilità delle persone. 
 
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MM

Economia e lavoro

DIVIDENDO SI MOLTIPLICA

Il diritto al lavoro. Diritto, non facoltà, non legittima aspettativa. Diritto e anche dovere. Così fondamentali che la costituzioe italiana fonda su di essi la repubblica e la sua vita. I padri costituenti avevano ben presente questo valore della impostazione costituzionale. Eppure, dopo oltre settant'anni di vita costituzionale, questo principio resta inattuato e tutti i governi di fatto continuano a muoversi come se si trattasse soltanto di fare una politica più incentivante o meno incentivante in materia di occuapzione. Noi torniamo a dire dell'assurdità morale e tecnica di tale inattuazione. L'articolo che qui pubblichiamo risale al 2017 e fu scritto per essere pubblicato in altra sede e in diverso contesto, ma mantiene del tutto intatta la sua validità. E lo riproponiamo.
 
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Molti anni orsono, predisponendo un grande convegno sindacale sui problemi del lavoro, e incaricato di coniare uno slogan, mi era venuto in mente un concetto del quale tuttora sono convintissimo; diceva: Diritto al lavoro “è” diritto alla vita. Era un modo diverso di ripetere che il diritto al lavoro è un diritto assoluto di ogni persona in quanto senza l’attuazione di questo diritto la persona perde la sua dignità e nessun altro discorso di democrazia e di sviluppo può essere fatto. E continuavo affermando che oggi è ampiamente dimostrato come l’attuazione di questo diritto è del tutto possibile e addirittura facile, se si parte dal concetto di redistribuire davvero le opportunità di occupazione e la ricchezza. E’ dimostrato da esempi concreti in paesi concreti, oltre che dalla semplice razionale analisi dei dati della economia.
 
A volte mi hanno replicato: “Questa è una tua fisima di cattolico sociale”. Ma io osservo facilmente che parole sostanzialmente uguali alle mie sono state usate, ad esempio, dal grande padre costituente Piero Calamandrei, che non era né cattolico né “democristiano” come me, ma laico e socialdemocratico; e ricordo il grande Federico Caffè con la sua teoria dello Stato come “occupatore di ultima istanza”: non era cattolico né democristiano, neanche lui; e ricordo, soprattutto, che il grandissimo industriale (quindi non operaio, non “lavoratore qualunque”, e neppure cattolico ma ebreo) Adriano Olivetti, diceva che il vertice dell’azienda, cioè egli stesso, era giusto che non guadagnasse più di cinque volte il suo dipendente operaio. Cinque volte… Lo corresse l’allora amministratore delegato della Fiat, Valletta, il quale sostenne che sarebbe stato più giusto un divario da uno a dieci. Sarei d’accordissimo! Anche da uno a venti! Ma pensate agli amministratori delegati e presidenti di grandi aziende pubbliche e private tipo Fiat, Finmeccanica, o grandi banche, che pongono fra sé e il loro operaio un divario di uno a diverse centinaia di volte! Come possono mai capirsi ed avere la stessa idea dello sviluppo umano e sociale, della giustizia, delle opportunità, della democrazia, l’amministratore delegato della Fiat (con rispetto per le sue probabili generiche buone intenzioni) e il suo operaio della stessa Fiat? Un ragionamento del tutto analogo a quello dei citati Calamandrei o Caffè lo faceva, in altro contesto, il grande economista Francesco Forte, docente all’Università di Torino, e, anche lui, non cattolico né democristiano, ma laico e socialista, quando parlando d’impresa spiegava la saggezza lungimirante del criterio del “profitto fino a un certo limite”.
 
Ma noi, in concreto, cosa possiamo fare? Beh, intanto cominciamo a… non far finta che non possiamo farci nulla. Fra i tanti uffici, forse non tutti indispensabili allo stesso modo, di cui ogni comune e ogni regione, oltre allo Stato, sono dotati, c’è senz’altro ampio spazio, senza spendere neppure un centesimo, per un ufficio che si occupi a tempo pieno di ricercare davvero, e far attivamente incontrare, nel rispettivo territorio, tutte le offerte di lavoro e tutte le domande di lavoro: il primo passo è conoscere le opportunità e guardarsi in faccia, fra domandante e offerente. Poi, a seguire, si apprende la seconda fase del cammino: quella del “costruire” lavoro. Mai, comunque, restare con le mani in mano: che è un triste spettacolo cui ci fanno assistere troppi comuni e regioni e lo stesso Stato con l’insipiente scusa del “non ci sono soldi” o accontentandosi di costruire qualche condizione che “favorisca” il sorgere di occupazione. Nelle economie capaci di sviluppo si osserva costantemente, fra l’altro, che il lavoro non nasce dalla previa disponibilità di “molti” soldi ma sono questi a venir generati dalla capacità di mettere in movimento talenti e risorse presenti nella comunità. Esperienze vissute non a migliaia, ma a decine di migliaia.
 
La trasformiamo in slogan? Eccovelo: “Dividendo si moltiplica!”.
 
Non è la formula adottata dalla Fiat, che è azienda privata, ma non è neppure la formula adottata dalla Rai, che è azienda pubblica, quando ha offerto il suo contratto milionario a Fabio Fazio: a parte la valutazione dei contenuti culturali offerti dalla trasmissione di Fabio Fazio, che sono nella ragionevole e a volte discutibile media delle cose fatte dalla Rai, l’unico criterio usato è stato, a quanto si è potuto capire, quello della “audience” e del timore che la concorrenza scippasse il personaggio: ancora una volta. Ho sempre suggerito che, se il problema è l’”audience”, tanto varrebbe aprire in Rai una organizzatissima casa-mercato d’appuntamenti galanti, che certamente avrebbe successo strepitoso di “audience”. Che se invece il criterio è, come deve essere, quello per il quale formalmente la legge ci chiede di pagare un canone, cioè la informazione  e formazione culturale dei cittadini, di cui lo Stato è custode, beh…. con il contratto offerto a Fazio si sarebbe potuto realizzare il diritto al lavoro per tante decine di cittadini italiani che non lo hanno, senza perdere nulla, ma davvero nulla, della qualità dei programmi Rai: anzi… Lo Stato, insomma, usa il criterio opposto a quello da noi suggerito: Moltiplicando (gli emolumenti) si divide (la giustizia distributiva).
 
E il nostro paese resta purtroppo drammaticamente diviso.
                                                                                                                            
                                                                                                               Giuseppe Ecca
(Testo originale del 2017)
 
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Prospettive

ITALIANI, SU LA TESTA

Il titolo è di Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia Lombardia, che, pur critico spesso nei confronti delle vistose manchevolezze registrate soprattutto negli anni recenti dalla gestione del nostro paese, sottolinea il potenziale unico che, per aspetti diversi, l’Italia presenta nel mondo, pronto per il momento nel quale essa avrà una classe dirigente nuovamente degna di questo nome e del suo passato. Scrive dunque Colombo Clerici:
 
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Il nostro grande passato e’ il fondamento del nostro futuro. Su 125 Paesi, l’Italia, per l'Unesco, è primo Paese, insieme alla Cina, per patrimonio di beni culturali. E la difesa della lingua italiana è primo e fondamentale passo per salvaguardare e valorizzare tale identità culturale del nostro Paese. 
 
L'Italia e' l'unico Paese del mondo occidentale, fra quelli che vantano una ultramillenaria civiltà, che riesca ad influenzare ancora, a livello mondiale, la cultura contemporanea.
 

I campi nei quali si esplica la nostra sfera di influenza sono molteplici: letteratura, arti figurative, eleganza e stile (pensiamo all'automobilismo, alla sartoria e alla moda, alla gioielleria, all'architettura),  scienze naturali e mediche, tradizioni, cinema, musica, enogastronomia, sviluppo tecnologico.
 
Non trascuriamo il retaggio storico in campo monumentale, letterario, filosofico, musicale, artistico e le bellezze naturali e paesaggistiche. Dalla lista del patrimonio mondiale di 125 Paesi elaborata dall’Unesco risulta appunto che l’Italia è il Paese che detiene, a pari merito con la Cina, il maggiore patrimonio culturale del mondo, in termini di monumenti, musei, chiese, monasteri, palazzi e castelli, ma anche di beni paesaggistici. Seguono, ma a distanza,  Spagna, Francia, Germania.
 
In conclusione: la cultura italiana affonda le sue radici in un passato ultra bimillenario ed e' ancora vitale e determinante nel processo di formazione della cultura contemporanea. E studiando il passato riusciamo a comprendere e affrontare il futuro. Eravamo all'apice della presenza storica duemila e più anni fa e lo siamo tuttora.
 
Quella italiana peraltro e' la base della civilta' cristiana nel mondo occidentale. Per converso, la Chiesa ha sempre fortemente aiutato l' italianita' a  conservare la sua identita' al vertice storico mondiale.
 
Il più potente "collante" e "alveo" culturale che ha permesso questo prodigioso risultato e' stata la lingua, che ha mantenuto una linea di continuita', pur nella evoluzione delle diverse epoche, ed e' stata un determinante fattore di identità. Essa e' quindi un prezioso patrimonio da salvaguardare dalla minaccia di contaminazioni sbagliate che possano provocarne il declino.
 
Oggi, per la prima volta nella nostra storia, gli italiani, per parlare anche tra loro, usano a volte l'inglese: si comincia con gli anglicismi e gli americanismi  dell'aziendalese e si finisce con il cercar di  parlare nella lingua di Shakespeare, Faulkner ed Hemingway  e non piu' in quella di Dante, Petrarca e Manzoni, evoluzione, sintesi e  sublimazione, quest’ultima, delle diverse lingue popolari in cui si sono sempre espresse le nostre comunita' locali. Questo e' il vero segnale di una possibile rottura con il passato e una minaccia alla continuità ed alla rilevanza della nostra cultura.
 
Quanto all'Unione Europea
, essa ci offre oggi non un'area culturale comune nella quale possa trovare espressione significativa anche la nostra cultura, ma solo un mercato comune di ordine economico. E questo aspetto, se non corretto, puo' essere solo il preludio di un appiattimento culturale molto negativo. Non era così all’inizio della storia della Comunità Europea.
 
Sintetizziamo ancora i quasi incredibili numeri del nostro patrimonio ambientale, culturale e artistico, secondo la scheda elaborata dal Cescat (Centro studi casa ambiente e territorio, di Assoedilizia):
 
- 100.000 chiese, cappelle, pievi, basiliche, cattedrali,  templi; 
 
- 2.400 castelli iscritti al catasto;
 
- 90.000 palazzi di rilevenza storico-artistico-monumentale, di cui 42.000 vincolati; 
 
- 250.000 vedute, belvederi, luoghi-paesaggio di particolare pregio; 
 
- 540 borghi storici, di cui 193 con meno di 2.000 abitanti;
 
- 35.000 ville;
 
- 3.000 musei;
 
- patrimonio arboreo di 12 miliardi di alberi (200 ogni abitante; 40.000 per chilometro quadrato);
 
- 24 parchi nazionali che coprono oltre 1,5 milioni di ettari tra terra e mare, pari al 5% del territorio nazionale;
 
-  6 milioni di ettari (pari al 20% del territorio nazionale) di aree sotto il controllo pubblico, tra coste, cime, terre e aree marine;
 
- 8.000 chilometri di coste con 171 porti turistici (105.000 ormeggi);
 
- 4.000 teatri
 
In tale contesto, permettete che riserviamo un cenno particolare alla nostra Lombardia.
 
La Lombardia si pone, per numero di abitanti, per capacità imprenditoriale e culturale, sullo stesso piano di Paesi quali Svezia, Belgio, Austria e Svizzera. Conta 1.500 associazioni, ed è prima regione al mondo nel volontariato, fattore di sviluppo morale, civile, sociale ed economico. Conta dodici università, 2.200 biblioteche, 330 musei ed altrettanti teatri, e mostre e fiere di valenza mondiale.
 
Le università producono e trasmettono conoscenza puntando ad uno sviluppo non solo economico ma anche di miglioramento della qualità del vivere. Possiamo, grazie ad esse, attirare ingegni – come fece la Milano del Rinascimento con Leonardo da Vinci – per rinvigorire questo momento di particolare rinascimento che sta vivendo la regione Lombardia e fare di esso punto di forza per un analogo rinascimento di tutta l’Italia
 

                                                                                                          (Achille Colombo Clerici)

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Internazionale

ITALIA POTENZA SCOMODA: ECCO COME CI HANNO DEINDUSTRIALIZZATO

Lo scritto che pubblichiamo risale al maggio 2017:Salvatore Clemente e Claudio Messora sintetizzano la posizione dell’economista Nino Galloni, figlio del grande Giovanni Galloni, già ministro della pubblica istruzione, parlamentare, e soprattutto uno dei più autorevoli e fidati collaboratori di Aldo Moro lungo gli anni della “prima repubblica” e della Democrazia Cristiana.
 
Nino Galloni non ha mai nascosto, nel suo parlare autorevolissimo per competenza, ma anche esplicito e a volte ruvido per libertà di analisi, gli antichi e non superati pericoli ai quali l’Italia ha dovuto far fronte anche nei confronti dei suoi alleati, per preservare nel dopoguerra la sua piena indipendenza e anche semplicemente per evitare di essere ridotta a mero strumento degli interessi planetari di tali alleati.
 
Non che il nostro paese sia antipatico ai suoi alleati: tutt’altro. Il fatto è che quando l’Italia riesce a mettere in sinergia i valori pieni della sua cultura, della sua capacità di pensiero e della sua creatività, si rivela potenza seconda a nessuno. E questo è, in certe dimensioni, temuto dagli stessi alleati.
 
Non ci spingiamo ad affermare che a Galloni non accada mai di eccedere nelle sue valutazioni critiche: ma affermiamo la certezza, che ci pare più volte comprovata, che di tali sue valutazioni critiche non si possa non tener conto se l’Italia  vuole decisamente tornare a essere nazione stabilmente centrale nel mondo per ruolo economico, culturale e spirituale.
 
Scrive Salvatore Clemente incontrando Nino Galloni:
 
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Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anni dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi. A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.
 
E’ la drammatica ricostruzione che Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato, fornisce a Claudio Messora per il blog “Byoblu”. All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, fin che potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco. Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. 
 
Nino Galloni: «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».
 
Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”. E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima». Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provveduto la strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.
 
Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
 
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».
 
Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici». E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.
 
Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni. Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».
 
Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».
 
Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della BCE di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanza pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.
 
Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.
 
Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti. «Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».
 
Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista. L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.
 
Prima, però, bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia. Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».
 
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Prima e dopo le sardine

NON BASTERA' "BELLA CIAO"

Giovanni Ghiselli è uno dei più autorevoli ed appassionati latinisti e classicisti in circolazione oggi in Italia. Una missione lunga nel mondo della scuola, ma anche una grande attività di conferenziere, di cui ho apprezzato più volte la straordinaria attualità. La recente riflessione che qui vi propongo va peraltro molto al di là della cultura classica e diventa una formidabile meditazione sulla vita e sui suoi valori.
 
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Bene fanno le sardine a cantare Bella ciao invece di canzoni melense o maestre di trasgressioni disordinate; ma ora dobbiamo identificare l’invasore o gli invasori: il capitalismo senza freni, il mercato e la finanza, l’ignoranza, la volgarità, la pubblicità, la licenza di uccidere.
 
Oggi leggo sul quotidiano “la Repubblica”, a pagina 20:
“Gaia e Camilla uccise sul colpo. Il ragazzo alla guida rischia l’arresto.
Pietro, genovese, positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti.
Patente già sospesa due mesi fa per eccesso di velocità e sorpassi azzardati”.
 
Ha compiuto un atto criminale, terroristico, e “rischia l’arresto”!
 
Questa è licenza di uccidere.
 
L’invasore è la morte, l’assassinio legalizzato.
 
Ricordo un episodio del luglio del 1974,  quando noi, trentenni di allora, avvertivamo il decadere di un ethos politico e civile che aveva acceso tante speranze qualche anno prima.
 
 
Quel pomeriggio di luglio, noi italiani superstiti della Debrecen ’66, prossimi alla soglia dei trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane: Bella Ciao, Bandiera Rossa, e altre del genere non ancora del tutto passato di moda, come i reduci di una guerra perduta: la nostra rivoluzione giovanile era invecchiata, senza lasciare ai ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi stessi eravamo variamente appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel volto e sul collo, mentre le mani erano percorse da grosse vene bluastre. Alcuni avevano perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri malamente ingrassati; insomma, noi eravamo diventati ormai gli “ospiti antichi” dell’Università estiva di Debrecen: così ci salutò il Rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e battezzati quali matricole otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi ventenni, poiché è  proprio vero che noi mortali siamo come le foglie.

Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale presentava personaggi ancora giovani eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi, anche se non degradati proprio del tutto, come sosteneva a gran voce il povero Bruno Pera, del resto non senza qualche ragione.
 
Si erano comunque già appesantiti gli arti di tutti noi e il sogno di realizzare presto su questa terra la giustizia, l’eguaglianza, il comunismo, o cristianesimo vero che fosse, perdeva forza, forma e colore nei nostri cervelli. La borghesia e il suo dio, il denaro, la mercificazione universale che riduce tutto a lucro, compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il sopravvento. Non riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali.  


Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. Ma questo devo raccontarlo più avanti.


Suonava  il pianoforte, e in veste di ierofante suggeriva i toni vocali al nostro coro di  confratelli e compagni comunisti delusi un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli orribili, inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge  enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti marci e dalle tumide labbra una lingua bovina, piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a un’opera d’arte: a un quadro di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.


In quel nostro cantare, così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista e dalle braccia della ragazza romana, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire di noia.


Avevamo appena finito di cantare "Bella ciao" con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante.
 
Post Scriptum:
 
Agli amici ancora vivi di quel giorno lontano suggerisco di non mollare come stavamo facendo allora. Oggi, dopo avere studiato, ho scalato la salita di San Luca in bicicletta, poi sono andato a mangiare insalata e tonno - senza pane - all’Arci di San Lazzaro.  Ero solo. Ho osservato delle bambine che giocavano rincorrendosi intorno ai tavoli, ridendo contente, e non ho potuto fare a meno di piangere pensando alla creatura che aspettavamo, la giovane donna dai capelli rossi e io, nel 1974, dopo quel mese di luglio.
 
Non sapevamo come fare. Io andai da lei ma non la incoraggiai a mettere al mondo la bambina, e lei abortì. E’ stato l’errore più grave della mia vita. Ma davvero in quegli anni era iniziata la decadenza morale che ci ha portato alla situazione attuale.
 
Ora la vita viene rifiutata, avvilita, rinnegata in mille modi.
 
Reagite a questo, sardine!
 
                                                                                                                                                                       (Giovanni Ghiselli)
 
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Lingua italiana

DALL'ASSESSORA AL WEBETE

Il linguista Paolo Pivetti, scrivendo su Il Messaggero di Sant’Antonio, ha avuto modo di chiarire un’altra delle sciocche insulsaggini linguistiche messe in circolazione da piccoli trogloditi culturali che pensano in questo modo di combattere una loro battaglia ideologica in difesa delle donne: è una battaglia che invece va combattuta con politiche e comportamenti attenti alla dignità concreta di ogni singola persona in quanto tale, non umiliata da bambinesche scempiataggini linguistiche distraenti. Abbiamo avuto modo in passato di spiegare che non avrebbe senso pensar di tutelare i diritti maschili affermando cose del tipo “il mio patrio è l’Italia”, “io appartengo al chieso cattolico”, “adesso distruggeremo questo barriero architettonico”, etc. Osserva Paolo Pivetti:
 
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Maria Elena Boschi, basandosi su un parere dell’Accademia della Crusca, precisa in un pubblico dibattito che lei è la ministra non il ministro. Laura Boldrini, dal canto suo, esige di essere definita la presidente, non il presidente della Camera. Ad entrambe sfugge che nei loro casi la forma maschile (il ministro, il presidente) ha un valore neutro, in quanto mette in primo piano il ruolo rispetto alla persona, e non suonerebbe per niente come discriminazione anti-femminile.
 
Poi c’è il caso drammatico del Comune di Roma sul quale i giornali, dovendo parlare della Raggi e della Muraro, si sbizzarriscono coniando femminili tipo la sindaca, l’assessora. Forse per una malintesa preoccupazione di “quote rosa” nel linguaggio quotidiano, si coniano inusuali neologismi e non si tiene conto del fatto che anche qui la forma apparentemente maschile (il sindacao, l’assessore) è corretta e preferibile, sia da un punto di vista istituzionale che linguistico. E poi, a proposito di forme maschili o femminili, quando mai si è sentito il bisogno di dare forma maschile a nomi femminili ormai consacrati dall’uso, come la guardia, la guida, la sentinella, La spia, eccetera, che indicano ruoli spesso occupati dai maschi?
 
Tra le novità linguistiche di questi tempi c’è dell’altro. Ci sono anche particolari divertenti. Enrico Mentana, direttore del Tg de La7 butta lì un webete per dare il giusto titolo agli autori di commenti stupidi sui social network, creando un ironico neologismo, sintesi di web + ebete, cioè l’ebete del web. E’ un meccanismo non nuovo e ben collaudato se pensiamo, tanto per fare un altro esempio, al videota di qualche decennio fa, sintesi di video + idiota. Divertenti libertà, queste, che la lingua ci permette, a patto che siano guidate dal gusto e dall’intelligenza.
 
                                                                                                                                        (Paolo Pivetti)
                                                                                                                               Il Messaggero di Sant’Antonio
 
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Ripresa politica dell'Italia

DALL'ALTO O DAL BASSO? MA NON C'ENTRA NULLA...

Ci scrive un amico che da molto tempo segue il lungo e non sempre lineare cammino verso la desiderata nascita di un nuovo soggetto politico di ispirazione cristiana da offrire alla politica italiana:
 
“Cari amici, nel corso dell’assemblea di Politica Insieme svoltasi lo scorso 30 novembre ho sentito dalla relazione del professor Stefano Zamagni che questa iniziativa è una esperienza nata dal basso, e in tal senso costituisce un fatto innovativo nella storia dei venticinque anni di diaspora dei cattolici in politica. Non so se ho capito bene tutto il ragionamento, perché non ho potuto partecipare per intero ai lavori, ero un curioso esterno quasi casuale, ma interessato: chiedo a voi se questa valutazione del professor Zamagni risponde al vero, perché in tal caso si tratterebbe effettivamente di una speranza nuova per il nostro paese, dopo tante delusioni di tanti capi e capetti politici autoinvestiti, anche cattolici. Cosa ne pensate voi?”.
 
Personalmente ne penso quanto segue: “Caro Antonello, non so se sia una esperienza dal basso o dall’alto: per capirlo dovrei riandare con la mente al suo già notevole cammino, ma francamente la cosa non mi interessa perché non ha, secondo me, nessuna importanza, ma proprio nessuna, per la valutazione di quanto questa speranza sia consistente e valida e buona per il futuro che aspiriamo a costruire nel nostro paese.
 
Vedi, nella storia umana, anche italiana, se tu la osservi attentamente, sono nate dal basso cose stupende e cose orride; e sono nate dall’alto cose orride e cose stupende. Dal basso sono nate feroci giustizie sommarie di masse imbestialite e meravigliosi movimenti di generosità collettiva. Dall’alto sono nate encicliche che guidano la storia buona del mondo (pensa alla Rerum Novarum) e governi illuminati o illuminatissimi, ma anche feroci dittature e brutali ingiustizie. E tantissimo altro, sempre, dal basso e dall’alto. E’ dunque del tutto insensato utilizzare la chiave valutativa “cosa che nasce dal basso è lodevole, cosa che nasce dall’alto è meno lodevole”.
 
Dobbiamo invece guardare alla oggettiva qualità, caratterizzazione, modalità concreta di azione, valorialità testimoniata, coinvolgimento effettivo delle persone, coerenza dei comportamenti, effetti, e così via. Dobbiamo insomma guardare la vita concreta delle iniziative, e gli accadimenti che ne sono effetto. Del fatto che partano dall’alto o dal basso, francamente, non ce ne frega proprio nulla. Chiediamoci solo: è buona iniziativa o è cattiva iniziativa, per come sta camminando in concreto?
 
Penso che il professor Zamagni, in realtà, esprimendosi nel modo da te citato, abbia semplicemente voluto lodare il fatto che Politica Insieme cerca effettivamente di coinvolgere un numero crescentemente vasto e composito di gruppi e persone. E abbia voluto incitare tutti a proseguire su questa strada.
 
Io aggiungo che oltre al coinvolgimento reale delle persone a tutti i livelli, naturalmente, occorre anche far crescere gradualmente ma tangibilmente la effettività di un metodo democratico e partecipativo per la discussione e per le decisioni. Con stima, Giuseppe Ecca”.
 
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Il miracolo della vita

OCCHI SU MIA MADRE

Leggetelo e basta; non commentatelo, neanche con voi stessi; contemplatelo; e cercate, caso mai, di lasciarvi sprofondare nel tentativo di intuire il senso profondo del miracolo della vita. La prima prova, forse della esistenza di Dio. Comunque, l’inesplicabile infinito.
 
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Ho sperato a lungo che poeti, mistici e psicologi si fossero sbagliati. Molti tuoi turbamenti, insistevano, dipendono dalla nostalgia di tua madre. Ho creduto fosse un’esagerazione. Oggi riconosco che avevano ragione. Mia madre. Nove mesi trascorsi al suo interno in una assimilazione che non ha uguali nel creato. Nove mesi: un'epoca divina che nessuno potrebbe raccontare. Fu una breve stagione notturna, quella che gli antichi assegnavano alla luna perché tutto il ciclo femminile è notturno, umido e mutevole come la luna, in bianco e nero, senza colori e molti contrasti. Così lei mi instillò il suo mondo più ombroso, le sue ansie, le sue attese, le sue preoccupazioni, che a loro volta divennero le mie paure e le mie esitazioni. Tutto a quel tempo era debole in lei: qualsiasi farmaco era a rischio, qualsiasi fatica era troppa, qualsiasi trauma sarebbe stato pericoloso; a lei si addiceva il riposo, il letto, la sedia. Era divenuta rotonda come un’antica dea della fertilità.
 
Ma questo era l’esterno, l’evidente, il visibile, perché dentro, fra noi due, regnava un’altra logica e una legge diversa. Ancora oggi sono certo che mia madre mai potrò guardarla cogli occhi tesi in avanti, quelli che mi spuntano dalle orbite. Lei, e soltanto lei, potrò vederla,  apprezzarla e finanche giudicarla solo cogli “occhi di dentro”, quelli che si rivolgono all' indietro verso il centro di me stesso. Per tutti, perfino per la persona amata, potrei avere sguardi, parole e mani rivolte “in avanti”. Per lei, no. Per lei la direzione sarebbe sempre all’inverso, al profondo, all’interno. Perché lei non è un semplice essere umano ma un simbolo creativo, una divinità, un tempio con una liturgia composta di una sola parola: quella che si articola col semplice accostamento delle labbra.
 
Poi uscii verso la luce e fu il parto. In quel momento di travaglio (minuti, ore) lei mi comunicò la sua fame di vita, le sue passioni, la sua allegria, il suo desiderio di festa; la sua voglia di ballare, di cucinare, di abbracciare. Con le contrazioni del bacino lei mi spingeva fuori e mi costringeva a navigare alto, a tracciare il mio viaggio e a separarmi da lei. Forse il mio inconscio lo percepì come una lacerazione e addirittura un rifiuto. E una traccia di quella ferita e di quel necessario tradimento rimane qui, al centro del mio addome, sulla sommità della mia pancia: scosto la camicia e lo vedo, l’ombelico, una cicatrice cucita alla meglio, il goffo tentativo di chiudere un discorso e di reprimere un legame.
 
Ma nello stesso tempo avvertii un bisogno di fuga da quel mondo, regale sì, ma talmente chiuso e protetto che mi avrebbe per sempre accovacciato e sottoposto. Così, mentre cominciavo a fare a meno di lei, mi sorprendevo a disegnarne i tratti e a descriverla in modo maldestro; quasi volessi tenermela davanti e insieme dimenticarla e distruggerla. Non ero tanto io ad essere suo, quanto lei ad essere mia. Una presenza sacra e sovrana; onnipresente e forse onnipotente.
 
Anche se non lo avrei mai ammesso, qualsiasi carezza mi ripeteva la sua pelle; qualsiasi coccola, nell’inconscio, andava alla sua; qualsiasi atto di amore era come tornare ai suoi organi generativi. Una fascinazione e un tormento. Neanche oggi, che sprofonda nell’umido della terra, sento che mi lascerà. La proverò come un profumo e un aroma; l’avvertirò perfino annusando il sudore dei suoi vestiti, lasciati sul letto prima di correre in ospedale. Lei non ha luoghi, foto, tombe: tutto questo appartiene allo sguardo fisico, quello teso in avanti. Cogli occhi all’inverso tesi dentro di me continuerò invece ad avvertirla, puntuale come una luna che cresce e che cala a seconda di quanto mi resterà a mia volta da vivere.
 
                                                                                                          (Viscardo Lauro)
 
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Sperperi

BUONUSCITE MANAGERIALI: PEGGIO FANNO, MEGLIO VENGONO PAGATI


Sperperi
BUONUSCITE MANAGERIALI:
PEGGIO FANNO, PIU’ VENGONO PAGATI
 
L’articolo di Franco Sensi fu scritto per Studisociali nel 2017. Ebbene, il suo consiglio  non è stato per nulla ascoltato, né dai partiti politici né dalla classe dirigente in generale: e gli 8,5 milioni di euro consegnati a suo tempo a Bernabè come buonuscita aziendale, son diventati 13 a favore del manager di Autostrade che ha lasciato l’incarico dopo la tragedia del Ponte Morandi; di peggio in peggio, è giusto dire: non c’è stata alcun resipiscenza, caro Franco, anzi…
Non lo diciamo certo per scoraggiarci o scoraggiare i nostri concittadini: al contrario, per denunciare con ancora maggior forza il triste radicamento di questo abuso diffusissimo e corrotto a danno dell’Italia e degli italiani laboriosi e onesti, e accrescere ancor più la nostra lotta per contrastarlo.
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Talune notizie, seppure marginali, mi procurano un dolore interiore, che è a un tempo scoraggiante e deprimente. L’ultima è quella che ho  letto su “Il Giornale” del 17 u. s. a pagina 21: al sig. Bernabé spetterebbe una liquidazione di ben 8,5 milioni di euro  a conclusione del suo recente incarico in Telecom. E  come me ritengo assai probabile che una sensazione amara e struggente possano provarla anche tanti milioni di concittadini all’apprendimento di notizie del genere. Peraltro quella di Bernabé non rappresenta un caso solitario. Elargizioni di tantissimo denaro a favore di pochi soloni ne sono avvenute diverse, e questo stride notevolmente con l’attualità, in un periodo di crisi larga e profonda, che procura sacrifici economici tanto dolorosi alla maggior parte del nostro popolo. E le somme di cui trattasi sono tutte di derivazione – diretta od indiretta – dalle casse del pubblico denaro.
Naturalmente nessuno crede che – stante la dimensione della crisi – pure con la eliminazione (ipotetica) di quelle buonuscite ( certamente eccessive )  la situazione economica nazionale potrebbe risentirne in modo significativo. Ma ciò che soprattutto dovrebbe preoccupare le autorità di governo è l’effetto psicologico negativo su tantissimi cittadini quando apprendono di quegli sperperi; effetto  che concorre ad un atteggiamento dello spirito in senso “antistato”, verso una totale mancanza di partecipazione attiva e cosciente ai bisogni della collettività, mancanza che può anche toccare il dovuto rispetto delle più comuni regole civili: non ultima la tendenza – già molto diffusa – all’evasione degli obblighi fiscali.
Nell’ipotesi che i responsabili di governo avvertano il pericolo di cui sopra, in che maniera potrebbero configurare un possibile rimedio? A mio avviso come primo provvedimento  uno stop immediato all’attuale andazzo smisurato, seguito da  un significativo ridimensionamento di quei compensi straordinari.
Ed un’altra cosa a me piacerebbe che si facesse: la pubblicazione in chiaro  (a chi, quanto e quando) di tutte le grandi somme - cosiddette di liquidazione – elargite ad esempio negli ultimi sei anni, ovvero da quando il popolo ha cominciato a soffrire per la crisi tuttora perdurante.  Con questo non vorrei colpevolizzare  troppo  i beneficiati del tempo (alti dirigenti, direttori di banca, ecc.) poiché in verità quell’andazzo era diventato costume…  Un costume, però, che poteva essere generalmente  tollerato in un periodo di vacche grasse, non dopo.  Perchè poi  quel costume è divenuto  obbrobrio, ovvero un grande e vergognoso pugno alla miseria.
Ma “a posteriori” un rimedio in una certa misura sarebbe pensabile? Sarei per una risposta affermativa se si tiene conto che i nostri attuali membri del Governo sono tutti animati da spiccata inventiva, coraggio e determinazione.
 Per di più i soloni beneficiati a suo tempo con grandi compensi, se  sollecitati  potrebbero anche adire spontaneamente a moti di resipiscenza. Potrebbero, ad esempio, farsi promotori di concreto sostegno a taluni centri di ricerca universitari da loro stessi selezionati.
Con l’immaginazione, il buon senso ed una certa dose di bontà d’animo tante cose buone sarebbero ancora possibili
                                                                                                        

                                                                                                                                                     (Franco Sensi)


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Evasione fiscale

IL DIMENTICATO APOLOGO DELL'IMPERATORE TRAIANO

La riduzione della cedolare secca al 10% ci sembra leggermente esagerata, per considerazioni globali di assetto fiscale: ma la logica complessiva descritta da Achille Colombo Clerici risponde, a nostro avviso, a un buon senso di cui i politici dovrebbero diligentemente prendere atto. L’apologo di Traiano vale per tutti i tempi.
 
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Ho sempre presente l'insegnamento del mio maestro Enrico Allorio, che definiva borbonico il nostro fisco perche' improntato all'antico  principio: “poiche' un' elevata quota di evasione e' endemica, per ottenere il gettito si tenga alto il carico fiscale, cioe' l'aliquota”.
Il risultato e' conseguito, ma l'esito e' disastroso per i contribuenti a regime, che rappresentano la maggioranza.
 
La ricetta giusta per un fisco equo, e che nel contempo  riduca l’evasione, si basa invece su due fattori:  che sia sopportabile e facile da pagare.
 

La prova deriva da un documento ufficiale al di sopra delle parti, il "Rapporto sulla lotta all’evasione fiscale" del ministero dell’economia: grazie alla cedolare secca sugli affitti l’evasione dei proprietari di casa, che nel 2012  ammontava a 1,3 miliardi di euro, nel 2017, l’anno più recente di cui si conoscono i risultati, è scesa a 655 milioni, con un crollo del 50,5%. Le imposte sui canoni di locazione sono adesso le meno evase d'Italia: ad esse sfugge solo, a quanto sembra, il 7,9% del dovuto.
 
La cedolare secca, fortemente voluta dagli stessi proprietari immobiliari, consente di non versare l'imposta di registro e l'imposta di bollo, dovute per i normali contratti, e permette al proprietario di pagare sul reddito da locazione un'imposta sostitutiva pari al 21%, che scende al 10%  per i contratti a canone concordato adottati nelle undici aree (praticamente le maggiori città italiane e loro hinterland) ad alta tensione abitativa.
 
Considerato che l'evasione in Italia nel complesso ammonta a 91 miliardi di euro l'anno per la parte fiscale e arriva a quota 109 miliardi aggiungendo al conto i contributi previdenziali non pagati – dati che ci pongono in testa alla poco invidiabile classifica di primi evasori d’Europa -  si può immaginare quale sarebbe il beneficio  per le casse dello Stato, per il debito pubblico, per la generalità dei contribuenti, in primis stipendiati e pensionati che pagano circa l’80% delle imposte complessive,  se si potesse raggiungere in pochi anni anche solo una parte del recupero legato all’evasione immobiliare. Non staremmo, come ora, con la spada di Damocle dell’Iva sulla testa e si potrebbe rispondere alle sacrosante richieste di tasse più basse, di scuole migliori, di asili nido per tutti, di più qualificata ricerca, di una sanità più efficiente, e altro.
 
In definitiva, evasione ridotta se c'e' equita' fiscale. E per raggiungerla vanno coniugati tra loro due dei tre principi etici fondamentali che, come sostenuto nell'apologo di Traiano, citato da Plinio il giovane, debbono presiedere ad una corretta azione socio-politica:
 
  • Il principio della speranza, secondo il quale il miglior rendimento si ottiene attraverso la speranza di un bene e non il timore di un male.
  • Ed il principio dell'incremento e non della distruzione della ricchezza.
 
                                                                                                                                 (Achille Colombo Clerici)
 
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Politica

DEMOCRAZIACOMUNITARIA: IL NUMERO DEI PARLAMENTARI VA RIDOTTO


DemocraziaComunitaria non intende prendere posizione se non su problemi, piccoli o grandi che siano,  il cui significato sia effettivamente e sostanzialmente collegato  con il bene comune e con la centralità valoriale della persona umana. Coerente a tale spirito ci è sembrato il comunicato da essa emesso oggi.

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La maggioranza di governo ha proposto e fatto approvare dal parlamento la riforma che riduce la consistenza numerica del parlamento nazionale, composto oggi, come è noto, da 630 deputati e 315 senatori, oltre i senatori a vita.
 
Lo ha fatto con una metodologia infantilmente irresponsabile, come se si trattasse di una leggina su problema secondario o provvisorio del paese, e non di un aspetto sostanziale del nostro assetto istituzionale e democratico. Lo ha fatto anche elitariamente e senza alcun sostanziale dibattito della opinione pubblica nazionale.
 
Per reagire a tale immaturità e scorrettezza di metodo è stata assunta da un gruppo di cittadini autorevoli, facenti parte anche di realtà di ispirazione cristiana, la iniziativa di un referendum che annulli tale riforma.
 
DemocraziaComunitaria ribadisce peraltro quanto sempre sostenuto, e cioè che va nettamente distinto il metodo scorretto ed irresponsabile utilizzato dal governo per proporre questa riforma, dal merito della riforma stessa: la riduzione del numero abnorme dei componenti il parlamento nazionale resta necessaria e del resto viene proposta da moltissimi anni da studiosi e cittadini di ogni condizione e grado culturale e responsabilità sociale, oltre che da noi.
 
DemocraziaComunitaria ha fra l’altro sempre ampiamente spiegato le ragioni storiche, culturali, politologiche, e anche di semplice efficacia ed efficienza della funzione legislativa e dei concetti di rappresentanza e rappresentatività, per le quali il numero dei parlamentari va ridotto.
 
Inoltre, poiché si sente a volte fare richiamo, da parte di chi è contrario alla riduzione del numero dei parlamentari, alle decisioni assunte a suo tempo dai padri costituenti, DemocraziaComunitaria ribadisce che il pensiero dei padri costituenti, per chi conosca bene i lavori ed il dibattito dell’Assemblea costituente, era lontanissimo dal considerare la tecnicalità del numero dei parlamentari come facente parte dei principi e valori costituzionali.
 
Infine, DemocraziaComunitaria ricorda il dovere di tutti gli italiani democratici, a qualunque orientamento partitico appartengano, di agire non pro o contro uno o altro governo o maggioranza parlamentare, ma per la lunga prospettiva del bene comune. Per il quale, a settant’anni dalla nascita della Costituzione, la riduzione dell’abnorme e costosissimo numero dei parlamentari è dovere di limpida salubrità istituzionale.
 
Resterà ulteriormente da affrontare, su questa delicatissima tematica, l’ancor più cruciale questione del sistema elettorale. E lo faremo.
 
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Politica

STUDIARE I PROBLEMI E' UN PRECISO DOVERE

Interessante, questa lettera aperta del professor Carlo Maria Bellei, dell'Università di Urbino, al vice  premier Di Maio, durante lo scorso mandato governativo. “Roba del passato”, direte voi. Noi pensiamo che le “robe del passato” vadano spesso rivisitate: per capire meglio le persone, per capire meglio il loro e il nostro oggi. La lettera ci viene riproposta da Danilo Bertoli.
 
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"Caro Di Maio,

leggo che lei ed il suo Ministro Toninelli siete rimasti perplessi dalle aperture della Lega a Società Autostrade.
Se ha un minuto provo a spiegarle come stanno le cose.

Se, invece di continuare a gridare proclami, vi foste presi la briga di approfondire la materia riguardante le concessioni autostradali, vi sareste accorti di una serie di cose interessanti. Prima di tutto, il contratto capestro. Non le pare che invece di lanciare le solite accuse a destra e a manca vi sareste dovuti chiedere chi c’era dietro la stipula di condizioni così svantaggiose per lo Stato? È evidente che sia lei che Toninelli non ne sapete nulla.

Partiamo dal principio: nella sua breve vita il tanto bistrattato secondo governo Prodi si accorge di alcune anomalie e decide di intervenire per sanarle. L’intervento più importante che viene fatto è del 2006, con esso praticamente si obbligano i gestori privati a legare gli aumenti dei pedaggi a sostanziosi interventi di ammodernamento e manutenzione. Detta in parole povere, se vuoi soldi devi prima metterci soldi.

Solo che il governo Prodi cade e, mi ascolti bene caro Di Maio, nel 2008 arrivano Berlusconi e la Lega, già proprio quella Lega con cui oggi lei governa e nella quale Salvini era già uno degli elementi di spicco. Nel giugno dello stesso anno il centrodestra elimina tutti i vincoli, cambia le condizioni della concessione dando vita all’attuale contratto-capestro con il quale si affidano le autostrade ai privati.

Vuole sapere il perché, caro Di Maio? Perché alcuni imprenditori veneti, interessati al business della viabilità, fecero molte “pressioni” proprio sulla Lega. Comincia a capire, ministro Di Maio? Vede, alla lunga è difficile occupare un dicastero importante come il Suo raccontando tutto ed il contrario di tutto. Capisco che in questi anni giornalisti ed elettori le abbiano fatto credere che nessuno l’avrebbe mai contraddetta, ma questo non è più il tempo in cui inventarsi balle per giustificare ai genitori il fatto di non riuscire a passare gli esami all’Università: questo è il tempo in cui lei ha in mano il futuro di milioni di persone.
Spero  di  esserle  stato  utile.”
                                                                                                                                             
                                                                                                                                                 Carlo Maria Bellei
                                                                                                                                                (Università di Urbino)
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Religione e politica

L'AMORE COME RISPOSTA ALLA CRISI

E’ Raniero La Valle che scrive, all’inizio del gennaio 2018. O, meglio, è Raniero La Valle che svolge una sua riflessione in conferenza, davanti a un uditorio di prevalente composizione cattolica preoccupato per l’apparente o reale inconcludenza dei propositi e programmi e principi dichiarati dalle autorità mondiali e nazionali, settoriali e locali, in materia di crisi che continuano a imperversare nel pianeta: guerre, migrazioni forzose, disoccupazioni strutturali e licenziamenti, nichilismi che sfociano in suicidi od omicidi, sistemi sanitari e di presidio sociale brillanti in molti punti ma pervicacemente carenti in altri…
La crisi, o, meglio, le crisi, continuano insomma imperterrite: e le formule adottate per superarle, il più delle volte senza effettive attuazioni, per quanto solenni e condivise sembrano non rispondere con efficacia strutturale alle lacrime di una umanità incapace, semplicemente, di darsi un assetto di pace operosa.
Raniero La Valle dice la sua, da cattolico militante che fin dagli anni 1960 fu al fianco e dentro il grande movimento conciliare, ma anche da giornalista attento osservatore, da studioso appassionato, da formatore di vocazione e da cittadino attivo. Non tutte le sue singole posizioni sono destinate a trovare il consenso di tutti, neppure fra i cattolici, essendo egli portatore di una sensibilità molto specifica sulle tematiche che tratta. Ma certo la riflessione che egli propone è di profondità strutturale, e strutturali restano i quesiti sui quali egli riflette con noi.
 
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Ringrazio “Ore 11” dell’invito e del tema che mi avete proposto. In effetti questa è la tesi della mia vita: l’amore come risposta alla crisi. Ed è proprio “la tesi”: non è un’ipotesi, nel senso pragmatico in cui i cattolici liberali dell’800 parlavano di tesi ed ipotesi per stemperare un po’ la rigidità della tesi intransigente. L’amore come risposta alla crisi non è per me un’ipotesi, è la tesi della mia vita.


Ma se l’amore è la tesi, se è la risposta alla sfida stessa della vita, allora deve essere una cosa molto seria, non può essere solo una cosa romantica, un’espressione di buoni sentimenti; deve essere qualcosa che ha a che fare con la struttura dell’esistenza e dell’essere.


Ora, che ciò possa essere vero per la vita personale, per la storia singolare di ciascuno, molti sono disposti a riconoscerlo, soprattutto in ambito cristiano: l’amore è sì difficile, doloroso, ma nella vita personale si può vivere d’amore, si possono dare risposte d’amore. Questo fa parte di una diffusa convinzione cristiana.
 
L’amore come problema politico
 
Ma che l’amore possa essere la struttura della vita pubblica, la risposta ai problemi della vita collettiva, il criterio della storia, questo non è creduto da nessuno. Anzi, al contrario, il criterio del politico, cioè della vita organizzata degli uomini e delle donne insieme, è stato identificato in Occidente nel rapporto tra amico e nemico; e questo non solo nella dottrina, ma nella pratica della gestione politica, nella definizione del compito stesso della politica: nel nuovo modello di difesa italiano, ad esempio, varato dal governo nel 1991, dopo la rimozione del muro di Berlino, dal momento che non c’era più il comunismo come nemico, si programmò che il nuovo nemico fosse l’Islam, prefigurando un rapporto tra Islam e Occidente sul modello del conflitto tra Israele e il mondo ebraico da una parte, e il mondo arabo e palestinese dall’altra. E al posto della difesa sulla soglia di Gorizia, si istituì la cosiddetta “difesa avanzata”, fuori confine; e se oggi torniamo in Africa con l’esercito per fermare i profughi, è perché allora si adottò quel modello.


Anche le leggi elettorali seccamente bipolari e maggioritarie incorporano, magari inconsciamente, il criterio della politica intesa come una competizione tra amico e nemico: tutto il ceto sociale amico da una parte, tutto il ceto nemico dall’altra.


L’amore come criterio del politico è dunque una proposta del tutto estranea all’Occidente; una fantasia di quelle che a sentirle avanzare ti dicono: di questo ci parlerai un’altra volta, come i greci nell’areopago di Atene.


E se il cristianesimo ha come suo precetto più alto l’amore dei nemici, il cattolico Carl Schmitt, che è stato il grande teorico di questa idea della politica, dice che esso si riferisce al nemico privato, l’inimicus, che si dovrebbe amare, ma non al nemico pubblico, l’hostis; questo si può non amare, si può odiare, si può annientare.


Dunque, che l’amore possa essere una risposta alla crisi pubblica, politica, è un problema molto serio.


Dovendo venire a parlare con voi di questo, ho ricercato un mio discorso di qualche decennio fa, di quando facevo politica in Parlamento, che era intitolato “L’amore come problema politico”, forse arieggiando il titolo del libro di Peterson, “Il monoteismo come problema politico”. Ma purtroppo non l’ho trovato. Invece ho trovato un altro discorso del 1989, attinente al nostro tema, che feci a Spello in una celebrazione del primo anniversario della morte di Carlo Carretto, promossa dal Comune. Ho poi ripreso quel ricordo di Carretto nel libro “Prima che l’amore finisca”, pubblicato nel 2003. La tesi di quel libro, uscito dopo le Torri Gemelle, era che la devastazione prodotta dalla vecchia politica, che con la guerra del Golfo si era riappropriata dello strumento della guerra, stava portando il mondo alla rovina; però restava una speranza che veniva dal fatto che molto amore era stato sparso sulla terra, come dimostravano le straordinarie figure del 900 che erano rievocate nel libro, tra cui c’era appunto Carlo Carretto, oltre a Balducci, Turoldo, padre Benedetto Calati, Ivan Illich, papa Giovanni e così via. Però, e questo era il messaggio del libro, bisognava cambiare le cose prima che l’amore finisse – perché anche l’amore può finire o entrare in regime di scarsità -; prima che finisse bisognava cambiare il corso della storia, bisognava prendere un’altra strada prima che fosse troppo tardi, per impedire che la storia stessa giungesse alla fine.
 
Quel libro fu venduto più degli altri, sicché quando poi, qualche anno fa, chiesi all’editore se ne aveva ancora delle copie, mi rispose Cristina Palomba, che conoscevo bene perché era stata lei che ne aveva curato l’edizione, scrivendomi lapidariamente: “L’amore è finito”. Che era il titolo del libro. Mi parve, nella sua intenzione, che la notizia non riguardasse solo il magazzino. Fuor di metafora, era proprio l’amore che sembrava finito: la crisi mondiale si era andata aggravando sempre più, la politica italiana era a pezzi, la Chiesa, 50 anni dopo il Concilio, sembrava in stato di glaciazione, il terrorismo imperversava, la guerra perpetua inaugurata da Bush continuava, Palestina e Medio Oriente stavano sui carboni ardenti pronti ad esplodere, ed era cominciato il grande esodo di profughi, perseguitati, affamati in cerca di un posto migliore per vivere, barconi interi di migranti naufragavano nel Mediterraneo, senza che nessuno se ne desse cura.
È in quel momento preciso che arriva papa Francesco.
 
La variante introdotta da papa Francesco
 
E la prima cosa che fa, dice che Dio è misericordia. La seconda cosa che fa, va a Lampedusa. La terza cosa che fa, ferma la guerra già pronta contro la Siria. La quarta cosa che fa va a Cagliari a dire ai lavoratori di non rassegnarsi, ma di continuare a lottare per il lavoro, che quella è la loro dignità. Ai poveri, ma anche ai ricchi, dice che questa economia uccide, e che bisogna cambiarla. E infine dichiara che il Dio della guerra non esiste, e perciò mai più, mai più alcuna guerra potrà essere intesa o potrà essere chiamata guerra di religione.


L’evento di papa Francesco e della sua Chiesa ha pertanto rimesso in gioco l’amore, appena in tempo prima che l’opera di demolizione si compisse. Ha messo l’amore come argine, come freno, come porta tagliafuoco allo scatenarsi della crisi che potrebbe giungere a cancellare il diritto e la stessa vita umana sulla terra.
Per questo abbiamo parlato, in un appello, di un katécon, di una resistenza che trattenga le attuali spinte al genocidio, e abbiamo ripreso in mano la parola di Gesù alla Samaritana, richiamata ora da papa Francesco: “Ma viene un tempo ed è questo”. Di ciò ha parlato l’assemblea di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri che si è tenuta a Roma il 2 dicembre scorso.


Ma resta la domanda: davvero il tempo può essere questo? Ossia davvero può verificarsi che all’amore sia attribuita un’efficacia politica e pubblica, davvero esso può giungere ad esercitare un’egemonia, in senso gramsciano, davvero può prendere su di sé il ruolo che un famoso frammento di Eraclito attribuiva alla guerra? Aveva detto Eraclito, all’inizio della nostra cultura, che la guerra, il pólemos, è “il padre e principio di tutte le cose, di tutte re, gli uni disvelando come dei (o forse come idoli), gli altri come uomini”. Può essere assunto invece l’amore come padre e principio di tutte le cose, di tutte re, cioè reggitore – invece della guerra, invece della bomba, invece della violenza – della vita pubblica degli uomini e dei popoli?


Se questo davvero accadesse sarebbe un rovesciamento, una cosa inaudita; eppure voi lo avete messo a tema nel cuore del vostro convegno, segno che lo ritenete possibile. Ma allora bisogna chiedersi come questa cosa mai vista sia possibile, e come proprio oggi diventi possibile. Certo poteva accadere, da quando è stata annunziata la pienezza dei tempi, ma di fatto non è accaduta.
 
Perché può accadere
 
Dunque, perché può accadere? Prima di tutto bisogna dire che in ogni caso si tratterebbe non di un colpo di fulmine, ma di un processo, che certo viene da lontano, ma di cui credo che significative avvisaglie vadano cercate nel Novecento.


Per questo sono andato a rivedere le carte di quel tempo, e ho trovato quel discorso su Carlo Carretto di cui vi dicevo, in cui mi pare che ci sia una pista per cercare una risposta. Certo si potrebbero seguire altre piste e interrogare altre figure, ma intanto questa può essere utile per indirizzare la nostra ricerca.


Che cosa aveva fatto Carlo Carretto? Aveva lasciato alle sue spalle “i giorni dell’onnipotenza”, i Baschi Verdi, l’Azione Cattolica che allora era cantata come “un esercito all’altar”, aveva abbandonato i sogni di riconquista cristiana di Gedda e di Pio XII, ed era andato nel deserto del Sahara. Perché era andato nel deserto? Questa era la domanda. Non c’era andato per offrire la sua vita a Dio, perché quella gliela aveva offerta anche prima, negli anni ruggenti. Non c’era andato per salire dall’azione alla contemplazione, perché nella vita cristiana non c’è dualismo e non c’è superiorità dell’una via sull’altra; anzi, come dice Gregorio Magno, non si può restare a lungo nella contemplazione, essa non può essere uno stato di vita, ma ben presto dalla contemplazione, dall’estasi, si deve tornare all’azione, dove però essa non si perde, ma resta come “il ricordo della soavità di Dio”.


Dunque non per questo, non per contemplare era andato nel deserto; invece c’era andato, dicevo, per porre con radicalità la questione di Dio, e più precisamente la questione: “quale Dio”. Ora, se dopo tutto quello che aveva fatto egli sentì il bisogno di aprire la questione di Dio, vuol dire che nonostante tutto il suo impegno apostolico quel Dio non l’aveva veramente trovato. Ma questo problema, a quel punto del ‘900, non era solo di Carretto, era il problema della modernità, e della stessa Chiesa.
 
L’impedimento della cattiva copia di Dio
 
La modernità si era costruita non sull’ateismo, che verrà dopo, ma adottando la finzione che Dio non ci fosse, si era costruita cioè su una espulsione cristiana di Dio, per costituirsi come società politica e non religiosa, laica e non clericale.


Senonché il Dio espulso era in realtà una cattiva copia di Dio. Era il Dio della guerra tra gli stessi principi cristiani, il Dio che rendeva l’uno all’altro nemico, il Dio che veniva dall’alto, il Dio della trascendenza e del potere, il Dio che fondava il trono dei potenti e sequestrava nei cieli il tesoro dei deboli, il Dio della cui trascendenza Bonhoeffer dirà che fosse “un pezzo di mondo prolungato”.


Questo è il Dio che arriva a Carretto allo metà del Novecento, e a tanti cristiani come lui. E così era la Chiesa, come Carretto la descriverà più tardi in una lettera a papa Woytjla, “una Chiesa arroccata in una fortezza da difendere, come un esercito perennemente lanciato in crociata, come un partito che doveva diventare più forte e schiacciare il nemico. Nemici, nemici, sempre nemici. Ecco il mio apostolato di quel tempo”.


E a un certo punto egli avverte che il Dio professato nella sua fede non è pari al Dio cui si rivolge la sua speranza. Ci deve essere un equivoco, forse un errore. E va nel deserto che è il luogo privilegiato per spogliarsi delle false immagini di Dio, dei suoi rivestimenti fuorvianti, delle false certezze ricevute. “Mi trovai nel deserto – scriverà più tardi al fratello e alle sorelle – a svuotarmi delle mie sicurezze e a liberarmi degli idoli”.


E lì trova un Dio diverso da quello che aveva conosciuto. È il Dio di una trascendenza che viene dal basso, che ti si fa incontro nel fratello, nel prossimo, nell’altro, è il Dio della condizione umana più indigente e più umile. È il Dio dei minori, dei fratelli piccoli e minori, come il Dio laico di san Francesco che non caso fratel Carlo andrà a cercare a Spello, dall’altra parte del Subasio. È il Dio non del potere ma del servizio. Non dell’onnipotenza ma della discrezione, della soavità, della silenziosa compagnia con l’uomo. Il Dio che non tiene niente per sé, nemmeno la sua divinità, la scambia con l’uomo, e così rende possibile l’amore.


Tutto questo si poteva dire in quella riflessione del 1989. Del resto c’era stata tutta una teologia nel 900 che aveva lavorato a restituire una più autentica figura di Dio, per non parlare del Concilio.
Però Dio continuava ad essere predicato al vecchio modo nella grande Chiesa, e il mondo continuava ad essere conformato al vecchio modello, e l’amore continuava a non poter essere la risposta alla crisi; e a prendere il sopravvento fu invece la secolarizzazione.
 
L’impedimento della perduta dignità dell’uomo
 
Un anno dopo tornai a Spello, per riprendere il discorso. Come vedete non vi sto dando una teoria, vi sto facendo una narrazione. Quel discorso doveva in effetti avere uno sviluppo, perché è chiaro che la domanda su Dio non può stare da sola, e alla domanda su Dio immediatamente deve seguire la domanda sull’uomo. Esse sono in rapporto di necessità: perché quale è la risposta su Dio, tale, almeno per noi cristiani, è la risposta sull’uomo. Per noi e per la nostra salvezza, diciamo nel Credo, è disceso dal cielo. Fuori di questo rapporto, anche la religione è vanità.


La teologia non è nulla se non c’è un’antropologia che le corrisponda. Si può fare un’antropologia senza teologia, il mondo la fa. Ma non si può fare una teologia che non si occupi dell’uomo.
In effetti, il modo in cui l’uomo è stato pensato in Occidente dipende dal modo in cui Dio è stato pensato in Occidente. Se Dio è il Dio dei filosofi, il Dio della trascendenza e dell’assoluto, il Dio che dall’alto domina la storia, il Dio nel quale c’è violenza, c’è il nemico, il Dio buono con i buoni e cattivo con i cattivi, il Dio la cui giustizia è la proiezione della giustizia umana, retributiva e punitiva, allora l’uomo sarà secondo questa immagine, secondo questa somiglianza, e la storia sarà fatta in questo modo.


In effetti le vecchie antropologie, come erano giunte al Novecento, avevano fallito, sia sul versante laico che su quello religioso.


Sul versante laico l’antropologia che aveva dominato e determinato la storia dell’Occidente era un’antropologia costruita a partire non dagli ultimi, ma dai primi. Er un’antropologia signorile, che lasciava fuori i servi, da lei stessa creati, era un’antropologia dell’uomo creatore, dell’uomo padrone della natura; dell’uomo magari peccatore, ma senza limiti alle sue conquiste, capace di appropriarsi di tutto, di produrre tutto, di dominare tutto, e sempre pronto a rapinare l’assoluto. Era un’antropologia dell’identità, non dell’alterità, tutta concentrata sull’io, e incapace del riconoscimento dell’altro, della comunione e dell’immedesimazione con l’altro. E perciò un’antropologia avara nell’amore. Certo i poveri c’erano, magari destinatari di sussidi e di assistenza sociale, ma non erano veramente cittadini, non erano sovrani. E quando questa antropologia ha voluto proclamare l’eguaglianza di tutti gli uomini, senza distinzioni, certo ha potuto farlo, assumendo però come soggetto e tipo di tale eguaglianza un uomo astratto, molto somigliante all’uomo bianco, alfabetizzato, produttivo, benestante dell’Occidente, scontando, nell’apparente eguaglianza delle regole, un’ineguaglianza di fatto sempre più penalizzante e pauperizzante, sia nelle società ricche che, soprattutto, nella grande periferia del mondo.


Senonché l’altra antropologia, quella della Chiesa, l’antropologia della natura corrotta, decaduta e peccatrice, non aveva prodotto frutti molto migliori; essa non era riuscita a superare l’antropologia signorile; anche per essa l’uomo è signore, però è un signore decaduto, che non domina neanche se stesso; angelo o fiera, per usare una terminologia rinascimentale, egli non è in grado da solo di determinarsi verso il bene, ciò può avvenire solo per grazia, solo perché portato per mano da Dio.


Ha pesato come un macigno la pregiudiziale antipelagiana piantata da Agostino nella teologia nascente della Chiesa. Essa ha estremizzato questa eteronomia e insufficienza umana, ha esacerbato questo ridurre a nulla l’opera dell’uomo, sequestrata dall’iniziativa divina, ha convalidato l’ascesi spiritualistica per cui Dio è tutto e l’uomo è niente.


Ma per un uomo siffatto il rischio è la paralisi. Perché mentre i tesori dell’uomo sono dispersi nei cieli, come Italo Mancini diceva citando il giovane Hegel, mentre l’uomo da solo non può fare niente, Dio è lassù, inafferrabile e misterioso, e per lui un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno; ma allora come si fa a gestire l’operazione umana, come si fa a governare la storia?
 
La Chiesa invece di Dio
 
Ed ecco che la Chiesa offre il rimedio che è peggiore del male; si fa essa stessa sostituta e vicaria di Dio, offrendo così un Dio anche troppo visibile e quotidiano; e così viene meno il dualismo tra la Chiesa e Dio, essa ne assume i poteri, si innalza sui tre regni, ne prende in mano le chiavi, assume insomma non solo la rappresentanza ma, come è stato detto, la rappresentazione di Dio sulla terra. Essa agisce per lui e in nome di lui, ed è antipelagiana sì, ma mettendosi al posto di Dio lo è al modo per cui la Chiesa è tutto e l’uomo è niente.


Forse le tinte che uso sono forti, e certo la Chiesa è stata anche molte altre cose, né lo Spirito l’ha abbandonata. Ma ci deve pure essere una ragione per cui una moltitudine di uomini e di donne hanno perduto la fede e l’amore non ha potuto governare la terra. Come l’Angelus Novus di Walter Benjamin questo amore si è trovato con le ali impigliate nella tempesta, sospinto verso un futuro a cui dava le spalle, mentre guardava il mare di macerie che nella storia lasciava dietro di sé.


Dunque se da questo veniamo, ripeto la domanda: come è possibile ora fare dell’amore la risposta alla crisi? Come pensare che l’amore non sia travolto dalla tempesta e sia invece lui a governarla?
La mia risposta è che è oggi possibile perché è avvenuto qualcosa, una novità si è prodotta nella Chiesa. Non dico solo la novità di papa Bergoglio, ma la novità che unisce il Concilio a papa Francesco, i quali non sono due eventi della storia della salvezza, ma sono un unico, indivisibile evento.


Non è qui il momento per evocare tutte le cose, le parole e i segni con cui si sta svolgendo il magistero di papa Francesco, e attraverso cui questa novità irrompe in tutta la Chiesa. Dico solo che nel ministero di papa Francesco è come se la percezione di Dio, dell’uomo e della Chiesa fosse passata attraverso un processo di spoliazione e di rivestimento, fosse passata cioè alla prova e al vaglio del deserto.
 
Il nuovo annuncio di Dio
 
Dopo tale passaggio Dio continua certo ad avere i suoi cento bei nomi che gli riconoscono i musulmani o gli innumerevoli nomi con cui lo invoca il salmista e ogni altro orante dopo di lui, ma il nome che riassume tutti gli altri nomi e con cui la Chiesa oggi lo annuncia è il nome che racconta la misericordia di Dio. Amore è il nome proprio di Dio, unico come l’unigenito, e nessun altro nome gli può essere attribuito, né di giudice né di re, che non sia inteso come compatibile e coerente con questo; e questo è il nome che non può essere pronunciato invano, secondo il primitivo comandamento, perché l’amore nominato invano è un amore tradito.
La riscoperta dell’uomo
Quanto all’uomo egli è naturalmente sempre riconosciuto nella sua condizione creaturale di indigenza, finitezza e povertà, ma non è mortificato come se fosse un fuscello nelle mani di Dio né come una coscienza appaltata alla Chiesa; la sua dignità è la dignità di colui di cui porta l’immagine, e il Vangelo oggi annunciato gliela riconosce anche se non ha fede, gli riconosce la dignità della sua opera, il lavoro, e gli riconosce la libertà della sua decisione etica, che non sta fuori di lui, ma dentro di lui, sta nella coscienza in cui il Concilio ha visto lo scrigno di Dio, e se la Chiesa l’invade papa Francesco la chiama un’ingerenza.
La riforma della Chiesa
E quanto alla Chiesa visibile essa non si presenta più come il tutto di Dio sulla terra, non più come il fine di tutto, non più come il luogo, anche materiale, di cui si diceva che fosse l’unico in cui si potesse trovare salvezza, al punto da essere paragonata, come fece s. Ambrogio, alla casa di Raab, la prostituta che aveva tradito il suo popolo e l’aveva consegnato allo sterminio; la Chiesa si presenta invece come un ospedale da campo, essa è cioè uno strumento, un segno di risanamento di riconciliazione e di pace in mezzo alla battaglia, e non è solo il Samaritano che cura il ferito, ma è essa stessa ferita, incidentata, anch’essa ha bisogno che le sue piaghe siano curate e lenite. Ma non è una Ong, è la serva di Dio, figlia del suo figlio. Si tratta di una rivoluzione copernicana per l’ecclesiologia romana, per questo il cardinale Muller la contesta.
Nella continuità della tradizione
Ma come può papa Francesco far questo, come può fare della riforma del papato la riforma della Chiesa e dello stesso suo annuncio? Lo fa mettendosi nella tradizione, e in perfetta continuità con essa, senza lasciar cadere nulla, nemmeno delle forme meno raffinate della devozione popolare.
Ma anche questo lo fa attraverso un processo di spoliazione, di deserto, come si è spogliato della mozzetta rossa imperiale fin dal primo apparire al balcone di san Pietro.


In primo luogo si è spogliato di quella sacralizzazione del papato che aveva reso inemendabili gli errori della Chiesa e dello stesso magistero pontificio, inemendabilità degli errori che era culminata nella dottrina dell’infallibilità, ma che era all’opera già prima a presidio di tutte le dottrine, i catechismi, i Sillabi e perfino i comportamenti di una Chiesa tutta identificata col clero.
E in secondo luogo papa Francesco ha preso in mano il Vangelo, e ha preso sul serio la previsione fatta da Gesù a Pietro quando gli ha detto: ora non capisci, ma dopo capirai; e perciò Francesco cerca di capire e di far capire quello che prima non si era capito, anche delle Scritture, anche del Vangelo, anche da parte dei dottori e degli esegeti. Cioè ha tirato giù la rivelazione di Dio dagli archivi, e l’ha fatta diventare una realtà contemporanea, quotidiana, che avviene nell’oggi. Erano 1500 anni che non succedeva, da quando Gregorio Magno aveva detto che i divina eloquia, la Scrittura, cresce con chi la legge.


E voglio dare un esempio per mostrare come questa novità del messaggio portata da Francesco sia sostenuta da un grande rigore teologico, da ortodossia e afflato pastorale e perfino da una difesa apologetica della fede.
 
Il definitivo congedo dalla violenza di Dio
L’esempio è il definitivo congedo dal Dio violento e l’affermazione, contro ogni fraintendimento e smentita, della non violenza di Dio. È il messaggio di Francesco; ma esso ha dietro di sé un documento di altissimo valore teologico curato e firmato dal cardinale Muller, proprio quello che oggi sembra il più severo censore del papa. Vi si trova una formale presa di distanza da tante pagine della Scrittura, difficili a sopportarsi, che parlano di un Dio guerresco e violento, vendicatore e duce di un solo popolo. Si tratta di un documento della Commissione Teologica Internazionale intitolato “Il monoteismo cristiano contro la violenza”, pubblicato a Roma nel 2014, nei primi mesi del pontificato di Francesco, ma frutto di una lunga elaborazione precedente. È un documento che nasce con una intenzione apologetica, perché si trattava di difendere il monoteismo cristiano contro l’accusa che professando un Dio unico fosse causa di violenza. Esso ammetteva però che questa falsa immagine di Dio era veicolata da molte pagine della Scrittura, che erano tuttavia il prodotto di un fraintendimento umano. La ragione teologica profonda per cui questa rappresentazione di Dio andava congedata era che essa è in contrasto con il dogma fondamentale del cristianesimo, quello del rapporto trinitario tra il Padre, il Figlio e lo Spirito, che non può essere altro e non può esprimersi altrimenti che come amore.
Al “kairos dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa” bisognava riconoscere, secondo il documento vaticano, “il tratto di svolta epocale che esso è obiettivamente in grado di istituire nell’odierno universo globalizzato”; un trapasso d’epoca che comportava un cambiamento non solo del cristianesimo, ma dell’idea stessa di religione, e perciò di ogni religione.
E dunque, giunti a questo crinale del processo, se cambia l’idea di Dio, della religione, della Chiesa, cambia anche l’uomo e la sua condizione; può nascere l’uomo inedito intravisto da padre Balducci, può cambiare lo stare insieme degli uomini e delle donne nella casa comune sulla terra, e l’amore può diventare la risposta alla crisi.
Non so se sono riuscito a svolgere in modo persuasivo il tema che mi avete affidato; in ogni caso ho cercato di rendere ragione della speranza che è in me.

                                                                                                        
                                                                                                                                                  (Raniero La Valle)

MM
 
 
 

Esperienze

CAMMINARE... NON STANCA

Ma ci pensiamo? Camminare, mangiare, respirare… Ciascuna di queste semplicissime dimensioni della nostra vita quotidiana costituisce un immenso miracolo permanente, la cui misteriosità dovrebbe continuamente lasciarci pieni di stupore, di gratitudine, di meditazione sul senso più profondo della vita e del suo dono.
 

°°°°°
 
Sto in piedi, cammino.
 
A disegnare un uomo ci metto un minuto: un cerchietto, un rettangolino, due zeppetti per gambe, due trattini a fianco per braccia. Fatto. Tutto in verticale.
 
Un uomo, un uomo in piedi: ci pensi, che prodigio, stare in piedi? La pianta del piede, trenta- quaranta centimetri che reggono 80 e più chili.
 
Me ne rendo conto solo quando mi fanno male le ginocchia, quando ho il colpo della strega,  quando mi viene la sciatica. Solo allora mi accorgo che reggermi e muovermi da solo e allungare il passo è una fortuna e una grazia.
 
Un paio d'anni ci mette il cervello a maturare la zona dell'equilibrio: prima la regione del truncus poi il cervelletto poi il sistema vestibolare e, a completare tutto, certe zone della corteccia. Da quel momento so dove mi trovo, so da dove vengo, so dove vado. Intanto mi reggo in piedi e mi oriento, poi metterò un piede dietro l'altro, poi camminerò: ma la cosa più difficile è stare dritto. E sarà sempre la più faticosa. Un bambino, i primi anni corre, si agita sempre, non sta fermo un minuto,  non lo tieni a tavola perché non ce la fa: il suo sistema nervoso è immaturo, stare in equilibrio a lungo (in piedi o seduto) gli è impossibile. Ancora, per me in bicicletta sto in equilibrio solo se pedalo. Non sono un trapezista o un atleta, tanto meno una ballerina che volteggia, beata lei, sulle punte. Fare la fila mi riuscirà sempre più faticoso che un chilometro a piedi.
 
E questo, che ti sembra un ripasso di ortopedia, è invece una contemplazione. Certe volte mi fermo e guardo i tre nipotini: il primo disteso in culla, il secondo già gattona, il terzo barcolla, corricchia,  casca e si rialza da solo. In miniatura, l'evoluzione della nostra specie. E tenersi eretto su due piedi e non curvo su quattro zampe mi dà subito un orizzonte, mi fa allungare lo sguardo, mi fa organizzare lo spazio e il tempo.
 
Insomma, stare sulle gambe: da ringraziare Iddio a mani giunte.
 
Poi mi metto paura e immagino quando non ce la farò più e mi dovranno accompagnare e sostenere
sottobraccio e farmi tutto. Oggi ancora posso da solo, decido io, vado, non vado, mi chiudo in casa,
faccio una corsa al supermercato. Un istante e sto per strada: la metafora della mia libertà; e quando penso strada dico vita, quella che mi scelgo io e so io dove arrivare e nessuno me lo può imporre. Perché… Perché la strada che faccio a piedi tutti i giorni avanti e indietro mi riempie la testa di tanti pensieri. Tu pensa che sarei io oggi se non avessi scelto una strada mia, se non avessi seguito un sentiero mio, se avessi dovuto star dietro passo passo a qualcun altro, plagiato e schiavo della volontà di un altro. Invece a un certo punto ho detto signori io vi saluto, scendo, svolto e me ne vado per conto mio. Ne avevo le forze, dritto in piedi ci stavo, i mezzi per fare avanti e indietro li avevo. E la mia strada che porta a te… era la nostra ballata di tanti anni fa, col vento in poppa degli
anni giovanili.
 
S'infilano qui le belle pagine che abbiamo letto tante volte: i percorsi dei maestri della vita spirituale
oppure i poemi quasi disperati dei poeti laici. Beh, qualche riga del Canto del pastore errante di
Leopardi me la ricordo ancora ma il finale di Meriggiare pallido e assorto di Montale te lo trascrivo perché è troppo bello:
e andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
come tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare di muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
 
Strade dure, strade accidentate, strade in salita, strade col fiatone, col magone, fermandomi mille volte, farò bene farò male, perché tu sai cos’è restare in mezzo a una strada e ti senti abbandonato e non sai se andare di qua oppure prendere per laggiù.
 
Eh sì: camminare significa tante cose; e se non hai uno scopo e un traguardo vero tutto quel
camminare diventa una disperazione. Andare tanto per andare, camminare alla cieca, sbandare: ti
viene la tentazione di mandare tutto al diavolo e buttarti per terra e dire “basta, ho sbagliato strada,  ho imboccato un sentiero che non era il mio e, alla fine, che ne ho avuto...”.
 
Invece, anche se al buio e anche se in salita, una fiammella i maestri della vita spirituale, in testa, ce
l'hanno sempre, e un calore lo conservano sempre nell'anima, e quella tua macchinetta, che secondo
te solo allo sfascio dovresti portarla, loro ti dicono ma no, ma che dici, vieni qua, mettiamoci le mani, proviamo a darle un'aggiustatina, vedrai che ci cammini ancora. Insomma, piano piano pure io mi oriento, metto la freccia, ingrano le marce e ci provo ancora, a camminare, proprio come Giovanni della Croce che cerca di prendere di petto il suo immaginario monte Carmelo. Come?
Ecco, t'infili in macchina e ti fai il giro, di notte, nientemeno, che del grande raccordo anulare di
Roma, e a un certo punto ti metti a seguire le ambulanze con la sirena che strilla e ogni tanti ti fermi da una parte e dai un'occhiata a quello che è successo e alla fine dici mamma mia e te ne torni a casa. Ma che stupido a lamentarmi di tante cose invece di ringraziare Dio che ci ho ancora la buona salute e posso ancora camminare.
 
Ma camminare non è sempre così serio e duro. Quando camminare è invece un piacere...
 
E dai, facciamo due passi, tanto per muoverci, passeggiare, divertirci con lo struscio della domenica e un'occhiata alle vetrine, approfitto dei saldi, vuoi un caffè, ci sediamo, pronto, sì, certo, veniamo (dice che ha sotto mano una pizzeria che è un amore), ok, alle otto e mezzo, perfetto, veniamo, ciao. Lo vedi quanti regali la vita… e mi viene una fitta allo stomaco per impormi un grazie che non spunta mai da solo.
 
Non ti dico le foto di capodanno, ma davvero quello sono io: oh Dio, che ballo, volteggio, tango,  polka, qualche rock un po' sbilenco, un po' così, ma che importa, ma che ridere, ma che divertimento, che spasso, che allegria, e chi se le scorda quelle ore... “Tic tac”… fermi con i tappi dello spumante,  ancora non è mezzanotte. Abbracci, baci, e poi brindisi, in alto i calici e vieni,  balliamo il valzer del Gattopardo.
 
Il mappamondo non si ferma mai, gli do una giratina e plaf si ferma in America e resto col dito
puntato lì e ora papà ti fa vedere dove andremo l'estate prossima. Guarda da qui a qui: aereo a
Fiumicino e via sull'azzurro dell'Atlantico fino qui, a New York: guarda i grattacieli, la statua della
Libertà, il Central Park. I viaggi. I viaggi che solo a immaginarli ti faranno galleggiare in un sogno.
Vieni a papà, decidiamo insieme, prenotiamo, clic, ecco il volo, ecco qua l'albergo e se vogliamo
strafare pure i traghetti al largo di Manhattan. Pensa la felicità: per lui è il primo viaggio.
 
Ora però smetto, mi vengono le lacrime agli occhi. Per tanta grazia.
 
                                                                                                    (Viscardo Lauro)
 

Religione

DIO ESISTE: FRA MIRIADI DI PROVE E RICERCHE, UN'ANALOGIA STRAORDINARIAMENTE SEMPLICE E SIGNIFICATIVA

Pubblichiamo il modo originalissimo con il quale cui uno scrittore ungherese ha spiegato l’esistenza di Dio. Semplice ma tutt’altro che superficiale. Buona riflessione.
 

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Nella pancia di una mamma c’erano due bambini.

Uno chiese all’altro: ”Ci credi in una vita dopo il parto?”.

L’altro rispose: “E’ chiaro. Deve esserci qualcosa dopo il parto. Forse noi siamo qui per prepararci per quello che verrà più tardi”.

“Sciocchezze”, disse il primo. “Non c’è vita dopo il parto. Che tipo di vita sarebbe quella?”.

Il secondo rispose: “Io non lo so, ma ci sarà più luce di qui. Forse noi potremo camminare con le nostre gambe e mangiare con le nostre bocche. Forse avremo altri sensi che non possiamo capire ora”.

Il primo replicò: “Questo è un assurdo. Camminare è impossibile. E mangiare con la bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale ci fornisce nutrizione e tutto quello di cui abbiamo bisogno. Il cordone ombelicale è molto breve. La vita dopo il parto è fuori questione”.

Il secondo insistette: “Beh, io credo che ci sia qualcosa e forse sarà diverso da quello che è qui. Forse la gente non avrà più bisogno di questo tubo fisico”.

Il primo contestò: “Sciocchezze; e inoltre, se c’è davvero vita dopo il parto, allora perché nessuno è mai tornato da lì? Il parto è la fine della vita e nel post-parto non c’è nient’altro che oscurità, silenzio e oblio. Lui non ci porterà da nessuna parte”.

“Beh, io non so”, ha disse il secondo “ma sicuramente troveremo la mamma e lei si prenderà cura di noi”.

Il primo rispose: “Mamma… tu credi davvero alla mamma? Questo è ridicolo. Se la mamma c’è, allora dov’è ora?”.

Il secondo disse: “Lei è intorno a noi. Siamo circondati da lei. Noi siamo in lei. E’ per lei che viviamo. Senza di lei questo mondo non ci sarebbe e non potrebbe esistere”.

Disse il primo: “Beh, io non posso vederla, quindi è logico che lei non esiste”.

Al che il secondo rispose: “A volte, quando stai in silenzio, se ti concentri ad ascoltare veramente, si può notare la sua presenza e sentire la sua voce da lassù”.
 
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Antologia

SMANTELLARE LE PERSONE?

Scritto  nel 2013, questo piccolo pezzo riportava la pura cronaca di un incidentale episodio che attirò la mia attenzione mentre mi apprestavo a imboccare la via XX Settembre, a Roma, vicinissimo alla sede del ministero dell’agricoltura. Nonostante il tempo trascorso mi pare che esso, purtroppo, continui a essere attuale per diversi aspetti e a richiamare la nostra attenzione attiva di cittadini onesti. Per questo lo ripropongo.
Il 2013… diversi governi si sono succeduti da allora alla guida del nostro paese, formati  dal centrodestra o dal centrosinistra, ma nessuno di essi ha saputo spostare in alto l’asticella della civiltà con la quale la politica affronta la questione di far funzionare con efficienza le strutture pubbliche senza sprecare il lavoro delle persone e nello stesso tempo senza confondere efficienza con arbitrio di gestione o asetticità sociale di contenuti. Siamo ancora al punto di allora, dunque: e abbiamo l’impressione che anche il governo appena entrato in carica in questi giorni abbia sì cambiato colore e nomi dei suoi ministri, ma non abbia annunciato un orizzonte metodologico di miglioramento relativo al come impostare i problemi.  Almeno a giudicare dai fiumi di frasi fatte e generiche con cui si sono presentati i nuovi capi dei dicasteri con i relativi programmi.
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Me lo rigiro fra le mani, questo libretto di novantotto pagine, dal titolo Linee guida per una sana alimentazione italiana, che mi viene consegnato con una targhetta appiccicata sopra, la quale reca: Omaggio dei dipendenti ex Inran, in protesta sotto il Ministero dell’Agricoltura perché senza stipendio.


Di sottecchi torno a guardare la ragazza che con gentilezza me lo ha offerto. Gratis. Ma perché me lo offre? Che ci fanno, qui, sotto il ministero dell’agricoltura, tante decine di lavoratori radunati educatamente, anche se non silenziosamente?

L’Inran è l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. Il nome lo conoscevo. Faceva opera di divulgazione intelligente, questo istituto, come ricordo.

Ma… dipendenti privati o pubblici? – azzardo alla ragazza, per avere una conferma.

“Pubblici, pubblici… Ed è questo che non capiamo; sono i tagli: ma che tagli, se non ti spiegano nulla? Le sembra civile? Questo è lo Stato al cui servizio lavoriamo… Posso capire (mica scusare) le imprese private, che prendono e licenziano su due piedi: ma lo Stato dovrebbe spiegare, preparare, aiutare… E’ il modo, capisce? Il modo incivile: lo Stato è la comunità di tutti...”.

E la ragazza gentile, affiancata da alcuni colleghi, continua a raccontarmi una storia inverosimile:


- Sa che succede? Siamo ricercatori, soprattutto, ma anche impiegati… comunque quasi tutti con una famiglia da mantenere. Ora, succede che andiamo a ritirare lo stipendio e ci viene detto che… lo stipendio, semplicemente, non c’è.


- Come, non c’è? E dov’è? – facciamo noi.


- Beh, noi non lo sappiamo – rispondono; - ci hanno detto che da questo mese siete stati smembrati, in diversi gruppi, ma non sappiamo dove, non sappiamo altro… Provate a chiedere… non so… a un dirigente…

E comincia il calvario, perché in realtà nessuno ti riceve. Nessuno di quelli che possono realmente fare qualcosa. E nessuno sembra sapere nulla. Ma come è possibile? Riusciamo a far giungere la nostra voce, finalmente, al ministro, ma questi non solo non ci riceve ma si limita a farci sapere che… ignora tutto del problema. Ma che Stato è? Ma che politici sono? E che dirigenti sono?

In effetti, tutto questo ha dell’inverosimile: non perché non si possa decidere lo smantellamento di un istituto; anzi, ciò a volte è necessario, quando non sia possibile la sua trasformazione utile. Il fatto è che non si può decidere lo smantellamento delle persone. Questa è un’altra cosa. Lo impedisce la costituzione, lo impedisce anche il diritto naturale, lo impedisce una sana logica d’impresa pubblica.

Eppure la legge, in Italia, da un po’ di tempo a questa parte, non risponde più né alla costituzione né al diritto naturale né a una sana logica d’impresa: la legge agisce ormai come se vivesse per conto suo, essa è il ghigno di una entità astratta che si chiama formalmente parlamento o governo, ma forse questi formalizzano solo quanto stanze più oscure e nascoste decidono con obiettivi più oscuri e nascosti.

Delle cose non discute il paese, in modo che poi il parlamento riassuma la discussione e responsabilmente formuli l’approccio migliore di affrontarle: la legge è pronta, già preparata in qualche oscuro luogo da oscuri esperti al servizio di qualcuno, e viene data ai capigruppo parlamentari perché la facciano ingoiare a quei poveretti di parlamentari (il modo con il quale sono stati eletti, in liste preconfezionate, come branchi di buoi ubbidienti, è adatto in effetti solo a un ammasso di suddetti, anche se non raramente i suddetti sono o si trasformano a loro volta in carognette) e questi formalizzano senza sapere, il più delle volte, neanche l’oggetto della legge che votano. Il capo manda in giro a dire “lunedì ore 12 tutti in aula: si vota sì al decreto numero…”. Ed è fatta.

E’ fatta, cioè quelli votano. E poi, naturalmente, a tempo debito, vanno a riscuotere la pacca sulla spalla, da parte del capo soddisfatto. Il che assicura loro sempre qualcosa: una riconferma di mandato, comunque il lauto stipendio parlamentare, la lauta pensione parlamentare, spesso anche un incarico di consulenza presso un ente quando parlamentari non saranno più… Quale ente? Mah, chissà: forse anche un Inran qualsiasi: le cui spese cresceranno, ma che importa? Male che vada, diremo ai lavoratori che non ci sono più soldi e che dei licenziamenti sono inevitabili. Pian piano si rassegneranno.

Rassegnarsi? Ad esempio non andare a votare? No, no… mai. Cerchiamo piuttosto con il lumicino le persone in gamba, dovunque siano, rinforziamo quelle, quanto più possiamo, dovunque siano. Anche questo è fare politica. Ma non arrendiamoci, mai.
                                                                                                         
                                                                                                                                            (Giuseppe Ecca)
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Medicina e società

MENOPAUSA ED ANDROPAUSA A CONFRONTO

Salvatore Mancuso è medico autorevolissimo e famoso da tanti anni, a livello nazionale ed all’estero, soprattutto nel campo della ostetricia e ginecologia. Ed è, fra l’altro, presidente del Comitato di Bioetica presso il Policlinico Gemelli di Roma. Pubblichiamo di seguito una sua recente conferenza di aggiornamento e divulgazione tenuta presso la Fondazione Palleschi per l’Aiuto all’Anziano, sul tema, sempre più diffuso per via del crescente invecchiamento della popolazione, relativo a “menopausa e andropausa”. L'accento particolare posto nella sua riflessione sull'andropausa è di particoalre interesse in quanto fino ad oggi incredibilmente trascurato da una opinione pubblica media più attenta al solo  problema della menopausa.

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Sono due fasi della vita di ogni essere umano, che coincidono con l’esaurimento della funzione riproduttiva e si manifestano nei due sessi con modalità e decorsi differenti. Di regola compaiono dopo il quinto decennio e, stante la raggiunta aspettativa di vita che negli uomini, ma soprattutto nelle donne, in condizioni normali dovrebbe superare gli 80 anni, si calcola che in media si vive più di 30 anni in menopausa ed in andropausa.
Entrambe le condizioni nell’uomo e nella donna si accompagnano con segni e sintomi di disagio e talora di sofferenza, che spesso sfociano in una vera e propria sindrome, che risente di innumerevoli influenze, per lo più di carattere socio-antropologico e dipendenti da più fattori, quali lo stile di vita, l’armonia nell’ambito della famiglia, il livello culturale, gli interessi nati al termine dell’abituale attività lavorativa, il rapporto di coppia e lo stato di salute psico-fisico. Anche il fisico risente dei mutamenti che accompagnano l’interruzione dell’effetto degli ormoni sui diversi organi bersaglio, e più nella donna che nell’uomo.
Nella donna, infatti, la menopausa, cioè l’arresto della funzione ciclica ormonale e riproduttiva dell’ovaio, con scomparsa del periodico flusso mestruale, è carica di simbolismi e di significati per lo più negativi, a causa dei mutamenti che lei stessa avverte nel suo organismo ma anche alla sua stessa immagine. Infatti, la mestruazione ha dato da sempre il ritmo alla sua vita e la menopausa è ritenuta come la perdita dell’effige della femminilità, l’evento che apre le porte alla senescenza con le conseguenze di un’irrimediabile scomparsa dei paradigmi del fascino della gioventù e della bellezza muliebre. Oggi invece la menopausa giunge "nel mezzo del cammin" della vita della donna, che molto spesso vivrà in post-menopausa più anni che in età fertile.
  Tutto ciò è dovuto essenzialmente alla scomparsa repentina degli ormoni femminili, gli estrogeni, che durante il periodo fertile sono prodotti dagli stessi follicoli ovarici che contengono anche gli ovociti, i gameti femminili, il cui numero in ciascuna donna è predeterminato durante la pubertà e, una volta esauritosi, cessano simultaneamente le due funzioni, sia quella ormonale e sia quella riproduttiva.
  Nell’uomo, invece, le due funzioni sono separate: i gameti maschili, gli spermatozoi, sono prodotti nei tubuli seminiferi e poi convogliati nell’epididimo, mentre l’ormone maschile più attivo, il testosterone, è prodotto da altre strutture: le cellule di Leydig che sono del tutto separate e svincolate nella loro funzione da quelle che producono i gameti e le due attività non hanno la caratteristica della ciclicità ma funzionano in maniera continua. Per questo motivo un uomo potrebbe procreare anche in età avanzata e il suo ormone  diminuisce molto gradualmente con l’età, dato che la sua produzione non si arresta bruscamente, come invece avviene nella donna con gli estrogeni.
  Tutto ciò comporta che nell’uomo, oltre al mantenimento della capacità procreativa, persistono gli stimoli ormonali, a cui però non fa riscontro il mantenimento a lungo termine della funzione erettile e quindi l’andropausa si associa alla difficoltà di conservare a lungo l’esercizio attivo della sessualità e questo si può associare con uno stato depressivo a diversi livelli di intensità.
  Nella donna questo non avviene, anche se spesso si verifica una  progressiva riduzione della libido, dovuta sia alle nuove condizioni ormonali e sia alla distrofia delle mucose, che rende difficile e dolorosa l’attività sessuale. Insieme a questo consistente disagio, la menopausa si caratterizza con altri sintomi, che sono di natura psicologica, come il sopraggiungere di uno stato melanconico fino alla depressione, insonnia, nervosismo, difficoltà a socializzare e talora persino a mantenere l’abituale armonia familiare. Inoltre si manifestano disturbi metabolici, specie a carico del ricambio dei grassi e del calcio osseo, fino alla tendenza all’aumento di peso e alla comparsa dell’osteoporosi nei soggetti predisposti.
  La farmacologia clinica ha prodotto numerose soluzioni a questi problemi di natura sia psicologica e comportamentale che fisica, tanto per la menopausa quanto per l’andropausa, e tra queste le più adottate sono la terapia ormonale sostitutiva in entrambi i sessi, e quella per la disfunzione erettile nell’uomo. E’ innegabile che in entrambi i casi le terapie devono essere personalizzate e calibrate con estrema attenzione, tenendo conto non solo della presenza di patologie concomitanti a carico dei vari organi ed apparati, ma anche delle predisposizioni sotto forma di disfunzioni latenti, che potrebbero esitare verso quelle patologie degenerative che sono proprie dell’età avanzata.
  In assenza di controindicazioni relative ed assolute, la terapia ormonale in menopausa a basse dosi e con la giusta scelta delle combinazioni ormonali e della via di somministrazione, se eseguita con attenzione e con i dovuti controlli periodici, rappresenta un caposaldo che offre un sicuro beneficio, non solo per i sintomi fisici ma anche per l’effetto psicologico che produce. Purtroppo il suo impiego è stato limitato a causa di un’informazione che ha amplificato in modo esagerato i possibili rischi e minimizzato i benefici che si ottengono dal suo impiego attento e personalizzato, e questo soprattutto nella donna.
 Nell’uomo la graduale riduzione dei livelli di testosterone si accompagna con sintomi meno vistosi ed improvvisi, tuttavia anch’essi carichi di disagio e di sofferenza. Gli organi ed apparati dove l’azione del testosterone è rilevante sono: il sistema nervoso, lo scheletrico, quello muscolare, il cardiocircolatorio e la cute. Si registrano anche alterazioni dell’umore e della funzione cognitiva, con facile irritabilità, nervosismo, depressione, insonnia e sensazione di malessere generale; inoltre scarsa capacità di concentrazione, deficit della memoria a breve termine, carenza di energia e forza fisica, riduzione graduale del desiderio sessuale e della capacità di ottenere e mantenere l’erezione. Si possono rilevare anche una diminuzione della massa muscolare, aumento del grasso a livello addominale ed osteoporosi con maggiore rischio di fratture. Altri effetti metabolici della carenza di testosterone sono rappresentati da modificazioni dei livelli del colesterolo, specie della frazione ad alta densità (HDL), con conseguente aumento del rischio di patologie cardiovascolari.
  La terapia con basse dosi di testosterone sotto forma di gel per via transcutanea o per via parenterale di preparati a lento assorbimento somministrati con lunghi intervalli, giova molto e ristabilisce una condizione di salute psico-fisica soddisfacente. Il trattamento dovrà essere monitorato con estrema attenzione, con frequenti esami clinici e di laboratorio per verificare specialmente i livelli di colesterolo, del testosterone e della sua proteina vettrice (SHBG) e del PSA. L’impiego del Sildenafil Citrato e derivati per la terapia della disfunzione erettile in andropausa, a dosi appropriate e con estrema attenzione agli effetti collaterali, specie quelli dovuti ad interazioni con altri farmaci, ha indubbiamente cambiato la condizione di benessere e la vita di relazione dell’anziano.
Il confronto tra menopausa ed andropausa va quindi considerato in termini temporali e fisiologici ma, quando si rende necessario, con il tentativo di ristabilire quell’equilibrio  alterato  dal dissesto ormonale, che è causa di molteplici disturbi psico-fisici. Questa carenza deve essere ricomposta per riguadagnare il benessere, la gioia di vivere, il gradimento della propria immagine e la capacità di relazionarsi con gli altri.
  Va ricordato che, come più volte affermato dagli esperti, le terapie ormonali sostitutive sono state studiate a lungo e presentano profili di sicurezza superiori a quelli di farmaci di largo impiego e simili a quelli delle preparazioni da banco vendute senza ricetta medica.
 
                                                                                                          (Salvatore Mancuso)
 
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Politica

DEMOCRAZIA COMUNITARIA: UNA VIA NUOVA PER UNA META ANTICA

Centosette: li ho contati con puntiglio, per curiosità, e tanti sono stati, fino a questa mattina, gli amici che, incontrandomi  o scrivendomi, in queste ultime settimane, mi hanno chiesto: Ma chi è in realtà Democrazia Comunitaria, che sentiamo citare o vediamo prendere posizione su questo o quel problema della società, della politica, dell’umanità?
 
Rispondo una volta per tutte e in modo scritto e formale, dopo averlo spiegato tante volte in modo verbale e informale a molti fra gli amici citati. Democrazia Comunitaria è Una nuova via per una meta antica”.
 
Si occupa di politica, Democrazia Comunitaria? Sì, ma anche semplicemente di società, di  umanità, di cultura, di valori condivisi e di solidarietà.
 
La sintesi ideale che Democrazia Comunitaria considera come suo riferimento di visione e missione è quella espressa nella frase che mi avete sentito ripetere, o mi avete visto riscrivere, più volte, in più di un documento: si chiama Umanesimo plenario. E, come sottotitolo interpretativo, Per tutto l’uomo e per tutti gli uomini”. Le espressioni furono coniate da Paolo VI, un grandissimo uomo e un grandissimo papa. Le trovate anche come sottotitolo di studisociali.org. E, se ci pensate, sono pregnantissime.
 
“Allora siete cattolici, tutti voi di Democrazia Comunitaria”, mi direte. Molti di noi sì, lo sono; altri no: personalmente sono credente e cattolico, e praticante, come la maggior parte di noi, ma fra i nostri e miei amici di ideali annoveriamo anche persone di sensibilità culturale laico-repubblicana (in particolare della tradizione mazziniana), o laico-liberale (in particolare della tradizione einaudiana) o laico-socialista (in particolare della tradizione pertiniana) e altri ancora. Uniti però tutti da alcuni connotati specifici di opzione morale e politica nella concezione dell’umanità, della società e della politica.
 
Il fatto centrale, in fondo, non è la novità delle cose che diciamo, le quali sono in verità antichissime. E’ invece il fatto che siamo decisamente “quelli dei puntini sulle i, come modo di concepire sia la Democrazia sia la Comunità, cioè le parole presenti nel nostro nome, e tutto il programma che ci sta dentro, e soprattutto i comportamenti conseguenti. E più precisamente, per citare alcuni di tali “puntini sulle i”:
 
Primo puntino sulle i: la democrazia è un valore essenziale ma a condizione che anche le minoranze e le singole persone vengano sempre rispettate, ascoltate e valorizzate; la democrazia che si limiti a ritenere che la maggioranza può decidere e basta, è un tradimento del valore di democrazia: questa è tale se, pur consentendo alla maggioranza di decidere, come è necessario e alla fine giusto, attribuisce valore centrale alla persona e riconosce a proprio fondamento valori che neppure la maggioranza può violare: come la libertà di pensiero e di religione, la libertà di voto, la libertà di candidarsi alle elezioni, il valore integrale di ogni vita umana, e così via; insomma, ad esempio, la democrazia che, fosse pure con ineccepibile scelta di solida maggioranza, decidesse che è vietato criticare un governo in carica, non sarebbe affatto democrazia e non sarebbe affatto legittima.
 
Secondo puntino sulle i: l’aggettivo Comunitaria significa che la persona, centro di imputazione di tutti i diritti e di tutti i doveri, non nasce, non si sviluppa, non si realizza, se non nel contesto naturale e armonico e solidale di una comunità, cioè insieme con gli altri: e gli altri sono innanzitutto la famiglia naturale, e dopo di essa via via la comunità locale in cui si vive,  la comunità statale di cui si è cittadini, l’umanità intera, la propria comunità religiosa di appartenenza, la comunità della impresa nella quale si lavora, il proprio eventuale sindacato, e insomma tutti i luoghi nei quali la persona realizza e sviluppa appunto pienamente sestessa insieme con altre persone. La persona, in questo quadro, è il centro di tutto ed ha diritti inderogabili ma ha parimenti doveri assolutamente inderogabili, quali il rispetto del bene comune, il rispetto degli ambienti pubblici, il pagamento delle tasse in misura equa, la solidarietà sociale, e così via.
 
Terzo puntino sulle i: l’economia e il lavoro sono binomio inscindibile di efficienza e dignità di una società. Inscindibili, avete capito? Non c’è una economia che non produca lavoro, e non c’è un lavoro che non generi una economia. Cioè, non c’è una economia legittima se è economia di finanza speculativa,  non c’è un lavoro legittimo se è lavoro puramente nominale, cui corrisponde una mera rendita o un ruolo parassitario. Il diritto al lavoro è assoluto, ma anche il dovere al lavoro lo è. Il lavoro è dunque per definizione produttivo, cioè utile, mai parassitario. L’impresa deriva dal lavoro e non viceversa. L’impresa a sua volta ha diritto a nascere e svilupparsi avendo a riferimento una burocrazia autorizzativa, fiscale, di controlli, etc., semplici, snelle, trasparenti. Il diritto di fare impresa non è soggetto a capricci autorizzativi o di veto di alcuna burocrazia nè statale né locale: ha solo l’obbligo di rispettare i suoi doveri fiscali, ambientali, sociali. E di essere partecipativa, cioè connotata da cointeressenza, anche economica, fra tutti quelli che vi operano; cioè olivettiana, se così volete chiamarla.
 
Quarto puntino sulle i: la scuola e la formazione sono diritto e dovere di tutti, anch’esse, ed hanno impronta umanistica per tutti. Le tecniche sono indispensabili, con le conseguenti competenze, ma seguono l’umanità, e mai viceversa. Ci interessano le persone, non i robot. Questi li inventiamo e li usiamo ma semplicemente come macchine che ci aiutano, alla stregua della lavatrice o del sistema di allarme in casa. E inoltre la scuola e la formazione sono per tutte le età, non soltanto per quella giovanile.
 
Quinto puntino sulle i: la famiglia e la solidarietà sono centro fondativo della società. La famiglia è quella naturale prevista dalla costituzione italiana, dal diritto naturale e dalla dottrina sociale della Chiesa. La famiglia naturale va protetta, favorita, sostenuta e, ove occorra, vigilata, non sostituita né abolita.
 
Sesto puntino sulle i: la dimensione internazionale. Basta con la vuota retorica europeista e internazionalista. L’Europa non è un bene in sé: l’Europa è un bene in quanto si comporti da paradigma del processo verso il mondo unito, che è il nostro ideale. Come era per i padri fondatori. Sono europeista da sempre. Eravamo bambini, quando ci insegnarono a essere europeisti. Ma ci insegnarono ideali di condivisione, non affari in comune. Sì, di condivisione, proprio come dice il mio amico di studi salesiani Nunzio Saviana. E l’Italia si chiamava Italia, non Italy. E si imparavano le lingue reciproche, non una lingua unica (per giunta brutta) con la quale vedo che anche voi spesso volete continuare a ingurgitare modelli mentali e culturali spesso obbrobriosi e monodimensionali. Fatela finita.
 
Settimo puntino sulle i: la natura casa comune. Il vincolo del rispetto ambientale non conosce né privilegi né eccezioni. Non è concepibile alcun diritto di costruzione, di qualsiasi tipo, se non corredata da proporzionale superficie a verde. E il rispetto della natura comprende il rispetto della vita animale come di tutta la vita e di ogni singola vita. Gli animali vanno protetti come bene comune: protetti dalla immaturità, dalla crudeltà e dalla imbecillità criminale di troppi cittadini.
 
Ottavo puntino sulle i: il diritto, la giustizia, l’efficienza amministrativa. Alla base hanno una legislazione semplice. Il tradimento attuale del sistema legislativo e normativo italiano nei confronti dei cittadini italiani è colpevole e dovuto alla irresponsabilità e inadeguatezza grave della classe politica. La legislazione, in particolare, va assolutamente semplificata. Assolutamente. Come pure l’amministrazione della giustizia e le sue procedure. Come pure il fisco e i suoi adempimenti. Come pure la normativa elettorale, che deve restituire ai cittadini il potere di scegliere persone, non simboli  o liste.
 
Nono puntino sulle i: i melensi luoghi comuni categorizzanti. Non ci sono uomini e donne, ma persone. Non ci sono ceti medi e ceti alti o bassi, ma persone. Non ci sono “nordici” e “sudici”, ma persone. Non ci sono autonomie differenziate, ma l’autonomia di ogni persona e di ogni comunità, uguale in un paese di cittadini e di comunità uguali. Non ci sono imprenditori e lavoratori, ma persone che lavorano. E così via.
 
Ma il nono puntino sulle i è il più importante di tutti. Infatti molti di voi mi diranno (e mi hanno già detto): Se Democrazia Comunitaria è come tu dici, allora ci piace, e vogliamo farne parte. Ebbene, non vi voglio. Non vi voglio se appartenete alle aberranti categorie oggi zavorranti intorno a noi, che formano le schiere cialtronesche di quanti, sedicenti di ispirazione cattolica o laica che siano, tronfi di una lingua lunghissima quanto mal governata, sono bravissimi nel ripetere forbite prediche pseudo-politiche o pseudo-religiose agli altri, razzolando poi malissimo nei comportamenti personali. Il nono puntino sulle i è proprio questo: Democrazia Comunitaria è un raggruppamento, od organizzazione, od ordine, o partito, o gruppo, o come decideremo alla fine di chiamarla, caratterizzato dalla necessità assoluta, in chi vi aderisce, di comportamenti personali ineccepibili, e di ineccepibile cultura delle regole. Ho definito monastico e militare, nel senso più bello e più alto, il modello organizzativo e politico di Democrazia Comunitaria: monastico quanto a elevatezza etica dei comportamenti, militare quanto a spirito di comunità, ad attenzione al bene comune, e anche, perché no, a spirito di corpo nel senso, anche qui, di cultura ineccepibile delle regole e della solidarietà (solidarietà che non è mai connivenza, come devo precisare per i troppi analfabeti che, drogati dall’anglofonia, hanno dimenticato il senso corretto delle parole in lingua italiana). Se tu che leggi sei di quelli che predicano la elezione interna dei capi con voto segreto salvo riservarti di essere personalmente eletto per acclamazione, non fai per noi. Non venire in Democrazia Comunitaria. Non ti vogliamo. Se predichi la meritocrazia nella gestione dei concorsi pubblici e poi operi per corrompere la graduatoria del concorso e far entrare tua nuora a spese di un concorrente migliore che non ha santi in paradiso, non fai per noi. Non ti vogliamo. Te lo ripeto con chiarezza, non ti vogliamo. Vai a cercare dimora politica e morale altrove. Ti offriremo il caffè senza inimicizia personale, ma non sei ammesso in Democrazia Comunitaria.
 
Adesso, però, amici che leggete, fatela finita. Fatela finita con il tornare a chiedermi cosa è Democrazia Comunitaria. Perché non vi risponderò più. Democrazia Comunitaria è quello che vi ho appena sintetizzato, e tutto ciò che di ulteriore vi ho spiegato anche per scritto tante altre volte, in documenti che molti di voi hanno certamente letto e che risalgono anche a qualche anno fa, e anche più indietro. Democrazia Comunitaria non vuole morire di chiacchiere retoriche, ma vuole vivere di comportamenti civici, politici e umani, elevati; anzi, pienamente umanistici nel senso già detto: “per tutto l’uomo e per tutti gli uomini”.
 
                                                                                                                             Giuseppe Ecca
 
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Democrazia Comunitaria

"AUTONOMIE DIFFERENZIATE": E' CONFUSIONE CHE RESPINGIAMO

Viene chiesto a Democrazia Comunitaria, da diversi amici, di esprimere una posizione anche formale in materia di “autonomie differenziate”, oggetto di crescente dibattito politico e di conseguenti polemiche, in questo periodo, fra i diversi partiti.
 
Si tratta di un tema sul quale Democrazia Comunitaria ha in corso una elaborazione compiuta di analisi e proposta, ma non vi sono dubbi circa la sempre confermata sua posizione sostanziale in materia generale di autonomie, da cui è in realtà facile, anzi facilissimo, desumere quella specifica in materia di “autonomie differenziate”: Democrazia Comunitaria è assolutamente contraria al principio delle autonomie differenziate.
 
La ragione di tale contrarietà è logica, politica e culturale insieme: in un mondo sempre più globalizzato e sempre più interconnesso, in cui dunque anche l’Italia è sempre più globalizzata e interconnessa, le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. Le autonomie differenziate in effetti frantumano, dividono, differenziano appunto, e corrompono.
 
In altri termini: l’autonomia non è mai la libertà di vivere una condizione di diversità normativa o economica, più favorevole o meno favorevole, fra cittadini. E’ del tutto impensabile, ad esempio, che esistano procedure e oneri diversi, per il cittadino, in materia di accesso al servizi sanitario nazionale o alla scuola; è del tutto impensabile (come invece capita) che un certificato medico valga in Toscana e non valga in Puglia; è del tutto impensabile che in un liceo della Sardegna sia previsto il voto di condotta e in un liceo del Veneto no. Il cittadino italiano ha gli stessi diritti e gli stessi oneri in qualunque regione viva. Ma in qualunque regione viva (ed in qualunque comune, per alcuni profili della cittadinanza) il cittadino attraverso gli istituti di autonomia concorre più direttamente alla gestione di diritti e oneri, e al loro miglioramento. La comune italianità solidale di tutti non è indebolita, la personalità di ciascun cittadino, come singolo e come gruppi intermedi cui appartenga, è valorizzata dovunque egli viva.
 
In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, perché sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, e successivamente anche Friuli Venezia Giulia). Del resto, i semplici dati storici confermano che Sicilia e Sardegna, ad esempio, si sono servite della loro autonomia speciale per accrescere corruzione e inefficienza, mentre Veneto ed Emilia, ad esempio, si sono servite della loro autonomia ordinaria per realizzare il loro grande cammino di crescita. E’ problema di cultura e di buon uso delle autonomie, non di differenziazione delle autonomie! Lo dico anche da orgogliosamente sardo, immarcescibilmente sardo, testardamente sardo, entusiasticamente sardo, e sdegnosamente deciso a non avere connivenze con la parte marcia e corrotta della mia isola, vergognosamente e vigliaccamente nascosta nella retorica dell’autonomia speciale per continuare le sue abitudini parassitarie e le sue malcondotte amministrative.
 
Le regioni devono piuttosto, a prescindere dalla tipologia di autonomia definita in capo ad esse,  venir sottoposte (cosa che finora non è stata fatta) a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche: infatti la notevolissima, e probabilmente eccessiva, mole di risorse che la stessa autonomia ordinaria affida alle regioni attualmente si è palesata densa di effetti corruttivi e di sprechi ampi e generalizzati. Vanno ridotti questi, non differenziata l’autonomia!
 
Né questa affermazione può essere, come tenta di essere, una scusa per cercar di mantenere in  piedi le province, che avrebbero dovuto essere abolite fin dal 1970 in quanto anche per esse sono del tutto superate  le ragioni storiche della loro esistenza: le province furono la creazione di un modello di decentramento burocratico-prefettizio dovuto alle precise e limitanti condizioni storiche in cui l’Italia venne a trovarsi nell’immediato post-risorgimento. Condizioni determinate contingentemente dalla improvvisa morte di Cavour e, con lui, del suo progetto naturalmente regionale, nonché dal conseguente indebolimento ed anche smarrimento della classe dirigente politica, che dovette orientarsi a un decentramento di fatto puramente burocratico, da affidare sostanzialmente alle prefettura come emanazione del potere centrale in funzione essenzialmente di controllo dell’unità nazionale ancora non consolidata. Del resto, anche sul piano psicologico, storico e culturale, uno si sente toscano e fiorentino, non si sente “della provincia di Firenze”; si sente sardo e di Orgosolo, non si sente “della provincia di Nuoro”; si sente “lombardo e milanese”, non “della provincia di Milano”. Le provincie non hanno identità, sono solo partizioni amministrative. E, ancora, chi pensi con attenzione troverà che nel periodo del loro maggior ruolo esse non furono certo una realtà meno clientelare e corrotta e burocratizzata dei comuni e dei ministeri.
 
Insomma, le autonomie sono un valore vero e doveroso e grande di potere partecipativo dei cittadini, non un pretesto per frantumare ancora di più il paese né per rinforzare corporazioni e potentati locali finalizzati all’acquisizione di ulteriori privilegi o alla ulteriore evasione dagli oneri della più complessiva comunità e solidarietà nazionale.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Democrazia Comunitaria

"AUTONOMIE DIFFERENZIATE": E' CONFUSIONE CHE RESPINGIAMO

Viene chiesto a Democrazia Comunitaria, da diversi amici, di esprimere una posizione anche formale in materia di “autonomie differenziate”, oggetto di crescente dibattito politico e di conseguenti polemiche, in questo periodo, fra i diversi partiti.
 
Si tratta di un tema sul quale Democrazia Comunitaria ha in corso una elaborazione compiuta di analisi e proposta, ma non vi sono dubbi circa la sempre confermata sua posizione sostanziale in materia generale di autonomie, da cui è in realtà facile, anzi facilissimo, desumere quella specifica in materia di “autonomie differenziate”: Democrazia Comunitaria è assolutamente contraria al principio delle autonomie differenziate.
 
La ragione di tale contrarietà è logica, politica e culturale insieme: in un mondo sempre più globalizzato e sempre più interconnesso, in cui dunque anche l’Italia è sempre più globalizzata e interconnessa, le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. Le autonomie differenziate in effetti frantumano, dividono, differenziano appunto, e corrompono.
 
In altri termini: l’autonomia non è mai la libertà di vivere una condizione di diversità normativa o economica, più favorevole o meno favorevole, fra cittadini. E’ del tutto impensabile, ad esempio, che esistano procedure e oneri diversi, per il cittadino, in materia di accesso al servizi sanitario nazionale o alla scuola; è del tutto impensabile (come invece capita) che un certificato medico valga in Toscana e non valga in Puglia; è del tutto impensabile che in un liceo della Sardegna sia previsto il voto di condotta e in un liceo del Veneto no. Il cittadino italiano ha gli stessi diritti e gli stessi oneri in qualunque regione viva. Ma in qualunque regione viva (ed in qualunque comune, per alcuni profili della cittadinanza) il cittadino attraverso gli istituti di autonomia concorre più direttamente alla gestione di diritti e oneri, e al loro miglioramento. La comune italianità solidale di tutti non è indebolita, la personalità di ciascun cittadino, come singolo e come gruppi intermedi cui appartenga, è valorizzata dovunque egli viva.
 
In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, perché sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, e successivamente anche Friuli Venezia Giulia). Del resto, i semplici dati storici confermano che Sicilia e Sardegna, ad esempio, si sono servite della loro autonomia speciale per accrescere corruzione e inefficienza, mentre Veneto ed Emilia, ad esempio, si sono servite della loro autonomia ordinaria per realizzare il loro grande cammino di crescita. E’ problema di cultura e di buon uso delle autonomie, non di differenziazione delle autonomie! Lo dico anche da orgogliosamente sardo, immarcescibilmente sardo, testardamente sardo, entusiasticamente sardo, e sdegnosamente deciso a non avere connivenze con la parte marcia e corrotta della mia isola, vergognosamente e vigliaccamente nascosta nella retorica dell’autonomia speciale per continuare le sue abitudini parassitarie e le sue malcondotte amministrative.
 
Le regioni devono piuttosto, a prescindere dalla tipologia di autonomia definita in capo ad esse,  venir sottoposte (cosa che finora non è stata fatta) a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche: infatti la notevolissima, e probabilmente eccessiva, mole di risorse che la stessa autonomia ordinaria affida alle regioni attualmente si è palesata densa di effetti corruttivi e di sprechi ampi e generalizzati. Vanno ridotti questi, non differenziata l’autonomia!
 
Né questa affermazione può essere, come tenta di essere, una scusa per cercar di mantenere in  piedi le province, che avrebbero dovuto essere abolite fin dal 1970 in quanto anche per esse sono del tutto superate  le ragioni storiche della loro esistenza: le province furono la creazione di un modello di decentramento burocratico-prefettizio dovuto alle precise e limitanti condizioni storiche in cui l’Italia venne a trovarsi nell’immediato post-risorgimento. Condizioni determinate contingentemente dalla improvvisa morte di Cavour e, con lui, del suo progetto naturalmente regionale, nonché dal conseguente indebolimento ed anche smarrimento della classe dirigente politica, che dovette orientarsi a un decentramento di fatto puramente burocratico, da affidare sostanzialmente alle prefettura come emanazione del potere centrale in funzione essenzialmente di controllo dell’unità nazionale ancora non consolidata. Del resto, anche sul piano psicologico, storico e culturale, uno si sente toscano e fiorentino, non si sente “della provincia di Firenze”; si sente sardo e di Orgosolo, non si sente “della provincia di Nuoro”; si sente “lombardo e milanese”, non “della provincia di Milano”. Le provincie non hanno identità, sono solo partizioni amministrative. E, ancora, chi pensi con attenzione troverà che nel periodo del loro maggior ruolo esse non furono certo una realtà meno clientelare e corrotta e burocratizzata dei comuni e dei ministeri.
 
Insomma, le autonomie sono un valore vero e doveroso e grande di potere partecipativo dei cittadini, non un pretesto per frantumare ancora di più il paese né per rinforzare corporazioni e potentati locali finalizzati all’acquisizione di ulteriori privilegi o alla ulteriore evasione dagli oneri della più complessiva comunità e solidarietà nazionale.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Lavoro

ATTENZIONE AI COMPUTERS AZIENDALI: UN CASO DI GIUSTO LICENZIAMENTO

Il computer aziendale è un bene, appunto, “aziendale”: va usato per il lavoro aziendale. Ed è diritto dell’azienda verificare, a certe condizioni, che così effettivamente avvenga. Manuela Lupi spiega e commenta una interessante sentenza della Corte di Cassazione.
 
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Con sentenza n. 13.266 del 2018, la Corte di Cassazione ha precisato che il controllo datoriale, attraverso un’indagine retrospettiva di carattere informatico sull’utilizzo del computer fornito in dotazione al dipendente, non viola la normativa sui controlli a distanza con la quale l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori tutela i lavoratori stessi.
 
In particolare, non rientrano nel campo di tutela dello Statuto dei lavoratori le verifiche effettuate dal datore di lavoro tramite il tracciamento informatico, quando siano dirette ad accertare comportamenti illeciti del dipendente che determinino un effetto lesivo sul patrimonio aziendale e sull’immagine dell’impresa. Ne consegue che i dati raccolti in un’indagine sull’utilizzo del computer da parte del dipendente possono essere validamente posti a fondamento di un licenziamento disciplinare.
 
Il caso de quo riguardava un lavoratore sorpreso dal direttore tecnico dell’impresa ad utilizzare il computer per finalità ludiche, così che la società aveva effettuato un’indagine retrospettiva sulle attività che il dipendente aveva svolto anche nelle settimane precedenti avvalendosi dello stesso computer. Poiché i riscontri avevano consentito di appurare un ampio ricorso al computer per giocare, il dipendente veniva sottoposto a contestazione disciplinare sfociata nel licenziamento
 
Al licenziamento il lavoratore si era opposto sul presupposto che i riscontri erano intervenuti in aperta violazione della disciplina che impone un previo accordo sindacale o, in difetto di questo, l’autorizzazione dell’Ispettorato. 
 
La Cassazione ha escluso che la raccolta dei dati da parte dell’azienda sia avvenuta in violazione dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, in quanto il monitoraggio non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro bensì la tutela di beni estranei al contratto di lavoro in sé.
 
Il necessario bilanciamento tra l’esigenza datoriale di proteggere gli interessi e i beni aziendali, e le tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, comporta che l’uso degli strumenti di controllo avvenga in base a principi di ragionevolezza e proporzionalità, essendo necessario che il lavoratore sia stato previamente informato dal datore del possibile controllo delle sue comunicazioni. Ne consegue che, se i dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, alla posta elettronica o alle utenze telefoniche da essi chiamate, sono estratti con lo scopo di tutelare beni estranei al rapporto di lavoro, tra cui rientrano il patrimonio e l’immagine aziendali, i dati acquisiti possono essere legittimamente utilizzati in funzione disciplinare contro il lavoratore.
                                                                              
                                                                                                                                                    (Manuela Lupi)
 
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Politica

DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA E DEMOCRAZIA DIRETTA SONO ALTERNATIVE?

Da un lato la necessità di rinnovamento dei partiti politici affinchè tornino a saper essere luoghi di interpretazione, partecipazione e mediazione degli interessi in una visione di bene comune costantemente discussa fra i cittadini e con i cittadini, dall’altro l’arricchimento della macro-democrazia, che esprime le istituzioni di rappresentanza e governo generale (parlamento, sindaci, etc.) con elementi diffusi di micro democrazia che offra al cittadino la possibilità di forme partecipative sostanziali anche a livello di scuola, sindacato, economia, servizi pubblici, etc. E’ su questo duplice e contestuale piano di azione che si snoda in sostanza la proposta di Giuseppe Bianchi, riprendendo per aspetti importanti quella riflessione più generale di analisi che Giuseppe De Rita, per il Censis, ha definito più volte intorno al concetto di “crisi della intermediazione sociale e politica”.
 
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La crisi dei  sistemi democratici che tocca buona parte dei paesi occidentali è per lo più riportata nel dibattito pubblico alle crescenti diseguaglianze provocate da una globalizzazione priva di reti di protezione sociale. Un dato sicuramente influente, non esclusivo dell’attuale momento storico e non sufficiente a spiegare il crescente successo dei movimenti populisti la cui capacità di mobilitazione va ben oltre la rappresentanza dei cosiddetti svantaggiati.
 
Movimenti che si caratterizzano non tanto e non solo per le politiche sociali a riparazione dei torti subiti dalle fasce sociali più deboli quanto per l’attacco portato alle istituzioni della democrazia rappresentativa (partiti, sindacati...) in quanto parti di una “casta” privilegiata non più capace di interpretare la “voce del popolo”.
 
Un ribellismo, non di breve periodo come avvenuto altre volte nel passato, perché dietro questi movimenti ci sono trasformazioni strutturali che il sistema politico in atto ha saputo né cogliere né interpretare.
 
Un dato è costituito dalla disgregazione della società di massa, costola dell’industrializzazione di massa, che aveva creato le condizioni di crescita delle istituzioni rappresentative di massa (partiti, sindacati) la cui coesione sociale era sostenuta da fattori ideologici e da elitès intellettuali. Conseguenti, le spinte ad una maggiore individualizzazione dei bisogni e delle aspirazioni dei cittadini, peraltro coincidenti con la minor disponibilità di risorse pubbliche disponibili da parte degli Stati nazionali la cui sovranità è stata limitata da irreversibili processi di integrazione a livello sovranazionale.
 
Un ulteriore dato è di natura tecnologica. Lo sviluppo di internet e dei social ha dato vita a nuove reti di comunicazione tra i cittadini, non più intermediate da istituzioni rappresentative, all’interno delle quali aspirazioni incontrollate e pulsioni emotive alimentano, in via endogena, un nuovo populismo digitale. Un circuito di opinione pubblica che si forma nel recinto del web, indifferente alle tradizionali categorie politiche di destra e sinistra.
Un conflitto politico che si estende alle regole del gioco contrapponendo democrazia diretta a democrazia rappresentativa.
 

Questione antica che viene ora riproposta in termini di “democrazia elettronica” senza risolvere la contraddizione fra l’eguale diritto al voto dei cittadini e la disuguale capacità o volontà di partecipare alla vita politica (oggi più che mai complessa) aprendo la strada a manipolazioni da parte di minoranze attive.
 
D’altro canto va tenuto conto che è in particolar modo difficile oggi sollecitare una tale partecipazione responsabile dei cittadini in un contesto di democrazia rappresentativa debole nella capacità di governo, esposta ai condizionamenti delle burocrazie conservatrici, poco affidabile nelle sue promesse. Nello stesso tempo i cittadini sono frustrati da una offerta di servizi pubblici di prossimità (trasporti, cura del territorio) a volte indecenti in alcune grandi aree urbane, senza poteri di intervento per migliorare le loro condizioni di vita.
 
Le soluzioni sono implicite nella descrizione fatta: una democrazia rappresentativa “governante” e forme di controllo sociale dei cittadini sugli apparati burocratici che gestiscono, a livello locale, i servizi pubblici essenziali. Una forte democrazia rappresentativa è necessaria perché i cittadini non cadano sotto un potere autoritario ma non è sufficiente se non accompagnata da esperienze di micro-democrazie che diano voce e poteri agli stessi cittadini laddove sono in gioco interessi vitali.
 
Democrazia rappresentativa e forme di democrazia diretta vanno integrate in un progetto inclusivo di democrazia in grado di correggere la disgregazione sociale in atto e di valorizzare le potenzialità delle nuove tecnologie digitali per estendere il controllo sociale dei cittadini. La democrazia non è nel destino umano, come un codice genetico. E’ una costruzione politica che se non si rinnova rischia di autodistruggersi. Il popolo sovrano è una retorica politica in nome della quale si sono giustificati i peggiori autoritarismi. Ci sono i cittadini, nelle loro libere aggregazioni rappresentative, che devono divenire attori responsabili in una difficile transizione istituzionale in cui la macro-democrazia rappresentativa sia sostenuta e rinvigorita da esperienze di micro-democrazie a livello locale.
                                                                  
                                                                                                                                                      (Giuseppe Bianchi)
 
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Economia e società

L'UOMO DI MARKETING E LA VARIANTE LIMONE

Walter Fontana scrisse “L’uomo di marketing e la variante limone”, da cui traiamo il piccolo brano che segue, moltissimi anni fa, quando l’economia finanziarizzata aveva ormai già asservito di fatto l’economia reale, il dio dollaro aveva  già ucciso il valore persona, l’università aveva già tolto di mezzo il ricordo di Keynes, Olivetti era stato già espropriato da Debenedetti, a Bruxelles erano già insediati i bocconiani, l’uso dell’inglese commerciale aveva già soppiantato il buonsenso di tutte le lingue, il maestro di economia Federico Caffè non conversava più con gli studenti dell’Università, la buona condotta non veniva più considerata importante ai fini della promozione scolastica.
 
Fu allora che, come quasi sempre accade, di fronte ai disastrosi risultati di tanta “efficienza modernizzatrice”, cominciarono a manifestarsi anche i primi risvegli di coscienza, le prime analisi deluse sui risultati di tale intronizzazione dell’aziendalismo, i primi ripensamenti sulla dubitabile sapienza bocconiana, e sul marketing manipolativo, e sui diagrammi di budget... Walter Fontana fu testimone attivo e diretto di questo avvio di ripensamento.
 
A dire il vero si tratta di un movimento di ripensamento ancora in mare alto: ci vorrà ancora del tempo per compierlo, ci saranno ancora, come ci sono, tante resistenze. Ma intanto… accogliamo l’invito di Walter Fontana a considerare quanto si possa finir tristemente a idolatrare spread, andamento di borsa, Nasdac, burocrazia di Bruxelles, società di rating, marketing subliminale, e simili.
 
 
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L‘uomo di marketing si sente come un piede dopo ventiquattro ore di adidas torsion. Ha la testa gonfia di numeri, frasi e umori pestilenziali. Ne parlo in terza persona perché è come se mi vedessi dalla finestra di fronte con un cannocchiale, ma sono io l’uomo di marketing.
 
Sono ingorgato di carte, caffè, diagrammi, prodotti col loro prezzo. Scatolette con gli artigli per squartare il ventre della concorrenza, zerovirgola, schermate del computer.
 
Tutto interessante, tutto inutile.
 
L’uomo di marketing appoggia la testa contro una superficie qualsiasi. Visto dal cannocchiale sembra uno che ha avuto una notizia importante durante il giorno e adesso che è sera non se la ricorda più.
 
C’è un uomo in ogni uomo di marketing?
 
Intendo dire, milioni di anni fa è partito dallo stesso ceppo degli altri esseri umani o proprio nasce da una specie a parte? Forse è esistita una scimmia di marketing da cui derivo io.
 
Dico ai colleghi: risparmio energie, volevo fare il jazzista. Vado a casa e suono il jazz in un modo schifoso. Mi avrebbero fischiato pure i cani.
 
Quello che veramente voglio fare è: stare seduto davanti alla Tv a sgranocchiare caramelle senza zucchero, una dopo l’altra, sentire che si attaccano tutte insieme in un grumo sui molari di sopra. E poi staccarle con un colpo secco dei molari di sotto.
 
Questo è il mio ideale.
 
Oppure fare l’ospite in Tv per sempre, vivere il resto della vita in uno dei programmi della fascia pomeridiana che sono i più facili, un programma contenitore dove non devi fare niente. L’unica cosa che spero è che non mi diano mai il microfono, perché poi non c’è niente di più triste dell’ospite che ha finito di parlare e il conduttore si allontana e dice “passiamo ad altro”.
 
                                                                                                                             (Walter Fontana)
 

Politica

SE NON SI RIGENERA E' DESTINATA A DEGENERARE

 
 
Ugo Righi non è un politico e non dedica la parte prevalente del suo tempo alla politica, che io sappia: l’ho conosciuto molti anni fa come esperto e  consulente attento di azienda, di processi manageriali, di organizzazione d’imprese. Ma è anche cittadino sensibile: e in questa chiave ci invita a saper considerare la relativa novita’ dell’attuale governo Cinquestelle-Lega con la calma e la lucidità mentale dell’osservatore che studia prima di giudicare e di assumere posizione.
 
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Lo scenario politico attuale è interessante anche per riflettere sul tema del cambiamento e dell’innovazione.
 
Qualsiasi fosse stata la scelta del gruppo oggi al potere in Italia, sarebbe stata criticata; io non sono in grado di valutare se quello che avviene oggi sia il meglio rispetto a ieri, ma è evidente che è diverso da quello che c’era. Questo francamente mi piace: poi saranno i fatti a fornire indicazioni che potranno confermare le percezioni o smentirle.
 
Com’è successo per la guida di Roma: aveva creato tante attese positive, diventate delusione e rabbia a fronte del disastro, e di fronte allo sforzo patetico di non riconoscerlo come tale.
 
Ma una cosa è certa: se si fa sempre la stessa strada, si arriverà sempre allo stesso posto, se abbiamo sempre il medesimo comportamento, al massimo otterremo lo stesso risultato, e se facciamo sempre la stessa cosa erronea otterremo sempre risultati sbagliati. Anche se non c’è determinismo positivo nel fare diversamente.
 
E questo è il punto: faccio uguale e non rischio, mantenendo lo status quo, oppure faccio diversamente e rischio?
 
Il nuovo premier, Giuseppe Conte, ha un “copione” e questa cosa è criticata da chi è contro di lui. Io credo che il copione possa essere considerato come un piano strategico e che quindi rappresenti il cosa si vuole ottenere, che potremmo chiamare con linguaggio manageriale “scopo e obiettivi”.
 
Ma la strategia rappresenta il come, e questo è quello che fanno i vertici delle imprese. Ora, il “come” è legato al fatto che la via si fa con l’andare e quindi la strategia si realizza strada facendo.
 
Il programma è il tragitto e non può considerare a priori le variazioni e le complessità emergenti; e quindi fare una cosa giusta oggi non vuol dire che la stessa cosa lo sia anche domani: il mondo cambia e la strategia deve cambiare pur avendo chiaro il punto di arrivo. In ciò consiste il valore del comportamento strategico, in una rigenerazione permanente che considera lo scopo.
 

Questo è un principio generale: per mantenere qualcosa che abbiamo conquistato (nel business, nell’amicizia, nell’amore, con i genitori, con i figli, ecc.) bisogna rigenerarla continuamente perché se qualcosa non si rigenera è destinato a degenerare, e la generazione di un percorso innovativo attinge il suo senso dalla devianza dalla norma, dalla “trasgressione”.
 
La devianza è qualcosa che interviene in un processo che ha paradigmi interpretativi e comportamenti considerati normali per governare il proprio ambiente. L’evoluzione è un processo che trasforma il sistema in cui è nata la devianza: lo disorganizza e organizza mentre lo trasforma.
 
Quello che serve davvero è essere una squadra sintonizzata che ha un pensiero comune su cosa ottenere e poi, ripeto, la strategia si realizza giorno per giorno variando coerentemente i propri comportamenti, gestendo in modo intelligente il pregiudizio di chi è contro, che certamente osserverà  i momenti del processo che disorganizza e non quelli che riorganizza.
 
Le devianze, nel momento in cui si esprimono per il semplice fatto di nascere, sono frenate dal sistema e la loro affermazione è una lotta contro i difensori dell’invarianza, che vedono minacciata la loro sicurezza dai portatori delle novità. La storia insegna: tutte le persone che hanno segnato il cammino di trasformazioni profonde sono state devianti, fuori dal sistema e, molto spesso, perseguitate o ostacolate.
 
Io francamente non so se quello che avviene oggi sia meglio, solo che ho visto il peggio e quindi la speranza, ancora una volta, può nascere. Hanno voluto la bicicletta:devono pedalare: noi vediamo, ma non come spettatori passivi o sabotatori attivi.

                                                                                                                                                       (Ugo Righi)
 
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Democrazia Comunitaria

COME NON COMUNICARE, COME NON LEGIFERARE

 
Da anni immemorabili hanno confuso sempre di più la certezza del diritto con l’astruseria del diritto, la precisione del diritto con il bizantinismo del diritto, la positività del diritto con l’arbitrarietà del diritto.
 
Legiferano non “per tutti”, come dovrebbe essere, ma “per gli altri” (per loro ci sarà sempre un avvocato amico, a interpretare favorevolmente il guazzabuglio); legiferano spesso anche soltanto “per mettere le mani avanti” (l’importante è che loro abbiano messo per iscritto le cose: che queste siano comprensibili o no, è del tutto privo di importanza; si chiama “normazione difensiva”).
 
Ebbene, Democrazia Comunitaria è su una posizione opposta a tutto questo: sostiene che occorre assolutamente tornare a un linguaggio legislativo, e normativo in genere, completo ma anche semplice, cioè comprensibile da parte del “cittadino qualunque di buona volontà e di buona fede”. E ricorda che questo si può fare; basta:
a. studiare la lingua italiana;
b. mettersi nei panni dei cittadini;
c. non dimenticare la lezione degli antichi romani, secondo cui non c’è legge stupida quanto la legge difficile da capire o prolissa; e anche troppe leggi nessuna legge!
 
Eccovi, di seguito, un esempio di disastro della comunicazione normativa in cui versa la legislazione italiana, persino quando contenuta in una legge che di per sé dichiara ottime  intenzioni: se prendiamo infatti, ad esempio, la celebre “Riforma Biagi” in materia di lavoro, e andiamo al paragrafo 3 dell’articolo 19, leggiamo:
 
“3. La violazione degli obblighi di cui all’articolo 4-bis, commi 5 e 7, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n.181, così come modificato dall’articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 19 dicembre 2002, n.297, di ci all’art. 9-bis, comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 1996, n.608, così come sostituito dall’art. 6, comma 3, del citato decreto legislativo n.297 del 2002, e di cui all’art. 21, comma 1, della legge 24 aprile 1949, n.264, così come sostituito dall’art.6, comma 2, del decreto legislativo n.297 del 2002, è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 500 euro per ogni lavoratore interessato”.
 
Buona digestione a voi… Scommetto che quando vi siete laureati in giurisprudenza, lungo gli almeno quattro anni del vostro corso di laurea, nessuno dei professori vi ha mai neppure citato questo semplice problema di civiltà giuridica.
 
Democrazia Comunitaria è da un’altra parte.
      
                                                                                                                                                  (Giuseppe Ecca)


 
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Libri

L'OMBRA DELLE FOIBE, LA LUCE DEGLI EROI

La ferita profonda e sanguinante del destino che è toccato a Istria e Dalmazia a seguito delle vicissitudini del fascismo e della seconda guerra mondiale non si è mai rimarginata del tutto, nonostante la relativa saggezza con la quale l’Italia e le nuove repubbliche della ex-Iugoslavia hanno evitato di radicalizzarla. L’atroce destino di queste terre fu appunto deciso da due dittature: il fascismo e la sua maledetta seconda guerra mondiale da un lato, il comunismo e la sua maledetta persecuzione antitaliana e antireligiosa dall’altro.
 
Mario Ravalico, autore di “Don Francesco Bonifacio assistente dell’Azione Cattolica fino al martirio”, è egli stesso un diretto testimone della vicenda storica accennata, essendo istriano, precisamente di Pirano, e triestino di adozione a seguito della lacerante separazione di Pirano dall’Italia. Egli racconta la vicenda di un giovane prete del quale appena qualche anno fa si è celebrata nella Chiesa la conclusione del processo di beatificazione, motivato proprio dalla testimonianza cristiana da lui portata fino al martirio, che, nelle terribili vicende succedute appunto al termine della guerra mondiale (e basti citare la memoria delle foibe) egli seppe dare da autentico prete di vocazione totale. Fu ucciso, questo giovane sacerdote che testimoniava Gesù Cristo con la carità riversata a piene mani ed a pieno cuore su tutti indistintamente, fu ucciso brutalmente nel quadro di quelle demoniache retate che colpivano senza pietà chiunque manifestasse, appunto, italianità o religiosità. L’autore del libro ci reimmette vividamente proprio in quella bruciante temperie storica, e lo fa attraverso testimonianze, documenti, fotografie e analisi critiche di grande interesse. Ricordandoci che gli eroi sono tra noi anche nei momenti bui della storia.
 
Un libro che merita di essere letto affinchè più acuta sia la nostra consapevolezza storica e umana, e più sensibile la nostra responsabilità per il futuro di giustizia e pace durature ancora da costruire, in quelle terre e dovunque.
 
Don Francesco Bonifacio Assistente dell’Azione Cattolica fino al martirio. Autore: Mario Ravalico. Editrice Ave, anno 2016, prezzo euro 20, 00.
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Cultura e politica

LA DIMENTICANZA PIU' GRAVE QUANDO SI PARLA DI DEMOCRAZIA CRISTIANA

Bartolo Ciccardini (molti di noi lo hanno conosciuto personalmente) non era uno dei più eminenti personaggi della politica, nella storia della prima repubblica: era tuttavia personalità di spicco, di rilievo nazionale, più volte parlamentare, rappresentativo di quella realtà più specifica che, dentro la Democrazia Cristiana, veniva chiamata “corrente fanfaniana” (se ricordo bene). Personalità attenta sul piano culturale, acuta sul piano politico, non scevra da combattività e iniziativa coraggiosa.
 
Nei lunghi anni di travaglio seguiti alla fine del suo partito storico, Bartolo Ciccardini  mi pare non sia mai confluito in altre formazioni politiche, più o meno vicine che fossero all’antica matrice democristiana. Non ha però mai rifiutato di offrire le sue analisi e le sue testimonianze a chi lo chiamava a farlo, e in questo la sua riflessione rappresenta tuttora un elemento non soltanto interessante in sestesso, ma di una qualità di analisi che lo pone ampiamente al disopra del miserevole livello culturale che caratterizza, in tutti i partiti odierni, la politica italiana. Prima di morire intervenne fra l’altro, nel 2016, a uno dei convegni con i quali molti di noi cercavano di accelerare il processo di ricostituzione di una grande forza politica di ispirazione cristiana da proporre all’Italia, incontrando regolarmente frantumazione e inefficacia di esiti: e proprio sull’analisi di questa difficoltà la lucidità e l’equilibrio del vecchio uomo politico si palesarono ancora pienamente. Riproponiamo quell’intervento quasi a commento meditativo della tornata elettorale europea appena svoltasi.
 
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Rivolgendo il mio augurio alle iniziative dei democratici cristiani, promosse particolarmente attorno al riferimento coordinativo costituito da Gianni Fontana, accenno ad alcune  modeste considerazioni  politiche derivantimi dalla comune storia ed esperienza vissuta con molti di loro nella lunga stagione della Dc.
 
Parto da un giudizio preoccupato.  C’è una debolezza di fondo, in queste iniziative, dovuta alla influenza ed ai condizionamenti esterni. Molte delle difficoltà del mondo politico  e dello stesso mondo cattolico si riflettono sul travaglio e sull’esito di ogni iniziativa di questo genere. E non potrebbe essere altrimenti.
 
Perché Todi è fallito? Il tentativo di rifondazione di una qualche unità dei cattolici impegnati in politica ha il suo massimo esperimento nel Convegno di Todi, dove i protagonisti non erano le formazioni politiche, ma le formazioni sociali che erano storicamente la forza popolare (e la massa elettorale) della DC. Senza nasconderci dietro ad un dito, dobbiamo dirci che quella dirigenza del mondo cattolico era troppo orientata a destra per permettere alle forze sociali  e caritative di guidare l’operazione.
 
Nell’impossibilità di trovare un chiarimento all’interno della gerarchia cattolica fra i vescovi presenti a Todi ed i Vescovi presenti a Norcia, questo tentativo di federazione cattolica pre-politica, che somigliava più all’opera dei Congressi od ai Comitati civici, che non alla DC , si è a suo tempo spento nella culla.
 
Anche le vicende delle formazioni politiche condizionano il nostro giudizio. La crisi berlusconiana influenza una buona parte dei nostri propositi. Berlusconi ha fondato un partito dichiaratamente di destra: il suo miracolo è stato quello di essere riuscito a mettere assieme i separatisti leghisti con i nazionalisti fascisti, utilizzando come collante i cattolici “moderati”  ed il Movimento ecclesiale di “Comunione e Liberazione”. Si può capire che si cerchi di recuperare i voti prestati a Berlusconi  e di occupare quello spazio. Questa tendenza ora è divisa. Alcuni  hanno pensato di dare una direzione cattolica a Forza Italia e quindi di operare all’interno del berlusconismo, utilizzando provvisoriamente lo stesso Berlusconi. Altri hanno fatto una scissione da Berlusconi con l’idea di costituire un gruppo autonomo che potrebbe allearsi con Berlusconi. Ed infine un terzo gruppo pensa ad una proiezione italiana del PPE senza Berlusconi. Queste soluzioni sono ingombranti in un processo federativo perché mirano a ricostituire una DC più affine al modello tedesco che al modello italiano.
 
A questo punto si apre un problema: cosa è il Partito Popolare Europeo senza la componente democratico-cristiana italiana? Tutte queste soluzioni tendono ad escludere non solo i cattolici democratici ma anche  tutti i nuovi fermenti sociali del cattolicesimo italiano. Ma anche il gruppo dei movimenti che si muovono con diverse sfumature nell’area del Partito Democratico viene condizionato da quelle scelte politiche. Ci sono i cattolici adulti che sono militanti del PD. Alcuni (come Renzi) ritengono addirittura non corretto usare l’aggettivo cattolico per qualificarsi in politica e preferiscono vantare origini scoutistiche. Ci sono cattolici che si sentono di appartenere alla tradizione democratico-cristiana da cui provengono e che non hanno mai rinnegato, e che la vedono rispecchiarsi  in un partito che ha una cultura plurale. Ci sono infine quelli  che pur votando, per necessità, Partito Democratico, non si sentono a loro agio per un pregiudizio laicista tuttora molto vivo nelle formazioni di sinistra. Questo pregiudizio laicista non è simile a quello della prima parte del secolo scorso, che era anticlericale, antipapale, anticristiano. È piuttosto una forma di autoreferenzialità in nome dei nuovi diritti civili, che tende a trattare i cattolici come una specie minoritaria protetta da coltivare e rieducare nelle riserve indiane.
 
L’unica soluzione immaginabile è che i cattolici orientati a sinistra possano trovarsi solo in una formula organizzativa propria, orientata ad una alleanza con il PD, ma con la possibilità di esercitare politicamente l’obiezione di coscienza. Le differenze che oggi ci sono fra i cattolici sensibili al richiamo della destra ed i cattolici disposti a votare a sinistra, rendono difficile ogni discorso politico. Anzi le polemiche politiche fra i due blocchi riescono a tradursi in incompatibilità e veti reciproci fra associazioni e movimenti cattolici,  al punto da dare ragione a quelli che credono impossibile un progetto unitario.
 
Eppure quelle differenze e quei dibattiti convivevano all’interno della DC.
 
Tutti questi tentativi, sia quelli che restano entro i confini  di una zona che è stata chiamata moderata, sia quelli che si muovono all’interno di una zona di centro-sinistra, devono porsi una domanda: che cosa era  l’unità politica che caratterizzava l’essenza profonda della Democrazia Cristiana?
 
Cosa vi si oppone oggi? Per prima cosa il bipolarismo: accettando il concetto di bipolarismo i cattolici che volessero far politica con un loro organismo autonomo dovrebbero per forza collocarsi o nel polo di destra o nel polo di sinistra. Ne consegue che la nascita di un organismo politico rappresentativo dei cattolici debba per forza muoversi o all’interno del blocco berlusconiano o all’interno del blocco di sinistra nato dall’Ulivo di Prodi.
 
Bisogna liberarsi da questi schemi. Non è scritto da nessuna parte che il bipolarismo debba funzionare come se si trattasse di due blocchi intoccabili ed eterni. E dall’altra parte non bisogna sentirsi obbligati a ripetere l’esperienza del lungo conflitto tra berlusconiani ed antiberlusconiani. Anzi, tutta l’esperienza storica della Dc ci porta a pensare che in Italia abbia un particolare valore una formazione politica di grande spessore sociale e con un programma avanzato di pace e di giustizia nella politica estera e nella politica sociale, che abbia anche valori tradizionali da difendere e comportamenti capaci di mediazione (quelli che con un vocabolo sbagliato vengono chiamati valori ”moderati”).
 
In fondo il riferimento all’esperienza storica della DC dovrebbe consistere non soltanto nella memoria dei risultati conseguiti, ma soprattutto nella scelta di quel metodo politico, che permetteva a quel partito di sviluppare un programma di sinistra  con il contributo dei voti che altrimenti avrebbero avuto una collocazione di destra. E tutto questo si fondava su due pilastri: la capacita di unità tra diversi e la temperanza, vale a dire la desueta virtù cristiana di tenere insieme valori opposti. Non dico moderazione, dico temperanza.
 

Credo che sia intellettualmente importante verificare il giudizio storiografico sulla DC. L’attuale crisi politica italiana è tutta fondata su un giudizio storiografico non veritiero fondato sulla obliterazione, persino violenta, del merito storico del grande miracolo italiano. Una obliterazione in cui confluiscono  sia il rifiuto del 18 Aprile  come conseguenza logica e determinante della Resistenza e della Costituente, sia la rabbia conservatrice  di aver dovuto sopportare e sostenere un partito progressista come male minore per evitare il comunismo.
Ma per correggere il giudizio storiografico corrente dobbiamo essere estremamente coscienziosi e precisi nel ricordare cosa fosse  veramente la DC.
 
Partiamo da una constatazione che è difficile esprimere. I voti razzisti e dei separatisti che sono finiti nella Lega c’erano già nelle nostre valli alpine. Ma la DC con la sua presenza severamente educativa e con un controllo sociale accurato riusciva a trasformare quei voti in cioccolato.
 
Anche allora esistevano nella mentalità popolare e familiare del nostro Meridione i voti che non chiamerò mafiosi, ma nei quali prevaleva lo spirito di clan o di campanile. Ma la DC con una capacità di giudizio colta ed appassionata riusciva a trasformarli in partecipazione democratica ed in speranza di riscatto del Mezzogiorno d’Italia. La riforma agraria e l’abbattimento della oltraggiosa borghesia agraria assenteista  non è stata cosa da poco, anche se oggi è volutamente dimenticata. I voti fascistoidi, di un fascismo retrivo e persecutorio, che si cibava di barzellette della Domenica del Corriere, sul contadino stupido con la evidentissima pezza accuratamente cucita sul fondo dei pantaloni, memoria della mentalità squadristica, esistevano anche allora. Ma la Dc riusciva a trasformarli in un doveroso omaggio all’ordine democratico.
 
È così che va reinterpretata e capita la funzione politica dell’unità dei cattolici, in questa capacità di tradurre gli antichi difetti italiani in virtù civili. Ed in questa DC c’era anche una sinistra democratico-cristiana che svolgeva un compito di apertura e di mediazione. Non si capisce il contributo della DC all’Italia se non si ricorda quello che De Gasperi definiva “il partito di centro che guarda a sinistra”, se non si ricorda che il capolavoro di Fanfani e di Rumor fu “l’apertura a sinistra” ed il “Governo di centro-sinistra”: in pratica il recupero del socialismo italiano alla democrazia; se non si ricorda il tentativo di Moro di spostare l’attenzione ancora più a sinistra, nel periodo più scuro della nostra vita democratica, negli anni di piombo.
 
Allora, in quei tempi, Antonio Segni poteva espropriare la terra non solo ai suoi elettori, ma persino ai suoi parenti stretti, senza permettere che questo desse spazio, non dico ad una rivolta armata, come nel 1921, ma neppure ad una agitata protesta familiare. Allora Nicola Pistelli poteva parlare con una certa supponenza delle “fanterie parrocchiali cattoliche”, che dovevano votare senza troppe proteste il programma di sinistra della DC. Ma erano quelle stesse fanterie cattoliche da cui mai si sarebbe distaccato e da cui mai avrebbe preso le distanze. Senza questo “miracolo politico” la DC non avrebbe portato a termine il miracolo economico e sociale.
 
Queste considerazioni non sono reliquie storiche, sono un necessario esame di coscienza  nei confronti di quelli che pensano al PPE ed alla sua edizione conservativa come ad una ricetta valida per l’Italia. Il Partito Popolare Europeo sarebbe ben altra cosa se ci fosse in campo la Democrazia Cristiana di De Gasperi, di Fanfani, di Rumor e di Moro. Non un punto di riferimento (punto di riferimento lo è piuttosto l’internazionale democratico-cristiana) ma  un impegno a far tornare il Ppe al suo compito di  realizzare il programma federalista democratico cristiano.
 
Detto questo dobbiamo anche ricordare che le obiezioni alte e qualificate della destra democratico- cristiana non erano, nel partito, voci inconsistenti e secondarie. Non era solo un accigliato Ottaviani che inaugurava i “comunistelli di sacrestia”. Erano anche i discorsi di altissima finezza politica di Mario Scelba, le analisi di Guido Gonella, neppure lontanamente comparabili alla volgarità della nostra destra attuale. Erano la richiesta di coerenza morale democratica di uno Scalfaro giovane. Essi rappresentavano con dignità ed onore il pensiero “moderato” che in Italia aveva avuto una storia e che la Democrazia Cristiana sapeva accogliere come esigenza fondamentale della nostra società civile.
 
Ripensare al valore dell’unità dei cattolici non significa dimenticare che questa unità era una virtù civile dolorosamente conquistata. Durante il periodo formativo della DC non c’erano  soltanto i democratici-cristiani e diverse ipotesi si avanzavano perfino nelle stanze pontificie. C’erano anche i cristiano-sociali di Gerardo Bruni che coabitavano con De Gasperi nella Biblioteca Vaticana. C’erano anche i comunisti cattolici, a cui Monsignor De Luca dettò un nome diverso, battezzandoli “cattolici comunisti”, perché cattolico doveva essere il sostantivo e comunista doveva essere l’aggettivo.
 
E fu Giulio Andreotti, facente funzione di Presidente della Fuci, in assenza del Presidente Aldo Moro, trattenuto dal Sud perché non poteva superare la linea Gustav, a portare la notizia a Monsignor De Luca che non sarebbero stati essi i prescelti nella costruzione del grande partito nazionale e democratico. Sì, l’unità dei democratici cristiani aveva coscienza dell’esistenza di fratelli separati sulla sinistra. Ma che questo non fosse una incapacità di comunicare ce lo ricorda Augusto Del Noce quando racconta l’importanza che ebbero i comunisti cattolici, usciti dal Partito Comunista nel 1950, nella formazione della Terza Generazione della DC, e nella stessa gioventù di Azione Cattolica di quel periodo.
 
Questo panorama della vitalità politica della Democrazia Cristiana non è un reperto archeologico e non è soltanto una memoria da coltivare. È un giudizio storiografico preciso da rivendicare e da coltivare  perché  necessario in questo momento, hic et nunc,  per risolvere il problema della democrazia in Italia. C’è bisogno di sapienza aperta perché nasca una forza politica ispirata al cristianesimo illuminato degli ultimi Papi e legata alla volontà di pace e di crescita della grande maggioranza del popolo italiano. Non possiamo più andare avanti in maniera schizofrenica, sentendo prediche di sinistra in chiesa e proclami di destra in piazza.
 

Certo! Vicino al giudizio storiografico è necessaria la coscienza dei grandi cambiamenti che ci sono stati nella società italiana e che bisogna affrontare e risolvere in maniera positiva. Ce lo ricorda,  con la forza straordinaria del racconto cinematografico, Pupi Avati nel suo film “Il matrimonio” in cui racconta la famiglia italiana dei suoi tempi, a confronto con la famiglia italiana di suo padre e di sua madre. Ed è una lezione profonda sul cambiamento dell’Italia. Anche nel nostro campo politico dobbiamo ricordare che in questo cambiamento va recuperato quel che c’è di positivo e va curato, se si può, quel che c’è di negativo.
 
Tre generazioni (quella di Fogazzaro, quella di Murri e Sturzo, quella di Alcide De Gasperi) erano state formate in un’Associazione che aveva iscritto nel suo distintivo un motto stranissimo: “Preghiera, azione, sacrificio”. L’ultimo a portare in Italia, tutti i giorni, a tutte le ore, per ogni minuto, questo motto iscritto sul bavero della giacca fu il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il notaio che registrò la crisi del sistema democratico italiano.
 
Chi dirà oggi agli italiani che per pagare un debito sproporzionato che tuttavia bisognerà pagare, sarà necessario il sacrificio? Non il clamore osceno, non la rivolta irrazionale, non l’inseguimento di miti criminali, non il vittimismo di chi si sente perseguitato dall’Europa, niente di tutto questo! Ma il sacrificio, pensoso, responsabile ed accettato, sarà la medicina. E non solo l’immancabile sacrificio dei poveri che non fa mai scandalo.
 
Chi ricorda il discorso di Giustino Fortunato sul sacrificio degli italiani, quando fu finalmente pagato il debito che avevamo contratto per portare a termine il Risorgimento? Chi si ricorda quante lacrime e quanto sudore costò la tassa sul macinato? Chi si ricorda cosa significa la parola sacrificio, vale a dire rendere sacro qualche cosa? Chi si ricorda che la libertà fu riconquistata con il sacrificio dei migliori? Ci ricordiamo i tempi in cui la stessa politica era sacrificio? Chi di noi porterebbe oggi la parola sacrificio all’occhiello della giacca? È forse questa la risposta al nostro vero interrogativo? Confesso che in questo momento io non lo so.
                                                                                                         
                                                                                                          (Bartolo Ciccardini)
 
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Democrazia Comunitaria

DIZIONARIO PROGRAMMATICO A PARTECIPAZIONE DIFFUSA

E’ un “Dizionario programmatico a partecipazione diffusa”: così lo definisce Democrazia Comunitaria. Perché? Una esigenza fondamentale di semplificazione, chiarezza, invito partecipativo aperto a tutti. E’ la reazione di principio di fronte alla pessima abitudine assunta dalla politica e dalla burocrazia, di linguaggi incivilmente mastodontici, balordamente enfatici, criminosamente complicati, subdolamente chiusi di fatto alla trasparente partecipazione dei cittadini. Così Democrazia Comunitaria caratterizza fin dai fondamenti, cioè dal suo programma, il suo annunciato stile diverso, fondato su semplicità e trasparenza, centralità della persona, testimonianza morale. 

I temi proposti dal Dizionario non sono in ordine gerarchico bensì alfabetico: vogliono costituire infatti proprio i tasselli di un lavoro collettivo di elaborazione “a scorrimento continuo” delle linee di programma dell’Associazione, con la partecipazione aperta e permanente di iscritti, esperti e cittadini. Soprattutto, di iscritti. E’ uno strumento di lavoro informale approvato dagli organi associativi e da essi vigilato, e che, con la loro approvazione ufficiale, acquista nei suoi contenuti, via via, il crisma del documento formale di impegno per Democrazia Comunitaria.
 

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Acqua: è un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di garantirne qualità e quantità sufficiente a prezzi sociali appartiene alla mano pubblica in senso diretto. Alla mano privata non possono che essere riservati ruoli di carattere nettamente secondario e sussidiario, ininfluenti sulle politiche relative a questo bene. E’ escluso a priori che dall’acqua si possa trarre profitto privato a qualunque titolo.

Ambiente: è un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di mantenerlo tale appartiene direttamente alla mano pubblica. La legge stabilisce la proporzione tassativa di superficie verde da salvaguardare in ogni opera manufatta, pubblica e privata.

Authorities: le autorità di settore, gemmate, sul modello di organismi funzionanti negli Stati Uniti in diverso contesto culturale, sono venute manifestandosi organismi costosi e, alla fine, non adatti a costituirsi come garanti super partes nelle materie di cui si occupano: così da porre ormai la esigenza di un ritorno alle naturali fonti di garanzia costituite dal parlamento, dai comitati interministeriali e dai loro già storicamente sperimentati strumenti di lavoro. Risparmiando gran parte dei relativi costi.

Banca: il miglioramento verso semplicità, controllabilità e trasparenza delle leggi relative all’attività bancaria parte dal ripristino di una netta differenziazione fra banca ordinaria di risparmio e investimento, e banca d’affari o speculativa. Democrazia Comunitaria vede con particolare favore il ripotenziamento di una cultura diffusiva delle forme bancarie popolari e cooperative, la riacquisizione allo Stato di una banca nazionale per la tutela del risparmio dei cittadini, e la valorizzazione del risparmio collettivo in sede d’impresa.

Conflitti d’interesse: DemocraziaComunitaria propone una più tassativa definizione dei casi nei quali si debba dare esito a una pura e semplice incompatibilità non sanabile.

Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro: DemocraziaComunitaria ne propone il superamento puro e semplice per esaurimento dei suoi compiti storici. 

Consumo del territorio: anche l’Italia è diventata un paese che, specialmente in alcune regioni, vede ormai diventare preoccupante il problema del “consumo del territorio”, un consumo talmente vasto e nello stesso tempo abusato, da porre al paese stesso un quesito urgente circa il suo equilibrio ambientale di lungo periodo. DemocraziaComunitaria propone di stabilire un vincolo rigido alla percentuale di territorio consumabile (cementificazione e forme assimilabili di scomparsa del terreno vergine) per ogni unità di costruzione. Inoltre propone di rendere concretamente più severa e snella la funzione di controllo e salvaguardia attiva del patrimonio forestale e idrogeologico.

Costi della politica: DemocraziaComunitaria propone l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, a favore di un finanziamento libero da parte di ciascun cittadino nei confronti del partito in cui si riconosca. Riconosce il valore politico-istituzionale dei partiti nei termini esplicitati dalla Costituzione, e il relativo sostegno, esclusivamente nella forma della fornitura, a ogni formazione politica che abbia rappresentanza in parlamento, di una sede operativa, unica per tutto il territorio nazionale, con spazi limitati alle esigenze di funzionalità essenziali, con corredo di linea telefonica, computer, stampante, collegamento internet e similari secondo ragionevole coerenza. Escluso ogni altro supporto, che è da considerare strettamente riservato alla privata organizzazione del partito medesimo.

Diritto e obbligo della formazione: fino alla maggiore età la vita dell’individuo è dedicata in misura privilegiata alla formazione integrale della personalità, affidata innanzitutto alla famiglia con il sostegno della scuola: quest’ultima deve costituire, prioritariamente, un sistema pubblico a costi sociali fino all’università, aperto a tutti, nel rispetto per la eventuale scelta della singola famiglia che preferisca rivolgersi a scuole private; le quali ultime non avranno diritto a sostegno pubblico che vada al di là della mera corresponsione alle famiglie del costo che lo Stato sostiene per ogni suo alunno della scuola pubblica. Le scuole private non potranno comunque rilasciare titoli aventi valore di legge.

Emolumenti per incarichi pubblici: DemocraziaComunitaria sostiene una equa proporzionalizzazione reciproca fra gli emolumenti riservati alle cariche pubbliche, elettive e non elettive, a tutti i livelli compreso quello parlamentare e tutti quelli dirigenziali, assumendo a riferimento i trattamenti previsti dalle normative collettive generali e l’andamento complessivo del reddito nazionale, nonché i carichi di lavoro effettivamente affidati e gestiti.    
 
Etica pubblica: l’etica dei comportamenti anche personali è esigita con particolare forza in tutti i soggetti che svolgono funzioni pubbliche. Ogni ruolo pubblico è proprietà morale della collettività ed è incompatibile con qualsiasi comportamento che violi la fede pubblica. Tale eventuale comportamento va perseguito d’ufficio.

Europa: il ritorno ai padri fondatori, in particolare De Gasperi, Schumann, Adenauer, che anteponevano la messa in comune delle risorse e della solidarietà valoriale alla dominanza economica e finanziaria, è obiettivo esplicito di DemocraziaComunitaria.

Farmaci: impensabile che possano essere ambito di puro e semplice mercato privato, lo Stato cura sia il corretto controllo della loro qualità scientifica ed etica rispetto alla loro funzione di servizio nei confronti della qualità della vita, sia la loro equa accessibilità economica a tutti i cittadini nel quadro del Servizio sanitario Nazionale.

Finanziamenti pubblici: DemocraziaComunitaria sostiene l’abolizione di ogni forma di finanziamento all’editoria, compresa quella di partito. Sostiene inoltre una politica di rigorosa severità in materia di controlli, in corso ed ex post, sull’utilizzo completo e tempestivo  dei finanziamenti pubblici in generale, e sulla loro coerente finalizzazione.
 
Fisco: il controllo della evasione deve diventare più severo in parallelo con la semplificazione normativa e la riduzione della giungla delle differenziazioni impositive. All’autonomia impositiva di regioni e comuni va preferita una loro partecipazione pro-quota nella fiscalità generale. Un trattamento fiscalmente incentivante è giusto prevedere a livello di impresa per gli utili reinvestiti nell’impresa stessa rispetto a quelli distribuiti ad azionisti e lavoratori.

Formazione dei prezzi: un intervento più stringente, soprattutto di controllo, da parte della mano pubblica, è necessario in materia di formazione dei prezzi relativi a beni di pubblica utilità rilevante, come ad esempio la casa, i carburanti, i medicinali, a evitare distorsioni speculative. La stessa mano pubblica non deve escludere il suo intervento diretto come imprenditrice di libero mercato nei casi in cui non vi siano diversi strumenti atti ad assicurare prezzi equi a beni essenziali.

Formazione interna: DempcraziaCooperativa è soggetto di formazione permanente nei confronti di tutti i suoi aderenti. L’attività di formazione, oltre a essere concepita come permanente e diffusa, è anche articolata fra coordinamento centrale e autonomie del territorio. Tenendo conto della sua missione, l’associazione può offrire opportunità formative anche ai non iscritti, soprattutto giovani.

Giustizia: lo snellimento dei tempi processuali e la effettiva esecuzione delle sanzioni sono elemento essenziale per la credibilità e la giustizia amministrata dallo Stato nei confronti di tutti i cittadini,  ed hanno importanza fondativa pari a quella della chiarezza, semplicità ed equità delle normative di riferimento.

Impresa: essa va sostenuta come bene di inestimabile valore per tutta la comunità; ne va perciò semplificato il processo burocratico di nascita, e facilitata la propensione allo sviluppo, soprattutto attraverso un tangibile snellimento delle normative riguardanti le autorizzazioni, i controlli ed il credito. DemocraziaComunitaria favorisce il modello d’impresa partecipativa nelle sue diverse forme possibili, dalla cointeressenza nei risultati alla cogestione ed alle forme variamente cooperative.

Impresa privata e impresa pubblica: superando i contrapposti eccessi storici di interventismo assistenzialista e di privatizzazione pregiudizialmente preferenziale, DemocraziaCooperativa è favorevole a una ottica diffusa di liberalizzazione senza privatizzazione, per quanto attiene al campo delle imprese pubbliche che si occupano di beni e servizi essenziali o primari per la dignità e lo sviluppo delle persone. Senza rinunciare alla propria partecipazione diretta nella erogazione di tali beni e servizi, lo Stato e gli enti territoriali di decentramento consentono che l’iniziativa privata, sia con scopo di lucro sia senza scopo di lucro, partecipi competitivamente a tale erogazione, senza sussidi pubblici.     

Innovazione:
DemocraziaComunitaria è per introdurre forme di tutela semplice ed efficace per quanti depositano  brevetti o sono autori di importanti  realizzazioni o idee artistiche e culturali. Nei limiti delle risorse disponibili, una politica di premialità per la innovazione efficace è tra le priorità che DemocraziaComunitaria sostiene nel contesto delle politiche di sviluppo.

Intervento dello Stato in economia: è possibile ed è doveroso l’intervento dello Stato, come pure, ai rispettivi livelli, della regione e del comune, sia direttamente come imprenditore in regime di liberalizzazione quando si tratti di beni incidenti direttamente sulla qualità essenziale di vita delle persone, sia indirettamente con efficaci politiche di sostegno ai consumi, sempre nel campo dei beni relativi alla dignità e allo sviluppo della persona.
                  
Lavoro:
fonte essenziale di dignità e fondamento della repubblica, il diritto al lavoro è un diritto soggettivo e non una semplice legittima aspettativa. Democraziacomunitaria sostiene in tal senso una lettura precettiva della Costituzione. La realizzabilità di questo diritto si fonda su una politica sicura di redistribuzione sia delle opportunità di lavoro sia dei redditi in generale, a cominciare dalla riduzione della forbice immorale attualmente esistente spesso anche all’interno delle imprese. Il trattamento economico del management deve essere in questo senso collegato e non scorporato da quello di tutti gli altri lavoratori. DemocraziaComunitaria propone la riorganizzazione del sistema pubblico tradizionale di collocamento per trasformarlo in moderno istituto dell’accompagnamento attivo al lavoro. Correlativamente, una concezione precettiva del diritto al lavoro esclude che esso possa venir interpretato come diritto al “posto fisso”. Con pari importanza rispetto alla sua dimensione di diritto, infine, il lavoro è un dovere primario del cittadino e di chiunque viva nell’ordinamento giuridico dello Stato.

Legge elettorale: DemocraziaComunitaria ritiene una democrazia non compiuta, e anzi vistosamente e negativamente limitata, quella che si esprime attraverso sistemi a liste bloccate. Occorre che i cittadini abbiano la possibilità di scegliere persone, o persone e liste, ma mai solo liste.

Mediterraneo: il “lago comune” delle tre grandi religioni monoteiste, nostro comune “lago di Tiberiade” secondo la fascinosa espressione di La Pira, è per DemocraziaComunitaria una dimensione di pari dignità rispetto a quella europeista, per una politica del dialogo permanente e solidale.

Mercato: lo Stato è chiamato a svolgere  funzione di garante del mercato per tutte le componenti di esso, operando attivamente, in particolare, per il rispetto e la tutela dei soggetti deboli nei confronti di distorsioni speculative. 
 
Numero chiuso nelle università: va superato in considerazione del valore intrinseco della formazione universitaria, che non può essere concepita come finalizzata al mercato del lavoro ed alle sue esigenze, bensì alla formazione compiuta e integrata della persona ed alla massima valorizzazione concreta della ricchezza culturale di tutta la società.
 
Onu: il cammino delle Nazioni Unite è verso un autentico parlamento dei popoli; in tale spirito deve venir sviluppato, gradualmente ma senza attendere, il rinnovamento delle norme regolative del consiglio di sicurezza, sottraendone composizione e metodo di lavoro agli equilibri ormai inadeguati scaturiti dalla seconda guerra mondiale.

Ordini professionali: la semplificazione dell’accesso e una più evidente esigibilità del codice etico sono, per DemocraziaComunitaria, passaggi necessari ma che non escludono il possibile superamento degli stessi ordini, a favore di istituti di più snella, accessibile e trasparente tutela delle garanzie di professionalità e di etica nei rispettivi settori. Anche l’assetto istituzionale degli ordini ha infatti come valore di riferimento il bene comune.

Parlamento: DemocraziaComunitaria propone la riduzione del numero dei deputati da 630 a 500, e dei senatori da 315 a 250. Propone inoltre l’abolizione della figura dei senatori a vita di nomina del presidente della repubblica, e la unificazione, in logica di tendenziale unicameralità del parlamento, di un significativo numero di funzioni fra le due Camere.

Pensioni: così come per la forbice delle retribuzioni all’interno delle imprese, adeguati rapporti di equità vanno costruiti nel campo delle prestazioni pensionistiche, senza eccezioni di categorie e con la universalizzazione rigorosa del metodo contributivo. 

Persona e famiglia: DemocraziaComunitaria è partito di personalismo sussidiario e solidale. La persona è centro di imputazione di tutti i diritti e di tutti i doveri. Essa si sviluppa innanzitutto nella famiglia, che perciò deve essere protetta a sostenuta attraverso la tutela attiva della paternità e della maternità responsabile, attraverso servizi di assistenza, cura e formazione dei giovani, attraverso una organizzazione del lavoro che oltre ad assicurare il diritto a una occupazione produttiva faciliti forme di telelavoro e flessibilità organizzativa tutte le volte che siano compatibili con le esigenze oggettive della giusta produttività aziendale.  

Posizione costituzionale delle regioni: DemocraziaComunitaria ritiene maturati i tempi per parificare la dignità costituzionale fra regioni attualmente a statuto ordinario e regioni attualmente a statuto speciale. Appaiono infatti ormai superate le ragioni straordinarie che storicamente giustificarono tale differenziazione.

Province ed altri enti intermedi: DemocraziaComunitaria propone l’abolizione pura e semplice delle province, e di tutti gli altri enti territoriali intermedi fra comune e regione, fatte salve le possibili libere semplici fusioni o anche associazioni o consorzi di comuni per la gestione di singoli servizi.

Reati economici e finanziari: la certezza e tempestività di esecuzione delle sentenze è prioritaria soprattutto per i casi di violazione della fede pubblica. Si impone comunque una revisione del sistema che restituisca prudenza ed eccezionalità agli istituti degli sconti di pena, dell’amnistia e dell’indulto, nel campo dei reati commessi ai danni dell’intera società civile e della citata fede pubblica.

Riferimento culturale e valoriale dell’azione democratico-comunitaria: esso è costituito essenzialmente da: a. la storia del cattolicesimo democratico in Italia, nella sua interezza; b. la dottrina sociale della Chiesa e gli insegnamenti del suo magistero; c. la Costituzione italiana.

Sanità: il bene primario della sanità dei cittadini non è considerato da DemocraziaComunitaria come appartenente al campo del libero mercato privato bensì a quello del diretto intervento dello Stato attraverso un sistema sanitario nazionale unitario, che pur decentrandosi a livello di regioni e comuni non vanifichi la effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini  di fronte a tale servizio. La struttura centrale si sostituirà tempestivamente alle strutture regionali inadempienti o inefficienti, fino a che non siano ripristinate le condizioni di piena adeguatezza di esse. Ugualmente lo Stato farà nei confronti delle eventuali strutture cittadine ove non intervenisse tempestivamente la struttura regionale di competenza. L’iniziativa privata opera liberamente e competitivamente nel campo della sanità, nel rispetto delle normative pubbliche che garantiscono la tutela e la promozione della salute dei cittadini come prioritaria rispetto al profitto d’impresa.

Stato di diritto: ogni legge e normativa pubblica deve prevedere e garantire reale pari dignità e tutela tra il soggetto pubblico e il cittadino o entità sociale intermedia, in sede di contenzioso privatistico. In tal senso devono, ad esempio, essere garantiti i tempi e la certezza di pagamento da parte dello Stato e degli Enti pubblici verso fornitori e prestatori d’opera.

Strumenti e qualità della formazione: prezzi e contenuti dei libri scolastici e degli strumenti didattici collegati devono andare rispettivamente in direzione di una evidente socialità i primi e di una altrettanto evidente caratterizzazione unitaria e integrata della formazione, i secondi, contrastando le spinte a una separatezza specialistica che DemocraziaComunitaria vede opportuna soltanto al livello universitario. Altresì, DemocraziaComunitaria annette valore essenziale e imprescindibile alla formazione permanente dei docenti, come di tutti gli adulti. 

Tassazione. Il criterio costituzionale della progressività, che trova la sua ragion d’essere nel principio valoriale della equità, va sempre ed in concreto misurato su di essa: vanno pertanto superate le condizioni inique prodotte tecnicamente sia dalla frantumazione distorsiva delle norme sia da passaggi di aliquota mal calibrati quanto a gradualità.

Titoli di studio: la missione di formare la personalità dei ragazzi lungo tutta la loro vita fino alla soglia dell’università, è prioritaria rispetto a quella del rilascio di titoli di studio formali destinati al mercato del lavoro, e rispetto allo stesso mercato del lavoro, cui invece può essere più direttamente attenta l’università. In tal senso DemocraziaComunitaria propone di approfondire la ipotesi di superamento del valore legale dei titoli di studio, perché l’attenzione della scuola possa più e meglio concentrarsi sull’effettivo impegno formativo nei confronti degli utenti.
                 
Tolleranza e rispetto in campo religioso:
la laicità dello Stato si accompagna a una considerazioni attentissima dei valori collegati con il riconoscimento della dignità integrale della persona e della dimensione trascendente della vita. DemocraziaComunitaria ritiene che la scuola, in particolare, debba accentuare la educazione alla citata importanza del trascendente ed al rispetto delle diverse vie attraverso le quali la persona realizza la sua esigenza di religiosità.  

(Aggiornato al maggio 2019)
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Antologia

A ME GLI OCCHI... IL REGALO PERFETTO

La vita quotidiana, i suoi doni, le sue opportunità… Ma ci pensiamo davvero, almeno qualche volta?
Ad esempio gli occhi, i nostri occhi: il nostro sguardo, e attraverso di esso il nostro pensiero e la nostra anima, verso l’infinito, a dominare il creato regalatoci per essere contemplato e conquistato…
Piccola meditazione per la consapevolezza, scritta da Lauro Viscardo, sempre acutissimo. La pubblichiamo per la rubrica Antologia, perché il suo testo apparve già qualche anno fa nella versione di Studisociali inviata per posta elettronica, e ci sembra utile riproporlo.
 

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Chiudi gli occhi un momento ...
Ora dai, aprili ...
Un attimo, ecco, li sgrano:
Oh... oh, Dio, ma è mia, proprio mia questa meraviglia:
ma è vero? Ma no, ma non ci posso credere…
Gli occhi.
 
Oggi ti parlerò degli occhi, il regalo perfetto.
Veggenti e visionari lo siamo un pò tutti
senza bisogno di stare nelle favole e nelle apocalissi.
Perché la vita stessa è un poema che mi scorre davanti
e all'improvviso si arrampica e mi penetra dai sensi
e guai a farmela sfuggire.
 
Ma per averla e per gustarla ho bisogno degli occhi
non importa se di materia o di spirito
non importa se veri o immaginari
non importa se umani o divini
non importa se di carne o con i tasti del Braille.
Vedo, e tutto l'universo mi scivola dentro.
E però non come se dicessi “io sto di qua e il mondo di là”:
no, no: è il contrario, sono proprio io che me lo prendo,
io che me lo ingoio, io che me lo digerisco,
il mondo, la vita e tutto.
Cogli occhi.
 
E cosa sono gli occhi? Che gioiello ci portiamo in fronte?
A dirla facile,
gli occhi sono un pezzo di cervello che sbuca da due finestre.
Il sistema nervoso centrale, sempre così nascosto
misterioso, geloso, sotterraneo e sfuggente
a un certo punto si tira fuori, si affaccia, si mette in mostra
e sono gli occhi.
Resti a bocca aperta appena te lo studi, pezzo a pezzo.
L'occhio: foglietti uno sull'altro, cellule a prisma, a bastoncino, a spirale
una diversa dall'altra, una incastrata all'altra
bianco, nero, colori, e, subito dietro, i serbatoi d'acqua
e tutto è lubrificato e scorrevole, lenti e pellicole, nervi e muscoli,
miscele chimiche e proiezioni che s'incrociano, si specchiano
vanno a testa in giù e alla fine sbattono sullo schermo,
laggiù, al fondo della testa, proprio come al cinema.
 
Insomma, una perfezione che neanche riesco a dirtela;
e però, studiando,  studiando, e imitando, e copiando…
nasce la foto, e poi il film, e poi il video.
Capisci che roba?
Dimmi tu se vedere non è proprio il regalo definitivo.
E luce fu, come nella creazione.
 

Averceli, gli occhi buoni
(anche con un bel po' di diottrie in meno mi contento)
ci ho davvero l'universo sotto mano.
Che stai leggendo di questi tempi, che film t'è piaciuto ultimamente,
non mi dire che ti sei perso il festival.
Teatro, cinema, libri, paesi, mari, montagne, un paradiso, una giostra,
una mostra che non finisce mai.
Fisso, contemplo, ci vado a vivere in mezzo,
e gli occhi che non si riposano mai.
Sì, hai ragione, la sera mi ci sguercio sui libri, me l'ha detto pure l'oculista e… che vuoi, quando comincio non la smetto più.
 
E poi c'è uso e uso degli occhi.
Aspetta, gli dò un occhiata, un colpo d'occhio e ti dico,
vengo subito, ci prendiamo un caffè di corsa.
No, caro: tu mi devi guardare bene,
ho bisogno di leggertelo negli occhi se mi dici la verità,
per me è importante fissarci a lungo se è vero che ci capiamo
 e se è vero che ancora ci amiamo.
Allora apro gli occhi perbene, mi fermo, mi calmo, ti guardo,
ti contemplo e non la smetto più:
è il primo, secondo, terzo, infinito atto di amore.
Bastano gli occhi.
Te lo leggo negli occhi, te lo leggo nel cuore,
come nella bella canzone di Battiato.
Senza occhi, senza sguardi, senza ammiccamenti divertenti,
non c'è intesa, non c'è fiducia, non esiste accordo.
Tutto è possibile se lo sguardo è chiaro, è leale, è complice,
è innamorato.
 
Rileggo il capolavoro di Josè Saramago Cecità e tremo tutto:
un'intera città e alla fine tutti, proprio tutti, uno appresso all'altro,
brancolano, si oscurano e piano piano non vedono più niente.
Buio,  scuro, zero.
E le strade che sfumano e i volti che si sciolgono
 e il sole che è un disco vuoto e tutti che si fanno nemici
e si odiano e si combattono,
e un manto infernale copre l'intera città.
 
Sfoglio l'ultima pagina e sospiro e non mi escono preghiere e parole:
alzo la testa e pure stamattina è una visione
e pure oggi è un'apparizione
e pure oggi sarà una rivelazione.
Che grazia.
La luce negli occhi e sono un re.
Oggi… cos'è che sarebbe oggi se non aprissi gli occhi?
Invece è una sorpresa, è un'emozione forte,
è uno schianto di felicità e non mi lascia respiro,
e io che mi do i pugni in testa: “Ma quando la smetti di lamentarti per fesserie e non ti tieni stretto questo gioiello?”.
 
Però, calma: c'è guardare e guardare.
Va’ a testa alta diceva mio padre,
non ti vergognare mai di quello che sei, non abbassare lo sguardo
di fronte a nessuno, fosse il più potente e prepotente.
La gente la devi guardare in faccia
senza che nessuno ti metta paura e ti infili nel sacco.
E non fidarti di chi ti sfugge cogli occhi mentre ci parli,
forse ha già parlato male di te o non ti sopporta.
 
Gli occhi. Gesù sembra ossessionato con la faccenda degli occhi
e prima di chiamarlo, un discepolo, lo fissa dritto negli occhi.
Lucerna del tuo corpo è il tuo occhio,
se il tuo occhio è chiaro tutto in te sarà luminoso
ma se il tuo occhio è opaco tutto in te sarà buio.
Mi appari e ci hai gli occhi sorridenti, ohé come stai, che bello dopo tanto…
e già siamo uno nelle braccia dell'altro.
Gli occhi che sorridono (e meglio se ridono) s'illuminano,
anzi sfavillano e quasi quasi vorrebbero uscire dalle orbite,
tanta è la felicità.
Ma come abbiamo fatto a stare lontani tanto tempo.
Gli occhi ridenti… e tutto cambia.
 
E fermiamoci un altro momento. Di occhi in realtà ne abbiamo due:
uno fuori e uno dentro,
ma connessi, stretti, appiccicati uno sull'altro.
Lo vedo, me ne accorgo subito se ti bolle il cervello,
se ti passa una grana e non la vuoi dire a nessuno
e ti porti un peso sullo stomaco
e hai passato una nottataccia: lo vedo subito, ti conosco,
sbatti le palpebre, i bulbi sono slavati
e torno torno rossi rossi
e forse ci hai pianto sopra, forse..
Che posso fare per te, cosa stai passando?
 
Dell'occhio di fuori te n'ho parlato e non mi basta:
è nell'occhio di dentro che tutto succede.
E ognuno lo chiama come gli pare.
Per psichiatri e neurologi si dice sistema sottocorticale,
per psicologi è psiche e inconscio,
per poeti e religiosi è anima e vita interiore.
Basta metterci d'accordo, ma il risultato è quello.
Là dietro, là dentro e là sotto, quello che ricevo da fuori io me lo organizzo,
me lo trasformo, me lo manipolo, 
e alla fine ci lavoro sopra: costruisco, creo, compongo,
come se fosse mio;
ed è mio: immagine o pensiero, fantasia o sogno,
memoria o pretesa, felicità o disperazione.
L'occhio di dentro è la mia sibilla, il mio profeta, il mio artista,
ma anche la mia voglia di vivere
o la mia depressione e la mia distruzione.
Che mondo sconosciuto, gli occhi.
 

Non è ancora tutto.
Perché quell'occhio di dentro non è detto che invecchi
e cogli anni si logori;
anzi.
Anzi… potrebbe perfino migliorare, se voglio ci lavoro,
mi ci appassiono
o semplicemente sono fortunato e pieno di grazia.
Dipende. Lo chiamerò l'occhio di fondo, tanto per capirci.
Pochi ce l'hanno, beati loro.
Sì, l'occhio di fondo è il più raro,
l'occhio magico delle radio a valvola dell'infanzia,
quando mamma diceva aspetta, si allarga, si allarga, si fa verde e...
ora è pronto e puoi girare la manopola e lui parlerà.
Se mi si aprisse l'occhio di fondo io sarei vigile, sarei teso, sarei spalancato.
E qualcuno mi direbbe vai.
È l'occhio del Buddha, l'occhio del mistico, l'occhio del genio,
l'occhio di colui che è sveglio, che è iniziato e ha le braccia aperte:
attento! attento!
Ora ti verrà sussurrato il verbo, ora ti si spalancherà il vero,
ora disegnerai il bello che col primo occhio non vedresti mai.
Dai, apri l'occhio vero
e tutto conoscerai e tutto ammirerai

e non ci saranno più segreti per te
e una vita sconfinata ti scorrerà di fronte
e tu a bocca chiusa,
inerme, istupidito, intontito, saprai.
 
La contemplazione dei mistici inizia così:
notte che non ha più tenebre,
notte che non fa paura,
notte che non dà angoscia.
Tutto segreto, tutto silenzio, tutto appartato.
Occhio di anima, non di corpo,
occhio quasi divino, occhio penetrante.
Veggente, e non importa se con religione o senza.
È nato il Veda, il Quarto Vangelo, la Sistina, la Settima, il Parsifal.
 
In quel sole accecante io brancolo: ma sono felice lo stesso.
 
                                                                                           (Lauro Viscardo)
 
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Società

LA VERGOGNA DEL RAZZISMO: MA SOPRATTUTTO LA SUA STUPIDITA'

Le diversità. L'educazione alle diversità è, in fondo, l'educazione all'umanità ed alla comunità. Si tratta dell'inizio di ogni processo educativo. Più alta è l'educazione al rispetto delle diversità accompagnata da contenuti valoriali, più alta è la civiltà. Il gerontologo Massimo Palleschi chiarisce la zona di confine in cui si aggira il pericolo di scantonamento che può portare a forme di razzismo. 

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La vergogna del razzismo si combatte con l’accettazione e la valorizzazione delle diversità, non con la loro negazione.

Si tratta comunque di un argomento che suscita forti contrapposizioni, dal momento che il razzismo, e cioè l’odio preconcetto verso una determinata etnia, è il principale responsabile di due tra le pagine più buie della storia dell’umanità: lo schiavismo ed il genocidio di diverse popolazioni.

E’ comprensibile come di fronte a questi orrori, resi possibili per l’aberrante opinione dell’esistenza non solo di etnie diverse, ma di razze inferiori o addirittura subumane, ogni discorso sulle diversità diventi quanto mai arduo. Però la ragione ci deve consigliare a non farci condizionare, nell’esaminare il problema delle diverse etnie, dalle farneticazioni di un pazzo criminale come Hitler, relative alla presunta inferiorità di alcune razze umane.

Secondo il mio parere tutti i movimenti e le correnti di opinioni che giustamente considerano il razzismo come una degradazione del pensiero e del comportamento umano, dovrebbero prescindere dal problema dell’esistenza delle razze umane, che di per sé non ha nulla a che fare con il razzismo. In senso biologico l’uomo a tutti gli effetti è un animale, e nessuno nega l’esistenza delle razze all’interno delle varie specie animali. Né sembra valida l’obiezione che le differenze razziali degli animali, valutate da un punto di vista genomico, sono superiori a quelle riscontrabili nella specie umana (nelle razze canine, ad esempio, si hanno delle differenze del Dna cento volte superiori a quelle osservate nelle diverse etnie dell’uomo).

Ad avvalorare la scarsa diversità dei vari gruppi etnici si porta anche il dato che nei trapianti di organi la reazione anticorpale e il conseguente problema del rigetto non presentano differenze significative tra le persone bianche e nere. Le analogie e le differenze tra organismi viventi e tra soggetti della stessa specie (anche umana ovviamente) sono presenti e distribuite in maniera comunque non sempre facilmente comprensibile. E’ compito degli esperti del settore di cercare di analizzarle tutte in perfetta libertà e senza alcun pregiudizio.

Nonostante quanto ho appena accennato, i genetisti sono contrarissimi ad ammettere l’esistenza di razze umane. E’ vero semplicemente che ognuno di noi è diverso dall’altro. Basti pensare alle impronte digitali diverse negli oltre sette miliardi di persone che popolano il nostro Pianeta. Diversi possono essere i tratti somatici, come il colore della pelle, diversi possono essere caratteri non somatici, ugualmente importanti, e tra questi i vari atteggiamenti, comportamenti e modi di pensare e di sentire. Come non citare in quest’ambito le diversità del sentimento religioso che hanno determinato tremendi conflitti e tanto spargimento di sangue?
 
In realtà è la diversità, qualunque forma di diversità, che può far paura ed essere fonte di discriminazione, di disprezzo, di odio. Ed è su questo versante che noi dobbiamo rivolgere tutta la nostra attenzione, cercando di promuovere una cultura  che veda nella diversità una fonte di arricchimento.

Insomma, non è la differenza del Dna a generare mostruose discriminazioni, ma è l’irrazionale non accettazione della diversità a scatenare i putiferi che hanno disonorato la storia dell’umanità. Secondo il mio parere la chiave di volta di questo complesso problema risiede nel rispetto della persona indipendentemente da ogni caratteristica  antropologica e genomica.

Un atteggiamento di contrarietà, di disappunto, di discriminazione  fino al disprezzo, si ha spesso, del resto, non solo verso gruppi di persone di etnie diverse  ma verso i gruppi più disparati anche all’interno della stessa etnia, compreso a volte il gruppo degli anziani. Mi rendo conto che paragonare la diversità della condizione anziana, rispetto al mondo dei giovani, alle differenze etniche, può essere paradossale, ma è una analogia che è stata fatta e che si collega al concetto di ageismo. Il termine “ageism”, coniato nel 1969 da un gerontologo statunitense, Robert Butler, indica appunto la presenza di un atteggiamento quasi istintivo, immotivato, di contrarietà, di discriminazione verso tutto ciò che ha a che fare con l’età avanzata.

Prescindendo dagli anziani e ritornando più specificamente al problema dell’esistenza delle razze, vorrei aggiungere che da un punto di vista biologico l’argomento va inquadrato nel meraviglioso e complesso intrecciarsi di fenomeni ereditari ed acquisiti (cioè ambientali). Si tratta di un’analisi difficile, che va condotta con rigore e razionalità, ma che non ci deve far dimenticare la nostra provenienza e il meraviglioso ed unitario cammino della nostra specie umana.

Noi homo sapiens siamo in realtà tutti africani e, spinti dal bisogno e dalla curiosità, abbiamo dato il via all’impetuosa colonizzazione del pianeta: l’Europa e l’Asia forse intorno a 55 mila anni fa, le Americhe forse più o meno 30mila anni fa. In sostanza siamo tutti discendenti dell’Homo sapiens africano, compreso “ l’ariano di razza pura”, alla faccia dell’imbianchino di Vienna. Potremmo anche aggiungere che alla luce di quanto ho appena accennato siamo tutti “bastardi” e meticci, frutto di incroci e migrazioni. Ma a chi è razzista (forse sarebbe preferibile dire xenofobo) non interessa molto se le differenze abbiano una base biologica o antropologica-culturale,  se siano molto antiche o comparse più recentemente , se siano isolate o accompagnate da tante altre caratteristiche. I razzisti avvertono solo che sono in presenza di qualcosa di sgradevole, che intendono contrastare ad ogni costo con i metodi più primitivi e brutali.

La discussione sul problema e sulle caratteristiche delle diverse etnie va impostata nella maniera più razionale possibile: un’analisi al massimo può essere sbagliata e in tal caso andrebbe confutata sulla base di precise argomentazioni e non con uno spirito ed un linguaggio da crociata, che male si addicono ad un tema di carattere scientifico. In quanto tale, la negazione delle diversità non ha senso e oltretutto va in direzione opposta a quanto emerge dalle conoscenze attuali. Infatti nella moderna Medicina si sta sviluppando sempre di più il ruolo della cosiddetta  Medicina personalizzata che amplifica, identifica e valorizza le diversità non solo tra popolazioni diverse, ma anche tra persone della stessa popolazione.
Le differenze tra organismo ed organismo possono essere così rilevanti, anche in soggetti apparentemente molto simili,  che persino la risposta ai farmaci può essere diversa. Questa multiformità di reazione costituisce la base della farmacogenetica, che avrà sempre più notevoli ripercussioni nell’ambito della clinica e della farmacoterapia.

Tutto questo ci deve inorgoglire per la ragione che facciamo parte di un mondo meraviglioso, straordinariamente complesso, popolato da creature  tanto simili e nello stesso tempo tanto diverse, che dobbiamo cercare di comprendere ed amare.
                                                                                          

                                                                                                                                                             (
Massimo Palleschi) 
                                                                                                     
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Storia

ATTENZIONE ALLA LEGA DI DELO...

Si ipotizza di togliere la storia dalle materie di insegnamento nella scuola, e di limitarsi a coltivarla come disciplina... libera? Vagante? Solo universitaria? Non sappiamo coon esattezza cosa si stia muovendo dietro le quinte del potere, politico o economico o culturale che sia, ma sappiamo che, con la medesiam logica nefasta e antiumanistica che spinge a togliere centralità nell'insengamento scolastico alla lingua italiana, si tratta di tendenze che convergono nell'oscuro obiettivo strategico che punta a trasformare le persone da essere pensanti ad automi di consumo. Noi ci guardiamo bene dall'accettare simili pericolosissime tentazioni. Quanto al valore della storia ed ai suoi inesauribili insegnamenti, in particolare, un esempio recente ci viene richiamato da un breve ma interessantissimo articolo firmato da Achille Colombo Clerici per  Il Giorno. Egli propone di ripensare gli accadimenti tendenziali attuali di una Europa che quasi non riusciamo più a riconoscere rispetto a quella dei padri fondatori, e di confrontarli con quanto si verificò, ad esempio, nell'antica storia ateniese del quinto secolo avanti Cristo. Davvero stimolante...

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Giulio Tremonti, nel suo recentissimo saggio «Le tre profezie. Appunti per il futuro» analizza le radici di populismo e sovranismo nell’Europa di oggi. Per capire il grande disordine che  investe le nostre vite, prende spunto da tre profezie.
 
Quella di Marx sulla deriva del capitalismo globale; la previsione del Faust di Goethe sul potere mefistofelico del denaro e del mondo digitale; infine l’intuizione di Leopardi sulla crisi di una civiltà che diviene cosmopolita. Tre chiavi di lettura che l’autore intreccia con la personale esperienza di studioso e di protagonista della politica.
 
La giovane ‘talpa’ del populismo sta scavando il terreno su cui, appena caduto il muro di Berlino, è stata costruita l’utopia della globalizzazione. Oggi sembra di essere tornati agli anni ’20 della Repubblica di Weimar, in una società stravolta e incubatrice di virus politici estremi. 
 
Passando alla storia, rifletto: la complessita' della questione europea nasce dal fatto che nel progetto dei padri fondatori si intrecciavano economia e politica; ma poi oggi e' la prima a tener banco.  Molte regole vanno raddrizzate se non si vuole che si ripeta la vicenda della Lega di Delo.  Nel 477 a.C. si costituiva un'alleanza economico-militare che univa gli ateniesi e le città-stato indipendenti  (poleis)  loro alleate in una difesa comune contro il pericolo persiano. Ciascuna polis contribuiva a mantenere la flotta sia fornendo direttamente le triremi, sia pagando un tributo al tesoro comune. 
 
Nel giro di una generazione la Lega di Delo era divenuta un pretesto per coprire l'imperialismo di Atene, il suo sogno di egemonia.  Il tesoro della Lega venne trasferito dal santuario di Apollo, nell'isola di Delo, al tempio ateniese del Partenone. 
 
 La giustificazione fu che, così, era messo al sicuro da un eventuale attacco persiano nell'Egeo; in realtà da allora in avanti Atene ebbe mano libera nell'utilizzo dei fondi. Nel 449 a.C. fu stabilito un accordo tra Atene e la Persia. A quel punto, di fatto, cadevano i motivi per cui era stata costituita la Lega.
 
 Diverse poleis sospesero il pagamento dei tributi, ma Atene reagì: richiamò gli alleati e ridusse l'autonomia di quelle città che si erano ribellate. Il predominio ateniese divenne sfrontato. Il Consiglio della Lega non fu più convocato; tutte le decisioni vennero prese da Atene.
 
 Fu imposta la dracma come moneta comune, ma ancora più pesanti furono le ingerenze di Atene nella politica interna delle varie città: molte di esse passarono ad un governo di tipo democratico non per libera scelta, ma per obbedienza, visto che ovunque Atene imponeva le sue guarnigioni militari. Dopo un tentativo di riforma (nuova Lega di Delo, ma Atene continuava a prevaricare sulle altre poleis), tutto finì con la rivolta di alcune città e la sconfitta di Atene.  
 
                                                                                                                                                 (Achille Colombo Clerici)
 
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Godetevi una fiaba

L'ALBERO E LA NUVOLA

Delicatissima fiaba della nostra Valentina Tuccella, che fa parlare fiori e animali, nuvole e alberi, fiumi e fronde ventose, per ricordare agli uomini quanto sia possibile e meravigliosamente bello costruire un mondo in cui semplicemente si impari ad aiutarcisi capendo e donando piuttosto che ad ostacolarcisi chiudendo e invidiando.
 
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C’era una nuvola, alta nel cielo; con le guance gonfie e gli occhi chiusi soffiava forte forte. Tutt’intorno, ogni piccola cosa si alzava al passare del vento. I piccoli animali corsero a nascondersi, i fiori richiusero la loro corolla. Ed il grande albero, il più saggio di tutto il prato, si svegliò. Le sue foglie avevano preso a tintinnare, come dolci scampanellii fruscianti nel vento.
 
  • Hei tu! - Esclamò il saggio albero alla nuvola: – smetti di soffiare sulle mie foglie! Le perderò tutte!
 
  •  Scusami – disse prontamente la nuvola – ma mi annoio, sono qui, tutta sola.
 
  • Anche io mi annoio tutto solo, ma non reco alcun fastidio a nessuno! - rispose l’albero.
 
  • Tu solo? Eppure hai tanti alberi intorno a te, bellissimi fiori ai tuoi piedi, animaletti piccoli e grandi che ti si rifugiano.
 
  • E allora, tu? Sei lì in alto, voli nel cielo, puoi vedere tutto e tutti. Sei vicina al sole e alla luna.
 
  • Sono un po’ monotoni, quei due lì, non parlano mai. - rispose mogia la nuvola.
 
  • Gli stessi uccellini che dormono sui miei rami, la mattina vengono a trovarti.
 
  • Sì è vero, e sono molto belli, ma anch’essi sfuggenti, come le mie sorelle nuvole …
 
  • Io invece sempre qui, immobile. Cosa darei per volare nel cielo, un sol giorno … - sospirò il saggio albero.
 
  • Cosa darei io per restare lì sulla terra un sol giorno … - sospirò la nuvola.
 
  • Oh, nuvola! Guarda, le mie foglie! Ora che son diventate gialle e leggere, sembrano volerti raggiungere!
 
  • Anche le mie gocce d’acqua, cadendo leggere sui tuoi rami, sembrano volerti raggiungere!
 
  • Nuvola, siamo gelosi l’uno dell’altra – disse il saggio albero: – facciamo così, io ti regalerò le mie più belle foglie una volta l’anno, esse danzeranno per te, colorando il tuo cielo grigio d’inverno.
 
  • Ed io ti donerò le mie gocce più pure e più fresche, per far sì che le tue radici e i tuoi rami siano sempre dissetati.
 
  • Affare fatto, nuvola! Avrai un pezzetto di terra tutto per te … ed io, un pezzetto di cielo tutto per me...
 
(Valentina Tuccella)

 

 
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Antologia

LA RESSA

Le nostre chiese sono vuote?

Lo sento ripetere spesso, da tanti e da tanto tempo: l’ho sentito ripetere anche a ridosso della Pasqua appena trascorsa, come se quel gran giorno, con le sue chiese piene, fosse stato poco più che una felice eccezione; ma ho l’impressione che si tratti di una lamentela reiterata con eccessiva criticità e con troppa indistinzione di tempi e di luoghi. Non ho la stessa impressione di vuoto, insomma, o non ce l’ho così uniforme.
Comunque non era certo vuota, nel corso della settimana santa da poco passata, la chiesa che frequento di solito. Per il vero, anzi, essa è piena proprio ogni domenica dell’anno, a entrambe le messe della mattina. Quest’anno, poi, per la domenica delle palme, in particolare, la folla dei fedeli traboccava addirittura un metro al di fuori di tutte e tre le porte d’ingresso, e tutte e tre le navate interne hanno continuato a riempire i loro banchi di fedeli lungo i giorni successivi, fino alla straripante domenica pasquale e dopo.

C’è ancora molta religiosità, fra noi: di diverse motivazioni e di diverse intensità e colorazioni, piuttosto; ed è su questo punto che, in realtà, mi pare si propongano alla nostra riflessione quesiti particolarmente impegnativi e talvolta eccessivamente trascurati.

Ad esempio, un piccolo episodio ricorrente continua a incuriosirmi ogni anno, da tanto tempo, proprio il giorno della domenica delle palme: un piccolo episodio che torna invariabilmente a ripetersi, regolare come la campana di mezzogiorno, nella mia e in tutte le chiese che in tanti anni mi è capitato di frequentare per questa festività; l’ho notato perciò anche quest’anno.

Si tratta della ressa disordinata ai banchi nei quali, subito prima e subito dopo la messa, si distribuiscono i rami di ulivo benedetti.
La ressa, la folla, l’accalcamento, la gara, l’ansia inconfessata, l’entusiastico desiderio, il gesto tradizionale, il segno scaramantico, l’attesa, la momentanea dimenticanza dell’essenziale, l’euforia generale dell’ambiente specifico, chissà…

Fatto sta che in questo piccolo episodio ricorrente trovo in effetti una piccola ma significativa “prova del nove” della effettiva sostanza della Pasqua, e della partecipazione alla chiesa, per tanti di noi, o per alcuni di noi: la ressa per accaparrarsi i rami più belli dell’ulivo benedetto, i più grandi, i più frondosi, e per accaparrarsene non uno per sé ma più di uno, uno anche per i figli, uno per i nipoti, uno per i vicini di casa, uno per l’amica, uno in sovrappiù perché non si sa mai…

Cosa che, di per sé, costituisce buono e lodevole pensiero, naturalmente.

Ma il lato che mi lascia sempre nuovamente perplesso, e malinconicamente curioso alla ricerca di qualche eventuale indizio di cambiamento, è che la ressa, nel suo malcelato tentar di essere pure educata e rispettosa, di palesarsi senza escandescenze, è proprio “ressa”, e in quanto tale finisce oggettivamente per non avere quasi mai compassione né rispetto del prossimo più debole, quello che al rametto di ulivo giunge in ritardo, per debolezza di passo o per buona educazione.

Nella ressa ognuno agguanta il suo piccolo malloppo come una conquista, lo rende il più corposo possibile, e scappa via; qualcuno lascia l’obolo, qualcuno un sorriso, qualcuno un augurio di Buona Pasqua, qualcuno persino si sforza di fare spazio a chi viene dopo di lui: ma relativamente pochi, alla fine, lasciano una traccia esplicita, chiara, testimoniata, di solidarietà e comprensione, di tenerezza e generosità, per chi resta senza ramo di ulivo o deve accontentarsi dei rimasugli semidefoliati, quelli che proprio, anche nell’aspetto esteriore, non hanno neanche più la sembianza di rami di ulivo.

Beh, c’è poca Pasqua, in questo piccolo, particolare gesto della festa; poca Pasqua cristiana, almeno. C’è poco Gesù Cristo, poco di quel Gesù che subito dopo confessiamo tanto solennemente alla messa come il nostro Dio e Signore insieme con i nostri fratelli. E per questo, a volte, invece che sentirmi “felice come una pasqua” in tanto tripudio di rami, mi sento un po’ malinconico.

E mi vien da pensare, più o meno, rivolgendomi mentalmente a ciascuno dei miei fratelli di fede, e scoprendomi anche ogni tanto a distrarmi per un momento dalla messa: “Caro fratello (e soprattutto cara sorella, dato che in questa Milano-Sanremo liturgica mi pare empiricamente che le donne, e non quelle giovani, prevalgano di gran lunga): forse dovremmo ricordare con più attenzione il significato di quel ramoscello d’ulivo che stiamo prendendo in mano, ricordarlo davvero alla luce di quel giorno di duemila anni fa raccontato dal vangelo; e sentire perciò l’impulso che, se ne prendiamo uno per noi e per la nostra famiglia, e magari uno anche per il vicino di casa, dobbiamo però aver cura di lasciarne uno all’altra donnina che avanza più educata o meno muscolosa di noi nella ressa, o al giovane che per rispetto dell’età altrui si lascia sopravanzare ma osserva il banco che si svuota rapidamente lasciando per lui e per gli altri soltanto tronchicini defoliati…”. Perché essere cristiani, in quel momento, mi pare anche questo…

Insomma, domenica delle palme, anche quest’anno, e per questo piccolo aspetto… poco liturgica e molto rituale, poco cristiana e un po’ folclorica. O almeno, così a me sembra. Ci penso su, uscendo dalla chiesa. Mi accontento dei miei ramoscelli non foltissimi. Anzi, ne ho potuto prendere uno anche per le mie figlie. Sono davvero contento. E’ il segno della mia Pasqua. Il segno profondo, anche se solo simbolico, di quel Gesù nel quale credo e che ho davvero incontrato nella messa. No, non ho fatto e non farò mai la gara per i ramoscelli più belli e più folti.

Ma, durante la messa, mi è restato il pensiero fisso anche su come doveva essere la folla che osannava Gesù nella Gerusalemme storica di quell’anno primo della Pasqua cristiana, o meglio di quel primo anno di “festa delle palme”: c’era la ressa, anche allora, ed era fatta di appassionati di fede in attesa del messia promesso dai profeti, di discepoli del Battista dal cuore grande, di umile gente sincera del popolo e sbalordita dai miracoli di Gesù, e anche di un nugolo di curiosi, di pettegoli, di indifferenti, di ritualisti del tempio in gara per catturare un ramo di palma o di ulivo da tenere per ricordo perché “questo Gesù di Nazareth sta facendo parlare tanto di sé che, chissà, passerà alla storia, magari caccerà i romani dalla nostra terra, magari ci farà rivivere le glorie di Davide e di Salomone… il grande Israele… magari farà arrabbiare tanto i nostri sacerdoti e scribi perché, dopotutto, si dimostra più coerente di loro… E insomma… è importante esserci, oggi, è importante dire ai nipoti: “Vedi questa palma? E’ proprio del giorno in cui il nuovo re passava in mezzo a noi: e io c’ero, e ne ho catturato una anche per te, per tuo ricordo, perché io facevo il tifo per lui…”.

Tutto il resto, che lui sia Dio o non lo sia, che occorra davvero amare il prossimo come lui dice, che poveri e umili valgano davvero, davanti a Dio, come quelli del sinedrio, come lui sostiene… Beh, che importa tutto ciò? Apparenze, convenienze, riti, tradizioni… belle, giuste, ma, diamine, con un po’ di giudizio, senza esagerare…”.

Sì, siamo proprio noi, siamo proprio quelli, siamo uguali, ancora dopo duemila anni; anche nelle piccole cose. Anche nella gara per i ramoscelli d’ulivo in questo giorno di festa. Chissà, forse è anche per questo che il regno dei cieli dura tanta fatica ad affermarsi, anche fra noi credenti… Ancora dopo duemila anni non ci riesce… e ancora continuiamo a pensare che sia questione di miracoli tonanti, non anche della piccola vita quotidiana affidataci…

Lo so, ora voi mi direte: “Beh, a cosa ti attacchi, tu… a simili quisquilie… la gente è così, si sa, ma che c’entra con la Pasqua? Ci sono ben altri problemi… I musulmani… le scuole cattoliche… le elezioni con una lista di ispirazione cristiana…”.
Avete ragione. Forse. Lo sapete, del resto, che io sono fatto così. Non riesco a levarmi dalla testa che le cose piccole siano segnacolo di cose più grandi, che le une e le altre siano legate fra loro, che tutto anzi cominci forse dalle piccole… Mah!... sono fatto così…

Eppure: che grande spettacolo sarebbe stato, che predica silenziosa per i non credenti, che profumo di amicizia ed affetto avrebbe pervaso la chiesa, la piazza, gli estranei passanti, che misericordia fra noi… “Guarda… gente che si vuole bene, che si dà la precedenza anche per un ramoscello di ulivo… qualcosa di serio e di bello deve pur esserci, fra questi... di diverso da ciò che si vede fra gli altri…”.
Che bella Pasqua sarebbe! Questa, sì, da contrapporre con giusto orgoglio alle bombe di Bruxelles.

                                                                                                                                                      ​(Giuseppe Ecca)
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Europa

LA CULTURA PER USCIRE DAL GUADO

Leonardo Guzzo scriveva questo articolo circa un anno fa: ed è interessante osservare, oggi, come un’attenzione crescente circondi effettivamente il tema dell’indebolimento qualitativo dell’azione culturale in Europa, quasi a risottolineare la necessità di riscoprire finalmente il primato necessario di questo tema se si vuole restituire presa forte, nella coscienza degli europei, all’idea della unificazione del continente. Non avevamo presente l’articolo di Leonardo Guzzo, in occasione del recentissimo convegno di Padova dedicato al tema europeo, ma non è casuale che anche a noi sia venuto spontaneo proporre al convegno, nell’intervento introduttivo, la necessità del “rovesciamento necessario di paradigma: dalla centralità dell’economia alla centralità della cultura, anche per fare economia sana ed europea”.
 

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In un lungo articolo del 1984 (!!!) sul Corriere della Sera il celebre storico francese Fernand Braudel lamentava come, a quasi trent’anni (all’epoca, oggi a oltre sessanta) dalla firma dei trattati comunitari, stentasse a emergere e ad essere valorizzata la concezione di una “cultura comune europea”. Eppure, sosteneva Braudel, agli albori della globalizzazione, al cospetto di una prossima radicale ridefinizione della mappa geopolitica del mondo, la cultura era (ed è) la carta vincente dell’Europa. Se il primato politico ed economico del continente era ormai un lontano ricordo e i limiti dell’integrazione mettevano in forse la stessa capacità di competere sul mercato globale, l’Europa poteva ancora contare su un indiscutibile, per quanto vago, primato culturale. Il Vecchio Continente era il punto di irradiazione di un sistema di valori capace di attecchire in tutti gli angoli del mondo, all’interno di soggetti politici dai caratteri assai diversi: dalla superpotenza americana ai moloc sbreccati d’oltrecortina, dall’America Latina all’Oceania, dall’Estremo Oriente alle immense sabbie della “Umma”.
 
In nessun altro ambito come in quello culturale, sosteneva Braudel, “l’Europa è esplosa sul mondo”. Con l’effetto che “l’Europa culturale si stende, come una veste immensa, sopra l’Europa geografica”. Figure come Dante e Cervantes, Shakespeare e Mozart, Goethe e Rabelais hanno inciso sul Vecchio Continente, e su ogni angolo del pianeta, assai più di quanto non siano riusciti a fare, anche solo lontanamente, Carlo V o il Re Sole, Cromwell o Garibaldi, Bismarck o Napoleone. E allora perché mai, si chiedeva Braudel, nell’Europa “adolescente” degli anni ’80, “la cultura non è all’ordine del giorno con il massimo rilievo possibile?”.
 
Oggi, a trent’anni di distanza da quell’articolo, la situazione è perfino peggiore. L’Europa ha compiuto l’unione monetaria e ha moltiplicato la sua burocrazia, ma sembra aver perduto lo slancio vitale che l’ha accompagnata attraverso i secoli: appare invecchiata, sciupata dalla crisi, dalla stanchezza, da un’idea politica che doveva essere “giovane” e “grandiosa” e si è provata “vizza”, “cervellotica”, “vacua”. La parabola dell’integrazione pare ricondotta, per ironia, all’essenza del mito classico: come la fanciulla irretita da Zeus e derubata della verginità con l’inganno, il progetto politico più ambizioso del XX secolo è stato scippato dai governi (e dai burocrati) ai popoli. Oggi il pallido fantasma di quel progetto è sospeso a metà del guado, tra la tentazione di regredire allo storico canovaccio di rivalità nazionali e lo sforzo immaginoso di proiettarsi verso il futuro globale; vacilla, resta esposto alle correnti e a tutto il turbinio di vortici che può definitivamente travolgerlo.
 
Di un’autentica, consapevole integrazione culturale ancora neanche l’ombra… Ticchi e ubbie, pregiudizi e idiosincrasie governano i rapporti tra le nazioni molto più della coscienza di un’identità comune. Al punto di aver innescato un progressivo decadimento dello spirito europeista negli stessi cittadini europei. Altro che lenta ma crescente affezione verso la causa (e la casa) comune! Tutte le più recenti intese comunitarie sottoposte al voto popolare, a cominciare dalla cosiddetta “costituzione europea”, sono state malamente rigettate o accolte freddamente, per non dire controvoglia, con margini risicati e un certo disagio. La crisi economica e la risposta, timida e tardiva, dell’Unione hanno chiaramente esasperato questa tendenza fino a portare, per la prima volta, al centro della ribalta movimenti che apertamente contestano la moneta unica e l’impalcatura comunitaria. Come mai nel recente passato, l’idea di Europa rischia di diventare “fuori moda”. Irrealistica e perfino impopolare.
 
Per scongiurare la iattura le ricette sono arcinote. Alla dittatura dei numeri, si dice, dovrebbe sostituirsi una strategia più flessibile e un programma di vera politica economica; l’unione monetaria dovrebbe trasformarsi in una concreta aggregazione politica. Ma forse l’antidoto va cercato più a fondo, nella cultura come fonte e cemento essenziale dell’unità europea.
 
Recuperare e ricostruire un’identità comune del Vecchio Continente è la via maestra per orientare la bussola del processo di integrazione, il passaggio indispensabile per far emergere un senso di solidarietà e fratellanza tra i popoli. Non solo: riaffermare e rinnovare la sua identità culturale è il modo, per l’Europa, di conquistare nuova dignità sulla scena internazionale, di comprendere e magari di dirigere i processi che governano l’evoluzione della società globale. E’ l’unica maniera di tenere gli occhi aperti, a un tempo, su se stessa e sul mondo, sulle “altre Europe” che popolano il mondo.
                                                                                                                                     (Leonardo Guzzo)
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Congresso mondiale delle famiglie

MA CHE STRANE ISTITUZIONI...

La dice chiara, Giuseppe Bianchi, e noi la pensiamo come lui. Non si tratta di “quali idee si hanno” ma del livello infimo a cui sembrano porsi sempre più il rispetto reciproco fra opinioni, la correttezza istituzionale e la chiarezza di ruolo delle rappresentanze di parte. E, a quest’ultimo proposito, se la Cgil si è pronunciata, la Cisl non esiste in Istat? E cosa pensa? Non vale proprio la pena che ce lo faccia sapere? E il presidente dell’Istat presiede una istituzione dello Stato e di tutti i cittadini, o un accordo fra partiti?

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Chi dice che il Sindacato è in crisi? Il nuovo Presidente dell’Istat, Prof. Blangiardo, illustre demografo, ha ritirato l’adesione personale alla tavola rotonda dedicata alla “protezione della vita e crisi demografica” organizzata dal Congresso Mondiale delle Famiglie, perché il sindacato interno della Cgil e la rappresentanza delle donne dell’istituto hanno giudicato sbagliata questa scelta.
In quale paese un sindacato interno ha tanto potere da condizionare le scelte personali di un presidente, ed in quale paese un presidente si piega a tale potere sindacale? Si ammetta pure che il citato congresso sia una raccolta di parrucconi reazionari, espressione di un cattolicesimo “medioevale” (così è stato definito). Ma si tratta pur sempre di una sede in cui si manifestano idee, si ragiona, si scambiano opinioni, non si producono norme che impegnano chi non è presente né, tanto meno, si progettano ritorsioni nei confronti di chi la pensa diversamente. E’ così compromettente che il presidente dell’Istat, a titolo personale, porti la sua competenza demografica in un dibattito pubblico? Forse il sindacato interno avrebbe avuto precedenti occasioni per difendere l’autonomia dell’Istat quando l’elezione del presidente è entrata nel crogiolo degli scambi tra partiti in un’asta politica per aggiudicare tale poltrona prestigiosa.
                                                                                                                                            (Giuseppe Bianchi)

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Europa

TRA NANI E GIGANTI

E’ un articolo già apparso di recente su Il Giorno, fra i tantissimi che trattano, come è giusto e nello stesso tempo come va (forse) troppo di moda, il tema europeo. “Va troppo di moda” significa soltanto che vediamo, nei ragionamenti sull’Europa, molta più retorica che dibattito profondo. Ma resta il fatto che votare, e votare al meglio possibile, secondo coscienza, per il prossimo parlamento europeo, è atto di responsabilità dal quale nessun buon cittadino dovrebbe dissociarsi. Riproduciamo dunque l’articolo, scusandoci per qualche espressione bruttamente dialettale che esso contiene (“tink tank” è semplicemente un Laboratorio di Pensiero, se si sa parlare in italiano e con eleganza). Preannunciamo che il prossimo 5 aprile si terrà a Padova un convegno proprio sul tema "Europa sì... Ma quale?".
 
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Se la maggioranza degli italiani ritiene l’Unione Europea non madre ma matrigna, una maggioranza ancora più grande vuole restare nell’Eurozona dei 19 Paesi. Segnale evidente di una certa confusione che è bene dipanare alla vigilia delle prossime elezioni per l’Europarlamento. Le prime, nelle quali 27 Paesi – non è ancora dato sapere quale sarà il destino del Regno Unito - voteranno non per scegliere un partito nazionale, ma il futuro dell’Unione. Si prospetta infatti una risicata maggioranza per i partiti moderati e l'ascesa di gruppi più nazionalisti ed euroscettici in quello che sarà il Parlamento Ue piú frammentato di sempre.
                                                                
Che Europa sarà?” si è chiesto in un convegno l’ISPI, uno dei più autorevoli think-tank europei fondato nel 1934. Un’Europa che deve completare, e in fretta, la traduzione nel concreto della magnifica utopia di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi (ispirati da un libro scritto da Junius, pseudonimo di Luigi Einaudi) con la collaborazione di Eugenio Colorni e di Ursula Hirschmann.
 
Al centro di tutto l’Euro, che nel 2019 compie vent’anni, dal quale dipende l’intera Unione Europea. Una moneta priva di una istituzione di riferimento, conseguenza dell’illusione che all’unione monetaria sarebbe seguita l’unione politica e fiscale, grazie ad un governo continentale in grado di tassare, investire, indebitarsi quando necessario. Non è avvenuto. Ed ogni Paese dell’Eurozona fa la politica economica che gli pare, anche se le sue scelte influiscono sui bilanci di tutti.
 
Solo per citare, le norme bancarie sono un cantiere aperto dove è stata imposta una sorveglianza europea sulle principali banche, ma non è stata ancora varata una normativa che garantisca chi nelle banche deposita i propri risparmi. E ci sono da adottare politiche fiscali comuni e in tema di lavoro, di difesa, di welfare, di diritti, di innovazione, di immigrazione, di ambiente.
 
Il problema di fondo, in tema di economia e di vincoli, viene dai Paesi del Nord guidati dalla Germania e investe scelte di ben maggiore calibro: ad esempio, la riluttanza dei Paesi ricchi ad accollarsi i debiti dei Paesi in difficoltà (anche indirettamente attraverso la flessibilita'): saremmo anche disposti a farlo, dice il Nord al Sud del continente, ma prima dovete  mettere a posto i vostri conti. Se non ci aiutate, risponde il Sud, non saremo mai in grado di farlo. I fatti e la logica sembrano dar ragione a questi ultimi.
 
Diversamente, si richiederebbe uno sforzo ultra vires: ad esempio, pur funzionando l'Italia sostanzialmente allo stesso modo dei paesi del Nord ( consistenti avanzi di bilancio) i conti non li riesce a sistemare a causa del costo dell'indebitamento.
 
A maggio sapremo se l'Unione, gigante economico e nano politico e militare, si darà un assetto in grado di competere con le superpotenze Usa e Cina oppure se è destinata a fare la fine della Lega di Delo.  
 
                                                                                                                              (Achille Colombo Clerici)

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Ma mi faccia il piacere...

PROPOSTA DI MODIFICA UNILATERALE: CON TRANELLO INCORPORATO

E’ incerto, quasi imbarazzato, e mi guarda come per scrutare se io mi infastidisca o meno alla sua richiesta di aiuto, dato che è la seconda volta che si rivolge a me. Poi prende confidenza, vedendo il mio sorriso incoraggiante, e si fa avanti:
 
"Sa’, dotto’, io me scuso proprio, ma è quella stessa cosa che le accennai l’artra vorta: nun ci capisco nulla e ho l’impressione che quarcosa nun vada bene. Nun vojo pensa’ male, ma, sa’, con quello che se sente in giro, quarche banca dove miei amici avevano messo i loro risparmi… tutto in fumo… io vojo solo che me li custodiscano, 'sti risparmi… Sa’, pei  figli… Ma nella banca nun ci capisco più nulla. Tant'anni fa te spiegaveno le cose pe' fattele capi', ora è come se proprio facessero apposta a nun fatte capì gnente. E non è solo questione de 'sta stronzata d'inglese, scusi… ma anche quanno parleno in italiano… Scusi, sa’, ma io capisco mejo er mi'  cane… ”, fa con crescente coraggio che inizia a diventare indignazione a mano a mano che si accorge che io lo ascolterò fino in fondo. 

La lettera che mi porge consiste di due fogli a stampa fitti fitti: e gli occhi, in mancanza di un titolo,  mi cadono inevitabilmente sull’”oggetto” della lettera, rilevato in neretto e lungo due righe. Dice: Proposta di modifica unilaterale di alcune delle condizioni economiche del Contratto Quadro del Conto Corrente, dei Servizi Aggiuntivi e delle Operazioni di Pagamento”.
 
“Addio - penso fra me, cercando di non tradire il pensiero per non angustiare l’interlocutore -: lo stanno fregando di nuovo”. Ma gli dico:
 
"Beh, vediamo: diamo un’occhiata a questa lettera, per capire bene, e poi magari ci rivolgiamo anche a qualcuno esperto di banca, e di cui fidarsi", gli dico rassicurante. E leggo ad alta voce, al suo fianco, quanto il suo istituto di credito gli dice

“Gentile cliente, le scriviamo in merito al Conto Corrente numero…di cui lei è titolare. Negli ultimi anni significative modifiche hanno interessato il mercato monetario e il sistema economico nel suo complesso… Il principale indicatore di politica monetaria, il Depositi Facility Rate”.
 
Prosegue per due pagine fitte e incomprensibili, questo testo dissennato, firmato da un tale Mario C…, che si qualifica come “Head of Private & Commercial Clients (ma parlare in italiano no, signor C…? O almeno tradurre, dato che pretende di rivolgersi a italiani?”).
 
E più il testo prosegue, più le parole si gergalizzano e più l’astrusità del pensiero che celano è sospetta.  Sì, mi pare che siamo proprio davanti a una solenne fregatura servita in guanti di velluto a questo poveretto e a chissà quanti altri clienti della banca: ma di quelle fregatura inferte talmente in punta di fioretto, fondate rocciosamente sulla consapevolezza che, salva una piccola minoranza della clientela, il povero che no, se non se ne intende un pochino, non le coglie, perché il cliente medio non capisce e non può capire questo linguaggio da imbecilli incravattati: intanto, perché infarcito di tecnicismi anglofoni mentre si parla a italofoni, e questo è segno di grossolana scorrettezza; in secondo luogo, questo vocabolario tecnicistico è così astruso e improprio che anche gli operatori professionali di banca lo hanno potuto apprendere soltanto dopo specifica preparazione ragionieristico-universitaria, che li ha fatti complessivamente più tonti, meno affidabili e in compenso più capaci di estorcere clausole-tranello ai clienti. Che è quello che piace sommamente agli incravattati  dei piani alti della direzione bancaria.

Ma la sostanza… La sostanza cui questo linguaggio, a un tempo stupido e truffaldino, va a parare, la sostanza, ragazzi, è quella che fin dalle prime righe mi aspettavo: la banca sta dicendo al povero cliente frastornato e fregato, semplicemente, che dal 30 settembre… non soltanto non riceverà più alcun interesse per il suo deposito, ma sarà lui a pagare alla banca un costo per la custodia che la banca fa di tale suo deposito.
 
Ecco la fregatura: la banca prende in custodia i tuoi soldi, ne fa quello che vuole, cioè li investe (se è una banca seria), o li gioca sul mercato finanziario, se è meno seria, cioè ci guadagna in ogni caso, come ogni altro imprenditore che investe o specula, e invece di pagarti, o almeno di garantirti la restituzione piena della somma a tua richiesta, ti chiede… di essere pagata!
 
Orsono una ventina di anni fa ero in vacanza da qualche parte delle Dolomiti e ricordo che vicino a me, in una passeggiata calma di sentiero, un amico della Brianza, conosciuto in quei giorni, mi disse: “ Caro signore, ma cosa crede che ci sia dietro la lentissima ma continua diminuzione degli interessi che la banca riconosce ai Suoi risparmi, e che lei lamenta? C’è un disegno precisissimo: passetto per passetto li ridurranno a zero, questi interessi, e poi sarà lei a dover pagare la banca per la semplice custodia dei Suoi risparmi. In Svizzera già succede, sa’? Lo lasci dire a me, che lavoro in banca…”.
 
Mi era parso veritiero ma anche un poco esagerato e pessimista, quel signore: pensavo che sì, le banche avrebbero progressivamente ridotto ancora e limato i tassi di interesse riconosciuti ai clienti che la finanziavano con i loro risparmi: ma con buon senso ed equità, cioè fino a un certo punto. Mi sbagliavo. Le banche non hanno né buonsenso né equità.
 

Se ci penso… è proprio inevitabile: mi viene alla mente il grande Enrico Brignano e la sua parodia del rapporto fra cittadino e banca. E’ la scena esilarante del “signor Brignani con la o”, che tutti conoscerete, e che comunque vi invito a rivedere: perché è proprio come lui dice; la banca di oggi e il suo rapporto con i cittadini sono così. Competenza e falsità si servono e si rinforzano a vicenda. Parte della nostra storica e bellissima economia pubblica italiana è falsificata da un mercato che ha obnubilato il senso morale e del bene comune, e mantenuto soltanto l’odore putrescente degli affari nascosti e per pochi.
 
No, banca, non sei onesta e, in fondo e nel lungo periodo, neanche intelligente. Sei giocattolo di un ristretto grumo di pescecani criminosi che sanno di essere scaltri e sono pronti a corrompere e farsi corrompere. Probabilmente alla lunga finiranno male anche loro, insieme con te. Tu comunque non meriti più la fiducia delle persone oneste. Sarà meglio che ci orientiamo a rivedere il tuo ruolo, la tua pelle, la tua natura, affinchè torni degna di una economia a misura di civiltà, prima che sia troppo tardi.
 
E al povero cittadino fregato di nuovo a partire dal 30 settembre… lo farò spiegare bene, tecnicamente, da uno degli ancora esistenti, anche se silenziosi e impauriti, operatori di banca onesti.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
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Parlamentari d'Italia

IL GIURAMENTO CI STA BENE

Confermiamo di essere ancora assolutamente d’accordo con la proposta avanzata già molti mesi orsono da Fucsia Nissoli, parlamentare italiana eletta nel Nordamerica: e ne ripubblichiamo qui volentieri il testo, su richiesta di alcuni amici, per sollecitare partiti, governo e colleghi della parlamentare a voler prendere finalmente posizione. La proposta, come ricorderete, è stata sintetizzata dall'interessata con l'affermazioe che “Anche  noi Parlamentari dovremmo giurare fedeltà alla Costituzione.  E sarebbe ancora più solenne se il giuramento fosse seguito dall’inno nazionale”. Ad oggi, infatti, i parlamentari della Repubblica italiana non giurano sulla Costituzione, mentre sarebbe necessario che ciò avvenisse come monito a servire il Paese con lealtà. Spiegava la signora Nissoli  nella sua proposta: 

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“Ho preso spunto dalla vicenda di un collega parlamentare che intende candidarsi al Parlamento di un altro Paese mentre è deputato in carica in Italia. Voglio affermare l'importanza della fedeltà alla patria e agli elettori, ipotizzando appunto di introdurre un giuramento sulla Costituzione all'atto dell'insediamento in parlamento, per richiamare alla lealtà verso il nostro Paese, così come era stato ipotizzato, inizialmente, dai padri costituenti.

Il giornalista Enrico Mentana e altri giornalisti italiani parlarono a suo tempo della candidatura al parlamento federale brasiliano dell’on. Fausto Guilherme Longo, già eletto alla carica di deputato italiano per la Circoscrizione Sud America. E’ necessario fare alcune riflessioni sull’attuale figura del parlamentare italiano, e anche rivalutare la figura di noi parlamentari italiani eletti all’estero, su cui tante ombre e critiche già pesano, e che casi come quello di Guilherme Longo danneggiano ancor più pesantemente.

Per i deputati italiani non è previsto alcun giuramento di fedeltà alla Costituzione della Repubblica italiana, nel momento dell’assunzione delle proprie funzioni. In realtà i padri costituenti si erano posti il problema del giuramento dei parlamentari e se ne può trovare traccia nei lavori della Sottocommissione per la Costituzione durante la discussione sull’organizzazione dello Stato da parte della stessa assemblea costituente.

La commissione era presieduta dal Terracini e nella seduta del 19/09/1946  proponeva di inserire nel testo costituzionale il seguente emendamento: “ Al momento di assumere l’esercizio delle loro funzioni i deputati presteranno giuramento di fedeltà alla Costituzione Repubblicana e di coscienzioso adempimento ai propri doveri”.

Se non che l’Assemblea Costituente nelle sedute del 23/09 e 24/10 del 1947 respinse l’obbligo dei membri del parlamento di prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione prima di essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni, asserendo che “i deputati, per il solo fatto dell’elezione, entrano, con la proclamazione, immediatamente nel pieno esercizio delle loro funzioni. Tale immissione non è più subordinata alla condizione del giuramento”.

Quindi siamo arrivati alla situazione attuale, per la quale prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica, prima di assumere le loro funzioni, solo il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate. 

Risulta effettivamente abbastanza anomalo che i parlamentari italiani godano, secondo l`art. 68 della Costituzione italiana, dell`immunità parlamentare senza dover sottostare a nessun giuramento, codice o regolamento deontologico/morale in qualità di funzionari pubblici, e senza essere neppure controllati nelle loro funzioni e comportamenti da nessuna Commissione disciplinare ad hoc.

Questi aspetti si sono ripresentati con forza di fronte al comportamento dell’on. Longo che si candida al parlamento di un altro Paese. Davanti a una tale situazione viene infatti spontaneo chiedersi: a chi deve la sua fedeltà il parlamentare, in quanto parlamentare italiano? 

Credo che di fronte a questo scenario sia opportuno tornare all'idea originaria dei padri costituenti e cioè prevedere la formula del giuramento per tutti i parlamentari italiani, che potrebbe essere vicina a questa : “Giuro fedeltà e lealtà al Popolo italiano che mi ha eletto ed alla Repubblica italiana. Giuro di difendere i diritti dei cittadini italiani che rappresento, nel rispetto della Costituzione italiana che è la mia guida”.

Un richiamo forte, per noi parlamentari, con cui confrontarci ogni giorno! E un monito a servire il Paese con lealtà, dedizione e onore. Un richiamo che sarebbe ancora più solenne se il giuramento fosse seguito dall'inno nazionale, come già ho chiesto mesi fa in una mia lettera al Presidente Fico, che aspetta ancora una risposta. 

Spero che si affermi la sensibilità istituzionale necessaria per apportare queste modifiche almeno a livello di regolamento parlamentare, per dare un segno chiaro ai cittadini di dedizione al bene comune, superiore ad ogni interesse di parte. Fedeli alla patria, leali e rispettosi verso i cittadini.

                                        (Fucsia Nissoli Fitzgerald)
                                       
Deputata al Parlamento Italiano
                                           Per la Circoscrizione Nord America
 
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Cultura e politica

A PROPOSITO DI DON CAMILLO E PEPPONE...

“Peppone e don Camillo…”: e giù risate. Ancora, il grande capolavoro di Guareschi  fa sorridere, rasserena e infonde positività agli innumerevoli appassionati che lo seguono, ormai da decenni, soprattutto attraverso i volti di Gino Cervi e Fernandel, più ancora che attraverso le pagine del romanzo.
 
Senonchè, per il misterioso destino che a volte colpisce autentici capolavori, e i loro autori con essi, si pensa diffusamente a Guareschi e alla sua opera, più che altro, come a una sorridente descrizione  bonaria della realtà italiana dell’immediato dopoguerra, descrizione tesa a togliere, quasi per principio di buona volontà civile, drammaticità e importanza effettivamente decisiva agli eventi che in quella società si svolgevano.
 
Vale invece assolutamente la pena di sottolineare che Giovannino Guareschi è stato una grande personalità umana, civile e politica, e che la sua opera, e in particolare i personaggi di Don Camillo e Peppone, oltre che un capolavoro d’arte sono un capolavoro di cultura civile e di responsabilità politica, raffinato e impegnato.
 
Per dare una idea della effettiva profondità e radicalità di convincimenti e di impegno anche politico del Guareschi, riportiamo qui un breve passo del suo “Diario clandestino”. Recita:
 
“Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. È inutile, signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. […] Entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. […] Tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. […]
 
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”.
 
Uno studioso di cui non ritroviamo la firma annota giustamente che “Guareschi è famoso soprattutto come autore del Don Camillo. Non molti, però, conoscono l’ampiezza della sua produzione, e soprattutto la sua forza di carattere.
 
Quest’uomo ha affrontato ben due prigionie: la prima in un campo di concentramento tedesco, la seconda nelle carceri italiane. Ed entrambe per una pura questione di principio (nel primo caso, in particolare, perché rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò).
 
Moralmente, inoltre, egli era una delle colonne portanti del campo, nonostante la salute declinante (quando arrivò pesava 86 chili; quando se ne andò, 46). Fondò persino una sorta di giornale clandestino: scriveva articoli che poi diffondeva oralmente, leggendoli nelle baracche per rialzare il morale dei compagni. “Signora Germania” fu, appunto, uno dei pezzi più fortunati.
 
In questo brano troviamo la stessa semplicità dei racconti di Don Camillo (una semplicità, peraltro, non priva di ricercatezza, perché tutto il testo è costruito su metafore e simmetrie). Guareschi stesso, infatti, si vantava di usare in tutto 300 parole per scrivere i suoi racconti. E tuttavia è riuscito a comunicare un’incredibile profondità di sentimenti. Ma da dove viene questa forza?
 
Sicuramente le sue scelte lessicali sono provocatoriamente incisive, e lo stile affabile cattura il lettore senza che se ne accorga. Ma non solo: Guareschi si sforza di trovare parole che abbiano un’eco diretta nell’esperienza del destinatario. Parole, cioè, tanto vitali da poter sopravvivere anche in contesti in cui ogni retorica si disgrega.
 
E non sceglie parole di odio, la cui potenza è più immediatamente percepibile. Sceglie invece di richiamarsi ad altre risorse: la dimensione affettiva (il ricordo di casa) e spirituale (la fede religiosa). Questo infatti è, secondo Guareschi, il nucleo profondo e universale dell’anima umana.
 
E dunque a partire da questo si può costruire un ponte tra gli uomini, ricordando loro la propria dignità. Una vera «fregatura» per ogni riduzionismo ideologico”.
 
                                                                                                                                                   (Anonimo)
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Politica

I CATTOLICI E LA POLITICA: E' RICOMPONIBILE IL DIVORZIO?

I tentativi di costituire ex novo un partito di ispirazione cristiana come risposta all'attuale povertà qualitativa della politica italiana, ma anche alla ininfluenza dei cristiani nella politica italiana, si ripetono quasi con la insistenza con cui si ripetono i tentativi di rimettere in piedi, semplicemente, quello che fu il più grande partito storico dell'Italia repubblicana, cioè la Democrazia Cristiana.

Entrambi i tentativi condividono in realtà, insieme con la insistenza, un vistoso insuccesso che non accenna, per ora, a risolversi, nonostante gli inviti rivolti crescentemente dalla stessa Chiesa a serrare le fila e a voler assumere, da parte dei cattolici, più esplicite responsabilità nella "città dell'uomo".

Agli osservatori più attenti non sfuggono le due cause essenziali del duplice insuccesso registrato finora: nel caso del ritorno a operatività della Dc storica, è la caratura culturale e politica dei personaggi che guidano il tentativo a rivelarsi - non ce ne vogliano - del tutto inadeguata alle necessità comportate da impresa tanto grande che non si perita, con pose retoriche un poco esagerate, di richiamare a riferimento figure del calibro di De Gasperi, Dossetti, Moro, Fanfani, e simili; nel caso della ipotesi di una forza politica da creare ex novo, a colpire è soprattutto la frantumazioe spinta, e i diffusi egocentrismi, dei tanti soggettini che si affannano in una impresa la quale esigerebbe, ad affiancare un pensiero strategico certamente superiore rispetto a quello degli attuali partiti, una grande dote di autodisciplina organizzativa e di cultura interna delle regole, che pare ancora ampiamente mancare, ma che significativamente viene segnalata da un numero crescente di persone in questo variegato movimento, a cominciare dal piccolo gruppo di Democrazia Comunitaria, che ne fa uno dei suoi punti caratterizzanti. 

Tuttavia l'impegno viene confermato e non è detto che un più decente livello di consapevolezza delle citate esigenze di autodisciplina e di cultura delle regole non cominci, anche se lentamente, a fare capolino. L'importanza della posta in gioco è sottolineata, nello scritto che segue, da Giuseppe Bianchi, che dal suo osservatorio Isril, particolarmente attento al mondo del lavoro, non manca di proiettare considerazioni importanti anche sul più ampio scenario sociale e politico del Paese.

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L’occasione creata dal centenario della fondazione del Partito Popolare, ad opera di Don Sturzo, ha riproposto l’impegno dei cattolici in politica che, come è noto, è proseguito con la Democrazia Cristiana, asse centrale del Governo per oltre quarant’anni.

Una cultura ed una rappresentanza oggi dispersa sul piano politico con significative presenze rimaste nelle organizzazioni di volontariato. Analoga sorte è capitata ad altri movimenti politici laici portatori di culture altrettanto solide e consolidate sul piano della rappresentanza.

Fenomeno questo evocato come crisi delle ideologie del Novecento di cui i partiti erano espressione con le loro identità collettive in cui motivazione, ideali e azione politica si sostenevano tra loro, almeno nella rappresentazione offerta al comune cittadino. Sarebbe inutile ora parlare di questo passato se il presente non evidenziasse segni di regressione nella vita politica e civile del Paese.

Il dato emergente è che la politica post-ideologica, avviata da Berlusconi e proseguita dalle successive maggioranze per arrivare a quella attuale, ha assunto un connotato fortemente utilitaristico basato su uno scambio tra benefici economici e consenso politico. Nuove offerte politiche, in concorrenza tra di loro, che si fanno carico di offrire protezione al cittadino, disorientato di fronte alle nuove sfide della precarietà sia essa economica che valoriale.

Due sono gli effetti di accompagnamento di questa evoluzione politica: il cittadino non più partecipe della galassia dei corpi intermedi che, soprattutto a livello locale, lo legavano alla politica, cerca nuove identificazioni in qualcuno che lo rappresenti e lo rassicuri; la nuova concorrenza tra i partiti per acquisire consenso si realizza nella generosità delle promesse che avallano una concezione totalizzante della politica, destinataria esclusiva dei bisogni dei cittadini.

Questa riaccreditata concezione di Stato Provvidenza, alla prova dei fatti non ha prodotto i risultati attesi: sia in termini di soddisfazione dei bisogni economici ed occupazionali dei cittadini, sia in termini di risposta alle inquietudini derivanti dalla messa in discussione di consuetudini e di credenze sfidate dai nuovi sviluppi scientifici la cui irradiazione coinvolge l’insieme del loro vissuto.

A questo punto diventa legittima una domanda? Questa politica ha le energie morali per offrire un futuro al cittadino visto che non tutto è riconducibile a decisioni politiche ispirate dalla razionalità economica (reale o presunta) e/o dalla soddisfazione degli interessi individuali?  Conseguente l’ulteriore domanda che ci riporta al tema iniziale: la cultura cattolica può contribuire a rendere le nostre società più sicure e solidali? Dal punto di vista astratto la risposta non può che essere positiva: per la centralità che viene data alla persona ed ai gruppi in cui si riconosce che riposiziona la politica al servizio dei loro obiettivi; per il rilievo accordato ai valori del pluralismo sociale, della sussidiarietà con cui sconfiggere l’isolamento dei cittadini facendoli partecipi di una rete di aggregazioni comunitarie.

Sul piano pratico tale prospettiva si presenta più problematica. Improbabile un nuovo partito dei cattolici, oggi minoranza dispersa, improponibile un ritorno nostalgico alla Democrazia Cristiana esaurita dal troppo lungo governo, fragile l’ancoraggio alla dottrina sociale della Chiesa alla luce dei mutamenti strutturali intervenuti.

Una soluzione può essere offerta da un rinnovato appello, a cent’anni da quello Sturziano, agli uomini liberi e forti che condividono ideali di libertà e di giustizia e che si riconoscono nei fondamenti dei valori cristiani.

Un appello rivolto ai cattolici praticanti, ma anche ai cattolici insofferenti nei confronti delle prescrizioni ecclesiastiche troppo limitative delle loro condizioni di vita.

Un appello per un comune impegno culturale, prima che politico organizzativo, che accresca la consapevolezza pubblica della modernità e dei problemi inediti che essa produce sui diversi piani della vita in comune, grazie ad un supplemento di virtù che l’umanesimo cattolico può portare alla politica. I cittadini per partecipare alla politica chiedono che non solo i loro interessi ma anche che i loro valori, i loro progetti di vita trovino accoglienza nel dibattito pubblico nella condivisione delle procedure democratiche che ne determinano l’esito.

Questo circuito virtuoso di partecipazione presuppone cittadini informati e consapevoli che la pratica dei doveri è il presupposto per il godimento dei diritti.
                                                                                                                     
                                                                                                                                              (Giuseppe Bianchi)
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Adc-Agenzia di Democrazia Comunitaria

ECONOMIA: IL PIACERE DELL'ILLUSIONE O LA VERITA' DEI FATTI?

La segreteria nazionale della Federazione Lavoratori Elettrici della Cisl, Flaei, ha espresso una posizione semplice e chiara: importa ciò che si fa, piuttosto che ciò che si vieta di fare. Lo afferma, o meglio lo ricorda, prendendo spunto dalla questione energetica, che è la sua competenza settoriale specifica, ma esprimendo una posizione riferibile a tutta la impostazione delle politiche di sviluppo nel nostro paese. Ne riportiamo il testo, con la cui sostanza concordiamo.
 
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La semplificazione dei concetti e delle situazioni porta a riassumere spesso problematiche complesse in domande facili e retoriche per ottenere un’unica risposta buona per qualunque caso, alla ricerca del supporto emotivo delle masse, senza precisare peraltro effetti e costi delle azioni conseguenti.
 
Tutti vogliono il lavoro, ma non si vogliono né le infrastrutture né le grandi industrie che sono
indispensabili per l’occupazione!
 
Esistono centinaia di comitati contro qualunque intervento, che dicono “No, e soprattutto non qui vicino!” (“non nel mio giardino”, direbbero gli anglosassoni).
 
No Tap. I pugliesi non disdegnano il gas nelle case, ma sono certi che continueranno a goderne anche senza il Tap? Dipendere da pochi fornitori mette a rischio l’economia e la sicurezza del Paese: è indispensabile differenziare le fonti per un’equa negoziazione e per un sicuro approvvigionamento.
 
No Tav. Un’infrastruttura che permetterà di trasportare merci e persone su rotaia, e che in questo momento significa anche lavoro, dovrebbe essere bloccata senza valide alternative?
 

No Termovalorizzatori. Il problema dei rifiuti si risolve esportandoli in Austria-Portogallo-
Germania-Cina?
 
No carbone - No Centrali a Gas. Il futuro è dell’energia pulita e poco costosa proveniente da fonti rinnovabili. Ma la transizione energetica va accompagnata. La chiusura delle
centrali a carbone va programmata: la Germania ha definito una strategia prevedendo la fine
dell'utilizzo del carbone entro il 2038. E le centrali a gas dovranno continuare a svolgere un ruolo
sussidiario per garantire la potenza di base. Nel rispetto della sicurezza e dell’ambiente.
Per le prospettive future del nostro Paese non possiamo prescindere da alcune considerazioni: il costo dell’energia in Italia è del 30% superiore al resto dell’Europa; i prodotti della nostra industria
nascono quindi più cari per la componente energetica e meno competitivi sui mercati. Se si aggiunge il differenziale nei costi della manodopera si comprende quanto sia difficile mantenere la produzione nel nostro Paese.
 
Anche da qui nasce la cosiddetta “fuga dei cervelli”: se in Italia non c’è industria non ci può essere ricerca di base né sviluppo di prodotti né lavoro per le nuove generazioni che hanno studiato e che hanno ambizioni e progetti. Opportunità di lavoro, studio e ricerca esistono all’estero! In Italia sembra si voglia misconoscere il valore dell’istruzione e dello studio!
 
Resistere al richiamo di certe sirene, essere consapevoli che il privilegiare l’oggi rispetto al domani farà pagare a qualcun altro il conto di queste scelte “illusorie” e superficiali comporta la necessità di prendere in mano il nostro futuro ed alzare la voce, analizzando pro e contro di ogni scelta, nell’interesse nostro, dei nostri figli e del Paese, oggi e domani.
 
 
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Adc-Agenzia di Democrazia Comunitaria

ELEZIONI D'ABRUZZO: AL DI LA' DEI BATTIBECCHI

Siamo cittadini responsabili e attivi e ci sembra conseguentemente giusto seguire anche la vicenda politica del nostro paese e della sua democrazia. La citazione del commento di "Democrazia Comunitaria" al risultato elettorale d'Abruzzo, in questo quadro, vuole stimolare, ove i lettori lo gradiscano, un costruttivo di battito sul bene comune del nostro paese anche sotto questo profilo
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Ma che importanza si è mai convinti che possa avere il continuare a commentare gli esiti elettorali in modo reciprocamente avvelenato, sempre astiosamente ostile verso gli avversari, vincitori o sconfitti che siano? E’ un costume soltanto negativo, e soprattutto diseducativo per la cultura democratica. Un costume che appartiene sostanzialmente a tutte le attuali formazioni politiche senza eccezione alcuna, da molti anni a questa parte.
 
A noi preme piuttosto osservare la oggettiva realtà dei fatti, in questo caso quelli della tornata elettorale abruzzese, che mette in primo luogo davanti ai nostro occhi, ancora una volta, la molto scarsa affluenza alle urne: appena poco più del 50% degli elettori è andato a votare. Brutta china, questa, per la pratica democratica. Davvero brutta. Soprattutto per un motivo semplice: meno elettori partecipano al voto, più viene facilitato il lavoro oscuro delle cosche organizzate, o anche soltanto dei semplici gruppi organizzati di interesse, e meno rilevante diventa il peso del reale e complessivo “bene comune”. Noi, personalmente e come Democrazia Comunitaria, ci preoccupiamo tutte le volte che la partecipazione al voto scende al di sotto del 90%. Restare sempre al di sopra di questa percentuale è l’obiettivo ideale di Democrazia Comunitaria per l’Italia.
 
In secondo luogo, ci sembra doveroso prendere oggettivamente atto del largo successo ottenuto, sia pure dentro la citata percentuale scarsa di votanti, dalla coalizione di centrodestra, e specificamente dal candidato proposto per essa da Fratelli d’Italia. Ne prendiamo atto e gli auguriamo sinceramente buon lavoro per il bene dell’Abruzzo: e vigileremo attivamente sul positivo svolgimento del relativo mandato. Approveremo le cose positive che farà e lo sosterremo in esse, lotteremo contro quelle negative che dovesse proporre o fare.
 
Restiamo preoccupati, d’altro lato, della china non positiva confermata dal Partito Democratico, convinti come siamo che al crescere di una forza sempre più coesa del centrodestra – così ci sembra ragionevole presumere - la dialettica democratica debba giovarsi del confronto con una forza alternativa non meno strutturata e consistente. Pensiamo in verità che il Partito Democratico  debba concentrare ora su se stesso i suoi sforzi, cioè sul proprio lavoro interno di ricostruzione di una identità sociale e culturale forte presso la sua base sociale, piuttosto che sulle acrimoniose e aprioristiche accuse agli avversari.
 
Quanto al Movimento Cinquestelle, che esce sconfitto dalla tornata elettorale, esso deve semplicemente decidersi ad effettuare il passaggio strutturale verso la configurazione di un vero partito organizzato, organicamente raccolto intorno a una esperienza di democrazia associativa vera e localmente diffusa fra la gente: la brillantezza delle recitine eleganti in tv su temini preconfezionati che paiono imparati a memoria prima di entrare in camerino, non rende quanto la austera serietà delle analisi dei problemi e della relativa organicità di valutazioni che bisogna imparare a fare, studiando con serietà e continuità i problemi. Se si vuole avere la maturità necessaria per governare.
 
Infine: abbiamo visto comparire, sullo sfondo dei vistosi manifesti elettorali affissi nelle sedi in cui la campagna elettorale è stata vigilata e governata, anche l’antico e glorioso scudocrociato di quella che fu la storica Democrazia Cristiana. Non sappiamo neanche chi lo rappresenti, ormai, quello scudocrociato tirato a brandelli da un nugolo di piccoli e mediocri pesci pescatori senza oggettiva speranza (no, non vogliamo chiamarli pescecani: qualcuno lo è, ma la maggior parte sono solo mediocri pesciolini senza arte né parte, in un mare di cui dimostrano di neppure conoscere l’acqua). Informazioni non sappiamo ancora quanto definitive ci dicono che i suoi specifici suffragi si sarebbero aggirati intorno al 2%. La facile tentazione, per gli aspiranti eredi dello scudocrociato, davanti a un risultato simile, può essere quella di continuare la malinconica prosopopea autolaudativa e speranzosa, senza entrare mai nel nerbo vero (e temuto nei fatti, ci sembra, da quasi tutti questi veterodemocristiani) di questa presenza nel mondo politico italiano attuale: che è la semplice e profonda necessità di costituire un esempio diverso e superiore di pratica democratica e di testimonianza valoriale fra i cittadini. Quella che vuole essere, appunto, la caratteristica saliente di Democrazia Comunitaria. 
 

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Anzianità

LA LETTURA: UNA GRANDE RISORSA PER GLI ANZIANI

L’autorevolissimo gerontologo Massimo Palleschi si sofferma ancora sul tema di come la qualità della vita possa essere migliorata negli anziani: e questa volta tratta l’argomento “preziosità della lettura”. Ci dobbiamo ricordare di questa preziosità, e fare un allenamento indefesso alla sua compagnia, prima che l’età ce lo renda faticoso.

L’unica piccola riserva tecnica che ci permettiamo allo scritto molto bello e molto utile del professor Palleschi è la chiamata in causa delle statistiche di Economist. Non hanno la serietà e affidabilità con le quali vogliono accreditarsi: e gli italiani, per quanto leggano poco, non leggono affatto meno che negli altri paesi citati. Se ad esempio si prende il caso del Giappone, spesso chiamato in causa, si scopre che… la così diffusa lettura quotidiana da parte dei giapponesi è, in prevalenza, una lettura… dei titoli dei giornali. Proseguiamo dunque la nostra serena strada di miglioramento delle nostre abitudini, ma senza eccedere nei paragoni pessimistici con gli altri paesi.


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La lettura ci mette in contatto con il pensiero di tanti personaggi dotati di  grande ingegno. Già solo per questo motivo dovremmo cercare di conservarci questo privilegio ed immenso piacere fino alla fine dei nostri giorni.

La lettura amplia i nostri orizzonti e ci aiuta a dar voce al nostro mondo interiore.


Poco più di tre anni fa ci eravamo intrattenuti sull’argomento, visto soprattutto come un mezzo di comunicazione ed un antidoto contro la solitudine. Avevo anche accennato ad un confronto con i moderni sistemi di comunicazione (la rete).


Adesso vorrei approfondire soprattutto gli aspetti relativi ad un arricchimento spirituale della persona anziana esercitato da frequenti e buone letture.


Già in precedenti occasioni abbiamo avuto modo di accennare come la caratteristica fondamentale dell’attività cognitiva umana sia quella di un pensiero astratto ed articolato che può essere espresso con il linguaggio parlato e in forma anche più evoluta con quello scritto.


La lettura è comparsa circa 10.000 anni fa, molto dopo l’avvento del linguaggio parlato, nato circa 150.000 anni fa.


Le possibilità di comunicare agli altri con il linguaggio il nostro pensiero e di ricevere quello degli altri sono veramente imponenti e presentano variazioni all’infinito. Hanno però il limite di  doversi                                               
effettuare con un numero limitato di persone e soprattutto con i contemporanei.


La lettura ci consente invece di parlare con i morti, o se volete di viaggiare nel tempo, come ha fatto notare in un interessante e recentissimo articolo il prof. Sabino Cassese.


Anche se i nostri interlocutori non sono presenti, non ci sono più, però possono continuare a farci da consiglieri, da suggeritori, da maestri di vita.


La lettura produce un gran piacere che può essere messo a dura prova solo da gravi malattie (a volte non sufficienti neppure esse  a togliercelo ) e da una orribile consuetudine: non essere stati abituati a coltivarla sin dall’infanzia, a intenderne il significato, a praticarla per comprendere meglio il mondo e noi stessi ed in sostanza per migliorarci.


La lettura è un mezzo fondamentale per la formazione spirituale della persona. Diceva il sommo poeta, Dante Alighieri: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza”.

Uno dei modi migliori per seguire il consiglio di Dante è proprio la lettura. Qualsiasi lettura? Direi proprio di no, sottolineando subito che in queste mie brevi riflessioni prescinderò  da analisi per così dire sistematiche, come quella di Raymond Queneau che nel 1956 ha fatto un’inchiesta sui cento libri che vanno letti, o quella di Nicola Cardini che nel 2011 ha Indicato i libri della “biblioteca indispensabile”.                            
 
Io utilizzando criteri più semplici e pratici, distinguerei anzitutto “le letture professionali”, cioè quelle riguardanti le informazioni e gli approfondimenti attinenti alla propria attività lavorativa, presente o passata, dalle letture che concernono la cultura generale, il sapere per il sapere, ed è a queste ultime che mi riferisco in questo elaborato.

Per chi ha una discreta pratica di lettura, non è molto difficile fare un’ulteriore selezione ed escludere libri ed articoli fatti per guadagno o per propaganda o per altre misere ragioni e senza la minima capacità ed autorevolezza culturale.


La lettura così selezionata costituisce un importante motivo di gioia spirituale, non paragonabile a quello che si definisce semplicemente un passatempo.


E’ così evidente l’influenza che la lettura esercita sul modo di vivere e di pensare di una persona, da riconoscere subito in poche battute di conversazione se si tratta di un soggetto abituato o no a leggere.


Lettura e cultura costituiscono un binomio inscindibile, che tanta importanza riveste nell’evoluzione di una società.


Chi cerca di esercitare il pensiero critico ( o se volete la cosiddetta logica del quotidiano), chi cerca di comprendere meglio ed analizzare la realtà che ci circonda, senza anche arrivare all’ambizione di  contribuire a cambiare il mondo per farne un posto migliore, può però aspirare  ad essere un soggetto non completamente passivo. Inoltre l’attitudine a recepire attraverso la lettura il pensiero di persone di alto valore ci permette di considerarci cittadini più informati e più responsabili.


Il declino economico e complessivo del nostro Paese sembra sia fortemente connesso alla suo decadenza culturale.


In Italia vi è una bassa percentuale di laureati rispetto agli altri Paesi Europei, si legge poco e male, il 60% dei nostri concittadini non legge nemmeno un libro l’anno, secondo i dati dell’Economist siamo al 22° posto in Europa per diffusione dei quotidiani.


Eppure già dai tempi antichi era stato compreso ed apprezzato l’alto valore della cultura e della lettura. Seneca diceva che la lettura “è cosa giovevole e necessaria perché alimenta e ristora il cervello”.


In epoche più recenti ricordo che Italo Calvino pensava che la lettura ci permette di entrare in un universo straordinario, fatto di avventure e segrete emozioni dell’animo, ma anche di prese di coscienza e di analisi della realtà.


Se tutto questo è vero, lo è anche o soprattutto per la persona anziana.


I soggetti di età avanzata possono avere diversi problemi (di salute, ma non solo) incombenti, che facilitano il disinteresse verso le esigenze non impellenti, come quelle culturali.


L’assenza di un’attività lavorativa, i minori contatti con i propri consimili, le maggiori difficoltà di accesso alle fonti di informazione, uno stato dell’umore  tendente spesso verso livelli non elevati, tutto ciò rende forte il rischio di un isolamento e di un impoverimento spirituale, ideativo.


Uno dei migliori antidoti verso questa sfavorevole possibilità è la lettura che ci mette in contatto con il mondo meraviglioso delle idee, del pensiero, delle emozioni.


Si tratta di un mondo che nessuno ci può togliere, che in parte ci ripaga dell’ingiustizia di avere poco, rispetto a chi crede di avere tanto ma che in realtà è povero dei valori che danno un senso alla vita.                      
                                                                               
                                                                                                                                 (Massimo Palleschi)
                                                         
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Adc-Agenzia di Democrazia Comunitaria

E LA CHIAMIAMO "DEMOCRAZIA COMUNITARIA"

Beh, insomma: tanti di voi mi hanno scritto, o telefonato, chiedendomi "che succede". Succede che acceleriamo, succede che tutta la pazienza, la prudenza dell'attesa, la doverosa calma della costruzione, durata anni, se ne sono andate, giustamente: hanno esaurito il loro compito, e a noi è  parso che onestà e intelligenza richiedessero che i nostri ideali, la nostra onestà, e, perchè no? il nostro amore per l'Italia, e per il sogno di un mondo più giusto, dovessero passare decisamente all'azione. E così mi è parso giusto scrivere. In questo modo, semplicemente, è nata Democrazia Comunitaria. Come ho detto su Feisbuc. Per costruire. 



                                                                                                                                                                                             Preg.mi:
  • Dott. Giuseppe Ecca
  • Signor Ecca Giuseppe
  • Egregio Mestesso
                                                                                                                                                                                                 Roma
 
 
Cari amici,
 
il 18 gennaio 2019 appena trascorso abbiamo commemorato e approfondito, in tantissimi ed in tutta Italia, Luigi Sturzo e il suo grande messaggio all’Italia politica dei cattolici, dei laici di buona volontà, di tutti i “liberi e forti” animati da desiderio e volontà di bene comune.
 
Lo abbiamo fatto in diversi convegni di studio, accompagnati, a seconda dei casi, da momenti religiosi, da intenzioni culturali, da obiettivi dichiaratamente politici o prepolitici.
 
Personalmente ho partecipato a quello che si è tenuto presso il Senato della Repubblica, raccolto attorno a Gianni Fontana, con amici di diverse esperienze e provenienze d’Italia.
 
La sorpresa più bella, per me, in tale convegno, è stata costituita dalla presenza di un gruppo di giovani studiosi di diverse università italiane, del Nord e del Sud. Quanti mi conoscono sanno che sono contrario alle facili retoriche di categoria, e quindi anche a quella giovanilistica: e pertanto non le incoraggio. Ma, a mano a mano che questi giovani esprimevano le loro idee e l’approfondimento raggiunto dalle loro ricerche, mi dicevo: “Ecco pienamente confermata una delle meravigliose ricchezze italiane: il nostro paese è socialmente disordinato, amministrativamente affastellato, legislativamente elefantiaco, politicamente tribalizzato, economicamente frantumato… Eppure riesce sempre a produrre un livello alto di individualità, seminate in ogni campo: in questo caso, nel campo della pur confusa e clientizzata situazione universitaria. Quelli che stanno parlando ora sono bei cervelli, di valore molto promettente, personalità di nuovi italiani in crescita che sapranno farsi valere, in Italia o, eventualmente, anche al di là dei confini nazionali”.
 
L’Italia dei grandi sprechi, delle ingiuste sperequazioni, della burocrazia inefficiente e della politica parassitaria, riesce sempre a essere compensata, in effetti, dall’Italia delle belle intelligenze, delle coscienze ardenti, delle aspirazioni pulite, del coerente sentimento dei doveri e anche degli angoli di efficienza e produttività straordinariamente eccellenti. E’ problema di persone, appunto, non di categorie.
 
E resta comunque, questa Italia, il paese più bello e più ricco del mondo: lo è in tanti suoi giovani, in tanti suoi vecchi, in tante sue donne, in tanti suoi imprenditori, in tanti suoi lavoratori, in tanti suoi artisti, in tanti suoi eroi della solidarietà quotidiana, nella sua sovrumana Roma e nelle altre mille città che, quanto a storia o arte o clima o sacralità di luoghi o santità di persone, valgono, ognuna, una nazione estera. Sì, sono felice di essere italiano, ma sono nel contempo anche indignato della così prolungata incapacità di noi italiani di darci finalmente un assetto anche organizzativamente efficiente, coeso, giusto, progrediente.
 
Ho ripetuto qualcuno di questi concetti nel mio breve intervento introduttivo al convegno, con la solita passione e forse anche con il solito eccesso di velocità espressiva: ma ho ripetuto soprattutto il mio noto pensiero centrale, cioè che è tempo che la politica, e in particolare quella di ispirazione cristiana, riassuma una diversa e superiore consapevolezza di visione e di etica della responsabilità quanto alla necessità di un rinnovato passaggio all’azione concreta. Ecco anzi il senso essenziale della mia presenza al convegno: il passaggio all’azione concreta.
 
Qui ed a voi non ripeto nulla di quanto già conoscete, in termini di analisi e di proposte per il desiderato “passaggio all’azione”: sono cose che, come altre volte vi ho detto, sono abbondantemente presentate nei documenti da noi stessi elaborati, che spiccano, nell’oceano di parole più o meno vuote di questi anni, spiccano per la loro meditatività di lungo periodo, per la loro attenzione valoriale, e anche per le loro concrete indicazioni di traduzione operativa. Sono soprattutto la ormai famosa “relazione Fontana al congresso Dc del 2012”, i documenti del Mantegna e del San Sisto, e pochi altri, epersino, da ultimo, il cosiddetto “documentino” che un gruppo di amici, fra cui voi, ha condiviso con me nel tentativo di catalizzare il passaggio della esigenza di rinnovamento verso l’accennata fase operativa.
 
In fondo, i capisaldi di tale visione e del relativo programma sono sintetizzati anche in quella “bozza di statuto che fu elaborata, con particolare impegno di Fontana e del sottoscritto, nel momento cruciale nel quale, già intorno al 2013, pareva che i nostri propositi potessero finalmente tradursi in azione. Vi sono richiamati la centralità della persona nella sua duplice e inscindibile dimensione individuale e comunitaria, l’economia e l’impresa partecipativa, i sistemi formativi integrati in senso umanistico, lo Stato snello e le autonomie come sussidiarietà, l’Europa Unita come paradigma del mondo unito, la solidarietà diffusa e il bene comune, e così via.
 
Tenuto conto di ciò, questa mia lettera vuole semplicemente confermarvi, come ho ripetuto a voi ed al nostro riferimento di ideali politici, Gianni Fontana, che con il convegno di ieri è sostanzialmente finito davvero, per me, il tempo dell’attesa. E che da oggi passo, semplicemente e umilmente, all’azione per quanto mi riguarda, fosse pure soltanto in compagnia di voi tre, cari amici. Si tratta semplicemente, nella mia coscienza, di senso del dovere e della coerenza: si tratta di non caricarci più della responsabilità di non adempimento di un dovere storico di azione organizzata nei confronti del paese e del suo bene. Non sono infatti colpe e trame di altri partiti ad averci impedito finora di onorare tale responsabilità, ma la nostra incapacità e la nostra scarsa volontà di coesione.
 
Sento di dover aggiungere una sola precisazione: poiché la presente lettera annuncia con semplicità la nascita di un Gruppo che intende denominarsi “Gruppo di Democrazia Comunitaria, regolato dallo statuto cui più sopra ho già fatto cenno, vedo indispensabile che questa esperienza di “passaggio all’azione” venga caratterizzata dai due connotazioni essenziali di cui ho già avuto modo di illustrarvi le motivazioni in più di una occasione:
 
a. la vincolatività senza eccezioni delle norme di comportamento associativo dettate dallo statuto;
 
b. la esemplarità, altrettanto senza eccezioni, dei comportamenti anche morali di chi partecipa a questa esperienza.
 
A molti di voi, nelle conversazioni personali o di gruppo scambiate di recente, in particolare a livello di “caffè chiacchierato”, ho anticipato lo spirito di questo Gruppo dicendo che esso vuole caratterizzarsi, più specificamente, come un modello monasteriale dal punto di vista organizzativo, nel senso della coesione associativa, e come una sensibilità quasi militare dal punto di vista del rispetto delle regole come criterio di certezza, di equità, di garanzia per tutti, ed anche di formazione al vivere comune. Potete immaginare con quale attenzione io pronunci l’aggettivo “militare”, al termine di tanti spettacoli tristi e scandalosi vissuti in questi anni e soprattutto in questi ultimi mesi nel nostro povero e confuso mondo rissoso di matrice democristiana: l’aggettivo “militare” vuole dunque, semplicemente ma fortemente, significare che la regola, in qualche modo sacra perché volta a garantire il bene comune, proprio come lo è la Regola monastica, è anche così esplicitamente esigente da richiamare una disponibilità di autodisciplina anche personale di tipologia, appunto, quasi militare: le regole si perfezionano secondo metodo di partecipazione democratica, costantemente, ma mentre si perfezionano si osservano.Questa sarà dunque, insieme alla citata esemplarità dei comportamenti morali, la “differenza competitiva” della esperienza del gruppo di Democrazia Comunitaria.
 

Operativamente il gruppo prende spunto e accelerazione anche dalla necessità di consentire a chi oggi rappresenta e sintetizza più di altri la nostra concezione valoriale in politica, cioè Gianni Fontana, di passare con maggiore decisione alla citata fase necessaria di vera e propria organizzazione, che, a prescindere dalle eventuali opportunità elettorali, lo stesso Fontana ha più volte sottolineato, capace finalmente di “far politica” cominciando a parlare concretamente al paese attraverso iniziative che nascano e vivano credibilmente in mezzo alla gente, come veri e propri cenacoli comunitari di animazione sociale e di solidarietà sociale secondo la nostra visione valoriale.
 
Cari amici, non so se questo gruppo crescerà o resterà una semplice testimonianza attiva e onesta di impegno civile limitata… a noi tre. Ma in fondo, a ben pensarci, se siamo convinti dei nostri valori, il numero di tre costituisce già una realtà significativa: e allora… cominciamo! Invito intanto voi, se pensate di poter accettare con convinzione questa proposta, a fare anche un piccolo e simbolico, ma significativo, atto di impegno: aderire al gruppo. Formalmente costa soltanto un euro, più l’accettazione dello statuto, che vi comunico contestualmente alla presente; tanto, nella forma: nella sostanza, l’iscrizione “costa” invece la sincera adesione ideale e morale al programma appena richiamato ed ai suoi impegni; ma può rendere una speranza finalmente davvero concreta e operativa al rinnovamento della cultura del bene comune, per il nostro paese e oltre il nostro paese.
 
                                                                                                                                     Giuseppe Ecca
Roma, 23 gennaio 2019.
 
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Esperienze

ALLA SCUOLA DI ENRICO MATTEI

Giancarlo Lorefice ci ha lasciati da pochi giorni. Ha lasciato il grande mondo della Cisl, della Flaei, quello storico della Democrazia Cristiana, e il mondo della umanità lavoratrice, solidale, generosa e coraggiosa. E’ stato per tutta la vita, soprattutto, un sindacalista dal cuore ardente e dall’iniziativa inarrestabile. Un coraggioso che negli anni del terrorismo in Italia, quello delle “brigaterosse” (non meritano certo la lettera maiuscola) e delle sigle neofasciste, non temeva di andare per le strade ad affiggere, anche da solo, manifesti per la democrazia, per la libertà, per l’associazionismo, per i valori umani di fratellanza e solidarietà, per un sindacalismo di lotta e di corresponsabilità partecipativa. Sapeva di rischiare. Ma non si fermava. Lo animava un senso della giustizia grande e attenta agli umili, di fronte al quale metteva da parte anche amicizie e inimicizie. Ci vedevamo, ogni tanto, per un “caffè chiacchierato”. Nelle modalità esteriori poteva apparire facilmente, e appariva a volte, un poco irruento, disordinato, talvolta eccessivo: in realtà amava la cultura, l’attenzione al prossimo,  le cose fatte bene.

Lo avevo chiamato, l’ultima volta, per gli auguri di Natale e del nuovo anno, e mi aveva risposto con voce fioca:
  • Sono all’ospedale, Giuseppe, con una brutta broncopolmonite….
  • Guarisci bene, Giancarlo: ci aspetta uno dei nostri grandi caffè…”
era stata la mia risposta.

Qualche giorno dopo mi ha raggiunto la notizia della sua morte. Di fronte alla quale so soltanto rivolgermi, oltre che a Dio per una preghiera, ai suoi amori sociali e lavoristi di sempre, la Flaei e la Cisl, e dire loro: “Cara sua famiglia prediletta di impegno sociale, non dimenticare Giancarlo e non dimenticare queste figure umili ma a loro modo straordinariamente grandi per generosità, appassionate e ardenti di ideali. Portale a esempio di come si cresce e ci si forma, raccontane la storia prima di perdere tempo con le teorie accademiche e i dibattiti televisivi”.
 
Giancarlo Lorefice era, insomma, l’opposto della serpeggiante tentazione di autocompiaciuta medietà che minaccia anche tanta parte del mondo delle grandi intermediazioni sociali. E quando gli ho chiesto, sarà un anno fa, come mai ancora, “vecchietto pensionato come sei”, si agitasse e si desse da fare come trent’anni fa, mi ha risposto: “Ma tu lo sai bene quali maestri e quali esempi io ho conosciuto. Anzi… ti ricordi quando, qualche anno fa, ti avevo proposto di scrivere insieme un libro su Enrico Mattei, il grande fondatore dell’Eni? Ho iniziato praticamente a lavorare con lui, e ti assicuro che erano orizzonti pieni di efficienza e umanità insieme…”.
 
Fra i ricordi che affiorano nella mia mente ora che lui non c’è più, mi piace segnalarne uno, di pochi anni orsono, che testimonia con particolare efficacia l’impegno antifascista (ma anche anticomunista, e antidittatura in genere) che lo animava e che riprendeva vigore anche polemico quando si riandava a ragionare delle vicende storiche del nostro paese. Un giorno mi scrisse dunque:
 
“Caro Giuseppe,
 
eccoti il link riguardante il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, l’aberrazione del regime fascista, di cui ti parlavo l’altra volta..
 
Oltre a quanto potrai leggere nell'intera e odiosa legge, ti segnalo la seguente, testuale parte specifica: 
 
"Nei procedimenti pei delitti preveduti dalla presente legge si applicano le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Tutte le facoltà spettanti, ai termini del detto Codice, al comandante in capo, sono conferite al Ministro per la guerra".
 
Come se non bastasse, quanto previsto da una legge di inaudita inciviltà giuridica, la Legge 25 novembre 1926 - senza precedenti in nessuna nazione nel XX secolo - a cittadini civili, considerati meno che sudditi, viene applicata  in tempo di pace la procedura penale militare prevista per l'esercito in tempo di guerra, l'obbrobrio del giudizio unico, inappellabile e non cassabile. Nemmeno nella Romania di Ceausescu si era arrivati a tanto. E la firma di tale legge era: Vittorio E. III, Mussolini e il giurista Rocco. Tre criminali.
Giancarlo”.
 
Era così, Giancarlo. Lo ricorderò insomma come una persona anche ruvida ma di coraggio, di solidarietà  e di lealtà.
 
                                                                                                                            
                                                                                                                                             Giuseppe Ecca

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Politica

SE IL PROBLEMA E' LA CLASSE DIRIGENTE

Tempi di sintesi, sembra, per il venticinquennale processo di riflessione critica ed autocritica dei cattolici, e del mondo di ispirazione cristiana in genere, sugli effetti della “diaspora” che, dopo la fine della Democrazia Cristiana e degli altri partiti storici italiani, ha caratterizzato la loro presenza nella politica nazionale ed europea.

Non sappiamo come davvero i tormentati e tormentosi dibattiti in corso fra ex democristiani ad aspiranti nuovi democratico-cristiani termineranno, e con quali tempi reali: certo è però che in questi ultimi mesi si sono infittiti eventi e iniziative tese a trovare il modo di “passare alla fase organizzativa”. Non è affatto semplice, peraltro, questa impresa: fa ormai difetto da molto tempo l’abitudine alla grande disciplina organizzativa, e fa difetto anche l’abitudine alla formazione profonda ed organica delle coscienze che caratterizzava le leve storiche di questo e di altri partiti.

E proprio alla cruciale preoccupazione formativa fa riferimento il grande Giambattista Liazza, nella lettera inviatami fin dal luglio 2016 ( e in molte altre) che mi sembra interessante e utile ripubblicare qui di fronte al riaccelerarsi di dibattiti e speranze. Liazza fu  uno dei grandi protagonisti, forse il maggiore, proprio dell’ultima stagione formativa che in Dc impostò la costruzione di nuovi quadri dirigenti all’altezza delle esigenze del paese: poi, prima che se ne potessero vedere i frutti, l’intero fronte della politica nazionale cedette all’avanzare veloce e prepotente di nuovi equilibri anche internazionali. Restò comunque sintomatico che proprio la trascuranza delle grandi esigenze formative, dopo la stagione affidata a Giampaolo D’Andrea allo stesso Gianni Liazza, apparisse, come appare tuttora agli studiosi più attenti, una delle cause decisive dell’indebolimento strutturale del partito e della politica nazionale.

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Carissimo Giuseppe,

dopo la chiacchierata di ieri su Skype, sento il desiderio di scrivere a te e agli indimenticabili amici di cui abbiamo parlato a voce. Primo fra tutti Giampaolo. Quante cose abbiamo fatto insieme, lasciando un buon ricordo nelle persone giovani che abbiamo incontrato! Eppure sono passati anni. Qualcuna di tali persone ho avuto la buona sorte di ricontattarla e vedo che si è ben affermata nella vita: ma tutti questi giovani mi risulta che si siano ben realizzati, confermandosi anche come onesti e attivi cittadini.

Sono orgoglioso di ciò che abbiamo fatto insieme, con pochissimi mezzi e con un’organizzazione essenziale, quasi anemica: abbiamo avvicinato e aiutato a crescere migliaia di persone, in relativamente poco tempo. Sono orgoglioso del progetto Alone.

Lo dico a te e agli amici, con un poco di amarezza: è un grave peccato aver abbandonato quella strada. La crisi della nostra Italia è nelle coscienze dei cittadini ma anche nel suo funzionamento, ormai superato dall’evoluzione rapidissima che sta rendendo incerta ogni cosa, su questo pianeta. Abbiamo una penuria gravissima  di classe dirigente preparata e onesta.

Diciamolo: gli eventi, non sempre brillanti (anzi…) come la riforma del titolo V° della Costituzione, hanno aperto accessi alle posizioni di guida del paese per  gente non adeguatamente preparata e  molto incline a cedere alle tentazioni. La corruzione è diffusa, e i politici non sono sempre i più corrotti, anzi… E’ meglio sottolinearlo. E, purtroppo, in questa situazione, spesso chi fa bene riesce appena a gestire  correttamente l’ordinario: non vedo  progetti importanti, innovatori. Non vedo costruire futuro, soprattutto per le giovani generazioni.

Non vengono formati i cittadini, non vengono nutrite le coscienze, non si impara ad essere, prima ancora di acquisire  il sapere e il  saper fare. L’analfabetismo funzionale ci vede peggiorare nelle classifiche e non perchè la gente non va più a scuola ma perché non impara a ragionare, neanche a collegare la mente al corpo: e pensare che la moderna fisica quantistica ci informa che la coscienza sopravvivrà in eterno. Lo spirito che è in ognuno di noi è energia immortale, il corpo finisce e si dissolve: ma siamo più preoccupati di curare il corpo mortale che di arricchire lo spirito immortale. Come se fossero dimensioni separate.

Formare le coscienze, dunque, rendere gli esseri umani consapevoli e liberi e capaci di essere responsabili su questa terra. Ma chi lo fa? La scuola? Le famiglie? Meglio addirittura la strada, per quanto a volte mi viene da pensare ricordandomi del  ragazzo Gavroche de I Miserabili.

Mi hai detto di Giampaolo. Hanno lavorato seriamente, al ministero dei beni culturali, quando lui ci operava. Condivido ancora un pensiero colto al volo a suo tempo dall’allora capo del governo Renzi (mi si perdoni!...) e che cerco di riportare come lo ricordo; mi pare si riferisse al fatto ben conosciuto di essere depositari, come Italia, di tanta bellezza, ma di non esserne consapevoli, non saper vivere il ruolo storico dell’esserne custodi, e non saper organizzare una giusta “narrazione” in tal senso. Tutti nel mondo mangiano italiano (pensiamo alla diffusione della pizza e della pasta…), molti vestono italiano, scopriamo che la lingua italiana è una delle più studiate al mondo, e tanto altro. Molti stranieri visitano l’Italia proprio per vederne le bellezze. Ma è questa la cifra di consapevolezza e responsabilità degli italiani oggi?

La scuola è terribilmente deficitaria, non riesce a rinnovarsi; il mondo del lavoro non si rinnova nelle organizzazioni e nei metodi, i sindacati tacciono perchè non hanno nulla di significativo da dire e nessuno cura quello che alcuni giustamente chiamano il capitale umano, ma ci si ferma alle frasi retoriche che ormai rischiano di annoiare se non si sa come proseguire il discorso relativo al “cosa facciamo al riguardo”. Il capitale umano italiano dovrebbe essere arricchito e impregnato di storia e di bellezza, se non vogliamo lasciare anche questo patrimonio ad altri paesi, ad esempio ai tedeschi, che mostrano di apprezzarlo.

Serve coniugare il ruolo di chi custodisce e valorizza il patrimonio dei beni anche culturali, con chi dovrebbe lavorare ad arricchire il patrimonio dei giovani, che è il “capitale umano”. Creare classe dirigente con una cifra di identificazione specifica per la qualità umana, per i requisiti personali, per la competenza, per la capacità di servire il Paese. Per fare la differenza e cominciare a costruire futuro, finalmente.

Ci affidiamo alle Universita’? Non ne abbiamo avuto abbastanza? Hanno dilagato negli ultimi trent’anni dandoci quasi il nulla, in questa specifica dimensione. Hanno formato qua e là talenti che se ne sono andati, in gran parte: ma il nerbo della classe dirigente di cui abbisogna il paese non si è visto. Vuol dire che qualcosa non ha funzionato nel senso giusto.

C’è ancora qualcuno che ha voglia di ragionare di queste cose e magari di impostare qualche piccolo rinnovato esperimento, per vedere che effetto che fa, come cantava Jannacci? Se qualcuno, o la Scuola, volessero individuare e sperimentare qualcosa per rinnovare i processi di formazione delle persone, per  un nuovo umanesimo (ricordi le chiacchierate con Pasquino su questo concetto?), siamo ancora in tempo a rimettere in campo tutte le nostre belle esperienze.

Come può cambiare la politica, altrimenti? Occorrono nuovi processi, liberi ma efficaci, per aiutare giovani talenti a diventare classe dirigente. In carenza (purtroppo) di “maestri” bisogna inventarsi laboratori sperimentali dove nessuno predichi ma ognuno cerchi di fare bene e lo  faccia davvero. Io conobbi buoni maestri, che ricordiamo spesso insieme (basterebbe citare Dossetti…), ma adesso ne vedo pochi, in giro.

Non voglio tediarti oltre, ma mi dichiaro sempre disponibile a fare quattro chiacchiere ulteriori su questi temi, con te, come tante volte abbiamo già fatto, ma anche con gli amici che avessero ancora voglia di farne. Gli anni non hanno domato il mio spirito e la natura mi consente ancora di agitarmi come ai tempi in cui ci incontrammo per fare le cose che abbiamo fatto, tantissimi anni indietro, vedendo maturarne qualche bel frutto che tuttora fa onore al nostro paese, dovunque operi.

Continuo ad essere ottimista.
                                                                                                                                           (Giambattista Liazza) 
MM
                                                          
 
 
 

Stato e potere

IL POTERE IN MASCHERA

“Uno Stato nello Stato…”. Così si diceva un tempo, parlando di categorie professionali, di corporazioni di interessi, di gruppi chiusi particolarmente protetti. Ma era nulla, in fondo, nulla di pericoloso, rispetto alla realtà della grande piovra del “potere occulto”, di cui ci parla il grande Norberto Bobbio in questo articolo del 1984. Lo richiamiamo, a oltre trent’anni di distanza, perché non soltanto non tutto è stato ancora chiarito sulle oscure e tragiche vicende di cui Bobbio parla, ma non sappiamo cosa oggi bolla nella pentola italiana in cui sono venute a mancare figure dello spessore di una Tina Anselmi, che parole e concetti e valori come Repubblica, Stato, democrazia, e simili, sapeva cosa erano e lo sapeva con il cuore e con la vita, non con due putridi esami universitari, forse neppure sostenuti o forse “passati” con un diciotto da raccomandazione.

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            Nella realtà, e senza forzature, un doppio Stato esiste davvero in Italia, ma non è quello neo-corporativo: è lo Stato che deriva dalla sopravvivenza e dalla robusta consistenza di un potere invisibile accanto a quello visibile. Alcuni anni or sono uno studioso americano in un libro (tradotto anche in italiano, I confini della legittimazione (De Donato), per sottolineare l’estensione del potere occulto negli Stati Uniti negli anni di Nixon, ha usato l'espressione «the dual State» che corrisponde esattamente al nostro doppio Stato.
            Dei due presunti Stati di una società neocorporativa, dicevo che erano entrambi compatibili coi principi fondamentali della democrazia. La stessa cosa non vale quando dei due Stati l'uno è lo Stato visibile, l'altro quello invisibile. Lo Stato invisibile è l'antitesi radicale della democrazia. Si può definire la democrazia (ed è stata di fatto definita) nei modi più diversi. Ma non vi è definizione in cui possa mancare l'elemento caratterizzante della visibilità o della trasparenza del potere. Governo democratico è quello che svolge la propria attività in pubblico, sotto gli occhi di tutti,  e deve svolgere la propria attività sotto gli occhi di tutti perché ogni cittadino ha il diritto di essere posto in grado di formarsi una libera opinione sulle decisioni che vengono prese in suo nome. Altrimenti, per quale ragione dovrebbe essere chiamato a recarsi periodicamente alle urne, e su quali basi potrebbe esprimere il proprio voto di approvazione e di condanna?
            Che il potere tenda a mettersi la maschera per non farsi riconoscere e per poter svolgere la propria azione lontano da sguardi indiscreti, è una vecchia storia. Questa vecchia storia ha anche un celebre nome che al solo pronunciarlo mette i brividi nella schiena: arcana imperii. Nella sua analisi magistrale del potere Elias Canetti  ha scritto: “Nel segreto sta il nucleo più interno del  potere” (Massa e potere, Adelphi). I padri fondatori della democrazia pretesero di dar vita a una forma di governo che non avesse più maschera, in cui gli arcani del dominio fossero definitivamente aboliti e questo “nucleo interno” distrutto.
            Molte sono le promesse non mantenute della democrazia reale rispetto alla democrazia ideale. La graduale sostituzione della rappresentanza degl'interessi alla rappresentanza politica è una di queste. Ma rientra, insieme con altre, nel capitolo generale delle cosiddette “trasformazioni” della democrazia. Il potere occulto, no. Non trasforma la democrazia, la perverte. Non la colpisce più o meno gravemente in uno dei suoi organi vitali, la uccide. Di tutte le promesse non mantenute, è quella che maggiormente ne offende lo spirito, ne devia il corso naturale, ne vanifica lo scopo.
            Grazie ai risultati ormai noti della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dall’on Tina Anselmi, ai numerosi documenti resi pubblici, alle dichiarazioni di parlamentari e di personaggi variamente autorevoli, in seguito alle inchieste giornalistiche, sappiamo ormai sulla loggia segreta di Licio Gelli molto più di quello che si venne a sapere  in seguito alle perquisizioni nella villa di Arezzo e nell’ufficio di Castiglion Fibocchi del marzo 1981. Ma prima di allora io stesso avevo cominciato a parlare, se pure con una espressione che era apparsa eccessiva, di cripto governo (in un articolo del 23 novembre 1980). Ho ora sott’occhio la voluminosa e documentata relazione di minoranza dell’on. Massimo Teodori  del partito radicale sulla medesima inchiesta. La tesi principale ivi sostenuta, secondo cui la Loggia sarebbe stata parte integrante del sistema dei partiti e pertanto debba essere considerata come un effetto diretto della degenerazione partitocratica della democrazia italiana, dalla quale sarebbe derivata  una vera e propria dislocazione del potere fuori dalle sedi costituzionalmente riconosciute, si può anche discutere e non accettare integralmente.  Ma è da ritenere fuori discussione che la Loggia P2, come rileva giustamente Teodori, abbia esercitato in alcuni momenti della nostra vita nazionale una influenza ben più ampia, profonda, determinante, che una semplice lobby, e abbia costituito, per l’appartenenza degli affiliati alle più alte gerarchie dello Stato e ai più elevati strati della società, alti funzionari, diplomatici, generali, giornalisti, e quel che è ancora più scandaloso uomini politici di quella che si chiama – oh ironia dei nomi! – l’area democratica del nostro sistema politico, una compiuta organizzazione di potere occulto presso, dietro, sotto (o sopra?) lo Stato. 
            Indipendentemente dalle conseguenze direttamente politiche, che forse non sono da sopravvalutare, la formazione di una simile rete di potere sotterraneo è di per se stessa una vergogna nazionale dalla quale dobbiamo redimerci per potere diventare di nuovo democraticamente credibili. Senza pregiudizi, s’intende, verso le persone, giacché non tutte sono egualmente responsabili, pur senza indulgenze.
            Non possiamo però fingere di non accorgerci che sin d’ora ciò che è emerso dalla documentazione è una prova mortificante della mediocrità intellettuale e morale di una parte non piccola della nostra classe dirigente. Le rivelazioni sulla vita di Gelli sono tali da farci restare allibiti (e inorriditi) alla scoperta che la maggior parte di coloro che sono entrati volontariamente nella sua cerchia per sottomettersi alla protezione di un uomo che non aveva altro scopo che quello di estendere il proprio potere con qualsiasi mezzo, rendendo in cambio della protezione servigi presuntivamente illeciti per la loro stessa segretezza, siano personaggi quasi tutti di altissimo rango e nessuno di essi abbia avuto in anni di commerci sospetti con il fondatore della loggia un moto di ribellione, ed abbia compiuto un atto di resipiscenza.
            Sono considerato uno che vede sempre nero, un pessimista cronico. Eppure confesso che non avrei mai immaginato  che la vita italiana fosse stata inquinata sino a questo punto in cui non sai se più indignarti della bassa qualità dell’intrigo o del grande numero delle persone che vi hanno preso parte, per la spudoratezza di chi ha guidato il gioco o per l’insensibilità di coloro che l’hanno accettato, e dei quali molti vengono chiamati nella retorica di rito delle cerimonie ufficiali “servitori dello Stato”.  La realtà ha superato questa volta la più catastrofica delle immaginazioni.
            Lo Stato democratico deve essere ripristinato nella sua integrità.  Il potere occulto deve essere snidato ovunque si annidi, inflessibilmente. Non ci possono essere due Stati. Lo Stato italiano è uno solo, quello della Costituzione repubblicana. Al di fuori non c’è che l’antistato che deve essere abbattuto cominciando dal tetto ed arrivando, se mai sarà possibile, alle fondamenta.     
                                                          
                                                                                                                (Norberto Bobbio, 21.08.1984, La Stampa - numero 197)

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Economia

BCC, NON LASCIARTI DISTRARRE: CONTINUA A PENSARE STRATEGICO...

Fino a che lo Stato, e la politica che lo governa, non rinsaviscano, il ruolo delle aziende cooperative, e in generale dell’impresa partecipativa, è ancor più strategico del solito, per richiamare la coscienza della collettività sull’unico modello di economia e d'impresa che garantisca davvero stabilmente sviluppo e benessere diffuso.
 
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Per l’imminente 13 gennaio 2019 viene annunciata l’assemblea dei soci della Banca di Credito Cooperativo di Roma. Non so quale decisione ci sia da discutere e ratificare. Questa piccola banca romana, comunque, è certamente, oggi, una delle più sane e belle banche italiane, a onta della minaccia rappresentata dalla legge escogitata da questa gaglioffaggine di un parlamento che non sa più legiferare pensando al futuro del paese, e che la costringe a “fare gruppo” forzosamente con altre piccole banche, in questo caso con il gruppo Iccrea, per acquisire una dimensione che la medesima gaglioffaggine mentale della politica ritiene indispensabile per vivere e svilupparsi nel mondo globalizzato di oggi.
 
Non mi addentro ora nella legislazione gaglioffa, frutto di commistione fra due irresponsabilità: quella culturale e morale dell’Europa, e quella analoga della classe politica italiana; si tratta di un orientamento legislativo, comunque, nel quale non mi è possibile vedere con chiarezza quanto sia frutto di ignoranza in materia economica, e quanto di iperscaltrezza maligna, verme che guarda lontano, guarda cioè al controllo e all’annientamento progressivo degli istituti bancari che non si sottomettono all’occulto potere sovranazionale che a livello planetario manovra anche la nostra e l’altrui mediocre politica attraverso la finanza.
 
A onta del contesto minaccioso, la Banca Cooperativa di Roma ha saputo mantenere finora il suo visibile e tangibile spirito cooperativo, il suo conseguente rapporto diretto e costante con i soci e con i clienti, e una trasparenza ancora palese e controllabile. Non solo, ma, in questi anni, gradualmente, saggiamente, si è anche espansa, compiendo da ultimo quella bella operazione che è consistita nell’assorbire la piccola banca cooperativa padovana in difficoltà e salvarne sportelli, personale e prospettive. Personalmente mi sento impegnato, come tanti altri cittadini e risparmiatori, a salvaguardare e rinforzare tali caratteristiche del modello cooperativo.
 
Francamente, peraltro, di recente sono rimasto un poco male, quando mi è capitato di partecipare a una assemblea di zona della stessa Bcc e, per la prima volta, mi ha attraversato la mente il pensiero fastidioso che i germi patogeni del fasullo economismo corrente possano aver iniziato a inocularsi, quasi invisibili, anche in questo organismo sano e pulito, per preparare il terreno a una sua possibile erosione crescente.
 
Ho ascoltato infatti la relazione di uno dei massimi esponenti del vertice della banca e, per la prima volta, ho avvertito la presenza, nel contesto di una analisi sana ed attenta, di qualche generica affermazione, sia pure secondaria, ma pur sempre sintomatica, dalla superficialità un po’ conformista e modaiola: ad esempio, quella secondo cui “uno dei seri problemi di competitività dell’economia italiana oggi è lo scarso numero dei laureati e lo scarso numero degli specializzati in materie tecniche ed economiche”.
 
E no, caro signor Unodeimassimiesponentidelverticebcc: non cominciare anche tu a smettere di studiare, di approfondire, di capire i problemi nella loro complessità e concretezza, di confrontarti ogni giorno con la vita effettiva dell’economia reale, invece che limitarti a leggere le baggianate, a loro volta conformiste, ma soprattutto pericolose, del Sole24Ore o dei bollettini Luiss o delle conferenze Bocconi o delle direttive di Bruxelles. Ragiona in profondità, lunghezza di visione e concretezza, e soprattutto mantieniti fedele al formidabile bagaglio di quel buonsenso pieno di luce che caratterizzava i fondatori di questo tipo di banca, cattolici e per il vero non soltanto cattolici, nonché i fondatori di quel corrispondente tipo di impresa partecipativa e di economia reale che ebbe in Olivetti la sua più bella espressione, e che oggi ha nella trucida finanza speculativa il suo più insidioso nemico.
 
I laureati… A parte la strana, diffusa contraddizione del lamentare lo scarso numero dei laureati nel nostro paese, e nel contempo mantenere o accettare passivamente nel nostro sistema universitario l’idiota criterio del numero chiuso (come se la mia passione per lo studio della medicina o dell’astronomia fosse lecita o non lecita a seconda del numero di medici o di astronomi programmato dalla politica o previsto dagli organici amministrativi!...), la questione non è affatto di laureati ma di studio e cultura, cioè di elevamento del livello formativo delle nostre scuole, tutte. E, in aggiunta, di essere consapevoli che nessun livello di formazione, anche tecnica e tecnologica e scientifica, si costruisce senza un quadro e un fondo di umanesimo: è la formazione umanistica che costituisce culla e alimento della formazione tecnico-tecnologica. Altrimenti avremo un nugolo di mezze macchinette a due zampe semoventi, incapaci di pensare al senso profondo delle cose che fanno. Questo sta anzi già ampiamente avvenendo, e in ciò, sì, consiste parte profonda della crisi, anche economica, in atto in Italia e non solo in Italia. Dunque, caso mai la debolezza del nostro paese è, al contrario, di avere uno scarso numero di ragazzi laureati e diplomati nel settore umanistico; ma, soprattutto, di ragazzi semplicemente laureati per uno studio vero, serio, organico  e profondo.
 
Dunque, ancora, caro Unodeimassimiverticidellabcc, riapprofondisci le ragioni fondative della missione delle banche cooperative, e più in generale della cooperazione, e dell’impresa partecipativa, e vediamo di parlarne ancora e con frequenza, e di rafforzarne le strategie con alti livelli di elaborazione culturale, altro che “lauree in materie tecniche e tecnologiche”!
 
Alla mia piccola e bella banca associativa vorrei rivolgere però anche una ulteriore, piccola osservazione di mera gestione (e potenzialmente anche di strategia, a dire il vero). Essa svolge un notevolissimo e lodevolissimo lavoro di supporto allo sviluppo sociale del territorio, ed all’incoraggiamento nei confronti delle iniziative sociali che in esso si svolgono. Ebbene, penso che andrebbe sviluppato un equilibrio più… equilibrato (ed equo) anche diminuendo il numero delle iniziative filantropiche per caratterizzarne ancor meglio la tangibile incisiva qualità, e aumentando leggermente la quota di utili destinata ai soci: la banca, infatti, è giusto che sia cooperativa innanzitutto proprio in questo senso: che è il più vero e profondo senso della cooperazione e delle sue origini, e il più motivante ed educante stimolo di essa; senza affatto trascurare, anzi sottolineando, la più larga solidarietà sociale, che certamente ne viene rinforzata e ulteriormente, anch’essa, incoraggiata.
 
Insomma, non perdiamoci per strada: non perdiamo il nostro futuro.
 
                                                                                                                                     (Giuseppe Ecca)
 

C'era una volta

AVANTI, C'E' POSTO...

Silas non ne vuole sapere. Preferisce lo pseudonimo. Padronissimo. Ne ha diritto. Noi continuiamo a suggerirgli di venire allo scoperto perché quello che ci racconta – in forma di piccoli episodi familiari di cronaca del tempo che fu (o del tempo che è…) – merita la piena luce del sole sul volto dell’autore. Il quale tratteggia le sue piccole storie con tono apparentemente bonario e finissima ironia, dietro cui è evidente peraltro il sottile accoramento per la irrazionalità e ingiustizia di alcuni profili di costume sociale o di assetto organizzativo che il nostro paese (non solo la sua capitale) è venuto via via assumendo in questi ultimi decenni. E’ importante parlarne, per concorrere a ritessere pian piano, anche per questa via, il filo di una possibile trama di rinnovamento di tale costume e fargli riacquisire – è possibile! – il grande crisma della saggezza e del buonsenso; senza pretendere scioccamente che quanto era del tempo antico fosse tutto buono, ma senza neanche cadere nella insipienza così diffusa di pensare che “il nuovo” sia meglio comunque. Spesso in effetti il “nuovo” è solo più appariscente, o più superficiale, o addirittura più ingiusto e più stupido. Ma questo… giudicatelo voi di volta in volta.
Quanto alla piccola venatura di dongiovannismo che lo zio Attilio ci lascia intravedere nel suo raccontare, beh… non fateci caso. E’ il nipote che utilizza, discolo come tutti gli adolescenti, questa chiave di approccio letterario pensando di avvincere meglio la vostra attenzione su un argomento che nel suo fondo è, invece, di grande serietà civile.
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“Caro zio – ho detto l’altro giorno a mio zio Attilio – ho letto che a Roma è pronta a partire una nuova sperimentazione sugli autobus: sembra che i biglietti saranno venduti direttamente dai conducenti e che questi saranno considerati a tutti gli effetti anche agenti di polizia amministrativa, in caso di atti di violenza fisica o verbale…”
“Mah – ha risposto titubante il mio caro parente – ho molti dubbi in proposito… Anzitutto, se è vero quello che hai letto, bisognerà vedere come reagiranno i sindacati: tu sai che in Italia vige una netta separazione dei ruoli, cosa che non si verifica negli altri Paesi del mondo, dove gli autisti fanno un po’ di tutto, direi proprio un servizio completo, guidatore, bigliettaio, controllore ed anche pulitore. Ebbene sì, ero rimasto meravigliato già tanti anni fa, quando andai per vacanza a Singapore e sui mezzi pubblici avevo notato a fianco dell’autista proprio una scopetta e un cestello per raccogliere l’immondizia. Ma anche recentemente in una mia visita a Berlino ho notato che all’arrivo ad ogni capolinea il bus si ferma, fa scendere i passeggeri, chiude le porte e l’autista, si, proprio l’autista, pulisce il mezzo dalla eventuale immondizia, la butta nei cassonetti situati vicino alla fermata e solo dopo aver controllato che tutto è perfettamente a posto, allora riapre le porte ed è pronto alla ripartenza. Tu dirai ‘sono tedeschi’, mah… beati loro, non mi meraviglierei se l’autista fungesse anche da meccanico!
 
Da noi, invece, esistono per ogni cosa ruoli ben distinti, con la conseguenza che per far girare un autobus bisogna coinvolgere autisti, controllori, uomini delle pulizie, bigliettai o rivenditori di biglietti, installare macchinette obliteratrici (che bel termine, vero?) e qualche volta emettitrici, con il risultato che quando sali a bordo e non hai un biglietto a disposizione non sai mai se riuscirai a comprarlo o dovrai viaggiare da clandestino.
 
Certo, in questo modo nel nostro Paese si moltiplicano i posti di lavoro, pensa all’aumento di disoccupazione che ci sarebbe se le cose funzionassero come negli altri Paesi, ma considera pure che alla fine i costi di questa disorganizzazione si ripercuotono sulle aziende di trasporto e quindi sui cittadini che pagano (ormai in pochi) il servizio, anzi il disservizio”.
“Ma non pensavo, zio, che tu usassi l’autobus per i tuoi spostamenti”.
“Vedi, caro nipote, io utilizzo molto gli autobus quando sono all’estero, per me sono una forma rilassante per girare la città in pace e tranquillità, come se fossero un bus turistico. In genere sono puntualissimi, in alcuni Paesi ad ogni fermata una palina indica l’orario di passaggio e questi orari sono rispettati al secondo, cosa incredibile per noi. E poi in tutti i Paesi che ho visitato gli autobus hanno una unica porta di salita e una sola di discesa, quindi non è possibile sbagliarsi. L’unica volta che mi sono trovato in difficoltà è stato a Rio de Janeiro - si, ho amiche anche lì – dove al primo bus che ho tentato di prendere, non conoscendo il portoghese non sapevo se entrare dalla porta con la scritta ‘SALIDA’ o da quella con la scritta ‘ENTRADA’. E pensa anche che in una capitale dell’Est Europa - non ti dirò quale, dovrai scoprirlo da te - all’ingresso della metro non esistono né tornelli né obliteratrici, per loro è inconcepibile entrare senza biglietto… poi però se un controllore ti pizzica senza biglietto, allora sono dolori!
 
Certo, qui a Roma per i miei spostamenti preferisco usare il taxi, oppure usufruire di qualche passaggio di mie carissime… ehm… amiche. Ma in altri tempi io ho viaggiato molto in autobus, sin da quando ero ragazzino. Allora il servizio era molto differente e tu – ovviamente – non lo hai mai conosciuto. Anzitutto gli autobus li riconoscevi da lontano: oggi ne girano di tutti i colori e quando ne vedi arrivare uno non sai mai fino alla fine se è un pullman, un bus privato o uno pubblico. Una volta - fino agli anni Settanta, mi sembra – gli autobus erano colorati tutti allo stesso modo, verde oliva nella parte inferiore e verde bottiglia nella parte superiore. Poi qualche intelligentone scoprì che questa colorazione era stata disposta nel lontano 1929 durante il fascismo e allora si gridò all’importanza di abolire il ricordo del passato!
 
Negli anni Sessanta io prendevo il bus per andare a scuola, all’epoca andavo alle medie e ci volevano cinque fermate per arrivare a destinazione. Il biglietto costava 25 lire, prima delle otto il costo era ridotto a 15 lire per agevolare studenti e lavoratori, e io facevo di tutto per risparmiare quelle 10 lire che mettevo rigorosamente da parte e mi permettevano di comprarmi una liquirizia, un gelato o una pizzetta. C’erano anche bus “veloci”, facevano meno fermate e allora la tariffa era di 35 lire, poi a un certo punto del percorso la tariffa cambiava, tornava a 25 lire e allora il bigliettaio gridava “cambio tariffa!”
 
Si, perché negli autobus c’era un bigliettaio, seduto su un seggiolino a fianco della porta posteriore: aveva proprio il compito di vendere i biglietti (che si compravano solo a bordo) e di controllare le tessere di abbonamento. La salita era obbligatoria dalla porta posteriore, mentre la discesa era dalla porta centrale  che una volta era unica. Poi entrò in funzione un nuovo tipo di bus con in più una porticina anteriore – vicino all’autista – riservata solo alla salita degli abbonati con la tessera. In questo modo la salita e la discesa erano facilitate, il controllo dei paganti era assicurato e nessuno si permetteva di usare la porta sbagliata, anche scendere dalla posta posteriore era severamente rimproverato dal bigliettaio. Quando la piattaforma posteriore si affollava, allora il bigliettaio gridava “avanti, c’è posto!” Devi sapere – me lo raccontava mia nonna – che una volta sui tram i tranvieri dicevano “favoriscano avanti” ma quando con il fascismo venne abolito il Lei, allora trovarono più comoda la soluzione di abolire il verbo, ecco da dove è nato “avanti c’è posto” che tu, ovviamente, non hai mai conosciuto.
 
Ma le cose più simpatiche che ricordo sono quei cartellini appesi in tutta la vettura con i divieti e le raccomandazioni, alcune anche assurde: ‘Vietato sporgersi dai finestrini’; Vietato sputare’, anche questo retaggio del passato, di quando la tubercolosi impazzava negli anni venti-trenta e si cercava di debellare la malattia causata da un bacillo che era trasmesso nell’aria dai residui degli sputi; ‘Sorreggersi agli appositi sostegni’, come se ci fosse bisogno di ricordare che altrimenti si poteva cadere; ‘Non parlare al conducente’, che oggi si potrebbe tranquillamente cambiare in ‘Non parlare al conducente quando sta al telefonino’! E che dire poi della manovella che il conducente usava per aprire le porte… ero affascinato da quella manovra e dal suono che faceva, e ancora di più quando per aprire la porticina anteriore introdussero una seconda manovella più piccola… Oggi con l’introduzione dei pulsanti di apertura non c’è più gusto”.
“Quindi anche tu, zio, hai usato i mezzi pubblici e come mai hai smesso?”
“Ma vedi, nipote adorato, ho smesso di prendere l’autobus – ed anche la metro, per la verità – diversi anni fa: oggi guarda la confusione che c’è ad ogni fermata: si sale e si scende da tutte le parti, l’altro giorno un gruppo di studenti è entrato addirittura da un finestrino, nessuno ti controlla se hai il biglietto oppure no, ogni tanto qualcuno ti alleggerisce del portafoglio – è successo anche a me – e la confusione, l’affollamento, i ritardi, gli scioperi e ogni tanto qualche autobus che va a fuoco mi hanno convinto che potevo – specie alla mia età – permettermi di spostarmi in taxi. Avevo anche pensato di prendermi la patente ma alla fine ho fatto bene a rinunciare: oggi un po’ a tutte le ore, ma specialmente la mattina per andare al lavoro e la sera per tornare a casa, gli automobilisti sono assatanati e la strada diventa un percorso di battaglia dove per conquistare qualche centimetro la gente dà sfogo a tutti i suoi istinti più bestiali…
 
Ma ora, come al solito, ti devo lasciare: sta per arrivare una mia cara amica e siccome ha deciso di venire con i mezzi pubblici, sono sicuro che arriverà stravolta e la dovrò consolare. Tu vai pure tranquillo, caro nipote, con il tuo autobus: spero che anche tu troverai al tuo arrivo qualcuna che ti consolerà. E non dare tanto retta ai discorsi degli anziani come me, sii ottimista e guarda sempre avanti, in fin dei conti… avanti c’è posto!”
                                                                                                                                                              
                                                                                                                                                           (Silas)
 
 

Esperienze

IL CRITERIO DEL FILO A PIOMBO

Caro Giuseppe, 

tardo un po’ nel mantenere l’impegno di comunicarti un’“idea” avuta nel periodo estivo. Le motivazioni di questo mio attardarmi sono due: una è dovuta alla mia funzione di nonno e l’altra, la più importante, è dovuta alla titubanza di continuare ad impegnarmi in ricerche culturali e sociali, non possedendo la strumentazione culturale adeguata per diffondere e rendere fruibili ad altri dei pensieri che necessariamente vanno messi in comune per ottenere una ”grande idea”, la quale diventa tale proprio perché non resta racchiusa in un cervello ma viene condivisa fino a raggiungere una partecipazione sociale e quindi politica. La propria idea può appagare la propria indole ma, se non diventa  “generativa”,  resta sterile.

Comunque, siccome sei un cocciuto stimolatore di speranza, non fosse altro per il rispetto che provo per la tua persona e per il tuo impegno ti invio questo scritto immaginando  che sia per te di una qualche utilità.
 
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Traguardare col filo a piombo

Una delle materie scolastiche che insegnavano a noi ragazzini che frequentavamo la Scuola Professionale per l’industria e l’artigianato di Voghera, aveva un nome strano: si chiamava “Occhio”, e si traduceva nell’apprendere non a guardare ma a traguardare, e cioè a frapporre tra il tuo occhio e l’oggetto in osservazione un punto di riferimento in modo da allinearlo al tuo campo visivo.
Nella fattispecie ti parlo del filo a piombo, che è uno strumento semplice, usato nel tempo per verificare la verticalità di un oggetto. Nel caso concreto mi è stato utile nei primi anni di lavoro svolto nelle valli biellesi per posare i pali di sostegno dei conduttori elettrici.
In quei primi anni di lavoro (1966-1968) l’attività prevalente che svolgevo era quella di piantare pali e tirare fili, ed in alcuni casi, quando questi rasentavano il percorso stradale, appendere i lampioni. Erano gli anni della nazionalizzazione di Enel e si dovevano cambiare e modernizzare tutte le linee elettriche che erano obsolete ed inadeguate  allo sviluppo che il Paese stava vivendo.
Non esistevano allora mezzi adeguati che alleviassero la fatica fisica nello svolgere tale lavoro e, nelle vallate, il tutto si svolgeva “a mano” e ad “a occhio”.  Potrà apparirti strano che ti parli di questo ma, credimi, piantare un palo che sia perfettamente in verticale  rispetto a tutti gli angoli d’osservazione e prevedere “a fiuto” quale piccola pendenza lasciare affinchè lo stesso ritorni alla perpendicolarità con il peso dei conduttori  e dei lampioni di pubblica illuminazione, senza utilizzare “il filo a piombo” è impossibile.
Oggi, con l’utilizzo di strumenti laser e di mezzi meccanici, è tutt’altro: ma, allora, quello si usava e, benché fosse di uso semplice, si trovava sempre qualcuno che obiettava che, a suo modo di vedere, il palo pendeva da una parte o dall’altra: e lì, se si voleva mettere la parola fine alla discussione, “il filo a piombo”, che non pende per propria natura, ti salvava.
Un tale modo di guardare o, meglio, di traguardare, mi è rimasto appiccicato sulla pelle e quindi anche la mia vita, e quella sociale, la guardo e la traguardo usando lo stesso metodo di riferimento e di verifica. Non più il “filo a piombo” ma alcuni valori che già in giovane età mi si sono incarnati e che,  pur in modo intermittente, tutt’ora mantengo ben saldi.
Veniamo all’oggi: ma non subito. Ancora un ricordo, perchè ho visto che  fai docenza ad un percorso formativo dal titolo ”Memoria e futuro”: ed allora… ancora un po’ di memoria.
 
Nell’aprile del 1997, in segreteria regionale Flaei (il sindacato dei lavoratori elettrici della Cisl, ndr), si pensò di  predisporre una copertina che richiamasse i temi contenuti nella relazione congressuale piemontese. Non sto a dilungarmi nella descrizione delle tematiche di tale relazione perchè le conosci bene quanto me:
 
 Le problematiche europee, l’allargamento degli Stati partecipanti, l’influenza che tale situazione poteva avere sul sindacato e sui lavoratori…
 Le dinamiche dei “capitali oscuri” che spostavano i risparmi familiari in investimenti azionari rendendoli economicamente appetibili ma privatizzandone la speculazione a vantaggio di pochi .
 Il fenomeno dei poveri e delle migrazioni che si affacciavano al mondo, e che in una città come Torino erano già presenti nel sottobosco lavorativo, ed avrebbero sorpassato in quantità esponenziale le problematiche legate alle migrazioni Fiat.
 Nello specifico del nostro settore elettrico, la privatizzazione e lo spezzatino di Enel, che ha prodotto l’esborso azionario delle famiglie italiane per un valore approssimativo di 30.000 miliardi di lire per riacquistare una parte di Ente che era già loro e che trasformerà definitivamente dal prossimo anno 2019 l’utente in cliente. Chi capisce la differenza che passa tra “utenza” e “clientela” non ha bisogno di  parole di commento.
 
Ci fu una discussione che durò per qualche tempo, sull’opportunità o meno di inserire, nella copertina del volumetto che conteneva la relazione congressuale, la scritta in rosso “dagli un’anima(al sindacato, s’intende: è una scritta che ricorderai). I temi trattati allora sono ancora di tutta attualità ed irrisolti, ma il dibattito era su quella scritta,  che poi non venne stampata. Qual’era la motivazione che mi spingeva ad inserirla?
 
Vent’anni fa la percezione che si respirava nel mondo del lavoro e tra lavoratori e imprenditori era mutata rispetto a quella del primo dopoguerra, dove ancora la dignità ed il valore di una persona venivano identificati con la professione che la persona svolgeva, tant’è che non era raro trovare in Torino persone che parlando dell’Avvocato (Agnelli) lo chiamavano “Giuanin-lamera”, colui che, grazie ai suoi predecessori, aveva fatto di Fiat una cultura e un simbolo di prestigio internazionale (e nel 1966 ne divenne presidente).
 
Eravamo già nel post-industria, con le tecnologie, la robotica, i supporti informatici, la cultura sociale, le conquiste sindacali, ecc… Non c’era più, nè si veniva percepiti più,come valore in quanto capaci di esercitare nella vita una professione: decideva ormai il successo di se stessi o dell’impresa. Il mondo si era ristretto. 
 
Le grandi aziende si chiamavano ormai holding, i supermercati avevano soppiantato la media distribuzione, molte erano le aziende che de-localizzavano alla ricerca di un più alto profitto. Tradotto e sintetizzato un po’ volgarmente, “la persona ed il prodotto cessavano di essere tali per la loro qualità o quantità intrinseca”. Mentre in casa sindacale si discuteva di consumismo, alienazione,realizzazione di sé attraverso la professione, altri lavoravano alacremente per la “finanziarizzazione” di ogni cosa,  sia che fosse un oggetto sia che fosse una persona, un prodotto o un popolo, uno stato, un  continente. Tutto correva veloce e la finanza allegra galoppava.
 
Ancora un passettino indietro. Da pochi anni era caduto il Muro di Berlino e l’accorpamento dell’ovest con l’est della Germania avvenne con il concambio di valore della moneta di uno a uno. In pratica l’Ovest fece la lungimirante scelta politica di “parità di valore” rendendo la Nazione omogenea a se stessa e spostando il baricentro geografico-politico del commercio europeo sul proprio territorio, e allargando l’Unione  ai  Paesi dell’Est. La “parte vincitrice della Germania”  seppe “traguardare”, non si limitò ad una raggiunta unità territoriale. Spostò l’orizzonte ad est e così, in Europa, divenne “geograficamente centrale”, con tutto ciò che tale centralità ha comportato. Non la stessa lungimiranza, successivamente, fu applicata da parte nostra con l’introduzione dell’Euro (pensa solo per un attimo se, nel mentre si dibatteva dell’allargamento ad est, in quell’alta assise politica europea si fosse posto il problema dei migranti mediterranei che già allora “lavavano i vetri delle auto” nelle nostre città).
 
Con la caduta del muro, e sostanzialmente del Blocco Sovietico, cadde anche il marxismo: ed il capitalismo festeggiò se stesso. Molti furono gli onori che si auto-attribuì, alcuni anche meritati, “la proprietà privata” apparentemente aveva vinto su un ideologia che la riteneva un’idiozia, e molti di noi hanno esultato tant’è che di lì a poco Papa Wojtyla ritenne utile la promulgazione dell’ enciclica Centesimus Annus che richiamava all’attenzione i cento anni trascorsi dalla  Rerum Novarum ma anche rimodulava il pensiero della dottrina sociale, e questo nonostante nei precedenti anni avesse già promulgato la Laborem exercens sul lavoro umano, e la Sollicitudo rei socialis sui problemi dello sviluppo degli uomini e dei popoli.
 
Lavorando in Cisl avevo avuto l’opportunità di avere contatti diretti con alcuni esponenti di Solidarnosc, e di seguirne per un certo periodo l’affermazione. Ben sapevo il ruolo che Papa Wojtyla e la Chiesa avevano giocato nella caduta del Muro e del Blocco: non tanto nell’affermazione del capitalismo ma bensì nel coagulo dei bisogni di un popolo in un movimento che per la dignità della propria vita, non solo lavorativa, per la prima volta nella storia conosciuta “disarcionava un potere” senza incorrere in una rivoluzione più o meno violenta ma,  con lotte anche rischiose e con estenuanti trattative, sbriciolava il muro ed il centenario conflitto ideologico tra capitale e lavoro. Un “quasi miracolo”, di portata storica.
 
  Non la faccio tanto lunga, questi aspetti li conosci quanto me e meglio di me. Quelle erano le pulsioni che provavo quando insistevo un po’ su quel “dagli un’ anima”.
 
Vedi, vivendo in Torino e seguendo un po’ le dinamiche politiche cittadine, avvertivo ciò che in seguito si sarebbe sviluppato  sul territorio nazionale e cioè il fatto che si formasse una “saldatura di compromesso” tra il potere del capitale (Fiat) ed il Potere del Popolo (politica locale) fissando libertà di movimento e di riconoscimento. In termini concreti Fiat lasciava la gestione della comunità a condizione che la stessa lasciasse libertà di movimento e non interferisse più sulle scelte del capitale aziendale. Si ridussero i conflitti di fabbrica, si ridussero i conflitti sociali nel territorio e gli ex comunisti o socialisti governarono Torino, il Piemonte e parte dell’Italia accreditati in tutte le strutture sia pubbliche sia private, nelle Università come nelle Banche e Assicurazioni, nella Stampa ecc., fino allo scorso anno con l’avvento dei 5 stelle, i quali non mi pare abbiano capacità o volontà di modificare tale “accordo non scritto” ma applicato.
 
Il potere economico, su scala mondiale, aveva dichiarato il “cessate il fuoco” ideologico, lasciando la gestione della Polis ai partiti purchè non interferissero più di tanto sulla gestione privatistica del capitale. In gergo comune “si riposizionava” e se, a mio avviso, il mondo del lavoro non alzava l’asticella del “dagli un’anima ”, sarebbe rimasto risucchiato nell’“Economia Politica” del Paese, lasciando mano libera ad un sistema economico che già si stava spostando verso un sistema non più industriale ma finanziario. Il lavoratore, ed il prodotto del lavoro, cessavano la propria funzione storico-evolutiva; e i “bisogni del lavoro” non erano più nemmeno “merce” ma diventavano prodotti finanziari e come tali vendibili e messi sul mercato degli interessi privati.
 
Vedi, quando parlo di anima non mi riferisco a qualcosa di astratto né voglio prendere in considerazione la parte “spirituale” che nel comune pensare attiene alla religione: no, mi riferisco a quell’ “anima umana” che è presente in tutti, che è generatrice del principio di vita che dà origine al pensiero, al sentimento, alla volontà, alla stessa coscienza morale o sociale, e nella quale risiedono “i bisogni”, che si differenzia per cultura, ambiente, tradizione, stato sociale, famiglia ecc., ma che, se non trova cittadinanza nel “quotidiano del lavoro”  attraverso il riconoscimento valoriale della propria “unicità e socialità”,  come tutte le cose non utilizzate si atrofizza, si spegne.
 
Guardando l’esperienza di Solidarnosc avevo ritrovato quell’anima che non aveva scisso in se stessa i  valori e le esigenze di giustizia da quelli della necessità del vivere e del mangiare e il tutto l’aveva fatto unificando i bisogni di un popolo senza sottostare più di tanto a “regole di mercato” né a “rivoluzioni ideologiche”.
 
Ancora una cosa prima di parlare o, meglio, scrivere dell’oggi. Voglio essere chiaro. Credo profondamente “nell’approccio imprenditoriale della vita” e quindi del lavoro in ogni accezione considerato, sia esso dipendente o meno, credo nella “proprietà privata” della vita e del capitale, credo nel “rispetto delle differenze”: ma tutto ciò non può essere ottenuto senza l’applicazione di regole sociali che unifichino “in uno” i valori generatori di umanità, libertà e ricerca di verità che pre-esistono in ogni persona e ad ogni latitudine, ed occorre farlo con delle regole collettive che inducono alla partecipazione ed al diritto di cittadinanza sociale di quei valori attraverso la corresponsabilità di esercizio. Di questo dovrebbe occuparsi la politica, sia essa partitica, sindacale, imprenditoriale, personale, familiare: ma ahimè…
 
Esiste e deve esistere libertà economica, finanziaria, culturale, ecc., ma esiste, o dovrebbe esistere, uno Stato,  nel senso ampio del termine, che attraverso la legislazione regoli tali libertà affinchè una di esse non raggiunga un livello di potenza tale da ridurre le altre in dipendenza e schiavitù.
 
Veniamo all’oggi. Per brevità mi soffermo solo su un aspetto tra quelli che attanagliano la nostra vita lavorativalasciando ad altre occasioni l’approfondimento su altri temi che pur meritano.
 
Ciò che le tecnologie informatiche hanno reso possibile e fruibile in questo ultimo decennio mai si era affacciato sul pianeta Terra (salvo pensare agli alieni,  ma lì io non ci arrivo).
 
  Provo, con il filo a piombo, a traguardare iniziando da un’angolazione.
 
Oggi esistono nel mondo dei supercalcolatori in grado di svolgere 22 milioni di miliardi di operazioni matematiche nel tempo di un secondo, e sono in mano a società private (una di queste l’hanno piazzata in un paese vicino al mio), riesci a capire?  Non è agevole, vero? Provo con un altro esempio. I cellulari di ultima generazione che sono nelle nostre mani  e nelle mani di tantissimi ragazzi, cittadini del mondo, hanno una capacità di memoria tale che potrebbe contenere “un milione di computer”  simili  a quello che la NASA utilizzò per inviare l’uomo sulla Luna. Sì, hai letto proprio bene, “un milione”.
 
Nelle nostre mani ed ancor più nelle mani private di pochi gruppi mondiali vi è un potenziale informativo tale per dimensione e velocità esecutiva, da rendere superfluo il pensare e l’apprendere. Tant’è che per i comuni mortali tutto lo scibile umano che serve sta in un cellulare: l’orologio, la rubrica, gli appuntamenti, le fotografie, i giochi, come del resto la geografia, la storia, i libri, la cultura, ed anche le relazioni personali. Tutto lì, in palmo di mano e immediato. Per i mortali un po’ meno comuni, ma che in comune hanno l’interesse del profitto, a loro non sembra vero di poter disporre di una quantità assoluta di informazioni (che noi stessi forniamo loro nel nostro agire quotidiano), e di utilizzarle a proprio beneficio.
 
“I grandi fondi finanziari e oscurisono i possessori sia di quelle informazioni sia di enormi quantità di denaro cartaceo (in passato la parità con l’oro non lo consentiva) facilmente trasferibile con un “clik” ed immediatamente esigibile, ed il tutto avviene in assoluta assenza di norme giuridiche che impediscano l’accumulo eccessivo, che pertanto diventa “l’unico  dogma”. Non ci sono più le sfide del mercato libero che in qualche misura regolava il bene, frutto del lavoro, ed il profitto,  frutto dell’impresa.
 
Questa abnorme quantità, concentrata in poche mani private, punta attraverso la speculazione finanziaria ad accumulare la valuta nei propri magazzini sottraendola di fatto al mercato, in modo da renderla dipendente. La distribuzione, o meglio la redistribuzione, di beni e servizi viene sottoposta alla loro finanziarizzazione, e come tale regolata.
 
Nella civiltà contadina che ha accompagnato per millenni l’evoluzione umana e sociale fino ad un centinaio di anni fa, un meccanismo simile veniva adottato da coloro che “possedevano le sementi”. Non erano quelli che lavoravano la terra, né talvolta gli stessi proprietari terrieri, no, erano coloro che fornivano qualità e quantità di sementi non superiori alle necessità di sopravvivenza (o di mercato) e stabilivano quali terreni utilizzare o meno, e se un proprietario non garbava loro o non rendeva il dovuto, semplicemente quei terreni restavano incolti e le popolazioni rischiavano la fame.
 
Come vedi, nel metodo non è cambiato molto da allora, se non su un aspetto specifico. Le famiglie e le proprietà contadine, anche se analfabete, avevano consapevolezza di un tale metodo e, nella storia, con lotte e sacrifici l’hanno superato. Oggi, il seme del mondo economico è la “carta moneta” ma fingiamo  di non saperlo.
 
Ora provo con il filo a piombo a traguardare da un'altra angolazione.
 
La Cina è la più grande potenza economica mondiale, ha superato gli Stati Uniti, è orgogliosa di se stessa e della propria millenaria cultura. Aprendosi parzialmente al mercato, è diventata il Paese dove i marchi del lusso si mettono in fila per poter entrare, detta la propria etica e visione valoriale, e chi sgarra si affretta a scusarsi. La Cina non gira più il mondo per elemosinare ma “compra”. Da vastissime aree in territorio africano, ad  aziende in territorio europeo ed americano; compra squadre di calcio, compra case e negozi, ecc.
 
Detiene il maggior numero dei miliardari del mondo. Compra, paga in contanti e impone se stessa al mondo. Non a caso Trump è piuttosto incazzato. Chi l’avrebbe detto, ai tempi della rivoluzione maoista... Rimangono al proprio interno parecchi problemi ma, come sempre ha fatto, se non trova un accomodamento li risolve da sé. E’ di questi giorni, apparsa sulla stampa di casa nostra, la polemica pretestuosa su “Huawei” che con i propri prodotti informatici mina la sicurezza del mondo intero, a detta di Trump, come se le aziende americane, o altre, non fossero mai state violate.
 
Il continente africano, apparentemente negli anni si è liberato dalla schiavitù e dall’ imperialismo occidentale e quindi dovrebbe evolvere verso orizzonti di civiltà e libertà ben superiori a quelli attuali. In realtà tutti i settori decisivi dell’economia di quei paesi sono ancora saldamente nelle mani di imprese straniere che di volta in volta, anche attraverso la guerra tribale, finanziano i “Ras di turno” come a loro conviene, utilizzando altresì forme di fondamentalismo religioso che negano una qualsiasi possibilità di cittadinanza a chi non appartiene a loro.
 
I gruppi estremisti, che cercano di risolvere tali controversie con le armi, trovano appoggi politici, militari ed economici,  e coloro che cercano soluzioni meno cruente vengono emarginati ed il più delle volte uccisi. La produzione di miseria serve come deterrente per tenere a bada coloro che la miseria e la povertà  in casa propria l’hanno in qualche modo superata. Gli Stati Europei, tra i quali l’Italia, l’Olanda, la Francia, il Belgio, gli Stati Uniti, il Regno Unito, i paesi del Golfo arabo, la stessa Cina e la Russia, ancora oggi giocano sulla produzione di profughi e schiavi.
 
Non ci si è dati da fare per promuovere negli anni un “ceto mediocon cultura adeguata e  professionisti e quadri competenti, capaci di far funzionare uno Stato. Hai voglia poi di parlare di migranti, pensando che il problema sia risolvibile senza intervenire sulle cause che lo producono.
 
Analogamente, anche se con modalità differenti, avviene nei paesi dell’America Latina. Anche lì, con un residuato imperialismo, non solo europeo, si sono assemblate culture cristiano-marxiste su un umanesimo che laddove prova ad evidenziare una certa autonoma gestione o visione sociale e politica, viene estromesso dal mercato mondiale, utilizzando le leve del debito inestinguibile, e talvolta della repressione. Recenti sono i casi dei migranti che incolonnati sulle strade del Salvador, dell’Ecuador, del Venezuela, del Messico e probabilmente di altri Stati “cercano speranza” in quelle Nazioni che in realtà sono le stesse che mantengono critica la loro condizione di vita in casa propria, e che mantengono nelle proprie mani le condizioni e le risorse economiche utili al loro sviluppo.
 
Voglio ora “traguardare” ancora da un’ ulteriore angolazione.
 
Stiamo assistendo ad un collante  finanziario-religioso-politico, che qua e là ogni tanto appare. Si assiste, nel mondo attuale, ad una disgregazione politica dell’umanità accampando appartenenze a fedi religiose differenti che in funzione a recrudescenze fondamentaliste, per ragioni di “sicurezza nazionale” mirano a controllare in modo capillare e scientifico tutta la società affinchè diventi impossibile l’infiltrazione di un qualsiasi “pensiero distorto” che abbia come effetto collaterale l’autonomia dei popoli e la reale indipendenza storica e culturale. Mi è agevole a tal proposito osservare come autoritarismi, seppur di diverso colore politico, trovino coagulo e si affermino nella guida delle nazioni, con l’intento  di limitare il più possibile la libertà ed i valori generativi dell’umanità.
 
Tali movimenti diventano di facile lettura se si analizzano le prese di posizioni critiche nei confronti di questo Papato. Critiche più o meno evidenti arrivano dal continente americano e da quello europeo strumentalizzando il dramma della pedofilia, sul quale, in realtà, questo pontefice  è uno dei più acerrimi nemici.  C’è in atto un “collante protestante” che associa Trump (Stati Uniti), con Bolsonaro (Brasile), Mey (Regno Unito), ed alcune nazioni europee, che evidenzia politiche di nazionalismo.
 
La Chiesa russa, con Putin, stranamente fa sponda con la parte più intransigente di Israele nel gioco geo-politico mondiale, additando a questo papato la debole difesa dei valori cristiani, laddove i cristiani vengono da altri  martirizzati brandendo ragioni religiose. Per non parlare dei paesi arabi o di quelli nei quali la dottrina mussulmana è legge di stato ed i cristiani, generalmente intesi, sono “gli infedeli”. Non ultime sono le critiche mosse al Vaticano per il recente presunto accordo con il governo cinese nel riconoscimento dei vescovi nominati dal Papa ma in qualche misura graditi a Pechino. E tutto ciò trova appoggio all’interno della Chiesa Cattolica da parte di alcuni vescovi e laici che non trovano di meglio che accusare il Papa di apostasia.
 
Tutti questi interventi, se letti separatamente, sembrano incomprensibili: ma se si guarda la radice ci si accorge che la pianta  trae origine da una comune visione del mondo e della tangibilità della persona umana, che deve essere piegata agli interessi di chi comanda, anche se declinati in forme e colori politici differenti. La vera difficoltà di questo papato è che  il Vangelo del perdono e degli ultimi, la contrarietà alla guerra, l’aperta sfida più volte lanciata sul traffico di armi e di uomini, la contrarietà alla pena di morte, la pervicace volontà di “costruire ponti e non muri”, il “Laudato si” sull’ambiente, il richiamo continuo alla povertà reale, che deriva già dalla scelta iniziale del nome Francesco, la messa all’indice del “dio denaro”, tutto ciò rappresenta un pericolo per tutti coloro che vogliono gestire l’umanità, controllando perfino le coscienze in modo da poter agire, con maggior tranquillità, per fare i propri “porci comodi”.
 
Questo papato, richiamando la pratica quotidiana dei valori cristiani e non solo la loro divulgazione accademica, è in aperto contrasto con chi non accetta il principio di inviolabilità e di intangibilità della vita e della libertà, sia essa individuale o collettiva.
 
L’ultima “occhiata”, non ultima per importanza, riguarda casa nostra. Il nostro “Bel Paese” che inserito in questo contesto europeo e mondiale si dibatte in se stesso senza grandi prospettive di riemergere con una visione di futuro meno fosca. I dati dei vari istituti di ricerca segnano le difficoltà oggettive: disoccupazione, povertà, precarietà, assenza di prospettive. Mi pare che la nostra classe imprenditoriale, più che “fare impresa” sia quasi completamente assorbita nel “grande gioco finanziario”, restano attive le medie e piccole imprese che su scala mondiale rappresentano ciò che era l’orto di casa nella civiltà contadina.
 
Peraltro alcuni marchi industriali proseguono nel proprio posizionamento mondiale e pertanto a tali regole devono adattarsi. Restano ancora attive aziende che con la ricerca restano in dialogo permanente e fanno innovazione, ed un tessuto sociale che non vuole rassegnarsi e che si esprime in varie forme di volontariato. E comunque non siamo un corpo separato dal resto del mondo e se nel mondo le regole applicate sono quelle che ho accennato, piaccia o non piaccia regolano anche noi.
 
Negli ultimi decenni non c’è stato uno sviluppo che ci contraddistingua, più che altro c’è stato un adattamento del “sistema Italia” a sistemi da altri controllati e nei quali ci siamo inseriti. E questo lo vedo purtroppo, oltre che nelle aziende, anche nella cultura in generale, senza la quale, hai voglia crescere…
 
Dal punto di vista politico, pur senza nascondere le difficoltà che comporta la gestione pubblica, vedo che gli orizzonti  di sviluppo della collettività si sono ripiegati in una prospettiva di autosufficienza che risponde più ad una logica di autoassoluzione  che non al coraggio” che occorre per vivere e per scegliere come vivere.
 
Abbiamo lider di maggioranza che “scimiottanoed è già tanto se non rovinano ciò che è già precario, e lider di opposizione che cercano di “sfangarla” per se stessi. E’ bastato che “la finanza che conta” facesse “uno starnuto di spred” che tutto il coraggio innovativo si trasformasse in “piscio”. A tal proposito ridicolo e per certi versi pericoloso è l’atteggiamento che si vuole assumere in ambito internazionale spostando l’asse politico collaborativo verso Russia e Cina. Si potranno anche favorire aziende italiane e ricevere investimenti sul nostro territorio, ma entrambi questi blocchi, quando comprano, impongono la propria logica, chi con le armi, chi con la finanza, anche in campo religioso, giusto per non dimenticare.
 
D’altronde tutti sono stati eletti non più per le loro intrinseche capacità o visioni politiche ma attraverso un’abile analisi e gestione dei desideri popolari effettuata con adeguati algoritmi applicati ai dati informatici in loro possesso e che a ragion veduta sembrano portare risultato. Un po’ dovunque nel mondo siamo passati dalla politica dei grandi ideali alla politica dei “selfi” e degli “spot” che per loro natura attraggono come le foglie di un albero ornamentale presso il quale, se ci rivolgiamo per trovare frutta buona che ci alimenta, restiamo a digiuno.
 
  Avviandomi alla conclusione cerco di sintetizzare ciò che a mio modo di vedere è avvenuto e sta avvenendo e che ha incidenza sulla collettività e sulle persone che a tale collettività appartengono. Va da sè che il culto dello sviluppo attuato prevalentemente nelle cosiddette “società avanzate” abbia portato tali società ad una crescita del benessere complessivamente inteso, maggiori beni, maggiori servizi, maggiore tutela sociale, ecc … complessivamente a una vita migliore, e non credo nemmeno che lo sviluppo del capitalismo o, per contro, di culture marxiste, sia tutto da buttare nelle fogne.
 
C’era del buono in entrambe le visioni che, con conflitti molto aspri, hanno comunque raggiunto livelli di miglioramento delle condizioni di vita, e finchè tali conflitti sono riusciti a ridistribuire il risultato della loro affermazione in beni o solidarietà sociale, pur con grandi tragedie e guerre, “si costruiva”. Perché, attraverso le dinamiche del conflitto tutti si era chiamati ad interrogarci ed a vivere in aderenza automatica ai grandi ideali che sostenevano tali azioni. Pur in termini sbagliati, si viveva in simbiosi con i valori, poi via via nel tempo il tutto è stato “cartolarizzato” .
 
Specificatamente, “carta” più o meno straccia si è fatto di tali valori, “carta” più o meno straccia si è fatta del sapere, “carta” più o meno straccia si è fatta dell’umanità, “carta” più o meno straccia si è fatta delle aziende e dell’imprenditoria, “carta” più o meno straccia si è fatto dell’oro.
 
Tutto è stato assoggettato a “carta, più o meno straccia, anche “l’uomo”.  E la “carta” si è fatta “bait” (esca) e bait sé fatto “bit” che è l’unità di misura del contenuto d’informazione adottato con  il sistema di numerazione binaria nei computer e nei cellulari (quella che grossolanamente io chiamo la “matematica cinese”, quella composta da una sequenza di uno e zero, diversamente disposti) ed il “bit” opportunamente accumulato e diagnosticato, ha prodotto il “Bit-coin” che di per sé non ha sostanza, rappresenta il “nulla” eppure in questo “nulla” chi ci ha messo qualche soldo, nel volgere di un paio d’anni si è trovato miliardario.
 
Caro Giuseppe,
 
in questo bailamme descrittivo che uccide la speranza umana nell’aver capacità d’uscita, in realtà una piccola speranza mi deriva dalla Fede, e cioè dal ripercorrere a ritroso quell’antico e permanente soffio che è la vita presente in ognuno di noi. In ogni persona. Dovunque e comunque essa sia, perché se “Lui” non ci ha ingannati, il legame profondo che esiste tra libertà, verità, vita, e che risiede in ogni “anima del pianeta” non puoi nè dominarla, nè ingannarla, nè ucciderla, vive già l’eternità e pulsa vita in continuazione.
 
Ecco, quando guardo razionalmente  le cose cerco di usare “il filo a piombo”, che segue un principio di gravità terrestre al quale tutti siamo assoggettati,  se guardo le persone non posso  fare a meno di “traguardare l’anima” che segue un principio di amore, ed anche a quello siamo assoggettati.  Ovviamente mettendo in campo tutti i limiti ed i peccati di cui dispongo.
 
Fai bene, fai bene il bene, e che Dio ci aiuti.  
 

Un abbraccio, caro amico.
  
                                                                                                                                          (Enrico Forti)
 
 
P.S. - Per darti sollievo ti allego il “Post” che ho pubblicato ieri sera sulla mia pagina “Facebook”. E’ in tema, ma sorrido al pensiero  che tu, un “latinista della lingua italiana”,  sia stato costretto a leggere “post” e “ace book”.…..Lo scritto, usalo a tuo piacere…     Ciao!
 
 
Talvolta
portando la mente
a spasso nei campi
alzi gli occhi al cielo
e…
ti accorgi che Dio esiste.
 
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Ambiente bene comune

SI FA COSI'

Prendiamo il “pezzo” di cronaca così come ci viene trasmesso. Ci pare civicamente utile e bello segnalarlo: un caso di resistenza umile ma incrollabile contro lo strapotere danaroso di chi in danaro vuole trasformare tutto, anche a costo di rovinare il bene comune.
 
Vi è nell’esempio datoci da Ovidio Marras, il personaggio protagonista del “pezzo”, un insegnamento fondativo di ogni etica civile: non è mai sufficiente lamentarsi di quanto mediocre o ingiusto sia il governo del nostro paese, della nostra regione, della nostra città, o di quanto cattivi siano “gli altri”: è necessario sempre e comunque che “noi”, proprio noi personalmente, nel nostro ruolo qualunque esso sia, ci comportiamo secondo etica e giustizia. L’ingiustizia degli altri non giustifica la nostra; anzi, non giustifica neppure la nostra semplice indifferenza al dovere di “fare qualcosa”. Ovidio Marras, nella sua semplicità di vecchio pastore sardo, è stato un autentico professore di vita per tanti di noi.
 
 
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"Lui (in foto) è Ovidio Marras. Gli dicevano: “ Guarda, Ovidio, che la tua terra te la paghiamo a peso d'oro. Costruiremo a Tuerredda degli hotel a 5 stelle, con lussuose suites per gente ricca, ne faremo una nuova Porto Cervo: dicci tu la cifra che vuoi per la tua terra, e noi te la compriamo”.
 
Ma Ovidio, pastore sardo, 85 anni di vita e di orgoglio, ha risposto che lui a Porto Cervo non è mai andato, e per la verità nemmeno sa dov'è, salvo che è in qualche parte della Sardegna. Ha aggiunto: “Guardate che io non vendo nulla: questa è la terra di mio padre e del padre di mio padre, e me la tengo, e voi qui intorno non avete diritto di costruire”.
 
Ovidio ha fatto causa, da solo, contro megagruppi immobiliari rappresentati da stuoli di avvocati. Lo prendevano in giro per questa sua resistenza, trattandolo come un vecchio scemo tignoso fuori dal tempo, che si era messo contro poteri troppo forti, contro chi voleva gettare su uno degli angoli più belli e incontaminati della Sardegna una colata di cemento di 910 mila metri quadri, più o meno come un palazzo di dieci piani.

Invece Ovidio ha vinto. Ha vinto, da solo, e definitivamente. Ha vinto in Cassazione. Non potranno costruire, e quanto di già costruito andrà buttato giù. La sua terra è salva, è la terra da dove suo padre ogni giorno partiva con le bestie per il pascolo, al sole, sotto l'orgoglioso e puro vento, e a sera tornava, per un pezzo di formaggio e un pane. Con Ovidio ha vinto una certa preziosa idea di dignità, addirittura più preziosa del denaro." 
 
 
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Organizzazione

LIDERSHIP: STARE A CAPO O ESSERE UN CAPO?

 
Ugo Righi è consulente di direzione aziendale, collaudato da una serie ormai lunga di esperienze in contesti complessi e di ampia dimensione: “ne ha viste tante”, potremmo dire, e conosce le sfaccettature più inattese delle dinamiche aziendali e dei rapporti che in esse quotidianamente si generano e si intrecciano. La concretezza dell’esperienza lo ha indotto a uno stile sintetico e asciutto, ma difficilmente controvertibile. Egli ci trasmette qui alcune interessanti osservazioni sul rapporto fra “capo burocratico” e “lider” in una organizzazione.
 
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La posizione di comando non coincide automaticamente con l’essere un capo: ci sono moltissimi soggetti che hanno un potere derivato dall’ufficio che occupano, ma non sono lider. Il punto è comunque che davvero i lider sono fondamentali per lo sviluppo dei sistemi socio-organizzativi.
 
I lider si riconoscono dagli effetti che ottengono e dai comportamenti che tengono, essi riescono a cogliere il centro delle cose, hanno visione d’assieme e capacita di mettere in relazione il tutto con la parte, e viceversa. Non solo, ma, strategicamente, agiscono tra le differenze evitando che queste diventino conflitti, e spesso riuscendo addirittura a trasformarle in opportunità.
 
Il loro potere è prima di tutto personale: è verso se stessi, in termini di autoregolazione e direzione, ed è riconosciuto e legittimato poi anche formalmente dall’esterno.
 
Va notato che in genere i sistemi, sia quelli micro sia quelli macro, sono tendenzialmente ipergestiti, ovvero pieni di manager, professional, tecnici,  ma sono anche ipoguidati: manca cioè il senso comune, l’adesione a uno scopo, il piacere e la voglia motivata di sorridere.
 
La dimensione oggettiva dei sistemi dovrebbe essere variabile dipendente da quella soggettiva: invece avviene il contrario; senonchè è impossibile produrre valore quando l’armatura soffoca l’anima.
 
Solo il lider riesce in realtà a intrecciare fra loro le situazioni complesse, generando valore come condizione per ottenere sviluppo. Ci sono (per esempio nella politica) soggetti certamente intelligenti ma, da questo punto di vista, stupidi, perché il loro comportamento, anziché diminuire il conflitto, lo aumenta e lo genera addirittura, e quindi distrugge il principale capitale umano, che è dato dalla capacità di stare insieme dialogando come esseri umani che non diventano nemici perché hanno opinioni diverse.
 
Il costo del mantenimento del nemico è pazzesco, e il nemico ha come principale scopo non quello di ottenere un risultato concreto, ma quello di far fuori il nemico.
 
Il problema è che in genere il potere non è in mano a dei lider (soprattutto in politica) ma a dei semplici capi: semplificando (ma mi sembra proprio che sia così) chi ha molto potere ha bassa competenza connettiva e lidership, e chi ne ha poco è un lider ma senza investitura di potere formale. Sembra quasi che per ottenere il potere occorra avere bassa competenza sociale.
 
Un lider non è tale perché convince i suoi adepti, lo è se riesce a dialogare anche (o soprattutto) con chi vuol essere nemico, evitando di entrare in un gioco che porta alla sconfitta di entrambi. La paradossalità è che negli scenari dell’odio, anche se le situazioni sono oggettivamente collaborative, la relazione soggettivamente conflittuale determina che lo scopo principale è comunque far fuori l’altro (il nemico) o almeno denigrarlo.
 
Quali sono, quindi, i riferimenti per una lidership di valore?

1. Il lider deve promuovere e consentire la diffusione di un sentimento di parità tra le persone creando senso comune e aumentando la condivisione culturale. Il lider deve aumentare i livelli di credibilità e fiducia tra i membri di un gruppo, in modo che essi possano mettere in comune rapporti professionali e affettivi e li utilizzino per un aumento della comunanza dei rispettivi spazi vitali. Il lider aiuta a far apprendere, a far estendere nel tempo l’apprendimento, e a storicizzare esperienze, percezioni, aspettative e speranze, realizzando la parità e credibilità reciproca senza perdere la identità individuale. Aiuta a gestire ergonomicamente la realtà, progettando e realizzando le forme e gli stili di comando, insieme con coloro che le “subiscono”. Aiuta in sostanza a concepire la lidership (e quindi il potere) come relazione, e anche a vedere le relazioni come conflitti: nel senso che l’incontro tra due persone o due o più situazioni è l’incontro tra differenze, e, perché tale, è un incontro conflittuale: ma la fisiologia del conflitto è il dialogo e l’incontro, la patologia è l’invenzione del nemico. Il lider deve saper, soprattutto, mobilitare altre intelligenze, altri comportamenti, collegare “sinapsi”, essere il centro e il raccordo, dinamicamente.
 
2. Il suo comportamento deve essere una risultante equilibrata di dimensioni che comprendono aspetti tangibili e intangibili: intuito accuratamente preparato, acume teorico risultante dal possesso di basi cognitive, intelligenza sociale, capacità di rischiare e prudenza decisionale, senso della storia e capacità di dare significato dinamico agli avvenimenti, semplificando ma non banalizzando.

Il lider vero percorre il viaggio con altri che lo seguono e realizza la storia in quell’ambiente con quelle persone, facendo cose insieme per uno scopo comune. Se non ottiene questo, il suo potere è solo arroganza dannosa.
 
                                                                                                          (Ugo Righi)
 
 
 

Formazione

2019: SI COMINCIA CON IL SINDACALISMO

Presentando, a suo tempo, il sito “studisociali.org”, si diceva fra l’altro che “l’impegno formativo è parte integrante della ispirazione originaria di Studisociali. Le sue iniziative vengono proposte sia in forma di corsi sia in forma di singoli incontri, di gruppo o individuali…”.
 
E si aggiungeva che “quella di Studisociali è una formazione concepita sempre in senso integrale, vale a dire come formazione della personalità compiuta”, tanto che i temi trattati riguardino competenze tecniche quanto che attengano a mondi valoriali: si parte comunque dalla “formazione della coscienza” e si prosegue nella direzione specifica prescelta, ma sempre nell’alveo della grande avventura umana che rende la vita della singola persona e della comunità migliore in senso totale qualunque sia la materia particolare che si approfondisce.
 
Ebbene, fin dal primo corso del 2019 verrà rispettato e valorizzato tale approccio. Esso affronterà la grande tematica del sindacalismo in Italia e nel mondo. Si ripercorrerà la storia del movimento sindacale in Italia ma anche in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Germania, Paesi Nordici, e in altre esperienze significative del mondo. Le sue vicende, i suoi uomini, le tecniche, i metodi organizzativi, gli errori e i successi, l’evoluzione e i pericoli, i collegamenti internazionali.
 
Ma perché vale la pena occuparsene? Perché si tratta, sostanzialmente, della dimensione fondativa del lavoro nella vita umana: il lavoro è dignità biblica” dell’uomo, fondamento insostituibile della piena realizzazione individuale e sociale della persona in qualunque tipo di società.
 
Occorre conoscere la storia del lavoro per conoscere la storia umana, occorre conoscere la storia del movimento sindacale (in senso lato) per conoscere la storia del lavoro.
 
Libri e università raccontano diffusamente, fra l’altro, che il movimento sindacale ebbe origine in Inghilterra, intorno alla fine del 1.600, con la nascita del macchinismo e delle prime manifatture. E’ una visione vera ma solo in parte, è imperfetta, scolastica, semplificata, addirittura impropria. Racconteremo invece di come una idea di autotutela del lavoro, anche collettiva, pressoché una idea sindacale, è esistita, ad esempio, anche nell’antica Roma. Ed è importante raccontarlo perché… guai a chiudere la storia del sindacalismo nella più recente fase della storia economica e sociale, quella dell’economia industriale: come troppo spesso e dannosamente si fa. A suo modo, diversamente in ogni epoca, il sindacalismo è di sempre.
 
Insomma: oggi conosciamo benissimo, e dobbiamo conoscere, le impostazioni universitarie ed i libri in circolazione sulla materia, ma dobbiamo saper andare oltre. Andare verso la “storia totale” dell’uomo, anche nel campo del lavoro. Perché è l’unica storia che abbia veramente senso compiuto, per l’uomo, per la sua civiltà e per le sue prospettive. L’uomo è infatti persona integrale, non insieme di spezzoni scoordinati o casuali o settoriali nella vicenda esistenziale dell’individuo.
 
Ed è storia che va conosciuta, come accennavamo, a livello mondiale, non solo italiano: perché il mondo è stato in passato, ed è sempre più, integrato quanto ai problemi essenziali da affrontare. In fondo (e ancora una volta si dimentica troppo spesso, o si sottovaluta) una “globalizzazione” operava anche nel mondo greco-romano.
 

A livello mondiale, dunque: anche se l’Italia mantiene un posto privilegiato nei nostri approfondimenti, oltre che nel nostro cuore e nella nostra vita concreta: del resto l’Italia resta oggettivamente al centro della civiltà mondiale che cammina, con i suoi valori ed i suoi difetti.
 
Ma, attenzione: il sindacalismo non è semplicemente “storia”: è anche vicenda attuale, movimento in atto, che esige comprensione e visione approfondite, e, nella misura del possibile, anche incontri personali con le realtà concrete e con i protagonisti nei quali si incarna. Perché anche il mondo del sindacalismo è, in fondo, un mondo e una storia di persone concrete, diverse e complesse. Ogni giorno.
 
Come opera dunque il sindacalismo italiano di oggi? E quello estero? Quali ne sono i punti di forza e i punti di debolezza? Quali le prospettive possibili? Qual è il senso profondo della esperienza sindacale ai fini della crescita del bene comune nella società attuale? Vale la pena dunque fare i sindacalisti? Una vocazione profonda per una missione ancora incompiuta, incompiuta da sempre, ma da sempre fondamentale per la civiltà umana.
 
 
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Antologia

Per una riforma del sistema bancario europeo: la proposta sempre valida di Luciano Gallino

Riproduciamo un interessante spunto che fu già pubblicato da Studisociali, nella sua versione pre-sito, nel 2016, sulla interessante e lucida iniziativa di petizione allora rivolta al parlamento europeo, promossa proprio da Luciano Gallino e da alcuni suoi amici per la riforma, tuttora più che mai indispensabile, del sistema bancario e delle politiche finanziarie degli Stati.
 
Luciano Gallino, uno dei più grandi sociologi italiani del dopoguerra, è venuto a mancare da una manciata di mesi. Con lui la sociologia mondiale e quella italiana hanno perso una delle anime più attente alle dinamiche profonde del nostro tempo e, soprattutto, uno degli interpreti più profondi di Adriano Olivetti, con il quale lavorò a diretto contatto.
 
Pochi mesi prima di morire, Gallino si era fatto promotore, insieme con Eio Veltri e Antonio Caputo, di una petizione al parlamento europeo per chiedere un cambiamento radicale del sistema finanziario vigente nei paesi dell’Unione. 
 
La petizione ripete la posizione da lui sempre espressa sulla materia. Del resto, a ben pensare è quella che corrisponde, da sempre, anche al buon senso elementare del cittadino che risparmia qualcosa dei suoi guadagni e desidera affidarli a una banca perchè glieli custodisca in sicurezza, servendosene nel frattempo per finanziare investimenti in economia reale che facciano crescere la ricchezza di tutta la comunità. Eliminando così la speculazione impropria. Non occorre essere economisti, per capire questa logica elementare ed eticamente corretta. Ma per attuarla occorre non essere né dipendenti né servi di speculatori: banche degeneri, oscure finanziarie, fondi poco trasparenti, o altro di similmente speculativo.
 
Riproduciamo il testo della petizione dichiarandone tuttora la piena validità e condivisione da parte nostra. Le cose, in questi mesi, non sono affatto cambiate, quanto a politica finanziaria in Europa, in Italia e nel mondo: e siamo anzi ancora più preoccupati di allora, in quanto la situazione bancaria del nostro paese è parsa ulteriormente indebolirsi, la trasparenza delle intenzioni di governo è parsa ulteriormente mascherarsi, le minacce di uno scarico di tale situazione sui risparmi degli italiani è parsa farsi nuovamente ravvicinata secondo più di un osservatore. La riflessione critica di Gallino e di quanti l’hanno ripresa e sviluppata, o almeno diffusa, comincia comunque a scuotere molte coscienze e anche per questo ci sembra utile riproporla.

 
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Tra le cause della crisi economica che attanaglia l’Europa rientrano i difetti strutturali del sistema finanziario della Ue, evidenti soprattutto nei grandi gruppi bancari.
   
Lo sviluppo anomalo del sistema finanziario ha provocato gravi danni all’economia produttiva.
 
Da un lato i crediti che le banche concedono vengono utilizzati soprattutto per attività speculative, anziché per investimenti in capitale fisso, infrastrutture, ricerca, sviluppo di nuovi settori d’attività; dall’altro, la finanziarizzazione delle imprese industriali e dei servizi ha distorto i loro criteri di gestione e le ha indotte a spingere sempre più in basso le condizioni di lavoro e i salari.
   
Una riforma del sistema finanziario è pertanto necessaria quanto urgente.
 
Senza di essa una crisi ancora più grave di quella in corso ormai da otto anni potrebbe abbattersi sulla Ue.
   
Sappiamo che progetti di riforma del sistema finanziario sono in discussione presso la Commissione e alcuni parlamenti di paesi europei. Si tratta però di progetti lontani da ciò che sarebbe necessario per riportare la finanza al suo essenziale ruolo di servizio nei confronti dell’economia produttiva.
 
Ed è sin troppo evidente come essi siano stati redatti in accordo con le grandi banche e le loro lobbies.
   
I difetti strutturali del sistema finanziario Ue si possono così riassumere, insieme con alcune indicazioni su possibili linee di riforma:
   
            1) Nella Ue vi sono numerosi gruppi bancari che non solo sono troppo grandi per essere lasciati fallire, ma sono diventati talmente grandi da rendere impossibile salvarli nel caso fossero a rischio fallimento. Il loro bilancio in termini di attivi si avvicina e in vari casi supera il pil del paese in cui hanno sede. Appare pertanto indispensabile scomporli in entità di minori dimensioni. Varie strade sono praticabili, dalla separazione tra banche di deposito e banche di investimento, all’apposizione di un limite al volume di attivi che un istituto può detenere.
  
            2) I maggiori gruppi bancari sono troppo complessi sul piano internazionale per poter essere assoggettati a una efficace regolazione. Ciascuno è formato da migliaia di società sussidiarie giuridicamente indipendenti distribuite in tutto il mondo. Dopo il fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008 ci sono voluti anni di lavoro da parte di migliaia di analisti per capire quali e quanti fossero, e dove stavano, gli attivi e i passivi delle 2.500 società che formavano il gruppo. Il numero delle sussidiarie di ciascun gruppo dovrebbe pertanto essere drasticamente ridotto.
 
          3) Le grandi banche Ue intrattengono stretti rapporti con un gigantesco sistema bancario e finanziario ombra – formato da enti che non sono banche ma operano come banche - il quale secondo stime del Financial Stability Board detiene attivi dell’ordine di 23 trilioni di euro, una somma pressoché pari al totale degli attivi di tutte le banche europee. Pure le dimensioni del sistema bancario ombra dovrebbero essere fortemente ridotte, e quanto ne rimane dovrebbe venir assoggettato a una regolazione analoga a quella delle banche.
           
          4) Le banche europee hanno emesso col tempo titoli derivati per centinaia di trilioni di euro. Oltre il 90 per cento di essi sono “nudi”, ossia non corrispondono ad alcuno scambio reale di merci o servizi.
Giustamente sono stati definiti da molti esperti delle pure scommesse. Poiché, a parte il loro valore nominale, essi hanno un prezzo di mercato, la loro creazione è equivalsa a immettere nell’economia immense quantità di denaro fittizio, che ha contribuito a creare e fare esplodere la bolla immobiliare e finanziaria del 2008, e poi l’attuale bolla dei valori azionari. Pertanto l’emissione di derivati “nudi” dovrebbe essere vietata.
   

            Tutto ciò considerato, i cittadini europei firmatari della presente petizione chiedono al Parlamento Europeo, unico ente elettivo dell’Unione in cui essi si riconoscono, di farsi carico di una proposta di legge che affronti finalmente le distorsioni del sistema finanziario della Ue sopra richiamate.
 
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Servizi Pubblici

"BIGLIETTO, PREGO...": E TI SENTIVI SERVITO E PROTETTO

Mi dicono che l’11 novembre saremo chiamati a un referendum consultivo per decidere, come cittadini di Roma, se la gestione Atac, dopo la disastrosa prova di questi anni, vada messa a gara fra privati, oppure mantenuta in concessione ad azienda controllata dal comune, oppure passata a gestione diretta del comune stesso… Così mi pare di aver capito, genericamente. Non so bene, esattamente, di che si tratti: cercherò di informarmi meglio, sia per coscienza civica sia perché dell’Atac mi servo costantemente, viaggio con i suoi mezzi, ho la mia tessera annuale… E sono da molto tempo, e crescentemente, insoddisfatto e  sconfortato. Per il vero non mi pare che questo modo semi-silente di organizzare un referendum, per quanto solo consultivo, sia il modo migliore per affrontare i problemi della pubblica amministrazione in una città come Roma: ma non mi sottrarrò al mio diritto e dovere di votare. Intanto mi viene da ricordare qualcosa…
 
 
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Chi di voi si ricorda? Tanti anni fa, a Roma, i mezzi pubblici di trasporto non portavano sulle loro fiancate la pubblicità. Erano riconoscibilissimi anche per questo: il colore era verde, omogeneo, pulito; erano i mezzi di trasporto di tutti i cittadini. Si pagavano pochissime lire (ricordo benissimo il biglietto a cinquanta lire ma qualche amico più anziano di me lo ricorda anche a 25), e a bordo c’era, insieme all’autista, il bigliettaio. Staccava i biglietti e impediva l’evasione (dal pagamento del biglietto, non dall’autobus), controllava il buon comportamento e la tenuta in pulizia delle carrozze, dava informazioni, dava all’occorrenza anche qualche nozione di buona educazione agli utenti, proteggeva i passeggeri più deboli, fungeva da spalla per lo stesso autista, cosa preziosa specialmente nei turni di notte…
 
Gli incassi non andavano benissimo nel senso che mantenere con il solo provento dei biglietti il costo della macchina in servizio, più le due persone addette, più la struttura organizzativa di supporto (pensiline, pulizia, manutenzione dei mezzi…), effettivamente richiedeva una oculatissima gestione ed in più l’intervento di sostegno del bilancio comunale. Del resto, era appunto un servizio comunale, uno dei più importanti servizi comunali, per una città grande come Roma. Ma… che meraviglia di servizio, che splendore di sicurezza e che piacere viaggiare per Roma in quel modo!... E, relativamente ai tempi, gli stipendi dei lavoratori Atac non erano poi così bassi, anzi…
 
Poi, un giorno, a qualcuno venne l’idea geniale: perché non arrotondare le entrate dell’Atac consentendo un po’ di pubblicità, sulle fiancate esterne e all’interno degli autobus? Pubblicità decorosa, si capisce, ben educata, pulita… Come si deve su mezzi pubblici. Detto, fatto. E così venne l’arrotondamento delle entrate. Andò benissimo.
 
Dietro questa idea corretta, semplice ma pure a suo modo geniale, vennero pian piano altre idee, e nel giro di pochi anni venne l’idea genialissima: una di quelle idee che già sciamavano lungo l’Italia e che dicevano di una nuova modernità, questa volta non sociale ma di mercato (questa fu la parola magica, che veniva usata quando si parlava di economia pubblica in contrapposto alla economia privata, per la quale ormai il vocabolario giusto preferiva la parola businessl’imbastardimento della cultura sociale andava di pari passo con il crescere della terminologia e dei modelli economicistici nordamericani, e con la diffusione della lingua inglese che li portava). L’idea genialissima era… l’eliminazione fisica del bigliettaio: ma sì… roba da anni Cinquanta, il bigliettaio: roba da Italietta sentimentale. Dimezzamento dei posti di lavoro? Sì: ma… anche dimezzamento dei costi. E’ così che si fa, per far andare bene le cose. Business, diamine, benedetto business! Anzi, bisness, come lo chiamano loro, che da intelligenti quali sono scrivono diverso da come leggono e leggono diverso da come scrivono. Pare necessario che si sia brutti ed illogici, per andar di moda e, dicono loro, per far andare bene le cose (?!).
 
Per far andare bene le cose… Ma le cose di chi, scusate? Non certo della gente. Caso mai, le cose di chi già cominciava a pensare in termini di gestione amministrativa aùm aùm, fra politici che principiavano a dimenticare i padri che avevano lavorato con onestà per mettere in piedi i servizi sociali di una civiltà avanzata e solidale, senza rubare e senza straguadagnare. Politici nuovi in sostanziale connivenza di interessi con burocrati e tecnocrati di pari livello, nuovi e vecchi, e vertici analoghi di lobbies (centrali oscure di oscuri d’affari, e non, come a volte si dice traducendone il nome, corporazioni: queste furono a lungo entità ben più nobili ed aperte). E imprenditori sedicenti tali, dalla losca identità professionale, ma… attivi nella ricerca di “opportunità di bisness”.
 
Del resto, non soltanto la pubblica opinione ma neanche il sindacato dei lavoratori era ormai culturalmente in grado di contrastare una simile deriva di superficializzazione delle cose, né lo era quella che veniva ancora chiamata la “sinistra” politica in generale, preoccupata di “sdoganarsi” definitivamente davanti alla opinione pubblica più moderata e anche internazionale.
 
La qualità del servizio di trasporto pubblico, naturalmente, si sconquassò rapidamente e senza freni: e oggi “è quella che è”, come si dice. Il servizio è costantemente peggiorato, fino a oggi, e i prezzi dei biglietti sono costantemente saliti. Fino alla idea particolarmente “produttiva” del “biglietto a orario”. Dato che i mezzi non hanno orario garantito di passaggio, di garantito resta soltanto… l’entrata del biglietto. E vi pare che i conti di bilancio dell’azienda siano migliorati? Neanche per sogno. Perché… nel frattempo il direttore generale dell’Atac, mi dicono, ha come suo parametro stipendiale il doppio dello stipendio del presidente degli Stati Uniti d’America, più o meno. No, non del suo collega direttore generale della metropolitana di New York: proprio del Presidente degli Stati Uniti d’America. Per un lavoro così micidiale come quello che fa, mi augurerei di vederlo tutti i giorni sugli autobus, quanto meno, a controllare, ad assicurare il buon servizio, a prendere nota, a incoraggiare, e poi via a studiare, a progettare, a riunire il personale per migliorare ancora… A guadagnarsi il pane, insomma, sia pure un pane da presidente degli Stati Uniti d’America e oltre. Nessuno di noi sa, neanche per fotografia, che faccia abbia questo direttore generale Atac, o presidente che sia. Ciascuno di noi sa solo, come lo so io che ogni giorno mi muovo grazie ai mezzi Atac, che questi mezzi sono sempre più sporchi, sempre meno affidabili negli orari, sempre più pericolosi negli autisti palesemente non solo non formati ma neppure addestrati: l’umanità che trasportano, compresi anziani, bambini, malati, traballa, si sorregge come può, sobbalza, a volte cade… Dove sarà questo direttore generale, o presidente, che dovrebbe conoscere, controllare di persona, provvedere, vigilare, provare su di sé come funziona il suo prodotto…
 
Un po’ come il vecchio storico direttore del personale di Tirrenia Navigazione, del resto, quando il paese scoprì la fatiscenza ormai immascherabile della grande compagnia nazionale di navigazione che consentiva a noi sardi di essere collegati con l’Italia a prezzi ragionevoli (oggi di ragionevole, anche in Tirrenia, trovo a stento la scaletta o il ponte di accesso a bordo nave: e a volte neanche quella; un altro miracolo delle “privatizzazioni” da bisness).
 
Il biglietto dell’Atac costa carissimo, ormai, e rende pochissimo. Eppure all’Atac non basta ancora: come accennavo, i suoi dirigenti hanno inventato, importandolo da qualche luogo estero, anche il meccanismo del “biglietto orario”: il quale presuppone che tu possa viaggiare, al costo del biglietto, per un tot di tempo. E andrebbe bene, se i tempi di attesa dei mezzi,  e ancor più i tempi di coincidenza fra un mezzo e l’altro, non valessero da soli metà, spesso due terzi, a volte tre quarti, del tempo di validità assegnato al biglietto: come dire, paghi un’ora di trasporto ma ne passi in autobus meno di metà, e se l’autobus non passa so’ cavoli tua, per esprimerci con i romani. Perché l’autobus a volte non transita, o meglio non si sa se e quando transiterà. Se poi il biglietto ti servisse soltanto per i cinque minuti che ti occorrono da casa tua al vicino ospedale, affari tuoi: il prezzo è esattamente come se tu viaggiassi per un’ora e mezza facendo il giro della città. Più semplice di così…
 
Questa mattina, in compenso, Atac ha inviato a casa mia, per posta, un elegantissimo libretto cellophanato, dal titolo Atac Vantaggi. Commenta la stessa copertina, alla lettera: Fila via su Atac.roma.it. Da oggi puoi richiedere e ricaricare online il tuo abbonamento annuale o mensile su card elettronica. Fai subito un salto sul sito Atac e scopri quanto è facile, comodo e veloce. Chissà se i compagnoni dell’Atac si rendono conto dell’ironia di quell’ultimo facile, comodo e veloce. Caratteristiche quotidiane dei loro autobus, come sanno i romani!
 
Piuttosto stanco e indignato, apro il libretto per la curiosità di vedere fino a che punto arrivi l’impudenza: ma non arriva ad alcun punto. Tutto c’è, nel libretto, tranne ciò che riguarda il servizio Atac ai cittadini, che è l’unica cosa per la quale i cittadini vogliono essere disturbati dall’Atac. L’Atac invece ti parla,  con le pagine fitte fitte fitte e sceme sceme sceme di questo libretto, di tempo libero e shopping (in inglese, per carità, si sa mai gli utenti subodorassero l’imbroglio), di cultura (persino) e musei, di teatro e musica, di assicurazioni e carte di credito. E nelle ben sessantadue pagine fitte fitte fitte e sceme sceme sceme si susseguono Vitaldent Unicredit Acquacottorella Romacalcio Rainbow Corsiditedesco Casina di Raffaello Salaumberto e mille e mille altre cialtronerie (che tali non sarebbero se stessero al loro naturale ed onesto posto; ma stanno solo ad aiutare Atac a fregarci tutti, facendoci dimenticare disservizio e stracosto dei biglietti, che è l’unica cosa che ci importa).
 
Ma no… ho detto che tutte queste cose sono “fitte fitte fitte e sceme sceme sceme”: non è vero; non sono affatto sceme per quei bravuomini (e brave donne: purtroppo è proprio una condizione di “pari opportunità”) che dentro la festaiola cuccagna hanno fatto fino a oggi affari d’oro: lauti stipendi, poco lavoro, nessuna responsabilità. Più bravi di così… Alzo gli occhi al cielo (o, meglio, al tetto dell’autobus, perché è da lì che mentalmente vi penso e vi parlo, in attesa di scrivervi, e gli occhi mi sbattono sulla pubblicità appesa a nastrini che ti arrivano sulla fronte, o incassata nelle commessure dei finestroni, e vedo una frase ambigua e lubrica che vorrebbe fare pubblicità a un profumo: già, l’ingresso dei soldi da fonte pubblicitaria non serve ad aiutare il dubitabile bilancio Atac ma a ricordare ai superstiti del buonsenso che a tutto sono interessati i dirigenti incravattati dell’Atac e del Comune, fuorchè al problema educativo che la pubblicità può porre per i nostri ragazzi, persino nei mezzi del trasporto pubblico. Criptopornografia, ma… ciò che conta sono i soldi, infine. Continuare così?...
 
Dicono che il giorno 11 novembre saremo appunto chiamati a referendum consultivo per stabilire se la gestione Atac dovrà essere messa a gara fra privati o restare pubblica. A me pare un’ulteriore cialtroneria a danno di tutti noi: non è infatti questione di gestione privata o pubblica, ma di regole, di cultura e di moralità, comprese le funzioni sacrosante e trascuratissime di controllo. Con responsabilizzazione di tutti, compresi i cittadini utenti.
 
                                                                                                                             (Giuseppe Ecca)
 
MM
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Società

MIO ZIO ATTILIO E UNA GRAN BELLA AVVENTURA

Chissà perché il mio grande amico Silas non vuole saperne di firmare i suoi pezzi con il vero nome ma preferisce questo ininterpretabile Silas: tanto più interessante, il quesito, per il fatto che Silas ha davvero una penna raffinata e vivace, immaginosa ed attenta… doti che sarebbe bello sentirsi onestamente riconoscere dai lettori anche quando ci si incontra per strada. Ma non posso fare violenza alla sua precisa volontà: la firma sarà, ancora una volta, questo antipatico “Silas”. Ma il pezzo resta di un acuto ed elegante umorismo dietro cui si sviluppa una osservazione solo apparentemente bonaria su quei “mali quotidiani” che la città più bella del mondo, la nostra Roma, di cui sia Silas sia io siamo cittadini di adozione e appassionati tifosi, pare non riuscire a scrollarsi di dosso nonostante la loro così invasiva evidenza e nonostante il sostegno di quell’entusiastica folla che appena qualche anno fa ha gridato “Questa volta ci avemo la sindaca donna e vedrete come tutto migliorerà: noi donne pe’ Roma, finalmente… ve famo vede…”.
 
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L’altro giorno ho deciso di andare a trovare mio zio Attilio.
Lo zio è sempre stato considerato il saggio della famiglia, sebbene in alcuni momenti in passato si sia comportato quasi come uno scapestrato. Non si è mai sposato ma ha sempre avuto molte donne e, da quello che mi raccontavano i miei genitori, ha sparso il suo seme per il mondo contribuendo così al problema del sovraffollamento: infatti ha girato il mondo – non ho mai capito se per lavoro o per diletto – e ancora oggi continua a viaggiare, anche se io sospetto che lo faccia per andare a trovare qualche sua vecchia fiamma o il frutto delle sue passioni; in fin dei conti, ancora oggi che ha raggiunto una certa età, con il suo aspetto da gran signore, alto con capelli folti, barba e baffi ormai completamente bianchi, continua ad esercitare il suo fascino e ad essere coccolato da belle signore.
Ma sto divagando… Forse un giorno, se ne avrò tempo e possibilità, racconterò meglio di questo mio singolare parente. Stavo dicendo che per me visitare lo zio significa attraversare esattamente tutta la città, abitando egli nella parte opposta a quella dove risiedo io. E per una volta, ho pensato, me la prendo comoda, cercherò di utilizzare i mezzi pubblici e di godermi il più possibile il “viaggio”… perché di vero e proprio viaggio si è trattato.
Per arrivare alla prima fermata utile della metropolitana ho dovuto usare l’auto (nel mio quartiere l’unico autobus passa – se passa – ogni mezz’ora nelle ore di punta) ed ho percorso – quindi – gran parte di quella lunga strada che collega Roma con il suo quartiere sul mare, Ostia Lido, passando dall’Eur. Ora, dovete sapere che sin da quando ero bambino e percorrevo questa strada con mia madre sulla sua mitica Seicento, si parlava molto di un sistema automatico per sincronizzare i semafori – che sono numerosi, visti i tantissimi incroci – in modo da trovare sempre via libera, una volta trovato il primo semaforo verde, ed evitare le continue fermate con il rosso. L’avevano chiamata “Onda Verde”, questa ingegnosa soluzione e sembrava un toccasana per risolvere almeno in parte il problema del traffico. Sono passati cinquant’anni e, come parecchie cose nel nostro Paese, non se n’è fatto più niente, di “Onda Verde” è rimasto solo uno sbiadito ricordo ed il titolo di una trasmissione radio che si occupa appunto di traffico. E quando si percorre questa benedetta strada, ovviamente e chissà perché, si incrociano sempre tutti i semafori rossi!
Diciamoci la verità: è una strada molto bella, specie nel tratto che dall’Eur corre verso il mare, affiancata da pini ormai quasi secolari (ogni tanto ne cade uno, per vecchiaia o malattia o scarsa cura – ancora non si è capito bene – e qualche motociclista ci lascia le penne); ora, poiché le radici di questi alberi hanno la strana fissazione di cercare la superficie come se volessero emergere a cercare l’aria e il sole, sta di fatto che l’asfalto si è rigonfiato e spaccato in moltissimi punti, rendendo la via più simile ad un percorso di guerra che ad una strada di scorrimento e la nostra amministrazione comunale, notoriamente a corto di denaro, ha scelto – per evitare ricorsi e contestazioni in caso di incidenti – di imporre un limite di velocità, 50 km orari, e nel tratto più urbano 30 km, in attesa di interventi “più definitivi”. Tant’è…
Comunque, imboccata con la mia potente auto (per modo di dire) la ormai ben descritta strada, al primo incrocio (con semaforo ovviamente rosso) sono stato circondato da venditori di giornali e riviste di tutti i tipi; al secondo semaforo rosso ho respinto con garbo i lavavetri e i lava fanali anteriori; al terzo, un venditore di chitarrine ha tentato di appiopparmene una e mi ha guardato con evidente disprezzo quando ho fatto capire che non ero interessato alla musica; al quarto, mi sono rifiutato di comprare un mazzo di rose rosse oppure un panno di pelle artificiale per pulire i vetri; al quinto, ho trovato una squadra di barboni che, con molta dignità, chiedevano qualche soldo; al sesto semaforo, quello in genere più congestionato, sono improvvisamente comparsi un ragazzo e una ragazza che hanno eseguito in mezzo all’incrocio due minuti di esercizi di equilibrio con palle e birilli: non vi dico l’entusiasmo degli spettatori per questo spettacolo di alta acrobazia circense veramente bello, ma soprattutto – ho il forte sospetto - perché eseguito da una bella ragazza che indossava con disinvoltura una calzamaglia trasparente e appiccicata addosso come una seconda pelle.
Bene, giunto finalmente alla fermata della metropolitana, dopo aver trovato – dopo mezz’ora di ricerche -  un parcheggio “impossibile” a meno di non ricorrere a strani personaggi più con l’aspetto di pugili che di posteggiatori (abusivi), sono riuscito al terzo tentativo ad entrare in uno dei vagoni della metro, vagoni così affollati di gente che per tutto il viaggio non c’era bisogno di “reggersi agli appositi sostegni”, ci si reggeva in piedi l’un contro l’altro, tra ascelle evidentemente refrattarie all’acqua e sapone, colpi di tosse  e starnuti con annessi spruzzi. Nonostante l’affollamento, il nostro viaggio è stato allietato da suonatori di ogni tipo: fisarmonica, chitarra con accompagnamento di altoparlante a rotelle, strani strumenti tipo xylofono ma di evidente fabbricazione artigianale, mentre il programma spaziava dalla musica rock a quella più romantica con evidente preferenza per quella melodica. Ad una fermata è salita una zingara (non so se ancora si può usare questo termine o si rischia di essere tacciati di razzismo, omofobia o altre definizioni oggi usate dai benpensanti): i frequentatori di questa linea la conoscono bene, sono più di trent’anni che chiede – con le stesse parole – qualcosa per comprare un poco di latte per il suo figlio appena nato… deve essere un miracolo di fecondità, vista l’età ormai più che avanzata.
Bene o male, dopo più di mezz’ora di tragitto, sono riuscito finalmente a raggiungere l’agognata meta.   
“Caro zio – ho detto al mio saggio parente dopo i convenevoli d’uso – ora ti racconto il mio viaggio per venirti a trovare”… ed ho narrato le avventure capitate.
“Vedi, caro nipote – ha fatto mio zio – sei stato molto fortunato e non te ne rendi conto. Ti lamenti di buche e di limiti di velocità assurdi ma non capisci che non è cattiva intenzione o incuria quella dei nostri amministratori, anzi è una grande furbizia: evitare i dossi e le cunette costringe i guidatori e soprattutto i motociclisti ad una continua attenzione e a moderare la velocità, diventa una sorta di gara, ed è un po’ come quel gioco, ti ricordi?, che quando eri bambino ti portai da un mio viaggio ad Hong Kong: bisognava guidare una pallina di legno in una sorta di percorso obbligato evitando che cadesse in una delle numerose buche (e tu non ci riuscivi mai)… E i limiti di velocità sono una soluzione obbligata, non tanto per il limite in se stesso – che per una strada di grande scorrimento è evidentemente assurdo - ma per il fatto che si impone una velocità talmente minima nella speranza che il sicuro superamento rientri in un limite accettabile: vedi, noi italiani siamo per natura  insofferenti alle limitazioni e allora bisogna imporre divieti molto pesanti perché siano rispettati almeno in minima parte: hai mai fatto caso che in Italia sui cartelli che impongono una proibizione c’è sempre scritto “Severamente proibito” o “Divieto assoluto” quando basterebbe semplicemente la parola “Proibito” o “Divieto”, come se senza l’aggiunta rafforzativa si fosse ugualmente autorizzati ad ignorare tale proibizione? Sì, nessuno rispetterebbe mai un divieto semplice, cose che accadono solo nel nostro Paese. E tutti quei personaggi che bivaccano a questi benedetti incroci? Ringraziamo il cielo… si, mi ricordo anch’io della famosa idea dell’Onda Verde ma evidentemente i nostri amministratori che si sono succeduti negli anni sono stati lungimiranti: pensa cosa sarebbe successo se non vi fossero state tutte queste soste ai semafori rossi, cosa sarebbe stato di questi pseudo venditori, come avrebbero fatto a sostentarsi? E pensa anche al servizio che ci viene reso: noi italiani stiamo diventando sempre più pigri, per comprare il giornale ci saremmo dovuti fermare in edicola, magari sostando in terza fila e bloccando il traffico, pensa che caos; e avremmo dovuto passare magari una mezz’oretta della nostra beneamata domenica a pulire il parabrezza, cosa che un lavavetri extracomunitario riesce a fare benissimo in una trentina di secondi. Non mi meraviglierei se in un prossimo futuro una squadra bene organizzata riuscisse a lavare completamente una macchina in quei due minuti di sosta al semaforo. Già adesso ho sentito dire che per ovviare al problema degli spiccioli (spiccioli per modo di dire perché non dimentichiamoci che l’euro che oggi sborsiamo con tanta facilità equivale a ben duemila lire di una volta) qualche “venditore” sta pensando di dotarsi di apparecchio bancomat: vedi, nipote, la necessità aguzza l’ingegno… Mi incuriosisce, invece, l’esibizione dei due giocolieri, ma non più di tanto: in fin dei conti tutti noi siamo stati bambini e allora lo spettacolo del circo era una cosa che ci entusiasmava. Bene, in noi è sempre rimasto un po’ dell’animo di quel bambino, anche adesso che siamo adulti, e vedere certi spettacoli ci allieta la giornata, soprattutto se sono eseguiti da una bella fanciulla”.
“Ma zio – ho fatto io – cosa pensano di noi gli stranieri che vengono nel nostro Paese? Non è una pubblicità negativa, anche per il turismo?”
“Caro nipote – ha risposto lui – ancora non hai compreso certe cose… il turista è ammirato da quello che vede nel nostro Paese,  non viene qui soltanto per le bellezze naturalistiche o architettoniche ma anche e soprattutto perché l’Italia è come un grande parco giuochi, dove incontri uno spettacolo ad ogni angolo di strada: giocolieri, lavavetri, barboni, venditori di qualsiasi genere e dove – soprattutto – non ci sono proibizioni o divieti, se non puramente formali. In Italia si può far tutto quello che all’estero si sognerebbero soltanto: tuffarsi nelle fontane, incidere monumenti, gettare immondizia nelle strade, attraversare fuori delle strisce, salire gratuitamente su bus e tram… è tutto un grande giuoco ed è tutto gratis, chi vuoi che controlli, salvo qualche rarissimo caso in cui uno sfortunatissimo giocatore viene colto sul fatto da qualche “vigile” troppo zelante. Ma anche in questo caso, cosa vuoi che succeda, basta ascoltare la ramanzina di turno, non pagare l’eventuale contravvenzione e tornare tranquilli e beati al proprio paese, contenti di aver vissuto uno spettacolo indimenticabile. Quando mai fuori d’Italia potresti godere di questa libertà? Prova a non pagare il biglietto del bus o della metro in qualsiasi paese estero, o a buttare qualcosa per terra e vedrai che la vacanza sarà indimenticabile, sì, ma in un altro senso. Detto tutto ciò, pensa a quanto siamo fortunati noi, che lo spettacolo lo viviamo tutti i giorni in casa nostra, senza spendere un soldo… E in metropolitana la musica, la calca, gli odori rendono ancora più folkloristica la situazione: gli stessi giapponesi – che per cultura ed educazione hanno un innato senso di rispetto per il prossimo e si coprono naso e bocca quando sono raffreddati non per  proteggersi ma per non contagiare gli altri, gli stessi giapponesi – dicevo – sono stupefatti ma felici quando qualcuno in Italia gli starnutisce addosso: quando mai al loro paese potrebbe succedere qualcosa del genere, non gli capiterà mai più e potranno raccontare a parenti e amici quel senso di libertà che solo in Italia si può provare. Tutto questo da noi è normale, anche se qualche volta un benpensante o una persona troppo contegnosa può manifestare un senso di fastidio, mentre ad uno straniero riesce a dare ancora un piccolo brivido.
Vedi dunque, possiamo stare tranquilli, noi italiani, in fin dei conti è tutto un enorme giuoco e dovremmo essere proprio fieri di esserne gli attori principali. Ma adesso ti devo lasciare, nipote adorato, ho una cara amica che mi aspetta e tu sai che  - soprattutto alla mia età – non è bene fare aspettare una signora. E soprattutto devo attraversare tutta la città perché questa gentile signora abita proprio – guarda caso – dalle parti tue”.
“Bene zio – ho fatto io – allora possiamo fare il tragitto insieme e poi ti darò un passaggio con la mia auto…”
“No, caro nipote, ti ringrazio ma io ho già goduto abbastanza degli spettacoli che mi hai raccontato e non credo che alla mia età sarei in grado di sopportarli ancora. Certo, lo spettacolo della bella equilibrista in calzamaglia mi attirerebbe ma devo arrivare in buone condizioni all’appuntamento e preferisco chiamare il mio solito buon taxi. Vai pure, nipote, goditi di nuovo questa meravigliosa avventura e se dovessi incontrare al semaforo rosso il venditore di chitarrine, acquistane una, da piccolo eri tanto bravo e desideroso di imparare a suonare!”
                                                                                                                                    
(Silas)
 
 

Politica economica

UN "COMITATO PER LA STRATEGIA"?

Ma il Cnel no, decisamente no: una struttura costosa e pesante, ormai da anni del tutto inutile, che ha esaurito il suo compito rispetto a quando il parlamento ed il governo avevano utilità e forse anche bisogno, nell’immediato dopoguerra, di un’alta consulenza istituzionale per la loro legislazione economica e sociale. Il Cnel è oggi uno dei costi che vanno assolutamente  aboliti, e le cui risorse vanno restituite alla collettività produttiva attraverso lo Stato.

E neppure un altro ente costoso, di quelli composti di tronfi soloni universitari chiamati, a suon di pesanti gettoni di presenza, a pronunciarsi ampollosamente e quasi sempre inutilmente su cose che il governo può e deve sapere da sé, con la semplice istituzionale consulenza dei suoi propri tecnici, pagati dalla collettività apposta per questo. E, tutt’al più, con l’aggiunta di qualche specifico esperto di volta in volta inerente alla materia trattata.

Insomma, professor Fadda, niente ulteriori costi per ulteriori strutture, in uno Stato già affogato da strutture e costi elefantiaci, improduttivi e non raramente corrotti.

Però la esigenza da lei posta è vera, profonda, e importantissima: bisogna restituire respiro lungo alla politica economica dello Stato ed alle sue strategie di sviluppo. Non ne possiamo più di bellocci senza cultura profonda che appaiono in tv con linguaggio fluente ma vuoto di contenuti, a pontificare sugli ultimi provvedimenti congiunturali od a pioggia che hanno deciso di largire a questa o quella corporazione del paese.  Ministri e politici che sono purtroppo, allo stato attuale e da molti anni, di profilo preoccupantemente basso, nel nostro paese, a prescindere dalle loro appartenenze politiche, e devono reimparare proprio a pensare lungo, oltre che a pensare bene. Ci vuole dunque uno strumento che li aiuti.

E chiedo, ad esempio: perché non reintrodurre intanto quegli antichi “comitati interministeriali per la programmazione” che così proficuamente funzionavano un tempo, durante la prima repubblica, e facevano  semplicemente ma efficacemente incontrare ministri e rispettivi esperti sui  problemi o programmi o progetti di comune o contiguo interesse, proprio per consentire al governo di “programmare” con lungo ed organico respiro? La loro abolizione, con la quasi contemporanea creazione di mostriciattoli costosi ed inutili come le ambigue “authorities”, aggiuntesi al già esistente e parassitario Cnel, è una delle astruserie inventate dalla superficialità della “nuova” politica.
 
Oppure… ci restituiscano quei lenti ma espertissimi direttori generali di lungo corso che costituivano spesso la luce e la continuità delle gestioni ministeriali, e aiutavano i ministri a ragionare, appunto, in termini di decenni e non di semestri. E pongano termine allo spettacolo dei ragazzotti masterizzati e delle bellocce rifatte, che il sistema dello “spoilsystem” piazza ormai anche nei ruoli ministeriali più delicati senza che sappiano neppure parlare in italiano e dirigere la loro lavastoviglie domestica. E ne vediamo e paghiamo gli amari risultati.
Insomma, siamo del tutto d’accordo sul fatto che ci sia necessità di restituire respiro lungo all’azione dei governi: ma va fatto alleggerendo e collegando le attuali strutture, non creandone di nuove. (Giuseppe Ecca).
 

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Se si osservano le varie aree di intervento della politica economica degli ultimi anni (e non solo), se si considerano le diverse articolazioni delle politiche pubbliche, se si considerano le destinazioni cui è stata indirizzata la spesa pubblica, non si può non avere l’impressione che  tutto questo riveli un disordinato brancolare nel buio. Non prendiamo in considerazione per il momento quella parte di scelte di politica economica e di spesa pubblica ascrivibile a tutela di interessi privati se non addirittura a collusioni col mondo degli affari o del malaffare. Sebbene non possiamo escludere che per molti protagonisti della vita politica questa rappresenti soltanto uno strumento per inserirsi a proprio vantaggio nel mondo degli affari, non è di ciò che ora vogliamo parlare.

A costo di apparire ingenui assumiamo quindi l’ipotesi che le scelte e le misure predisposte non siano influenzate da elementi di quel genere, ma siano formulate con l’obiettivo di rispondere alle esigenze di un sano governo dei processi economici e sociali per massimizzare il benessere collettivo. Ma esaminando sotto questa luce i provvedimenti adottati si notano due cose. In primo luogo una mancanza di integrazione e anche di semplice coordinamento tra gli interventi adottati nei diversi settori. Gli interventi in materia di politiche del lavoro non sono integrati con gli interventi in materia di politica industriale, gli interventi in materia di politica industriale non sono integrati con le linee della politica di sviluppo; quest’ultima non appare come punto focale di tutte  le politiche, incluse quindi le politiche fiscali, le politiche della ricerca, le politiche ambientali, le politiche energetiche, le quali tutte a loro volta non appaiono coordinate fra loro. E così si potrebbe continuare. In secondo luogo, si nota che anche all’interno di uno stesso ambito le misure adottate non sono organicamente concepite come parti di un disegno coerente finalizzato al raggiungimento di obiettivi chiaramente definiti. Se questi due aspetti rappresentano due vizi strutturali rilevabili nella azione continua degli organi di governo nazionale e locale, si raggiungono poi punte di manifesta assurdità quando si vedono infilare, in provvedimenti legislativi formalmente intestati ad un obiettivo specifico, emendamenti di natura completamente estranea a questo, contenenti misure e impegni di spesa che dovrebbero essere invece formulati e valutati nell’ambito del quadro programmatico cui per loro natura appartengono.

Comunemente la causa di questa situazione viene attribuita ad un difetto di “governance”: secondo questa opinione l’architettura istituzionale e la configurazione dei processi decisionali sarebbero tali da impedire quel coordinamento e quella armonizzazione degli interventi di politica economica necessari per garantire efficacia ed efficienza all’azione delle politiche pubbliche. In effetti, accade spesso che una amministrazione o un assessorato predisponga misure e piani di azione non soltanto senza alcun  coordinamento ma addirittura ignorando l’azione degli assessorati o delle amministrazioni vicine. Questo è sicuramente vero, e un profondo aggiustamento dei processi decisionali che impedisca questa pratica sarebbe necessario. Tuttavia esiste un’altra ragione  più profonda all’origine di tale situazione, una ragione che non verrebbe meno neanche se i meccanismi decisionali venissero migliorati. Questa ragione consiste nell’assenza di un quadro strategico di riferimento di lungo periodo.

Ormai le trasformazioni strutturali dei processi economici e geopolitici sono talmente rapide e talmente profonde che un sistema economico rischia di trovarsi al collasso se le azioni di governo, anziché basarsi su scelte strategiche fondate su una attenta e corretta individuazione delle linee evolutive in atto, vengono episodicamente decise senza un orientamento strategico,senza una visione sistemica. Se si continua a procedere con misure di corto respiro, volte a tamponare con interventi disorganici di breve periodo questa o quella singola emergenza senza aggredire, anzi senza nemmeno individuare, le cause di fondo,  il rischio di un irreversibile sfacelo economico e sociale è troppo alto.
Occorre esaminare a fondo i termini della sfida che le profonde trasformazioni dello scenario economico globale pongono alla nostra economia ed alla nostra società. E’ assurdo pensare che i problemi dell’approvvigionamento energetico, i problemi dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, i problemi della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, i problemi della divisione internazionale del lavoro, della struttura produttiva e della produttività, i problemi delle migrazioni, i problemi del sistema educativo, i problemi dello stato sociale, i problemi di natura ambientale e climatica, i problemi della stabilità finanziaria, i problemi della globalizzazione, i problemi dell’Unione Europea, in altre parole i problemi fondamentali che mettono oggi sotto scacco la nostra società, possano essere affrontati senza un orientamento strategico fondato su una comprensione delle trasformazioni economiche e geo-politiche in atto. Tutto questo deve essere oggetto di approfondita analisi con l’obiettivo di definire una strategia organica in cui tutto il sistema si inquadri ed alla quale le scelte di governo possano ispirarsi e coerentemente collegarsi.

Ma di ciò non è traccia nel nostro paese. Il governo (uso il termine in senso lato per indicare l’insieme dei soggetti che a tutti i livelli sono responsabili delle politiche pubbliche) procede come un’armata “brancaleone”; un incentivo di qua, un sussidio di là; un’opera stradale di qua, un raccordo ferroviario di là; un taglio di tasse di qua, una nuova tassa di là, e così via.

E’ mai possibile che non si trovi un momento e una sede istituzionale in cui esperti, studiosi  e operatori si raccolgano non per fare chiacchiere ma per mettere a fuoco (senza l’affanno e i condizionamenti delle scadenze immediate)  i nuovi i termini di questi problemi fondamentali e per delineare le appropriate linee strategiche per affrontarli? A questo scopo sarebbe necessario che un qualche soggetto (e non potrebbe essere certo il governo, che correrebbe il rischio di intervenire con logiche poco appropriate) convocasse una sorta di “Stati Generali” per fare “il punto nave” e stabilire la rotta migliore e le priorità da affrontare perché il sistema Italia possa navigare senza il rischio di affondare in questa fase di tumultuose trasformazioni.  E’ un appello quasi disperato che ci viene da fare perché un soggetto, o una coalizione di soggetti, prenda l’iniziativa e si faccia carico di questo compito di grande responsabilità.  Potrebbe  essere il Cnel (che non essendo stato abolito dovrebbe avere l’obbligo di dimostrarsi utile); potrebbero essere (azzardiamo) i Centri Studi di riferimento delle organizzazioni sindacali; potrebbero essere altri, ma qualcosa deve nascere.

Tuttavia, questo, che pure costituisce un primo passo necessario, non sarebbe sufficiente. C’è bisogno di qualcosa di più strutturale e di carattere permanente, che superi i limiti di una riflessione circoscritta ad un solo istante del tempo. C’è bisogno di verifiche e di  aggiornamenti continui della strategia di fronte al continuo evolvere degli scenari economici e sociali. Ci sarebbe bisogno di una sorta di Comitato permanente per la strategia”, del tipo dell’organismo costituito in Francia. Lì il  “Commissariat général à la stratégie et à la prospective (CGSP) ”, costituito nel 2013, ha il compito di elaborare per il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Parlamento un rapporto annuale sui grandi orientamenti per l’avvenire della nazione, sugli obiettivi di medio e lungo termine dello sviluppo economico e sociale e sulle riforme necessarie. Esso è formato da studiosi (non da esponenti  “istituzionali”, come invece sarebbe successo in Italia) e a sua volta coordina una rete di commissioni specialistiche per approfondire specifiche aree problematiche. I suoi rapporti forniscono le linee guida per tutte politiche pubbliche. Forse questa esperienza è degna di considerazione, se si vuole abbandonare il consueto procedere episodico e frammentato che, oltre ad essere inadeguato rispetto alle grandi sfide, si rivela molto spesso fonte di sprechi di spesa pubblica e di interventi sbagliati.
                                                                
                                                                                                                                      (Sebastiano Fadda, per Isril)
 
 

Impresa e società

ANDREA AVEVA CAPITO TUTTO: ED E' NEL PANTHEON DEI GRANDI DEL LAVORO

Direte che è una fissa, la nostra, per la impresa partecipativa. Sì, lo è. Perché più studiamo e osserviamo, più le vicende dell’economia, della politica, della società, e della vita umana in generale, ce lo confermano. Ci vuole Olivetti. Non è il profitto che fa sviluppo, ma la cooperazione, la condivisione attiva, la corresponsabilità, la cointeressenza. Sul fondamento di un chiaro primato valoriale: la persona e la comunità. Con diritti e doveri, contemporaneamente e per tutti.

E non è vero che, in una fase storica di grande debolezza da tale punto di vista, per via della dominanza oscura e strafottente di una concezione finanziarista e speculativa dell’economia e non solo di essa, non vi siano esempi robusti che vanno controcorrente. Chi ci conosce ci sente nominare spesso Loccioni, ma è solo un esempio fra quelli più noti: in realtà crediamo di poter dire, per esperienza, che in Italia abbiamo decine e decine di casi simili, sottratti ai riflettori della stampa e della politica prevalenti, ma non per questo sono casi deboli o rassegnati: abbiamo anzi l’impressione, come Studisociali accennava di recente, che la piccola fiamma partecipativa, ben lungi dallo spegnersi,  stia cercando la sua strada per riprendere a divampare in fuoco benefico, e tornare a riscaldare la speranza della società in una economia a misura di persona e di comunità. In una autentica “econoimia”. Intanto… riportiamo la piccola notizia così come, con estrema semplicità, la stampa ce l’ha consegnata, qualche mese fa. E’ un altro caso esemplare. (Egius).
 
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Si tratta della bella e recentissima storia di Andrea Comand, piccolo imprenditore di trentanove anni, in quel di  Mortegliano, territorio di Udine. Un bravo piccolo imprenditore “fattosi da sé”, con la esperienza del lavoro dipendente alle spalle, con una bella famiglia, e con un bel cuore. Un tumore lo ha mortalmente aggredito però nel cuore degli anni e nel pieno della sua attività lavorativa, nel pieno della crescita della sua impresa: così Andrea è morto, pochi mesi orsono, lasciando, oltre che uno splendido ricordo di sé come persona, una sorpresa testamentaria che è scuola di vita e incoraggiamento morale per tutti.

La sua impresa era un’officina meccanica con 5 dipendenti, da lui creata nel 2011 dopo aver maturato altre esperienze di lavoro. Ebbene, nel suo testamento Andrea, consapevole di quanto gli stava accadendo, ha disposto che alla sua morte l’impresa passasse ai suoi dipendenti, alle persone cioè che con lui avevano “fatto” l’impresa stessa lavorando ogni giorno in piena condivisione di tutto: fatiche, risultati, difficoltà, soddisfazioni.

Per quanto stretto fosse il rapporto di lavoro, di amicizia, di solidarietà fra il giovane imprenditore e i suoi colleghi di lavoro, questi ultimi non si aspettavano un gesto così totale di coerenza anche al termine della vita: e hanno voluto rendere pubblico il loro sentimento con una lettera aperta. “Ci ha spiazzati – scrivono in essa Dorina Bulfoni, Andrea Benvenuto, Andrea Cuzzolin, Giuliano Fabro e Simone Zanin – con i suoi gesti istintivi, diretti, concreti, impegnativi ma fatti con il cuore. Ci ha insegnato a camminare da soli perché non era una persona gelosa del suo sapere ma orgogliosa di far crescere le persone che aveva scelto alle sue dipendenze. Siamo stati sempre coinvolti, partecipi, spronati al fine di raggiungere gli obiettivi aziendali: sempre tutti insieme, come insieme abbiamo affrontato il suo periodo di malattia”.

“Il nostro motto – aggiungono questi colleghi di lavoro e di vita – è stato sempre: Non lasciamolo solo ma stiamogli accanto come una famiglia. Lo abbiamo fatto, lo faremo restando una famiglia unita e facendo vivere il sogno di Andrea: per ringraziarlo di ciò che ci ha dato ma soprattutto per fargli ‘vedere’ che grande maestro è stato donandoci le sue quote insieme alla sua fiducia”.

Altri casi, meno rari di quel che si possa pensare, costellano questo ulteriore esempio luminoso che va ad arricchire il pantheon dei grandi del lavoro umano. Esso va assunto come scuola morale ma anche politica, imprenditoriale ed economica, perché l’unica impresa che ha effettiva sicurezza sostanziale di essere duratura e di generare sviluppo nella società in cui opera è proprio l’impresa totalmente e trasparentemente condivisa fra quanti vi operano. Non è visione semplicisticamente idilliaca, questa: tanto è vero che in essa anche la disciplina diventa più stringente, e vi hanno vita meno facile, anzi pressochè impossibile, i furbetti del cartellino, gli abbonati alle malattie del fine settimana, i parassiti che non vogliono continuare a imparare cose nuove…

E i posti di lavoro tendono a crescere.
 

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MM

Economia e società

"LA FABBRICA PER L'UOMO, NON L'UOMO PER LA FABBRICA

Le parole del titolo, virgolettate, sono di Adriano Olivetti. E forse… finalmente, ci siamo: una fiammella sembra, lenta lenta, principiare a riaccendersi sul pensiero e sull’esempio del grande imprenditore italiano. Si chiama centralità del lavoro nell’azienda, centralità della persona nell’economia.
 
Che le forze del male, e più superficialmente quelle brute del materialismo, tornino, nel corso della storia, a dare, con frequente successo, i loro assalti alla città dei diritti umani ed alla sua dimensione solidale e spirituale, non fa alcuna meraviglia: è il tessuto della storia umana, appunto.
 
Fa meraviglia, e non può non farla, che a lasciarsi irretire periodicamente nelle maglie paralizzatrici dell’assalto siano forze sociali nate esplicitamente per contrastarlo e far prevalere più duraturamente il bene. E’ come se la stessa lotta che esse conducono le infiacchisse periodicamente fino ad addormentarle ed a farle diventare acquiescenti in un letargo che, appena, sa gioire per qualche caramellina di consolazione che il moloch del potere imperante largisce loro in termini di piccole conquiste su grandi sconfitte. Prima di trovare la via dell’atteso risveglio.
 
Nell’attuale fase di letargo sono finiti, da alcuni decenni, anche in Italia, il migliore sindacalismo, diverse organizzazioni politiche che in passato ispiravano una concezione dell’economia e del lavoro densa di umanesimo, e altre organizzazioni di grandissima qualità sociale originaria: basterebbe pensare alle Acli.
 
Anche i letarghi tendono comunque, come accennavamo, ad avere periodicamente il loro termine e ad imporre la necessità di un qualche risveglio.
 
Così, veniamo assistendo in questi ultimi mesi a una lenta ripresa di attenzione sia attorno ad aziende che riaccentuano il primato della persona nel loro modo di fare economia e impresa, sia attorno a qualche piccola componente del movimento sindacale che riprende a sua volta graduale coscienza dell’unica ragione che motiva la sua stessa esistenza, cioè il cammino e la lotta concreti e ininterrotti verso una società del lavoro che sia più stabilmente ed esplicitamente a misura di persona e di comunità.  
 
Un esempio non rumoroso ma concreto di questi giorni ci è parso particolarmente significativo per il contesto nel quale si è generato: è uscito un efficace ed intenso comunicato della Federazione Cisl dei Lavoratori Elettrici, la Flaei, che esplicitamente reimposta una logica e un linguaggio che diremmo di stampo olivettiani, proprio in questa ottica: ed è un comunicato che fa seguito a qualche altro recente piccolo documento analogo della stessa organizzazione. Per lunghi anni, e in piccola parte tuttora, non siamo stati assenti dalla bella storia di questa antica federazione della Cisl tradizionalmente coerente sotto il profilo valoriale: ora, la coraggiosa e quasi imprevedibile ripresa di autorevole chiarezza di pensiero e di posizione strategica espressa dal comunicato in questione, frammezzo al torpore generale del sindacalismo attuale, è appunto un concreto segnale di speranza da cui è fondato attendersi sviluppi interessanti.  
 
Nel caso specifico, si prepara forse, potenzialmente, a esplodere, o a implodere, il caso Enel, una delle aziende-colosso della nostra economia e della nostra migliore immagine nel mondo, che, a nostro avviso, va ricondotta a essere, puramente, semplicemente e sanamente, pubblica, come era in passato: deve cioè del tutto cessare la stolida idea che essa debba “vendere energia sul mercato” e deve tornare decisamente la missione per la quale l’azienda nacque, cioè “erogare il servizio elettrico ai cittadini italiani ed alle loro imprese in logica sociale e di efficienza, e la sua prestigiosa competenza a chiunque nel mondo ne abbia bisogno”. Perché questo fu appunto l’Enel, creato con i soldi della collettività italiana e oggi criminosamente ridotto a grumo di scaltre operazioni privatistiche a sfondo finanziario. E non si tratta che di uno dei tanti, troppi casi simili. 
 
Ben significativo, e non casuale, è che il testo del comunicato Flaei  inglobi alla sua conclusione  le inequivoche parole del grande Olivetti in materia di economia e impresa, che tornano in auge. Apparentemente il breve comunicato non è “rivoluzionario”, ma il contesto nel quale esso si riallaccia a una tradizione sindacale ben nota nel settore fa fondatamente sperare che, appunto, il lucignolo fumigante riprenda a sviluppare l’atteso vigore.
 

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COMUNICATO
(del 13 settembre 2018):
I LAVORATORI ELETTRICI SONO IN SCIOPERO
 
 
I lavoratori elettrici sono in sciopero.
 
Intendono richiamare l’attenzione della pubblica opinione e della politica intorno alle perniciose scelte dell’Enel.
 

Puntano a fermare l’ultimo taglieggiamento che esso si accinge a perpetrare.
 
La cultura della Flaei non è “scioperaiola” e - come ogni italiano sa - i lavoratori del settore, in tutta la storia repubblicana, non hanno mai creato un solo disagio o un’interruzione del servizio a danno dell’utenza per difendere i loro interessi.
 
Ora però si è superata la misura decidendo che, pezzo dopo pezzo, la struttura aziendale debba essere smantellata per esternalizzare quasi tutte le attività e far morire, per consunzione, ogni dimensione industriale e gestionale dell’impresa, nonostante sia patrimonio dello Stato e di milioni di italiani.
 
Crediamo che lo Stato, nel “concedere” all’Enel la rete elettrica, abbia imposto obblighi e richiesto garanzie nei confronti dei cittadini.
 

D’altra parte essere monopolisti di un servizio tanto importante come quello elettrico comporta dei doveri non solo nel presente, ma anche per le prospettive del paese, così come implica servire al meglio i cittadini nei territori dove capillarmente si distribuisce l’energia.
 
Non possiamo credere che il mandato conferito ai vertici aziendali, all’atto della loro nomina, si limiti alla creazione di valore finanziario, né si può accettare che un’infrastruttura strategica e decisiva per lo sviluppo e la vita de cittadini diventi libero terreno di speculazione finanziaria.
 

I segnali di cedimento diffuso degli impianti in più di un evento atmosferico degli ultimi anni, ci dicono che qualcosa non va, che non basta far girare le carte e i numeri per dimostrare sicurezza.
 
L’Enel è un’Azienda efficiente. E’ soggetta al controllo dell’autorità pubblica di settore, oltre che al controllo della corte dei conti e dei ministeri competenti. In questi anni tutti hanno assistito peraltro alla continua compressione dei costi di gestione, perseguita con riduzioni forsennate di forza lavoro interna. Tutti hanno preso visione dei bilanci e delle scelte di sviluppo. Ma poiché i processi di liberalizzazione hanno riguardato anche le altre aziende del settore e quelle di altre nazioni continentali, inevitabile diventa la comparazione con i comportamenti e i risultati raggiunti, in particolare, dai concessionari degli altri paesi europei.
 
D’altra parte sulla rete non esistono concorrenti, non esiste mercato. Esiste l’obbligo di economizzare non più di quanto si richieda in termini di compatibilità con le esigenze di qualità del servizio.
 
Ma se i risultati societari dell’ex ente di Stato evidenziano clamorosamente che dal lato finanziario tutti gli indicatori pongono al primo posto il Gruppo Enel, qual è lo scopo di questa rincorsa al disfacimento? Perché si continua a smantellare un’azienda che ha raggiunto i risultati i più alti su scala mondiale? Lo chiede il governo? Lo chiedono gli azionisti? Lo chiede l’autorità di settore?
 
Noi siamo convinti che lo voglia il management, perché ha scambiato l’impresa per una palestra
dove esercitare e misurare i successi personali dei responsabili di turno.
Sulla pelle del paese e dei lavoratori.
 
Proveremo a dimostrarlo col prossimo comunicato.
 
                                                                                                              
                                                                                                               (La Segreteria Nazionale FLAEI)
 
 
La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti.
Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia.
Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”

(Adriano Olivetti)

Medicina e società

PREGIUDIZI MEDICI: ESISTONO (E GUAI A NON TENERNE CONTO)

Guardate in faccia il vostro medico di fiducia, guardatelo con rispetto, ascoltatelo con attenzione, cercate di apprendere da lui tutto quello che può insegnarvi con la sua esperienza e con la sua scienza, consideratelo il più prezioso consulente della vostra vita in materia di salute, ma nello stesso tempo aiutatelo attivamente a svolgere bene il suo servizio su di voi, cercando, con rispetto, di scrutare anche se è un medico che continua a studiare, se ha nei vostri confronti l’attenzione confidente ma pure sempre nuova che un medico scrupoloso deve avere, e cercate, nei limiti della buona educazione e del tempo disponibile a entrambi, di parlarci, proprio di “chiacchierarci”, di dire confidenzialmente anche la vostra impressione od opinione sulle cose che riguardano la vostra salute. Insomma, trattatelo per quello che è: un professionista che in materia di salute ne sa più di voi, dal quale avete cose importanti da imparare e di cui tenere stretto conto, e al quale, nello stesso tempo, è utile che voi diciate le vostre idee, impressioni, stati d’animo, timori, etc.: perché, in fin dei conti, il medico è innanzitutto un uomo che nel suo delicatissimo lavoro viene aiutato proprio dall’avere un corretto, trasparente, rispettoso rapporto interattivo con i suoi “pazienti”.
 
L’aura timorosa e sacrale che tradizionalmente circonda la figura del medico è spiegabile, naturalmente, con i fattori sociali legati allo status elevato che la categoria medica riveste da sempre, con i fattori psicologici di istintivo condizionamento nei confronti di chi ha in mano la nostra salute quando siamo in condizioni di debolezza, addirittura con i fattori antropologici legati più tipicamente ai ruoli di massima delicatezza riservati a pochissimi nel contesto della comunità, e così via. Ma è un’aura che va superata a favore di un rapporto, oltre che rispettoso, anche, appunto,  positivamente interattivo. Perché è con il vostro aiuto che il vostro medico potrà curarvi al meglio, non da solo. Il vostro aiuto è per lui prezioso per tanti aspetti, uno dei quali è la vigilanza che anch’egli deve costantemente avere nei confronti del rischio di restare, alla lunga, intrappolato, o almeno condizionato, in “pre-giudizi” che, in questa professione come nelle altre, sono inconsapevolmente sempre in agguato. Proprio di tale rischio ci parla in questo articolo Massimo Palleschi, uno dei più autorevoli geriatri italiani. (Giuseppe Ecca).
 
 
°°°°°
 
 
Il termine “pregiudizio” non implica di per sé un significato negativo.
 
Infatti la parola si riferisce semplicemente, di per sé, alla conoscenza di un evento, di una persona, di un tema, che non si è avuto la possibilità di approfondire. Da questo punto di vista il pregiudizio può essere paragonato a qualsiasi parziale conoscenza precedente un giudizio più documentato.
 
Nel linguaggio corrente però il termine acquisisce un significato negativo, riferendosi ad una conoscenza non solo scarsamente attendibile, ma influenzata, e a volte determinata, da elementi estranei all’essenza del problema sul quale si cerca di dare un giudizio.
 
Si comprende molto bene perché l’espressione abbia acquisito una valenza negativa: molte persone, di fronte ad una semplice impressione o, se vogliamo, ad un giudizio provvisorio, anziché approfondire l’argomento od ascoltare il parere di altre persone con specifiche competenze in quel settore, rimangono ancorate a quel primitivo loro orientamento, correndo il forte rischio di parlare o pensare per tesi preconfezionate che, proprio per non essere razionali, tendono a resistere ad ogni argomentazione di significato contrario.
 
La presenza di pregiudizi è frequente nelle persone fortemente emotive, portate a pensare ed a prendere decisioni in maniera repentina, istintiva, senza l’avallo di un pacato, obiettivo ragionamento. Persino in ambito scientifico, non raramente, si procede per pregiudizi (ma in questi casi si può parlare di scienza?).
 
Recentemente, avendo già riflettuto sul problema dei pregiudizi in medicina (vedi ad esempio la diffusione di alcune medicine alternative prive di base razionale, scientifica), sono stato colpito da uno studio riguardante George Washington, il primo presidente degli Usa e personaggio chiave nella costituzione degli Stati Uniti.
 
Washington fu assassinato (non volontariamente) dai medici dell’epoca a causa – io ritengo senza ombra di dubbio – di un pregiudizio. Il presidente aveva da poco terminato il secondo mandato ed era in condizioni di salute più che soddisfacenti, tanto da andare ad una battuta di caccia. Il presidente morì il 14 dicembre 1799 dopo una malattia acuta durata meno di un giorno: esattamente 21 ore.
 
Che cosa successe in quel poco tempo, e quali errori madornali si verificarono, che possano avere un qualche legame, anche indiretto, con il tema di cui sto parlando? Secondo il mio parere George Washington fu ucciso da un pregiudizio analogo a quelli compiuti nei più diversi ambiti della scienza (vedi la storia di Galileo!) e che presumibilmente sono responsabili della pervicace continuazione di pratiche terapeutiche inutili o dannose in virtù appunto di un pregiudizio, cioè di un giudizio preconfezionato.
 
George Washington, tornando da una battuta di caccia, andò incontro ad una sindrome febbrile che in poche ore lo portò ad un grave peggioramento delle sue condizioni. Vennero consultati due medici che prescrissero un salasso, rimedio tenuto in gran considerazione dai medici dell’epoca. Non migliorando le condizioni dell’illustre paziente, furono eseguiti a breve scadenza altri due salassi, ciascuno di 250cc. In sostanza vennero prelevati al malato, in pochissimo tempo, 750 cc di sangue, poco meno di un litro.
 
Quando l’ex presidente era quasi agonizzante fu chiamato un terzo e molto stimato medico, che prospettò ai due colleghi l’opportunità di sottoporre il malato ad un intervento di tracheotomia, essendosi presentate forti difficoltà respiratorie. Fece presente però che la procedura era pericolosa e che il malato sarebbe potuto morire. Il consenso venne ritirato ed allora si arrivò a proporre, e ad effettuare, un quarto salasso, questa volta di un litro: complessivamente, in poche ore, vennero sottratti 1750 cc di sangue al povero Washington, che ovviamente morì di lì a poco.
 

Perché ho raccontato la storia del presidente americano? Sono convinto che l’assurdità del comportamento di quei medici non si spiega semplicemente con l’inadeguatezza delle conoscenze dell’epoca. Allora venivano concepite anche idee molto intelligenti, era stata già scoperta da due secoli la circolazione del sangue e si sapeva perfettamente che con un notevole dissanguamento si moriva. Il buon senso avrebbe consentito già allora di non fare uno sbaglio del genere.
 
In realtà quell’errore fu possibile solo per l’esistenza di un pregiudizio, quello di considerare il salasso il rimedio principale di quasi tutte le malattie gravi: quasi un dogma. Si trattava di un giudizio che, come tutti i “pre” giudizi, era in grado di resistere ad ogni eventuale argomentazione o dubbio, molto poco modificabile con i mezzi della ragione.
 
Non sappiamo come sarebbe stata la vita di Washington senza il pregiudizio dei medici curanti; con il senno di poi si ipotizzò che il presidente fosse affetto da un ascesso a livello della glottide, che probabilmente lo avrebbe condotto a morte in ogni caso. Ma comunque era meglio evitare una morte sicura da dissanguamento.
 
Quale può essere l’insegnamento di questo caso, e quali possono essere le analogie (anche se lontane e indirette) con avvenimenti del mondo medico attuale? Un esempio eclatante, come già ho accennato, è dato dall’impiego sempre più tumultuoso delle medicine alternative. La medicina attuale non può ancora essere considerata una scienza esatta, paragonabile alla matematica, alla fisica, alla chimica, però ci va sempre più assomigliando, adottando metodologie che si basano essenzialmente sulla riproducibilità e quantificazione dei fenomeni. Tutto questo non si verifica, almeno allo stato attuale, con le medicine alternative.
 
Inoltre è da tener presente che la terapia attuale delle più diverse malattie è fondata su quella che viene definita “medicina basata sull’evidenza” (evidence based medicine). Cioè: in ambito terapeutico non ci si può più basare su impressioni e giudizi personali, ma solo sui risultati delle grandi prove (trial) internazionali, controllate e validate statisticamente.
 
Nulla di tutto questo è presente nelle medicine alternative. Ma allora come è possibile che queste ultime, pur essendo senza alcuna base razionale, riscuotano tanti consensi? E’ difficile dare una risposta univoca e convincente. Alcuni ritengono che il grande progresso tecnologico della medicina abbia provocato una sorta di spersonalizzazione della stessa favorendo una grande attrazione reattiva verso quelle metodologie (vedi appunto le medicine alternative) fondate essenzialmente sulle qualità del terapeuta.
 
Un’esasperazione di tale approccio può portare verso il ricorso a pratiche di tipo magico o quasi magico. Non è un caso che il passaggio da medicine alternative a pratiche esoteriche non fosse del tutto eccezionale in passato, anche se queste ultime erano generalmente appannaggio di classi sociali e culturali più modeste. A proposito di maghi, avete notato che negli ultimi anni il fenomeno è stato finalmente fortemente ridimensionato? Credo che ciò si sia verificato non tanto per una maturazione culturale del cittadino medio, quanto per una più efficace opera della magistratura che ha contenuto il fenomeno ricorrendo più spesso all’incriminazione per esercizio abusivo della professione medica.
 

Ritornando più specificamente alla questione dei pregiudizi, vorrei avviarmi alla conclusione di queste riflessioni con un accenno sulla vecchiaia, anche per le implicazioni pratiche sulle possibilità di raggiungere o meno un buon invecchiamento. Ricordo che nel 1969 è stato coniato da Robert Butler, primo direttore del National Institute on Ageing, il termine ageismo, per indicare un sistematico processo di discriminazione contro i cittadini più vecchi.
 
Ma per meglio comprendere come i pregiudizi possano comportare una concezione, e soprattutto un vivere la vecchiaia, in maniera del tutto distorta, è forse più utile ricordare un esperimento del grande fisiologo prof. Braun-Sequard, allora 72enne.
 
Il 10 giugno del 1889 il professore comunicò alla Società di Biologia di Parigi che, trovandosi in condizioni fisiche molto precarie, aveva compiuto un esperimento su se stesso. Spintovi dalla convinzione che la debolezza degli uomini vecchi fosse la conseguenza del declino funzionale dei loro testicoli, si era praticate 10 iniezioni sottocutanee di un estratto acquoso di testicoli, prima di un cane e poi di alcune cavie giovani, riacquistando così, nel giro di soli 15 giorni, quelle forze, quel benessere e quelle capacità lavorative che aveva un quarto di secolo prima!
 
Con il suo entusiasmante, anche se ingenuo, esperimento su se stesso, il professor Braun Sequard acquisì il merito (come fece notare fra gli altri il professor Vito Patrono) di aver fornito la prima solenne dimostrazione di quanta parte della senescenza invalidante possa essere psicogenica, di quanta parte cioè del sentirsi vecchi, del comportarsi da vecchi, e forse anche dell’”essere” vecchi, possa costituire la somatizzazione di erronei atteggiamenti psichici nei confronti della senescenza.
 
A margine di questo episodio possiamo notare che la terapia con testosterone non provoca in alcun modo quegli effetti meravigliosi descritti dal professor Brown Sequard (minore stancabilità, maggiore capacità di concentrazione, incremento dell’attività lavorativa, miglioramento dell’umore, “ringiovanimento” sessuale, etc.) e che presumibilmente l’idea di poter contare su un aiuto da parte di essa (il farmaco iniettato ha favorito la possibilità di esprimere potenzialità che il professore riteneva di aver perduto a causa del processo di invecchiamento) non è fondata.
 
Ecco, da qui potrebbe partire la vera discussione sui pregiudizi riguardanti la vecchiaia. La senescenza comporta ovviamente modificazioni multiple, ma molto spesso vengono attribuite ad essa cambiamenti radicali che invece non sono specifici di quella fase dell’esistenza. Un esempio tipico è rappresentato dalla sessualità dell’anziano (o anziana). Per molto tempo le modificazioni sessuali dell’età avanzata sono state paragonate ad una sorta di castrazione fisiologica. Questa concezione è profondamente sbagliata e non corrisponde assolutamente alla realtà. Ma anche qui sono preziosi i contributi di riflessione di tutti, da punti di vista di discipline ed esperienze diverse.
                                                               
                                                                                                                                               (Massimo Palleschi)
 

Cristiani e politica

IL SEME, IL LIEVITO E IL PICCOLO GREGGE

Il 5 dicembre 1998, venti ani fa, il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, offrì alla sua diocesi ed all’Italia uno dei suoi lucidi e profondi messaggi culturali e spirituali, e, derivatamente, anche politici. Era forse il vescovo più autorevole e ascoltato della Chiesa italiana, e certamente punto di riferimento stabile del collegio cardinalizio. Fra le sue esperienze culturali era stata la guida della prestigiosissima università Gregoriana, fra quelle pastorali la responsabilità della non meno prestigiosa diocesi ambrosiana: era comunque uomo con il quale si respirava orizzonte universale ed altissimo a prescindere dal ruolo. Così, i suoi messaggi pastorali restavano impressi di una particolare carica di richiamo all’impegno dei cristiani in tutti i campi della “città dell’uomo”, per dirla con una espressione cara a quel Sant’Agostino di cui il cardinale era attentissimo interprete.
 
Pubblichiamo qui, appunto, un suo discorso del dicembre 1998, particolarmente dedicato al tema dell’impegno dei cattolici italiani nella dimensione politica. Quando il cardinale teneva questo discorso, la storica Democrazia Cristiana aveva cessato di operare da sei anni e i cattolici erano già in ampia diaspora politica non priva di incertezze, che tuttora durano. E tuttora illuminante appare quella pacata e lucida riflessione sulla spiritualità del “piccolo seme” applicato alla realtà politica. Avvertiamo che si tratta di riflessione altamente intellettuale e rigorosamente consequenziale nel suo svolgersi: perciò indubbiamente impegnativa come lettura, al pari della tonalità sempre seguita dal cardinale, che mai si concedeva a retoriche facili, né laiche né clericali. Non ci si faccia rimprovero di questo riproporre un testo ben impegnativo: Studisociali non è pensato per diffondere cronaca ma piuttosto per suscitare riflessione ed impegno. (Giuseppe Ecca).
 
 
°°°°°
 
S. Ambrogio cita più volte nelle sue opere le due parabole di Luca,
sul grano di senapa e sul lievito.

Le tratta più ampiamente nel commento al terzo vangelo e le richiama
sia nelle Lettere come nel trattato sulla Penitenza.
Ricorda le diverse interpretazioni che se ne danno
ed espone una interpretazione cristologica
("Anche il Signore è un chicco di senapa... Semina anche tu Cristo nel suo orto";
Cristo è il lievito "perché fa aumentare la virtù che accoglie in sé")
 e una ecclesiologica (la Chiesa è la donna che
"nasconde il Signore Gesù nei più intimi recessi della nostra anima,
finché l'aspetto della sapienza celeste non si diffonda
nell'intimo santuario del nostro essere".
 
Come si vede, l’interesse di Ambrogio rimane in un ambito strettamente religioso e interiore.
Non sviluppa il significato che le parabole possono avere per il rapporto chiesa - mondo,
anche se vi fa un accenno nel commento a Luca dicendo:
"Nemmeno ho dubbi sull'interpretazione che certuni fanno di questa
immagine, applicandola a questo mondo, finché esso sia tutto fermentato nella Legge,
nei profeti, nel Vangelo, e così ogni lingua riconosca il Signore".
 
Non ritengo comunque contrario al pensiero di Ambrogio un allargamento del significato
delle metafore del piccolo seme e del lievito
al rapporto tra la Chiesa e la città, la Chiesa e la società.
Ambrogio infatti incarnava in sé e nella sua vicenda tale rapporto.
 
Nel tempo in cui fu chiamato alla cattedra episcopale,
la Chiesa di Milano non era certo maggioritaria nella metropoli,
e per di più era in sé divisa.
Lo stile della società era ben lontano dall'essere impregnato di cultura cristiana;
tuttavia Milano era una città percorsa da un bisogno di valori e di significati,
segnata dalla necessità di concordia tra i cittadini
e spinta da un'ansia di ripresa.
 
Queste aspirazioni dovettero essere non ultima causa del fatto
che un alto funzionario imperiale non ancora battezzato,
ma integerrimo, austero e sensibile, potesse assurgere alla cattedra episcopale.
Agli occhi del popolo lo accreditavano non soltanto virtù civiche,
bensì pure una certa carica di spiritualità, già leggibile nella sua storia e nei suoi atti di governo.
 
In ogni caso, la vicenda della sua acclamazione a vescovo dice
quanto fosse grande il bisogno di trovare un radicamento fondativo alle virtù civili
e una rassicurazione etica di tipo religioso nel degrado dei costumi sociali,
che si manifestava in particolare negli accumuli di ricchezze e nell'usura.
 
Ambrogio poteva quindi sentirsi nella città come un pezzetto di lievito
chiamato a far fermentare una massa
o come un piccolo seme da cui avrebbe dovuto germogliare
un albero capace di costituire
un punto di riferimento e di appoggio
per tanti bisogni civili e morali.

 
Fu proprio la coscienza della sua pochezza di fronte al grande compito
che lo spinse, secondo la leggenda, a fuggire errando per le campagne attorno a Milano,
per non addossarsi un peso che avvertiva superiore alle sue forze.
Immagino che in quel vagare notturno il Signore gli ispirasse
qualche parola simile a quella riportata dal vangelo secondo Luca (12,31):
"Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro di darvi il suo regno".
 
E' infatti alla piccolezza e inadeguatezza che viene offerta la grazia:
piccolissimo è il granello di senapa gettato nella terra,
poca cosa è il pugno di lievito nascosto nella pasta,
insignificante è il piccolo gregge di fronte alle mandrie sterminate.
Eppure anche la pochezza umana e l'apparente insignificanza storica,
lette alla luce della fede, possono diventare albero frondoso,
far fermentare una massa, rallegrare un pascolo.
 
Ispirandomi dunque alla figura di Ambrogio
nell'esitare di fronte a un compito più grande di lui,
nel sentirsi piccolo granello senza peso,
grumo di lievito senza colore,
pastore di un piccolo gregge,
vorrei trattare in questo discorso del rapporto tra una Chiesa cosciente della sua inadeguatezza 
e la società civile nel suo insieme.
Cercherò di rispondere a tre domande:
 
1. La Chiesa nella nostra società è oggi veramente "piccolo gregge", minuscolo seme?
 
2. Come la Chiesa deve vivere questa sua condizione di seme e di lievito?
 
3. Quali conseguenze ne derivano per il rapporto tra la Chiesa e la città e specificamente per l'impegno dei cristiani nella vita politica?
 
I. LA CHIESA E' OGGI PICCOLO GREGGE?
 
Vi sono motivi per rispondere senz'altro di no a questa domanda.
Nella nostra società è ancora alto il numero di coloro che chiedono il battesimo,
che si sposano in chiesa,
che vogliono i funerali religiosi.
Gli edifici adibiti al culto sono ben visibili e non pochi sono splendidi e prestigiosi.
Si può perciò parlare di una maggioranza cristiana e cattolica nella città.
Non dobbiamo tuttavia fermarci alle apparenze.
 
Secondo le statistiche il numero di coloro che
frequentano regolarmente la messa alla domenica è ridotto.
L'influenza pubblica dei pronunciamenti della Chiesa è scarsa,
soprattutto sul terreno morale.
Pochissimi sono i cristiani che, nelle parrocchie e nei gruppi,
si impegnano veramente a testimoniare il vangelo e a costruire la comunità.
 
Qualche anno fa parlavo di cristiani della linfa,
del tronco, della corteccia
e infine di coloro che come muschio
stanno attaccati solo esteriormente all'albero.
Ebbene, i cristiani della linfa, quelli cioè visibilmente coinvolti e partecipi
(sempre lasciando al Signore il giudizio sull'intimo dei cuori),
sono una percentuale bassa.
 
E non pochi sono oggi coloro che non cercano nel cristianesimo ma altrove
una risposta alle loro domande di senso.
Non ritengo opportuno insistere con le analisi statistiche, anche perché
queste cose non si lasciano
misurare con criteri puramente quantitativi.

Definirei in ogni caso la nostra situazione di Chiesa
Come quella di una minoranza impegnata e motivata
che porta il peso di una maggioranza che compie talvolta qualche gesto religioso
per abitudine e non per convinzione profonda e personale.
 
Se leggiamo questa situazione non tanto per le sue conseguenze nella vita interna della Chiesa,
ma per il ruolo della Chiesa nella città,
davvero possiamo dire che la Chiesa è oggi, per non pochi aspetti,
quello che Gesù chiamerebbe un piccolo gregge,

un minuscolo seme, un pugno di lievito.
E tale in realtà viene pure considerata dall'opinione pubblica.
 
Si attua così la condizione di una certa marginalità.
La Chiesa interessa poco ai mass media per ciò che è veramente la sostanza della sua vita;
interessa piuttosto per aspetti periferici, folcloristici,
o per il gusto di fantasticare su oscure dietrologie
e di presentare semplici dialettiche come penosi conflitti interni.
 
II. COME LA CHIESA DEVE VIVERE QUESTA SUA CONDIZIONE?
 
Rispetto a questo stato di cose sono possibili due reazioni opposte:
quella dell'amarezza e del lamento
e quella della lettura provvidenziale dei segni dei tempi.
 
1. La prima reazione è propria di quei cristiani che vivono con ansietà
la sensazione di essere circondati da forze ostili.

Il messaggio cristiano - lamentano - non viene magari direttamente avversato,
però a condizione che non fuoriesca nella città e non tenda a diventare costume civile;
e sottolineano come ogni manifestazione pubblica del messaggio evangelico
sia facilmente tacciata o di ingerenza o di spirito antimoderno.
Ritengono inoltre che il peso civile dei cristiani sia sottodimensionato
rispetto al merito e alla storia.
 
Da qui, talora, un linguaggio un po' incattivito e contrappositivo, "tertullianeo"
(un linguaggio di cui non ha bisogno il clima già sovreccitato della contesa politica)
o, al contrario, una depressione che dà luogo a un diffuso piagnisteo sterile,
come se il cristiano non sapesse che il messaggio evangelico sarà sempre eccedente
rispetto alle capacità dell'uomo - anche del credente - di accoglierlo nel suo cuore e nella sua città. Quindi che la legge della città sarà sempre inferiore alle attese cristiane.
 
2. A questo atteggiamento diffuso si contrappone la reazione propria di chi,
come Ambrogio al suo tempo,
legge il presente alla luce della fede.
Ambrogio, posto in una situazione di minoranza religiosa e culturale,
di fronte a un paganesimo culturalmente ancora forte
e di fronte a un arianesimo combattivo e appoggiato dal potere politico,
invita alla sobrietà composta della tolleranza,
raccomanda il "silenzio operoso",
quasi un "silenzio indaffarato" (negotiosum silentium),

richiama l'atteggiamento di Giuseppe in Egitto che tacque
"per essere difeso più dall'innocenza che dalla lingua" (Exh. virg., 88),
quello di Susanna a Babilonia, la quale in pericolo di morte,
"operò di più tacendo che se avesse parlato"
(quae plus egit tacendo quam si esset locuta: De off., I,9).
 
Una dose di non accettazione da parte della società è infatti ineludibile perché
costitutiva del cristianesimo e sempre anche un po' meritata dai cristiani.
Non per niente Giovanni Paolo II ha ripetuto
nella Bolla di indizione del Grande Giubileo "Incarnationis mysterium",
l'invito alla "purificazione della memoria",
chiedendo "a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere
le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di Cristiani" (n. 11).
 
Una situazione di una qualche marginalità sociale
e di non accettazione si può vincere non col lamento
che diventa egocentrico e infantile bisogno di rassicurazione esterna,
bensì con la sobrietà e la pazienza di chi vede in ogni tempo all'opera
le forze che mirano al bene dell'uomo
e insieme quelle che invece lo contrastano;
e confida nel Signore della storia.
Del resto non è in qualche modo la Chiesa destinata a
essere normalmente, nel suo cammino verso il Regno, in una condizione di minorità,
chiamata ad andare sempre oltre il presente,
a crescere non solo nel cuore degli uomini,
ma pure nella intelligenza di sé e del suo mistero,
e nell'apertura alla novità di un Dio sempre più grande
("Deus semper maior")?
 
Occorre perciò chinarsi con paziente magnanimità sulla nostra società
accettando l'umile missione di granello di senapa e di lievito
e la poca rilevanza del piccolo gregge.
Ciò non significa che non lottiamo con tutte le forze
in favore della libertà della persona e per il bene comune della città e della nazione,
poiché crediamo nella forza irresistibile del seme e dell'efficacia del lievito
e siamo consapevoli di avere cose essenziali
da dire e da offrire per l'intera società.
 
Porto due esempi di questo secondo atteggiamento,
uno sul terreno morale e uno sul terreno civile.
 
- Sul terreno morale è indubbio che l'enfasi sulla soggettività e sull'individuo
stia non semplicemente togliendo adesioni al messaggio, soprattutto etico, della Chiesa,
ma anche destrutturando la nostra società civile
rompendo il costitutivo senso relazionale dell'uomo a favore di una libertà individuale
sempre più fine a se stessa,
e portando così a galla i drammi dell'uomo rimasto solo con i suoi desideri.
 
Eventi attuali di cronaca confermano purtroppo tale stato di cose.
Forse da tale sensazione di solitudine nasce l'omaggio,
non solo strumentale,
che tante forze politiche di tutto il mondo esprimono al Papa e alla Chiesa,

da versanti ideologici diversi, considerando questa istituzione come capace,
nonostante le sue imperfezioni, di rigenerarsi,
di riconoscere le debolezze emergenti dell'uomo
e di chinarsi su di esse senza fini di potere.
 
Vedendola depositaria di una comprensione paziente dell'umano
molti intuiscono che nella Chiesa tutte le forze della città possono riconoscersi,
magari a prezzo di qualche selezione tra i valori che sostiene.
Infatti c'è chi ravvisa in essa il grembo che ha
custodito i valori dell'uomo singolo,
il quale, diventato centro decisionale autonomo, rimane pur bisognoso
di un grembo e di un riferimento;
e c'è chi la predilige perché custode dell'attenzione all'uomo relazionato,
che nella città ha bisogno di crescere per via di relazioni amicali
e di sostegni societari in grado di promuoverlo.
 
- Se dunque è grande l'opera che il piccolo pezzo di lievito è chiamato a compiere
sul terreno morale a favore della società,
significative sono pure le sue ricadute civili e politiche.
 
Faccio un esempio sul terreno della cultura e della scuola.
Ai cristiani sta molto a cuore il sistema educativo di una nazione
e tutto l'immenso campo dell'istruzione pubblica, statale e non statale.
La scuola costituisce infatti una risorsa primaria della nazione
e la sua qualità è specchio della maturità del paese.
Proprio per questo la Chiesa riconosce e proclama anche nel campo educativo
quel primato della libertà e della coscienza
che si esprime con la libertà scolastica e l'autonomia,
in una effettiva gestione paritaria del sistema scolastico integrato,
in un reale pluralismo di curricoli formativi
(aperti pure alle conoscenze religiose),
coinvolgendo la responsabilità delle famiglie.
 
Noi intendiamo difendere e promuovere una libertà per tutti
e un sistema veramente democratico per la formazione seria e vigorosa
della coscienza civile e sociale di una nazione;
a tale scopo siamo pronti ad affrontare volentieri qualche impopolarità
e qualche contraddizione.
E ci sentiamo anche in continuità con la
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo
che recita, all'articolo 26,3:
"I genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell'istruzione da impartire ai propri figli".
 
III. QUALI CONSEGUENZE DERIVANO DALLA CONDIZIONE DI MINORANZA
PER IL RAPPORTO TRA LA CHIESA E LA CITTÀ
E IN PARTICOLARE PER L'IMPEGNO DEI CRISTIANI
NEL TERRENO DELLA POLITICA?
 
Dalla condizione di una certa marginalità della Chiesa rispetto all'insieme dei fatti economici, sociali e culturali che configurano la città,
derivano schematicamente due posizioni:
il voler essere a ogni costo di nuovo una forza rilevante della società;
oppure il riconoscere con serenità che il proprio compito di piccolo gregge,
in apparenza più modesto, è di fatto molto più esigente e necessario per il bene di tutti:

essere lievito nella società, piccolo seme di nuovi germogli.
Dice giustamente s. Ambrogio a proposito di granelli di senape:
"I suoi chicchi sono, in realtà, cosa semplice e di poco valore: ma se si comincia a
sminuzzarli, mandano fuori tutta la loro energia" (Commento a Luca, VII, 178).
 
- Il voler essere a ogni costo, pur nelle circostanze attuali,
una forza rilevante nel quadro politico della società,
operante sullo stesso piano delle altre forze
e in concomitanza e concorrenza con loro,
ha una sua tradizione antica di secoli,
che ha contribuito a forgiare la società europea,
con i suoi valori e le sue conquiste.
E' anche attraverso questi modi di presenza, giustificati
dalle condizioni e necessità di altre epoche,
che un certo patrimonio di valori cristiani è diventato dote civile della società.
 
Da qui potrebbe nascere oggi nei nostalgici un moto di risentita gelosia,
come un sentirsi espropriati di quello che si ritiene un proprio peculiare tesoro storico
analogamente alla parola del discepolo che diceva a Gesù:
"Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato,
perché non era dei nostri" (Mc 9,38).
E' questa la posizione di chi si sofferma a guardare il passato.
 
- Il riconoscere invece con serenità di essere piccolo gregge,
di essere seme e lievito nella città, implica un ethos preciso.
Un ethos di umiltà,
di mitezza, di misericordia, di perdono,
di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all'interno della Chiesa;

è l'ethos del Grande Giubileo indetto dal Papa per l'anno duemila.
Una Chiesa che è conscia della sua "minorità" ha più vivo il senso della testimonianza,
coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé,
è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso,
vive con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le Chiese locali,
instaura un rapporto più autentico con la Chiesa universale
in stretta comunione con il Vescovo di Roma.
 
Questo ethos interno
ha anche un influsso sul modo con cui la Chiesa si rende presente
nel quadro sociale e politico di una nazione
e sul modo con cui i singoli cristiani operano,
a nome proprio e con propria responsabilità, nel campo politico?
Certamente sì e vorrei richiamarne qui alcune conseguenze.
 
Esso:
 
1) esclude una riduzione dell'impegno dei cristiani nel campo sociale e caritativo;
 
2) induce a un "pensare politicamente" che sia veramente tale,
rifuggendo dalle soluzioni puramente settoriali;
 
3) contribuisce a creare un tessuto comune di valori;
 
4) promuove le regole del consenso dei cittadini.
 
Il percorso di un cristiano cresciuto in una chiesa "piccolo gregge",
che ha colto la sua missione di essere seme e lievito,
è dunque complesso ed esigente.
 
1. Una corretta presenza dei cristiani nella società non limita il loro impegno
al solo campo sociale e caritativo.
Infatti una conseguenza del primo atteggiamento sopra indicato
- il voler continuare a essere una forza determinante nel quadro sociale e politico –
porta con sé una voglia di autosufficienza,
che si esprime facilmente nella concentrazione su certe forme di servizio e di presenza
che hanno attinenza con la solidarietà sociale.
Si tratta pur sempre di un impegno alto per la costruzione della città:
lì si custodisce uno stile etico peculiare, con regole più comunionali che politiche,
cioè più valoriali che conflittuali, più gratificanti che partecipate.
Da tempo i cristiani hanno fatto le loro prove di cittadinanza
e si sono accreditati come cittadini degni di considerazione,
attenti custodi della gratuità e difensori dell'emarginato e del povero.
 
E' chiaro però che tale modo di presenza e di servizio non è sufficiente.
Ci si chiede quale debba essere l'atteggiamento verso la comunità politica nel suo insieme,
e quale stile assume l'impegno di chi è chiamato a costruire la casa di tutti con tutti.
Se rimanessero chiusi nell'ambito del sociale e della carità
si potrebbe pensare che i cattolici sono cittadini dimidiati.
L'ambito della politica aspira infatti a influire sull'ethos della città di tutti,
mediante una generalità di interessi e di programmi,
con la creazione di condizioni che promuovano la partecipazione di ciascuno al progresso
sociale, civile, morale e spirituale.
 
2. E' necessario dunque che chi è nutrito dagli atteggiamenti di fondo sopra indicati
si impegni a un pensare politicamente in grande,
rifuggendo da soluzioni solamente settoriali.
Di conseguenza la sua collocazione dentro questa o quella forza politica
non avverrà per via di singoli problemi o di gruppi monotematici,
bensì per un disegno di società più compiuto:
questa è l'assunzione piena di responsabilità politiche.
 
3. Forse c'è chi pensa che si dovrebbe tenere il fedele
compatto dentro la comunità ecclesiale o dentro il gruppo sociale
per poi convogliarlo in campi diversi scelti di volta in volta
secondo i problemi che si dibattono.
 
4. Ma allora il rischio è che diventi massa di manovra,
inquilino sempre più inaffidabile delle forze politiche
e, alla fine, sempre più emarginato.
Magari potrebbe far passare qualche richiesta valoriale;
ciò però avverrebbe solo per bruta forza contrattuale,
non come esito di una educazione maturante
e di un convincimento del costume di tutti.
 
Se quindi i credenti si appagassero di essere lodati da tutte le forze politiche
solo per impegni parziali,
potrebbe verificarsi una frattura indebita dell'impegno politico,
che riserverebbe spazi settoriali al cristiano,
precludendogli la visione più globale di costruzione dell'uomo e della società,
che sarebbe appannaggio di altri costruttori, più globali.
Solo una propria acquiescenza - non certo la Chiesa -
potrà costringere ora il cristiano a un volontario non expedit.

 
3. Il cristiano oggi nella città deve interpretare un alto compito storico:
creare quel tessuto comune di valori
su cui possa legittimamente trascorrere la trama di differenze non più devastanti.
E ciò sia in zone proprie di riflessione
e di traduzione antropologica dei valori di fede
sia facendo sbocciare tali valori dentro i luoghi delle diverse appartenenze,
dimostrando che ci si può occupare a pieno titolo, da cattolici, dei problemi di tutti,
non solo con una attenzione confessionale.
Un simile atteggiamento porta pure a sostenere e a promuovere quel
"patto di convivenza" su cui si basa la comune cittadinanza.
 
La semplificazione della vita politica, infatti,
è affidata soprattutto alla diffusione sempre più ampia
di una piattaforma condivisa di valori e di convergenze,
non soltanto all'ingegneria elettorale e alla riduzione del quadro partitico.
Finché non si creeranno nei partiti
dialettiche che già al loro interno sappiano far interagire le diversità culturali,
è illusorio pensare a una politica più stabile e più mite:
i partiti devono essere palestre di dialogo interculturale
prima di diventare soggetti di contrattazione politica.

 
Se assumeremo un po' di questo compito ci accorgeremo forse
che siamo meno soli di quanto temiamo:
come avvenne al profeta Elia che, angosciato di essere rimasto solo
e deciso a ritrarsi per disperazione,
trovò inaspettatamente una moltitudine di persone
risparmiate dal Signore in Israele perché non avevano piegato le ginocchia
di fronte ai falsi idoli (cfr 1Re 19,18).
 
4. Un simile atteggiamento promuove anche le condizioni
per la crescita del consenso dei cittadini.
La ricerca del bene per la città di tutti ha regole proprie,
attraverso le quali non si può non passare.
Altrimenti tale ricerca perde, agli occhi della città, la sua trasparenza:
sono le regole del consenso dei cittadini stabilite dalle modalità democratiche
e quelle della costruzione del consenso.
 
Esse non sono pure tecniche o pure metodologie,
ma sostanza stessa dell'atto libero di decisione;
passano per il convincimento e la pazienza, per la stessa graduazione dei valori,
perfino per il duro sacrificio di alcuni di essi.
Sembra invece che, nell'accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa,
come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori.
Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore,
bensì di assumersi autonomamente una responsabilità
nei confronti della crescita del costume civile di tutti,

che è il compito vero dell'etica politica.
Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare
come seme e lievito all'interno della società.
 
Il percorso del cristiano verso la sua testimonianza politica
è quindi oggi complesso, e tuttavia possibile.
Si potrebbe leggerlo - in compagnia di Ambrogio - nella storia di Giuseppe in Egitto,
modello di corretto rapporto con le persone, con le cose, con la politica.
Uomo religioso disperso dentro il mondo idolatrico e totalitario dell'Egitto;
schiavo ma più libero di colui che è libero,
perché "teme di perdere tutte le cose che ha accumulato
colui che le ha accumulate per non servirsene"
(De Jos., 21), capace prima di tutto di "governare se stesso" (De Jos., 22),
cioè di giudizio autonomo sui propri valori,
"non faceva udire la sua voce eppure parlava la sua innocenza" (De Jos., 26).
 
"Giuseppe - dice Ambrogio - avrebbe potuto donare tutte le ricchezze dell'Egitto
e distribuire i tesori del re.
Eppure non volle apparire prodigo dell'altrui
ma preferì vendere il grano agli affamati piuttosto che donarlo,
perché, se l'avesse donato a pochi, sarebbe mancato ai più.
Preferì quella liberalità per averne con tutti.
Spalancò i granai perché tutti acquistassero una razione di frumento per evitare che,
ricevendolo gratuitamente, abbandonassero la coltivazione dei campi.

Infatti chi approfitta dell'altrui, trascura il proprio...
Stabilì una tassa da versare allo stato perché tutti potessero avere
con maggior sicurezza quello che a loro serviva...
Fu un uomo grande davvero, perché non cercò la gloria mondana di una generosità superflua,
ma procurò un duraturo vantaggio con la sua previdenza.
Fece in modo che i popoli traessero giovamento dalle tasse che pagavano
e nel tempo della necessità non avessero bisogno degli aiuti esterni"
(De off., II, 79-81).
 
E' un quadro politico ed economico di grande interesse.
Ma l'accreditamento dell'uomo religioso Giuseppe agli occhi del re
e il suo merito presso il popolo
dipesero, dice s. Ambrogio, anche dal suo essere "sapiente nell'interpretazione" (De off., I, 112):
"anzitutto, interpretando con grande acutezza il sogno del re,
seppe indicare la verità" (De off., II, 82).
Il carattere della lettura dei segni dei tempi è quello grazie al quale forse
i cristiani di ogni tempo si accreditano politicamente,
sapendo interpretare il sogno del Faraone, cioè sapendo dar senso al sogno della città di tutti.
 

Questa esigenza di ancorare a un riferimento metapolitico le esigenze della città
pare avvertirsi anche oggi quando la Chiesa,
pur minoritaria nella città ancor più che al tempo di Ambrogio,
è fatta oggetto di attenzione e di attese da parte di tutti,
nel momento stesso in cui la secolarizzazione celebra
al massimo grado l’emancipazione del civile e del costume dal riferimento religioso.
 
Sicché si ha una paradossale situazione:
da una parte l’assedio a una Chiesa perché non esca dal suo perimetro
a dettar ordini a una società maggiorenne,
dall’altra il tentativo di diverse parti della società civile e politica
di accreditarsi come paladine delle istanze dei cattolici.
 
Sciogliere la contraddizione attribuendola solo a un cinico gioco di strumentalizzazione
è far torto sia alla eticità della società civile, sia alla Chiesa stessa,
la quale verrebbe così a sottostimare le ragioni della sua influenza.
D’altra parte, se tale ossequio e tale desiderio di rappresentanza
fossero soltanto interessati e strumentali,
sarebbero sproporzionati alla sempre più scarsa capacità di mobilitazione
che la Chiesa possiede in sede politica
(e purtroppo, spesso, etica).
Infatti tutto concorrerebbe a far pensare che,
 stante l’avanzato processo di secolarizzazione
e lo scollamento dell’ethos comune dalla religiosità,
un movimento politico avrebbe forse più vantaggio
a proclamare il suo distacco dalla Chiesa
che non a ostentare una vicinanza ad essa o una sua rappresentanza.
 
 

Naturalmente questa appropriazione di valori di origine ebraico - cristiana
da parte della cultura moderna non è stata senza problemi.
Succede che quando i valori insediati dalla religione nell’ethos di un popolo
diventano diritti civili, riconosciuti cioè da una società politica
e trasformati magari in leggi di una città,
essi sono già passati attraverso il filtro delle esperienze storiche di un popolo
e ne hanno assunto il colore e le tare inevitabili.
Da qui può nascere un sospetto della Chiesa nei confronti di certe conquiste civili,
perché esse saranno sempre inferiori alla esigente visione antropologica cristiana.

 
D’altra parte, la Chiesa è abituata di più a rapportare i valori-diritti all’essenza dell’uomo
e a custodirli per via profetica;
spesso perciò non prende atto del percorso storico con cui faticosamente,
 quasi sempre parzialmente e in maniera un po’ sbilanciata,
la società li scopre e li riscopre.
Così, ad esempio, non è stato facile per la Chiesa riconoscere i lati positivi
e le conquiste dell’illuminismo e tanto meno della rivoluzione francese,
mentre oggi essa accoglie con gratitudine
la dichiarazione dei diritti umani dell’ONU (10 dicembre 1948)
e stimola ad altre analoghe dichiarazioni
per i diversi soggetti della famiglia umana (la famiglia, i bambini, gli anziani ecc.).
 
Essendo le identificazioni con la Chiesa sempre parziali e selezionate,
suona strana la pretesa di rappresentare i cattolici da parte di forze politiche
che scelgono dentro il messaggio cristiano solo ciò che è utile alle proprie visioni
e lo integrano in orizzonti eterogenei di tinte non sempre compatibili.

Per questo si ingenera una certa ambiguità.
E’ vero perciò che talvolta quegli atteggiamenti
potrebbero significare un mancato riconoscimento di cittadinanza dei cattolici nella città,
quasi un tentativo di renderli corpi estranei nel momento in cui se ne assumono i valori.
 
Ma il tentativo di varie forze politiche di accreditarsi come rispettose del cristianesimo
potrebbe anche sottintendere una, magari ancora inespressa,
volontà di superamento della logica, che si sta imponendo, dell’amico-nemico.
La logica della conflittualità perenne, che avanza ai nostri giorni,
rischia di risolvere il rapporto interumano
nel rapporto esclusivo con un amico o con un nemico.

 
Solo in momenti di grave impossibilità di comunicazione dei propri valori
il cristiano può ridursi al semplice ambito del sociale.
 
                                                                       (Carlo Maria Martini)
 
 
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MM

Informatica

LA "INDUZIONE" NEL PENSIERO DIGITALE

Il mondo della Rete ci sommerge? Ci manipola? Ci minaccia? Ci inganna? Induce in noi bisogni e orientamenti subconsci? Insomma, è un fatto di libertà accresciuta e di opportunità moltiplicate, o anche una subdola regressione di dipendenza da un “grande fratello” che ha tentacoli ormai quasi imprendibili per noi?
 
Non è semplice parlarne, nel senso che si tratta di realtà complessa, che contiene e cumula dentro di sé opportunità e minacce, servizi e inganni, relazioni e insidie. Come gran parte delle cose della vita che ci circonda, del resto. “Che mondo sarebbe senza l’energia elettrica? Immagina gli ospedali, le fabbriche, le città… senza energia elettrica. Sarebbe un mondo più povero. Certo, con l’energia elettrica ti ci puoi però anche giocare la vita, se non la usi bene: puoi morire fulminato da un maneggio malaccorto di fili elettrici…Dipende, insomma, dall’uso che ne fai: le cose usate a fin di bene fanno del bene, le stesse cose usate a fin di male fanno del male”, mi spiegavano i miei maestri.
 
Deve essere così anche per il mondo pervasivo e avvolgente della Rete. Occorre accostarlo correttamente, apprendere a dominarlo e a non lasciarsene dominare, usarlo a fin di bene e non a fin di male. Ma, per educarsi a tale orientamento positivo, bisogna conoscere con la mente, orientarsi con la volontà, scegliere con libertà responsabile. Nella realtà la Rete trova moltissimi di noi impreparati ad affrontarla con maturità, ed anche le generazioni nuove, che, come suol dirsi, “nascono digitali”, cioè apprendono prestissimo a maneggiare con grande facilità i paesaggi di questo universo, non è affatto detto che lo dominino: anzi, abbiamo davanti a noi moltissimi casi che dimostrano il contrario, cioè un rischio di dipendenza morbosa e malata dalla Rete, una distorsione di uso della Rete a fin di male, consapevole o meno che sia.
 
E allora iniziamo a parlarne proprio con la consapevolezza di un cammino che vuol partire dalla conoscenza corretta e arrivare  a una saggezza d’uso positiva. Giovanni Tomei, che apre con noi questa rubrica, è uno che ne capisce. È ingegnere informatico, intanto, e nel mondo della Rete ci vive quotidianamente a livello professionale. Ma è, non meno, persona che per principio non prescinde dall’applicare all’utilizzo della Rete lo stesso criterio etico di responsabilità che presiede alle altre scelte responsabili di vita. Garante di questo suo approccio è una precisazione che volentieri esce dalla sua bocca quando parliamo con lui di questi problemi: “Sono cresciuto alla scuola di Olivetti, quando era proprio la grande Olivetti del grande Adriano, che certo non concepiva efficienza tecnica senza responsabilità etica”.
 
Cominciamo, metodologicamente, con il “tagliare l’elefante a fette”, come si dice: cioè con il capire bene il significato di termini e concetti fondamentali per accostarsi alla Rete. Il primo di essi, propostoci da Tomei, è “induzione”. Non possiamo giurare che ogni frase dell’autore sia per tutti noi perspicua, perché alcuni fra noi, come chi scrive questo breve corsivo di presentazione, sono ancora, in materia informatica, come un “pulcino impigliato nella stoppa”, cioè alle prime armi della conoscenza: ma… cominciamo. (Giuseppe Ecca).
 
 
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In-ducere, indurre, significa “portar dentro”, “attirare a sé”, attraverso forme di persuasione e di azioni indirette, capaci di promuovere scelte che siano ritenute confacenti ad agire in tal senso sul piano individuale.
 
Gli utenti digitali che navigano in rete sono all'incirca 2 miliardi nel mondo, e lo fanno utilizzando il paradigma di funzionamento digitale, unico e uguale dappertutto, di Internet, attraverso le autostrade digitali delle reti fisiche che avvolgono ogni luogo del nostro pianeta, annullando tempo e spazio alla velocità della luce. Il risultato è che in qualche millisecondo ogni dato ricercato da un punto qualsiasi del globo viene evidenziato a video ovunque esso risieda in forma digitale da qualche parte della Terra.
 
Questa frase, appena scritta qui sopra, è stata aperta con “utenti digitali”. Occorre riflettere che si è utenti di “qualcosa”. Sul piano “digitale”, significa che da qualche parte il “pensiero digitale” di qualcuno ha costruito quel che si “cerca”.
 
Pertanto, il “pensiero digitale” conduce a dividere il campo degli esseri umani sempre in due parti, come avviene nella realtà: chi pensa e propone soluzioni digitali, e chi trova quel che vuole tra le cose digitali proposte da chi “pensa digitale”. Un esempio: chi pensa digitale ha costruito WhatsApp e lo ha reso disponibile a tutti noi, per scelta consapevole, sui rispettivi telefoni cellulari della generazione tecnologica degli smart-phones (telefoni intelligenti).
 
La differenza con la realtà usuale è… l'indifferenza al luogo e al tempo per compiere un'azione cospicua, considerando la velocità della luce con cui si scambiano azioni determinate tra sorgente e destinatario, nella certezza che entrambi concludano l'azione resa disponibile dagli strumenti messi a punto da un pensatore digitale.
 
La particolarità, che riporta al “pensiero digitale”, pone in evidenza come le relazioni aperte da una comunicazione digitale includano sempre due categorie di esseri umani: chi propone e chi usa quel che viene proposto. Questo, però, sul piano digitale, qualifica chi propone come colui che induce e l’altro come colui che è indotto a utilizzare lo “strumento” che l'induttore ha reso disponibile in “Rete”. E l'utilizzo non è altro che l'apertura di una comunicazione tra due o più “utenti”, ad un livello indotto da colui che ha proposto lo “strumento”, per far accadere un effetto legato a comportamenti pre-determinati, utili all'obbiettivo del proponente.
 
Si noti che il creatore dello strumento digitale è colui che detiene la conoscenza di quanto avviene nella comunicazione, attraverso cui sviluppa analisi utili a migliorare lo strumento per i fini che ha posto alla base della sua creazione digitale.
 
Se si riflette sul funzionamento di WhatsApp, si ritrovano questi elementi, costituenti una forma sociale di comunicazione e, tra l'altro, ampiamente studiati in questo ultimo decennio anche sul piano delle neuroscienze cognitive, fino ad entrare nella ricerca della neuro-etica e della neuro-economia, assumendo elementi psicologici essenziali dalla Teoria dei Giochi e dai suoi dilemmi.
 
Considerando l'interesse a riflettere su possibili azioni digitali utili al gruppo sociale con cui si è in relazione, forse si comprenderà meglio perché si propone l'utilità del pensiero digitale tra noi, per tentare di dimostrare la produttività di uno “strumento” digitale dedicato ai nostri obiettivi, strumento che, per la peculiarità cui è destinato, non può che essere progettato e realizzato con software proprietario.
 
Basterebbe riflettere sulla dimensione politica, sociale ed economica proposta sul motto “cittadinanza digitale”, dalla piattaforma “Rousseau” della Casaleggio & Associati, per l'evidente contenuto politico che, richiamando i temi dell'induzione, tende a portare acqua al mulino del M5S.
 
Da notare che non conta “chi”, considerando che, anche con le migliori intenzioni possibili, il “chi” tende a dividere il campo in cui si svolge una partita, mentre è molto più utile il “come”, con quali regole sia possibile indurre il gioco, senza dividere i “tifosi”, nel nostro caso gli “utenti” di una creazione digitale.
 
Per approfondire, propongo una analisi sintetica attraverso il portale web che tratta di una “induzione digitale” particolare. Si tratta di un insieme di servizi di crowdfunding (raccolta di fondi) che inducono il “dono”: https://www.helpfreely.org/it/.
 
Chi ha realizzato questo portale per renderlo usufruibile sulla “Rete” ai circa 2 miliardi potenziali di utenti digitali che navigano su Internet, ha cominciato col riflettere che, per indurre comportamenti predeterminati, era necessario operare una prima scelta: proporlo sul web in molte lingue. Infatti, se si analizza il nome del “Dominio” nella barra iniziale che, finendo con “/it”, indica che dopo il nome a Dominio originale: “helpfreely.org”, ogni “/tld-sigla di un paese”, nel nostro caso “/it”, a indicare “Italia”, permetterà la visione del portale agli “utenti” potenziali nella lingua del luogo.
 
Procedendo, appare intuitiva la relazione aperta tra gli utenti del portale provando a spiegare il significato effettivo di “Tu compri, Noi doniamo!”. Alla lettera, significa che “Noi” è il proprietario del portale web, il quale induce tre categorie di soggetti “utenti” dello strumento a interagire attraverso il portale su due piani essenziali, ma con significati diversi, al fine di essere ciascuno un “Noi”, indotto ad agire sulla percezione dei “vantaggi” che ciascuno ricava dalla partecipazione, iscrivendosi al portale per potere essere utente dei servizi disponibili:
 
1. Iscrizione al portale di una Organizzazione “No Profit”;
2. Iscrizione al portale di un “utente digitale”, in qualità di “cittadino consumatore”;
3. Iscrizione al portale di un “utente digitale”, in qualità di “Negoziante” che accetta di
partecipare al “dono”, riconoscendo una quota di “moneta corrente” per gli acquisti
effettuati nel suo negozio da parte di un “cittadino consumatore” che intenda favorire una
specifica organizzazione “no profit” iscritta.
 
I processi induttivi promossi dai servizi che accompagnano l'iscrizione al portale:
 
1. L'Organizzazione No Profit, partecipa volentieri perché ha tutta per sé una vetrina sul
mondo digitale che promuove in generale il suo scopo, oltre che per godere di un
meccanismo di comunicazione, come raccolta fondi indotta dal sistema costruito dal
“pensiero digitale” che identifichiamo in “Noi”, verso i potenziali utenti digitali del
“sistema” presente sulla “Rete”, per di più con il vantaggio di indurre la medesima
fattispecie del “dono” oltre i confini nazionali e nella lingua del luogo.
 
2. L'utente digitale, come cittadino consumatore, è attratto dal portale perché ritrova un modo corrispondente a una sua necessità emotiva, che promuove e spinge a donare
all'organizzazione no profit da lui indicata, ma senza che questo comporti alcun impegno
personale, se non mettere a frutto la sua qualità di “consumatore”, al fine di acquistare beni e servizi nei “Negozi” indicati nel portale, al fine di predeterminare la quantità di dono che sarà erogata alla organizzazione no profit da lui indicata.
 
3. Il “Negozio”, partecipa volentieri al portale, percependone il valore marketing di
promozione del suo marchio e dei suoi prodotti-servizi, cui si aggiunge
l'effetto emotivo della partecipazione solidaristica a procurare fondi alle organizzazioni no
profit, predeterminati dai consumatori, sulla quota corrispondente al “dono”, funzione
dell'importo dell'acquisto effettuato, contribuendo al posizionamento competitivo sul
mercato di quel “Negozio”.
 
4. “Noi”, il riflessivo digitale che ha pensato tutto questo, non ha fatto altro che indurre la
convergenza di comportamenti, in modo che ciascuno fosse consapevole di assolvere ad una funzione determinata, ma sulla circostanza di essere stato indotto a quel comportamento per i “vantaggi” ricavabili.
 
Un insieme intelligente, smart, basato sul valore cognitivo ed emotivo costruito da una persona, o un gruppo, che ha messo a punto lo “strumento” pubblicandolo sulla “Rete”, sotto il nome di “help freely”, un modo di promuovere un aiuto libero e facile”, alla portata di tutti, per aiutare, oltre la propria condizione sociale, economica e giuridica, interpretabile nel motto “Tu compri, Noi doniamo!”.
 
E i vantaggi indotti dal pensiero digitale non sono tutti qui, se si riflette che le basi di dati, sulle proiezioni attese per Paese, agendo sul “Terzo settore” e sull'economia reale, che parla di relazioni di scambio tra “consumatori” e “operatori commerciali”, porta conoscenza puntuale, anche sul piano della localizzazione degli utenti nei territori in cui risiedono, che promuove ulteriori vantaggi per ulteriori pensieri digitali e su molteplici piani.
 
Un modo per affrontare i temi della comunicazione digitale dal lato del “Noi”, sul piano dell'induzione verso azioni predeterminate di soggetti terzi, utili a scambiare sulla rete comunicazioni e vantaggi promossi da un gruppo di persone in grado di avere “pensieri digitali”, per costruire strade comuni e per obiettivi che sarebbe opportuno scaturiscano da riflessioni dialogiche tra chi ne dovesse percepire l’utilità.
 
                                                 (Giovanni Tomei)
 

Impresa e lavoro

FARE IMPRESA A BRUXELLES: UNA PICCOLA OCCASIONE CONCRETA

Studisociali.org non è pensato tanto per scambiare informazioni quanto per sviluppare riflessione e costruire pensiero. Tuttavia esso è anche, nello spirito compiuto che lo anima, strumento di servizio concreto per quanto possa essere utile e buono in termini di cittadinanza attiva e responsabile, di solidarietà, di bene comune.

In questo senso, siamo qui a fare eco a una inattesa e simpatica segnalazione dell’amico Raffaele Orgiana, attivissimo operatore sardo in Germania presso la comunità dei corregionali, in contatto stretto con le nostre autorità consolari di Monaco di Baviera e ben collegato anche con le comunità sarde e italiane di altri paesi.

Egli ci trasmette l’annuncio del signor Massimo Tronci, piccolo imprenditore sardo che opera a Bruxelles nel settore della ristorazione, il quale cerca un socio, non necessariamente sardo ma necessariamente appassionato di impresa e di alimentazione con prodotti sardi, per la sua pizzeria a Bruxelles e per qualche relativo progetto di sviluppo (diversamentepizza758@gmail.com).

Scrive Massimo Tronci:


“Intendo rilanciare la mia pizzeria qui in Bruxelles, nel cuore della città, a due passi dalla sede del Parlamento Europeo. Sono originario di Assemini dove mio padre ha sempre coltivato il grano, e la pizzeria l'ho aperta qui nella capitale belga proprio per utilizzare la farina di quel grano e altri ingredienti sardi, quali pomodori, formaggi, e altro. Ho elaborato un'ottima ricetta, che rende la mia pizza digeribilissima e per questo molto apprezzata. La produco sia tonda sia al taglio.


Cerco un imprenditore che venga a Bruxelles per assaggiarla  e studiare con me le due possibilità sulle quali vorrei puntare, insieme con lui: sviluppare la consegna a domicilio, per la quale c'è un'area con circa 180.000 persone come mercato, nei quartieri centrali e benestanti di Bruxelles, e in aggiunta dare impulso a una piccola sala con 15-20 posti a sedere, per il cui studio ci sono già due architetti (uno dei quali sardo) pronti a mettersi all'opera.


Non nascondo che si potrebbe puntare anche all'apertura di altri punti-vendita: ma è fondamentale creare una squadra con persone senza grilli per la testa, lavoratrice e seria. Io mi occupo direttamente della ricetta e dell'impasto. Non sono nato vero pizzaiolo, sono piuttosto un agricoltore che ha studiato la ricetta utilizzando prodotti agricoli di prima qualità e di famiglia, i quali mi permettono di ottenere una pizza di ottima qualità e digeribilità  e contemporaneamente di tenere un contatto diretto e attivo con gli agricoltori sardi. Il locale, qui a Bruxelles, è piccolo, 65 metriquadrati, ma è posizionato a 1 km dalla Commissione Europea, nel cuore della città, dunque con forti potenzialità. Ritengo si possa fare un ricavo giornaliero di non meno di 1000€, ma occorre una buona organizzazione.


Aspetto con fiducia la visita di qualcuno interessato a collaborare con me, perché si renda conto del prodotto e poi decida come voler partecipare. Insieme possiamo sviluppare una esperienza forte. Fornisco qui i miei riferimenti diretti per il contatto:
a. il mio CV su https://www.linkedin.com/in/massimo-tronci-8652313a/;
b. il mio indirizzo: Diversamentepizza, Chaussée de Wavre, 758, 1040 Bruxelles;
https://www.google.com/maps/place/Diversamente+Pizza/@50.829677,4.3894576,17z/data=!3m1!4b1!4m5!3m4!1s0x47c3c4b99527288b:0x156bee6ff0fed0!8m2!3d50.829677!4d4.3916463.
Tel.: +32 (0) 2 217 11 07;
GSM: +32 48 99 31 997;
     +32 46 57 82 922”.
 
Formuliamo i nostri migliori auguri a Massimo Tronci per la sua impresa, ed a Raffaele Orgiana per il suo operato con le nostre comunità sarde. Ci permettiamo appena di osservare prudenzialmente che la superficie di 65 metriquadrati come punto-base per l’impianto dell’azienda è di per sé piuttosto ridotta, ma un buon progetto di sviluppo può consentire di superare questo limite: ai curiosi e coraggiosi che avessero interesse, l’invito ad approfondire l’opportunità.

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Economia

NEOLIBERALI: ANZI, NEOLIBERISTI. MA IL RISULTATO E' PESSIMO

Strana davvero, almeno apparentemente, l’economia di questi ultimi decenni, in Italia e nel mondo: più i suoi presupposti e i suoi dogmi falliscono alla prova dei fatti e dei risultati,in termini di bene comune, più i suoi comportamenti vengono confermati e imposti come linea strategica e politica dagli Stati e dagli organismi internazionali, a Whashington come a Londra, a Bruxelles ed a Francoforte, e nella stessa Italia: da parte della politica prevalente e dei poteri dominanti, nonostante i meccanismi del controllo democratico.  
 
Si tratta di quel fenomeno che va sotto il nome generico di “neoliberismo”.  Viviamo appunto una epoca di neoliberismo trionfante, strafottente e paradossalmente quasi impossibile a mettersi in discussione, sembrerebbe, nonostante, appunto, la evidente negatività dei suoi risultati in termini di bene comune: se appena si parla di ipotesi di interventi correttivi degli Stati per rendere meno mostruosi gli effetti di una siffatta economia, per diminuire disoccupazione e fallimenti aziendali, per restituire al risparmio valore affidabile al posto della volatilità da gioco d’azzardo cui assistiamo, per togliere precarietà alla distribuzione del lavoro e accrescere equità a quella del reddito, si viene, di fatto e in silenzio, messi ai margini delle cattedre universitarie, delle commissioni scientifiche e politiche che si occupano di economia, della grande stampa che fa opinione; si viene collocati tra i “fuori del coro”, insomma, considerati estranei alle “vere” competenze economiche, e a volte isolati come “anticaglie da interventismo superato”, residui di impostazioni “democristiane”, di illusioni socialistiche, di buonismo liberalsociale, e simili.
 
Eppure, da qualche anno, il replicarsi dei fallimenti e delle smentite drammaticamente concrete circa la fondatezza di tanta sicumera politica e cattedratica, moltiplicatisi soprattutto nella crisi 2008-2018, un inizio di riflessione critica sembra averlo avviato, sia pure ancora in tono piuttosto timido, e ospitato più che altro in fogli di seconda pagina e in limitati fortilizi dove il buonsenso non sia stato bandito.
 
Studiosi come Stiglitz, con il suo premio Nobel, altri in diversi paesi, ed in Italia un gruppo per il vero sempre meno silenzioso, di cui fanno parte Zamagni, Becchetti, Fadda, il mai remissivo e sempre combattivo Nino Galloni, e ulteriori, stanno cercando, pur con sensibilità personali diversificate, di sviluppare qualcosa di più che una sommessa e minoritaria posizione critica nei confronti di tanta barbarica pompa di menzognero neoliberismo economico passato per liberalismo. Ebbene, va sostenuta  fortemente, questa crescente voce critica, perché importa e urge accelerare i tempi di un sano riallineamento fra economia e bene comune.
 
Il cammino sarà peraltro ancora piuttosto lungo, probabilmente, perché tanto la grande finanza speculativa internazionale quanto i suoi piccoli e interessati servitori nazionali in livrea, anche italiani, hanno in realtà immensa forza condizionatrice, dotata di amplissimi mezzi e di convenienza indubitabile a difendere imperterriti la fallimentare situazione: gli affari, soprattutto se cinici e sporchi, si fanno senza le pastoie di preoccupazioni sociali che non si limitino alla dimensione della filantropia. Chi guadagna, da questa economia insensata a dominanza finanziaria, sono infatti soltanto loro, è l’attività speculativa di ogni genere, ben raramente l’economia reale.   
 
Ma da dove è nata, e dove si alimenta tuttora, l’ubriacatura insensata di neoliberismo che da decenni viene imposta come giusta e logica?
 
Una delle voci più autorevoli, anche moralmente oltre che tecnicamente, fra quelle che non hanno mai mancato di rilevare il vicolo cieco di iniquità sociale in cui il mondo sviluppato si è cacciato, e la necessità di una correzione di rotta e di un ampio recupero di  cultura economica indirizzata al bene comune, è stata quella di Luciano Gallino, il sociologo scomparso appena una manciata di mesi fa, interprete e testimone, fra l’altro, della grande esperienza olivettiana. Anzi, secondo Gianni Liazza, il più autorevole fra gli interpreti di tale esperienza.
 
Pubblichiamo una delle sue ultime riflessioni, dedicata proprio a spiegare il fenomeno di questo abnorme predominio esercitato negli ultimi decenni dall’apparentemente liberale ideologia del neoliberismo. Il misterioso mondo della Mont Pélerin Society, in particolare, cioè una delle fonti strategiche di tale rovinoso pensiero economico, ci viene spiegato da Gallino con le parole che seguono, in un articolo originariamente pubblicato su “La Repubblica” del  27 luglio 2015.
 
 
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Quando apro le finestre al mattino, di questi giorni, lo sguardo mi cade inevitabilmente sul Mont Pélerin, al di là del lago.
È una montagnola svizzera a
pochi chilometri da Montreux, nota sin dagli anni Venti per i buoni alberghi e il
clima mite. È anche il luogo da cui ha avuto inizio, con la fondazione della Mont
Pélerin Society (Mps) nel 1947, la lunga marcia che ha portato il neoliberalismo a
conquistare un’egemonia totalitaria sull’economia e la politica dell’intera Europa.
Con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancor oggi esperienza. Gramsci
avrebbe trovato di grande interesse la strategia adottata dalla Mps per conquistare
l’egemonia, intesa nel suo pensiero come un potere esercitato con il consenso di
coloro che vi sono sottoposti. Anziché costituire l’ennesima fondazione o un think
tank, un luogo di cervelli, specializzato nel promuovere questo o quel ramo dell’economia,
Mps scelse di costruire su larga scala un “intellettuale collettivo”.
 
Quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali
(tra cui Maurice Allais, Walter Eucken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper) per fondare la Mps,
i convenuti erano soltanto 38, per la maggior parte europei. Alla fine degli anni ‘90 erano diventati più di mille,
sparsi in tutto il mondo, sebbene la maggioranza continuasse a provenire dall’Europa.
 
Radicato per lo più nell’accademia, questo intellettuale collettivo non redasse
ambiziosi manifesti programmatici (gli “intenti” formulati nel ’47 al momento
della fondazione sono una paginetta piuttosto banale, che si può leggere anche
oggi identica sul sito della Mps), o grandi progetti di riforme istituzionali.
Produsse invece migliaia di saggi e di libri, non pochi di notevole livello, che
ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della Mps erano e sono l’essenza del
neoliberalismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale;
la superiorità fuor di discussione del libero mercato;
la categorica riduzione del ruolo dello Stato
a costruttore e guardiano delle condizioni
che permettono la massima diffusione
dell’uno e dell’altro.
 
Grazie a questo immenso e capillare lavoro, verso il 1980 le dottrine
economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali
nelle università e nei governi.
Non è stata ovviamente soltanto la Mps a spendersi a tal fine,
ma il suo ruolo è stato soverchiante. Non esagerava uno storico del pensiero neo-liberale (Dieter Plehwe)
quando definì la Mps, anni fa, «uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca».
 
Peraltro i soci non si sono limitati a pubblicare articoli e libri. Molti di loro
sono giunti a occupare posizioni centrali nell’apparato governativo dei maggiori
paesi. Ai tempi della presidenza Reagan ( 1981-88), su una ottantina di consiglieri economici del presidente
più di un quarto erano della Mps. Le liberalizzazioni finanziarie decise dal governo Thatcher
nella prima metà degli anni ‘80, che hanno cambiato il volto dell’economia britannica,
furono elaborate in gran parte dall’Institute of Economic Affairs, una filiazione della Mps fondata
e diretta da due soci, Antony Fisher e Ralph Harris.
I vertici dell’industria francese e tedesca sono sempre stati numerosi nelle fila della Mps,
intrattenendo stretti rapporti con i soci provenienti dal mondo politico.
 
Di rilievo è stata la partecipazione italiana alla Mps. Tra i suoi primi soci vi è
stato Luigi Einaudi. Due italiani sono stati presidenti: Bruno Leoni (1967-68) e
Antonio Martino (1988-1990) che figura tuttora fra i soci, accanto a (salvo errore),
Domenico da Empoli, Alberto Mingardi, Angelo Maria Petroni, Sergio Ricossa.
Due caratteristiche segnano fortemente l’egemonia della Mps sulla cultura e la
prassi economico- politica degli Stati europei a partire dagli anni ’80. La prima è
la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero — specie in economia.
Il keynesismo, fin dalle origini l’arcinemico dalla Mps, è stato ridotto
all’insignificanza, e con esso quello di Schumpeter, di Graziani, di Minsky.
Sopravvivono qui e là in qualche dipartimento universitario, ma nella politica
economica della UE contano zero. A forza di liberalizzazioni ispirate dalla cultura
Mps, il sistema finanziario domina la politica non meno dell’economia — come ha
dimostrato per l’ennesima volta il caso greco. I sistemi pubblici di protezione
sociale sono in corso di avanzata demolizione: non servono, anzi sono nocivi,
poiché ciascun individuo, secondo la cultura neoliberale, è responsabile del suo destino.
La scuola e l’università sono state riformate, a partire dalla Germania per finire con l’Italia,
in modo da funzionare come aziende. Wilhelm von Humboldt si starà rivoltando nella tomba.
 
La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale formato Mps è
la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno 15 anni.
I primi anni 2000 hanno visto il crollo delle imprese dot.com,
glorificate dagli economisti neolib, che in nove casi su dieci erano trovatine su cui
le borse, in nome dell’ipotesi che i mercati sono sempre efficienti, scommettevano
miliardi di dollari. I secondi anni 2000 hanno invece assistito al quasi crollo
dell’economia mondiale, minata dalla finanza basata deliberatamente su milioni di
mutui ipotecari che le famiglie non avevano i mezzi per ripagare.
 
Dopo il 2010, gli economisti neoliberali e i politici da loro indottrinati hanno
imposto alle popolazioni della UE le politiche di austerità, rivelatesi un fallimento
totale a giudizio dei loro stessi promotori. In sintesi, gli economisti formato Mps
hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la grande crisi;
non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla, e hanno proposto rimedi
che hanno peggiorato la situazione.
Ad onta di tutto ciò,
continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE.
 
Se uno potesse chiedere a Gramsci come mai le sinistre europee comunque
denominate, a cominciare da quelle italiane, sono state travolte senza opporre
resistenza dall’offensiva egemonica del neoliberismo partita nel 1947 dal Mont
Pélerin, forse risponderebbe «perché non li avete saputi imitare ». Al fiume di
pubblicazioni volte ad affermare l’idea dei mercati efficienti non avete saputo
opporre niente di simile per dimostrare con solidi argomenti che i modelli con cui
si vorrebbe comprovare tale idea si fondano su presupposti del tutto inconsistenti.
 
Inoltre, proseguirebbe Gramsci, dove sono i vostri articoli e libri che
rivolgendosi sia agli esperti che ai politici e al largo pubblico si cimentano a
provare ogni giorno, con solidi argomenti, la superiorità tecnica, economica,
civile, morale della sanità pubblica su quella privata; delle pensioni pubbliche su
quelle private, a fronte degli attacchi quotidiani alle prime dei media e dei politici,
basati in genere su dati scorretti; dello Stato sulle imprese private per produrre
innovazione e sviluppo, oggi come in tutta la seconda metà del Novecento;
dell’importanza economica e politica dei beni comuni sull’assurdità della
privatizzazioni?
 
Poiché la natura ha orrore del vuoto, il vuoto culturale, politico, morale delle
sinistre è stato via via riempito dalle successive leve di lettori, elettori, docenti,
funzionari di partito e delle istituzioni europee, istruite dall’intellettuale collettivo
sortito dalla Mps. Il consenso bisogna costruirlo, e la MPS ha dimostrato di
saperlo fare. Le sinistre non ci hanno nemmeno provato.
 
                                                                                                          (Luciano Gallino)
isti

Sindacalismo

UNA CONTRATTAZIONE DI GALLEGGIAMENTO?

 
“Contrattare, contrattare, contrattare”, ha insistito, anche in un comunicato recente, con entusiasmo comprensibile, un mio amico sindacalista, responsabile di una importante federazione nazionale di categoria.
 
Comprensibile, il suo entusiasmo, perché la filosofia della contrattazione collettiva è, in effetti, il tessuto solido di fondo delle relazioni sindacali positive e dei loro risultati di crescita, in un paese libero e democratico, pluralista e con ampia e sviluppata economia di mercato: come è appunto l’Italia. Se poi il sindacalista è di scuola Cisl, come nel nostro caso, la sensibilità contrattualista è anche, in particolare, il valore metodologico portante dell’azione sindacale.
 
Senonché, in un numero crescente di casi degli anni recenti, appare anche legittimo e doveroso chiedersi: “Sì, ma… contrattare che cosa? Contrattare con quale strategia di fondo? E con quali verifiche di lungo periodo? ”. E’ ricorrente infatti la impressione che il sindacalismo italiano sia venuto attestandosi in questi ultimi anni su una linea di contrattazione che, mentre sottolinea e difende il metodo, finisce spesso per impoverirlo di fatto in una sostanza di contenuti che per i lavoratori si riducono a miglioramenti salariali – a volte anche significativi se considerati insieme con gli elementi di salario in natura, o indiretto, o di benessere (di welfare aziendale, come dicono gli analfabeti) – e aggiustamenti degli inquadramenti, che lasciano però ben salda la briglia del cavallo aziendale in mano dell’imprenditore, al quale, in fondo, conviene essere anche generoso, spesso, sul piano salariale, purchè non si intacchi la struttura sostanziale del rapporto di lavoro e la sua subordinazione strutturale alla dominanza di un profitto d’impresa concepito in chiave quasi esclusivamente finanziaria.  
 
Tant’è che si assiste altrettanto spesso, anche, al malinconico rituale della contrattazione sui “premi di risultato per l’anno concluso, su cassa dell’anno corrente”. Sono i cosiddetti “premi di produzione”, o “di risultato”. I lavoratori in genere gradiscono, naturalmente, ma non si rendono pienamente conto – né sembra rendersene pienamente conto il sindacato – che nel corso dell’anno han dovuto il più delle volte ingoiare tagli dei posti di lavoro o ristrutturazioni quasi unilaterali, che impoveriscono il patrimonio immateriale dell’azienda: ad esempio, l’efficienza dei servizi resi ai clienti nei casi di aziende in oligopolio.  
 
Il che non significa che la contrattazione di questi anni sia negativa o priva di risultati: significa, semplicemente ma significativamente, che essa rischia, alla lunga, di assestarsi in una situazione strategica di galleggiamento da sopravvivenza piuttosto che di avanzamento graduale verso gli obiettivi di cointeressenza e corresponsabilità piena dei lavoratori nell’impresa.
 
Il riscontro di questa lunga partita è quel capitalismo finanziario ulteriormente forte, e quel peso del fattore lavoro ulteriormente debole, che constatiamo: cioè, nessun passo sostanziale in avanti in quella semplice civiltà del lavoro che esige appunto la trasparente condivisione dei profitti, delle perdite e delle decisioni. 
 
Bene ha fatto, in questo senso, Giuseppe Bianchi – attraverso il suo sempre autorevole Istituto per le Relazioni Industriali – a ospitare la recente riflessione lucida di Giovanni Graziani, il quale analizza a fondo una delle realtà portanti della contrattazione sindacale europea che non arretra, cioè quella tedesca, per ricavarne qualche suggerimento utile. Orientato alla Mitbestimmung, cioè alla cogestione, il modello tedesco ha saputo mantenere molto forte la barra della sua cultura e della politica sindacale su una negoziazione che non si è lasciata addomesticare: si tratta di essere sostanzialmente corresponsabili delle dinamiche e del destino aziendale – e questo valore è da sempre anche nella cultura del sindacalismo democratico italiano – ma non rinunciatari rispetto all’obiettivo più strutturale del sindacalismo, cioè la piena partecipazione dei lavoratori nell’impresa. La quale non è affatto questione di premi di  risultato né di riduzione dei tagli occupazionali. Giovanni Graziani prende ottimo spunto, in particolare, dall’autorevolissimo ultimo rinnovo contrattuale del settore metalmeccanico tedesco per proporre ai lavoratori ed ai sindacalisti italiani una lettura corretta del “modello tedesco”, a volte mal compreso o addirittura inconsapevolmente travisato, ai fini di una riflessione profonda e strutturale sulla ri-evoluzione auspicabile delle relazioni sindacali in Italia, che hanno alle spalle una tradizione ricca anche di periodi di grande forza ed efficacia.(Giuseppe Ecca).  
 
 
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I tedeschi ci fanno paura? La domanda può sembrare mal posta se riferita al presente, visto che l'esempio tedesco è indicato un po' da tutti come la strada da seguire in materia di lavoro e di relazioni industriali. Solo che l'esempio è indicato da parti diverse, e per sostenere che bisogna andare in direzioni opposte.
Capita così che l'esempio tedesco venga indicato sia da chi chiede salari più alti come da chi insiste per la moderazione salariale, da chi rivendica "le riforme" e la "flessibilità" del mercato del lavoro come da chi le teme o le rifiuta, da chi insiste sui temi della collaborazione e della partecipazione e da chi invece rilancia il tema del conflitto. Il che è sufficiente a far sospettare che nei nostro discorsi sulla Germania ci sia qualche difficoltà di traduzione, per cui ognuno parla di una "sua" Germania, di un'immagine che si è fatto per confermare delle proprie idee. E l'effetto è di fare dell'esempio tedesco nei discorsi italiani qualcosa di molto simile alla proverbiale notte in cui tutti i gatti sono egualmente bigi.
L'ultimo contratto dei metalmeccanici tedeschi però non si presta a equivoci: perché è chiaramente un contratto di aumento delle retribuzioni, e che contemporaneamente permette al lavoratore che lo desideri di accedere ad una significativa riduzione d'orario. Più salario per tutti, e (eventualmente) meno orario per qualcuno, con conseguenze inevitabili di aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Un contratto costoso per le imprese e vantaggioso per i lavoratori, che i sindacati hanno ottenuto con la minaccia dello sciopero ad oltranza e che le imprese hanno cercato di contrastare in tutti i modi, comprese le minacce di ricorso in Tribunale per chiedere risarcimento dei danni, salvo arrivare alla conclusione (visto che l'impresa capitalista è calcolo razionale a scopo di profitto) che uno sciopero in un momento in cui gli ordinativi sono tanti e le casse di resistenza dei sindacati sono piene, avrebbe avuto costi maggiori della firma di questo contratto, pur così oneroso.
Solo che a questo punto i tedeschi cominciano a fare un po' di paura all'Italia sindacale. Non a tutti, ma a quanti in Italia predicano da anni, e continuano a predicare in questi giorni, la moderazione salariale come paradigma senza alternativa sia quando le cose vanno male, perché allora non si possono caricare le imprese di costi non sopportabili, sia quando le cose vanno bene, perché il fatto che vanno bene è visto come la prova che la moderazione salariale funziona. Col risultato di rinviare il giorno in cui i lavoratori vedranno rafforzati i loro redditi al giorno di san nessuno.
Questa moderazione salariale in Italia è strutturale, a differenza che altrove, perché viene realizzata attraverso contratti nazionali pluriennali vincolati al rispetto di criteri decisi a livello interconfederale e rinnovati in base all'andamento reale o previsto dell'inflazione (in anni in cui l'inflazione tende a zero!) e rinviando gli aumenti legati alla produttività ad un livello aziendale dove sia le Rsu che le organizzazioni sindacali locali non hanno mostrato grande capacità di ottenere aumenti significativi (molti accordi aziendali si fanno in presenza di situazioni di crisi, quindi per definizione sono concessivi e non acquisitivi).
A quanti sta bene questo modello, e che approfittando del grigiore notturno sostengono falsamente che "anche in Germania si fa così", l'accordo conquistato dall'Ig Metall fa paura perché esprime invece una concezione forte del ruolo salariale del contratto di categoria che va in senso opposto al cammino percorso da noi, sia come tutela del lavoro, sia come incentivo al miglioramento della produttività (perché se il lavoro ti costa, cerchi di farlo rendere al massimo). E perché smentisce l'idea di una presunta tendenza su scala mondiale al decentramento spinto e incontrollato della contrattazione che, abbinato alla complessiva moderazione delle politiche salariali, sarebbe la chiave di ogni esperienza di successo e quindi anche della Germania (ma non è vero), condannando invece all'insuccesso tendenze opposte o anche solo non conformi al paradigma della moderazione salariale.
Qui però c'è un equivoco: leggere la politica contrattuale tedesca come una forma di decentramento spinto non corrisponde all'immagine di decentramento "organizzato" o "controllato" di cui ci parlano, invece, i tedeschi. La (prudente) flessibilizzazione del sistema tedesco di contrattazione non ha infatti mai preso le caratteristiche di una rinuncia alla funzione ordinante esercitata dal contratto di categoria attraverso la fissazione delle retribuzioni. E il coinvolgimento dei consigli d'azienda nella politica contrattuale non ha mai preso la forma di una rinuncia a quel primato dell'autonomia contrattuale collettiva che, per legge e per costume, compete alle organizzazioni sindacali e non agli organismi aziendali elettivi. Infatti, la regola tedesca è, e rimane, il salario fissato nel contratto di categoria, mentre le concessioni a livello aziendale sono un'eccezione, temporaneamente ammessa, soprattutto in funzione difensiva in situazioni di crisi. Il che rappresenta un sistema molto meno decentrato di quello che c'è da noi.
Si può fare a questo proposito l'osservazione che Peter Bofinger, uno dei "cinque saggi" consulenti del governo tedesco, ha fatto a proposito delle leggi Hartz di riforma del mercato del lavoro di Schröder: se fosse la limitazione nel tempo del sostegno finanziario ai disoccupati di lunga durata la ragione della crescita dell'occupazione tedesca, allora Italia e Grecia dovrebbe essere ancora più avanti sulla strada della piena occupazione; e se fosse la flessibilizzazione della tutela per il licenziamento senza giusta causa a favorire le assunzioni, non si capisce perché paesi che hanno tutele inferiori alla Germania non hanno gli stessi risultati.
Ed è così anche per la contrattazione: se in Italia dal 1993 abbiamo un sistema che prevede un livello aziendale di contrattazione competente a regolare le retribuzioni nell'ottica della crescita della produttività, ma poi la produttività tedesca in questi anni si è rafforzata mentre invece in Italia sono fermi la produttività e le retribuzioni, allora il decentramento di per sé non basta (e gli incentivi pubblici alle imprese per migliorare la produttività rischiano di creare dipendenza invece di risolvere il problema).
Solo che a questo sistema di moderazione salariale strutturale ci siamo abituati fino a considerarla come un destino ineluttabile, fino a non riconoscere l'esistenza di alternative. I sindacalisti di oggi rappresentano una generazione di contrattualisti più abituati ad applicare formule aritmetiche che a fare rivendicazioni di politica salariale, a strizzare il limone di un'inflazione che non c'è per rinnovare i contratti di categoria con i quali si finisce per consumare anche lo spazio che dovrebbe restare ai contratti aziendali; le confederazioni, comprese quelle datoriali, lavorano a costruire "modelli" con i quali imporre le regole uguali a realtà con andamenti economici e produttivi anche molto diversi, per difendere un ruolo che gli viene dalla tradizione più che dalle esigenze del presente; le rappresentanze sindacali unitarie elette nelle aziende non hanno lo spazio, la formazione, la capacità e gli strumenti per essere interlocutori autorevoli delle direzioni aziendali e per fare dentro ai sindacati quel che hanno fatto i rappresentanti dell'Ig Metall, cioè farsi portatori della domanda di flessibilità nell'orario che ha permesso di rivendicare e ottenere le 28 ore su richiesta di chi ne ha bisogno oltre al forte aumento salariale.
E questo non perché i tedeschi siano "più bravi", ma perché una quindicina di anni fa, dopo la crisi nazionale per i costi della riunificazione e prima della crisi mondiale, l'Ig Metall ha capito la necessità di tenere assieme politiche organizzative, politiche contrattuali e presenza nelle aziende attraverso i consigli (Organisationspolitik, Tarifpolitik und Betriebspolitik) nell'ottica del rafforzamento dell'organizzazione come chiave per rafforzare le politiche contrattuali ed impedirne l'erosione a livello aziendale. È il rafforzamento organizzativo, non il "modello contrattuale" e le sue (inutili?) riforme periodiche, o i (giusti) discorsi sul "sindacato 4.0" a permettere di fare una buona contrattazione, per gli interessi rappresentati e per il sistema paese.
Ecco perché i tedeschi ci fanno un po' paura: perché il loro esempio mette in dubbio che il modo burocratico di fare sindacato e contrattazione, l'applicazione di direttive e "modelli", o strumenti di calcolo tarati sulla moderazione nel quale è cresciuta un'intera generazione di sindacalisti sia il modo unico e senza alternative di fare politiche contrattuali. E perché dice ai sindacati che se vogliono avere il consenso e le adesioni dei lavoratori devono fare la fatica di riconvertirsi in organizzazioni capaci di rispondere alle esigenze dei rappresentati, con politiche salariali e contrattuali che non possono essere predeterminate in "modelli" concertati al centro che servono solo a perpetuare una moderazione salariale vista come destino ineluttabile.
Per fare buoni contratti bisogna far prima una buona organizzazione. E per farla, bisogna tornare a saper interrogare la propria base di riferimento e saper capire le domande che ne vengono per dare le risposte necessarie. Alla fine, i risultati potrebbero essere quelli che da anni cerchiamo di raggiungere facendo altre strade.
 
                                                                                         (Giovanni Graziani)
 
 

Cattolici e politica

NON E' UNA BELLA PAGINA: PUNTIAMO DECISAMENTE ALLA SUCCESSIVA

Il sedici giugno 2018, cioè appena poco più di un mese fa, un piccolo manipolo di “democristiani del tesseramento 1992-93”, l’ultimo tesseramento riconosciuto valido dalla magistratura ai fini della possibile ripresa di attività del partito che fu di De Gasperi e Moro, si è riunito in un hotel di Roma per proseguire nell’estremo tentativo di porre fine alle interminabili controversie interne che per ventisei anni sono state autentico cappio al collo per la speranza di ripresa della presenza organizzata dei cattolici nello scenario politico italiano, attorno al simbolo e alla eredità politica dello Scudocrociato.
 
Piccolo manipolo, abbiamo detto: il giudice ha riconosciuto valido, e titolato a decidere, un elenco di circa 1.700 soci tesserati nell’ultimo anno di vita “ufficiale” del partito, cioè appunto il 1992-‘93. Se si pensa che la Dc, a quei tempi, viaggiava con oltre un milioni di iscritti, si ha la chiara idea della quasi risibile scialuppa di salvataggio che si sta cercando (finora inutilmente) di attivare per riportare a galla il grande transatlantico che molti effettivamente, nel paese, rimpiangono.
 
Il fatto è che ci vogliono, per questa impresa, insieme, forza di carattere, capacità decisionale, senso organizzativo, autodisciplina, moralità personale e profondità di vedute. Soprattutto, crediamo, le tre ultime caratteristiche. Che finora non ci sono state. O, meglio, non ci sono state tutte a livello sufficiente.
 
Nella sala dell’Hotel Tirreno, a Roma, il sedici giugno, era presente, intanto, meno di un centinaio di persone fra le citate 1.700 che ne avrebbero avuto titolo giuridico: e quasi tutte, ovviamente, ampiamente attempate, con appena qualche “giovanissimo” cinquantenne che, ai tempi della cessazione operativa del partito, venticinque anni orsono, doveva essere un iscritto al Movimento Giovanile.
 
E proprio questa caratteristica anagrafica dell’attuale “gregge piccolo e disperso” suggerisce una prima riflessione non priva di conseguenze pratiche: davvero ci vuole un grande orizzonte davanti a sé e dentro di sé, grande moralmente, politicamente e culturalmente, per restituire vita a una formazione politica che possa essere consegnata alle generazioni giovani ed al paese, spendendo credibilmente, da un lato, il richiamo ideale a De Gasperi, Moro, La Pira, Mattei, Sturzo e gli altri padri di quella grande storia, ed esprimendo concretamente, dall’altro, una capacità di organizzazione efficiente, che faccia coincidere visibilmente i comportamenti organizzativi e personali con la elevatezza delle affermazioni valoriali. E’ essenziale, questa grandezza di orizzonte, è proprio il fondamento minimo e necessario perché una nuova formazione politica possa mettere radici solide e qualitative, e durare,  nel tessuto reale attuale del paese. Altrimenti, essa è del tutto inutile, ennesima cianfrusaglia del confuso, recriminoso e sterile bailamme politico che ci circonda.
 
E purtroppo si tratta di un orizzonte ben difficilmente ravvisabile (ci scusiamo per la valutazione, che è ovviamente soggettiva, ma onesta) nel “manipolo”, frantumato in rivoli reciprocamente  ombrosi e sospettosi, quasi sempre scalmanati, spesso incivilmente maleducati, sempre disordinati, che abbiamo visto all’opera anche il sedici giugno. Lo spettacolo cui esso ci ha fatto assistere in questa occasione è stato francamente deprimente, anzi quasi miserabile. I più attivi in sala, dopo pochi minuti dall’inizio dei lavori si stavano già accapigliando, sia a parole sia anche alzandosi dalle sedie, avvicinandosi al tavolo di presidenza, minacciando, puntando il dito, gridando, rivendicando…. E non è la prima volta. Uno spettacolo triste e indegno, altro che di De Gasperi e Moro, persino dei modesti epigoni degli ultimi quindici anni di vita della DC storica. Oltre un quarto di secolo di rimpianti per la Democrazia Cristiana che non c’è più, dunque, e di recriminazioni per la bassura della politica attuale che l’ha sostituita, e… chi lotta per far rivivere quell’antica grandezza lo fa con questo deplorevole livello di comportamenti?! Follia? Stupidità? Irresponsabilità? Meschinità? Intromissione di pensieri e intenzioni non dichiarate? Certo, inadeguatezza praticamente totale all’obiettivo affermato.
 
Abbiamo lasciato i lavori della riunione, o meglio la indecente gazzarra che stava iniziando. Prima di ora non avevamo mai abbandonato uno di questi incontri: ciascuno di noi infatti deve sempre dare fino in fondo il contributo migliore che può. Questa volta però abbiamo valutato,  sintetizzando nella memoria tutti gli incontri precedenti, che no, non ci sono proprio le basi culturali, né politiche, né morali, per l’impresa annunciata e di cui fin troppo enfaticamente si chiede anche la benedizione della gerarchia ecclesiastica, del resto a sua volta poco propensa a posizioni o iniziative risolutive; una impresa, comunque, già di per sé sull’orlo della malinconica autofrustrazione anche per altri aspetti: ad esempio la rigidità preconcetta e immatura della “fissazione mentale” sui lati formalistici della Dc storica, a cominciare dagli stessi simulacri di simbolo e nome, certo importanti ma su cui Sturzo o De Gasperi o Moro o Fanfani non si sarebbero davvero lasciati paralizzare.
 
E non è forse infondato pensare, purtroppo, che non sia solo l’attaccamento ideale alla memoria della grande Dc storica e dei suoi valori ispirati al popolarismo sturziano, a rodere segretamente il fegato di alcuni (troppi, decisamente) fra questi vetero-democristiani componenti il manipolo, o ruotanti attorno al manipolo: nei comportamenti osservati il sedici giugno, e prima del sedici giugno, qualcuno dei più avvertiti e spassionati fra gli stessi protagonisti ha potuto rilevare, ad esempio, indizi di un vampiresco pensiero rivolto alla sia pur lontanissima e ormai stramba questione della possibile riacquisizione di quello che fu il rilevante patrimonio materiale della Dc, a partire dalle sue sedi (comprese quelle romane del grande Palazzo Sturzo e le altre più note).
 
Comunque si è trattato, per la ennesima volta, di un comportamento e di una testimonianza sconfortanti: soprattutto per chi ha in mente il grande e vasto mondo attuale delle generazioni giovani in attesa, che chiedono il ritorno di una opportunità di grande iniziativa politica laica e cristianamente ispirata, ricca di speranza per tutti, avendo davanti agli occhi, contemporaneamente, le gravi debolezze dell’assetto politico attuale del paese nella sua complessività, che vanno assolutamente superate. Con il piccolo gesto dell’abbandono dei lavori del 16 giugno abbiamo semplicemente voluto dare un altrettanto piccolo ma coerente segnale della nostra valutazione circa lo stato attuale della situazione: non si tratta certo di abbandonare la speranza e l’impresa, bensì di deciderci finalmente a un cambiamento di stile e di caratura dei comportamenti, collettivi e personali.
 
Insomma, l’Italia continua ad aspettare. Aspetta una politica di nuova qualità, e ne continua a cercare i segnali dovunque, tanto nei possibili ambiti della società esterna ai partiti ma viva e sensibile a questi problemi, quanto in quelli specifici dei partiti attualmente operanti. E se dalla società esterna non ne emergono ancora, dagli attuali partiti abbiamo l’impressione che qualche segnale potrebbe pur cominciare a generarsi, forse, in seno alla Lega guidata da Salvini, se l’attuale esperienza di governo la indirizzasse a una graduale coscienza più alta e profonda sul presente e sul futuro del paese. Ove questo accadesse (del resto, come cittadini è onesto augurarlo) l’attuale situazione dei “cattolici democratici” così politicamente divisi, rissosi e mediocri, renderebbe ancora più umiliante questa ormai quasi surreale rincorsa verso la ricostituzione formalistica della Dc storica. In teoria, comunque, qualche possibilità di germoglio nuovo non può essere esclusa a priori neanche nel seno del pur superficiale Movimento Cinque Stelle, o del quasi decotto Partito Democratico, al cui interno non mancano del tutto singole coscienze di più attento orizzonte. Il cammino appare comunque parecchio complesso.
   
Abbiamo sentito diversi cattolici, o sedicenti tali, appartenenti al “manipolo” o ai suoi paraggi, insorgere indignati contro questa ipotesi che “qualcosa di buono possa nascere anche da altri”: ma, a parte la considerazione che è ben difficile coniugare una simile indignazione con la ispirazione cristiana, e a parte il fatto che proprio i grandi padri del pensiero popolare e democratico-cristiano, da Sturzo a De Gasperi ed a Moro, hanno agito una politica esattamente contraria a tale indignazione, c’è semplicemente da osservare che, pur nella loro lampante mediocrità, sia la Lega sia il Movimento Cinque Stelle hanno comunque fatto qualcosa, si sono proposti, si sono presentati, si sono organizzati, sono scesi in campo: i democristiani del manipolo e dei suoi paraggi sono ancora davanti allo specchio del loro narcisismo, a crogiolarsi con l’evidenziare le imperdonabili pecche di Lega e Cinquestelle. E no, cari amici: decisamente, così non va. Ne’ politicamente ne’ moralmente.
 
D’altro lato resta pur sempre giusto e doveroso che chi appartiene per convinzione profonda ed onesta al mondo dei valori duraturi e della migliore esperienza storica democratico-cristiana, e  vede un possibile orizzonte della politica italiana e internazionale nuovamente illuminato da un umanesimo integrale di quella matrice, continui a puntare decisamente su tale prospettiva, e non demorda. Per farlo è però assolutamente indispensabile superare altrettanto decisamente lo stallo e la stridente “squalità” attuale, che vede il manipolo “giuridicamente legittimo” del tutto ripiegato su sestesso, senza proposta politica né programmatica rivolta davvero al paese, ma soprattutto senza aver saputo ancora riunire in un embrione di organizzazione effettiva e autodisciplinata neppure un salottino con quattro persone e altrettante sedie per discutere davvero conclusivamente e ordinatamente di queste cose, e passare all’azione.
 
Eppure il manipolo ha prodotto, sul piano teorico, soprattutto fra il 2012 ed il 2015, in una fase particolarmente riscaldata da genuina aspettativa del grande miracolo possibile, alcuni documenti teorici di eccellenza qualitativa assoluta, tali che non si riscontrano, per lucidità di analisi del paese e visione programmatica, nella produzione teorica di nessuna delle forze politiche oggi presenti in parlamento. Avendovi concorso, con il presidente Gianni Fontana, ne conosciamo dall’interno la consapevolezza, organicità e lucidità particolari: il fatto è che, nello stesso tempo, mai si è visto un connubio così distruttivo fra tale eccellenza di documenti e la corrispondente incapacità totale di agire in senso organizzato ed autodisciplinato per trasformarli in fatto politico.
 
Cosa fare, dunque? Intanto ci pare giusto osservare che se anche questo maldestro tentativo in corso dovesse, come tutti i precedenti, fallire, sarebbe di fatto impensabile programmarne uno ulteriore: perché la storia che continua a camminare sta oggettivamente consumando le condizioni per le quali una tale prospettiva mantenga senso, davanti alle dinamiche di trasformazione complessiva della società globale in cui viviamo. In realtà ciò che, secondo noi, occorre fare, è semplicemente distinguere subito, e mantenere distinti, i due problemi compresenti, e purtroppo  confusi invece che semplicemente collegati: quello giuridicistico della Dc storica, che può e deve essere gestito come semplice fatto importante ma secondario e collaterale rispetto al problema sostanziale del nuovo soggetto politico da generare: importante perché è giusto, fino a un certo punto, che ogni fase storica abbia una sua conclusione anche formalmente certa; e quello appunto sostanziale, per il quale occorre passare francamente oltre il dato storico e giuridicistico, e pervenire alla nitida e forte costituzione del partito nuovo di ispirazione cristiana disegnato e necessario per il ventunesimo secolo: un partito anche piccolissimo in partenza, eventualmente, ma qualificato subito per: a. oggettiva pratica esemplare della democrazia interna, b. evidente elevatezza di elaborazione e proposta politica, c. concreta primazia di un’azione di formazione permanente  profonda delle coscienze (formazione delle coscienze, non addestramento alla propaganda!) nelle sedi che via via si organizzano, e d. tangibile opera di animazione sociale e culturale nel tessuto quotidiano della vita dei cittadini a ogni livello e in ogni territorio.
 
Né si illudano quegli altri resti dispersi e mediocri del mondo veterodemocristiano, che tanto tengono a distinguersi dal “manipolo” a suon di ricorsi giudiziari ed altre furberie o proposte subdole di pre-spartizione  delle presunte tessere e dei presumibili costituendi organi (parliamo delle cento risibili e personalistiche democraziecristiane sparpagliate indegnamente negli anfratti del parlamento e delle amministrazioni locali): il loro credito presso la parte seria e pulita del paese è sostanzialmente uguale a zero, e per quanti fra questi si sono intestarditi a negarlo è venuta, logica e irrefutabile, la comprova elettorale del 4 marzo scorso.
 
Come trovare la forza, la coesione e la lucidità per decidere e fare una cosa così semplice, così pura e così grande come quella che proponiamo? Bisogna essere semplici, puri e grandi. Cioè maturi e umili. L’umiltà, soprattutto, è indispensabile non soltanto per la impresa in sé, di cui garantisce lo spirito altruistico di servizio e il senso spassionato di comunità, ma anche per la consapevolezza storica profonda sul fatto che ciò che si costruisce trova nel patrimonio spirituale del passato e nei suoi ideali rinnovati la forza per mettere definitivamente da parte le zavorre accumulate nell’ultimo quindicennio di vita della Dc storica e nel venticinquennio della diaspora, e che furono causa reale della fine della Democrazia Cristiana: per poter finalmente mettere davvero tale patrimonio a disposizione della società attuale in modo moralmente credibile ed esemplarmente testimoniante.
 
Uno degli inviti più forti a tale umiltà, del resto, può venire anche dalla semplice constatazione del fatto che lo stesso fondamento formale dei 1.700 iscritti dell’ultimo tesseramento della Dc storica, che fa sentire così gelosamente e aggressivamente esclusivisti molti componenti del “manipolo”, è in realtà il rimasuglio di una situazione che non era affatto nobile come viene descritta; chi infatti conosce davvero la macchina del tesseramento della Democrazia Cristiana storica in quella torbida fase di passaggio dell’ultimo quindicennio citato, sostanzialmente dopo la morte di Moro, sa benissimo che il tesseramento era ormai abitualmente tanto corrotto e sporco, ma tanto sporco e corrotto, che negli ambienti della direzione centrale correva la battuta che i veri Dc non erano quelli degli elenchi del tesseramento, i quali elenchi erano invece “dominati dalle clientele”, mentre “ i veri democratici-cristiani sono fuori”.
 
Nessuno può smentirci in questo richiamo storico, per il semplice fatto che a quei tempi operavamo nella direzione centrale del partito e ricordiamo bene che la parte pulita di un partito già corroso al suo interno doveva addirittura allontanarsi fisicamente, a volte, dal contatto diretto con quegli elenchi, per non essere costretta a una guerra che non le avrebbe dato scampo. La Dc non era molto migliore degli altri partiti, in quella stagione storica. Diciamo con amarezza tutto questo, avendo partecipato con convinzione piena al tentativo di rinascita in corso della Dc più grande e degna:  avendovi partecipato in tutte  le sue fasi fin dal 2012, convinti che alla grande esperienza del Partito Popolare e della Democrazia Cristiana come seppe svilupparsi fino ad Aldo Moro, e solo a quella, meriterebbe effettivamente tornare per il bene profondo del nostro Paese e anche dell’Europa, del Mediterraneo, del mondo.
 
Occorre, insomma, piena e grande consapevolezza della importanza storica della impresa che si sta tentando di compiere, e anche della nostra dignità che vi è pienamente coinvolta e che non ha il diritto di lasciarsi trascinare nel baratro di un livello che sta tradendo tutti i valori della storia alta del movimento democratico dei cattolici italiani. In questo senso abbiamo sempre sostenuto che chi oggi rappresenta formalmente la Democrazia Cristiana storica, e sta cercando faticosamente di guidare il tentativo oltre il difficile guado, cioè il presidente Gianni Fontana, ha sì il dovere politico e morale di portare fino in fondo la soluzione della questione giuridica della Dc storica, ma sapendo bene, come accennavamo, che questo è solo l’obiettivo di dare giusto compimento a un processo storico e giuridico, non è affatto il futuro del movimento unitario dei cattolici italiani in politica,  non è affatto la prosecuzione sostanziale della storica Democrazia Cristiana: e che pertanto è semplicemente e urgentemente necessario passare al gia’ citato nuovo soggetto politico che su quelle ceneri nobili e con gli stessi valori e principi incarni esigenze e risposte necessarie al ventunesimo secolo.  
 
Del resto, fin dal congresso del 2012 tale è stata in effetti la idea chiara di Fontana, come del sottoscritto e di altri, sia appartenenti al “manipolo” sia amici fuori del manipolo, che hanno cercato di dargli man forte in questo cammino. Per quanto poi ci riguarda personalmente, abbiamo ripetuto a Fontana, più decisamente ancora, che, secondo noi, ove riuscisse la laterale soluzione positiva della questione giuridicistica della Dc storica, con assoluta sollecitudine sarà necessario, subito dopo tale soluzione, anzi pressoché contestualmente con essa, dichiarare comunque anche il nuovo nome ed il nuovo simbolo del rinnovato soggetto politico, con apertura immediata e trasparente del nuovo tesseramento e della nuova organizzazione, dando così inizio alla vita franca del partito adeguato appunto al ventunesimo secolo, di cui l’Italia ha bisogno.
 
Noi infatti vogliamo essere continuatori e sviluppatori di valori, non idolatri di schemi e nostalgie storiche.
 
                                                                                                    Giuseppe Ecca
 

Storia e storie

UN GIORNO CAMMINEREMO INSIEME

Da quella bella e ricca miniera che è stato, per molti anni, il “Premio Prato Raccontiamoci: Storie di Vita Vissuta”, della cui organizzazione ho avuto la fortuna di essere parte attiva, e che fu illustrato da personalità quali Pamela Villoresi, traggo un ulteriore “racconto di vita”: uno di quelli che non ebbero l’onore della vittoria finale, ma che concorse, come tantissimi altri, a una ricchezza umana e culturale che caratterizzò sempre il premio, come accade quasi sempre quando gli anziani raccontano le vicende della loro esperienza di vita, spesso senza neanche porsi il quesito di forme letterarie o intenzioni d’arte cui vincolarsi. Di questo racconto, in particolare, non sono neanche in grado di fornire il nome dell’autore (la organizzazione del Premio conserva peraltro tuttora nei suoi archivi ogni documentazione): esso esprime tuttavia una di quelle misteriose storie personali che segnano a volte per sempre l’esistenza di chi le vive. La riproduciamo non per compiacenze letterarie, dunque, ma, innanzitutto, perché invitano il prosieguo della nostra permanente riflessione sull’affascinante mistero della esistenza umana.
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Sono passati molti anni dall’inizio della storia che voglio raccontare. In realtà, neanche io ne ricordo perfettamente tutti i particolari: ma non scorderò mai quanto questa amicizia mi ha insegnato a crescere ed a vivere.
 
Anche se abitavamo nello stesso paese, conobbi Danilo solo a scuola: carnagione chiara, capelli “a funghetto”, occhi profondi, incisivi, grandi, risata facile, e una dichiarata passione: l’Associazione Sportiva Roma.
 
Danilo era un compagno come tutti gli altri: non aveva niente di più, niente di meno, nulla di diverso. La diversità entrò però nella sua vita qualche anno dopo, proprio alla scuola elementare. Le maestre dissero che si era ammalato. Io, però, non capivo perché dovesse venire a scuola sulla sedia a rotelle. L’influenza, che spesso ci visitava tutti, fa arrossare il naso come un pomodoro e costringe a portare sempre dei fazzoletti in tasca, ti irrita la gola o ti fa alzare la temperatura corporea, ma non impedisce alle tue gambe di camminare o alle tue braccia di simulare il volo di un uccello.
 
In classe, le curiosità di tutti sull’argomento aumentarono, così come le mie: ma le maestre e mia madre sapevano sempre trovare le risposte giuste, quelle semplici, che ti fanno sembrare il mondo un’eterna fiaba che ti cullerà per sempre. Però la vita non è semplice e, purtroppo, da bambini si possiede un’ingenuità che con il passare degli anni si perde. Infatti, più passava il tempo e più le promesse dei grandi svanivano, più la fiaba si incrinava. Danilo non si alzò più in piedi. Mai. Anche se mi sforzo, oggi non riesco a ricordarlo in piedi. La sua normalità divenne il troneggiare stancamente su quella carrozzella.
 
Solo con gli anni che passavano mi resi conto che in realtà non sarebbe mai guarito da quell’influenza speciale:  era la distrofia muscolare. Una malattia che invade il corpo pian piano, sa conquistarlo, dominarlo e non lasciare più spazio: non c’è più posto per decidere dei propri movimenti, della propria felicità, del proprio tempo.
 
Non so se sia peggio sentire l’eco della propria volontà che non riceverà più risposte dal proprio corpo, o accettare lo stato di eterna solitudine dell’anima, dentro di sé: perché esisti integralmente ma una parte di te è come se non ci fosse  o fosse fuori di sé, e gli altri non possono capire davvero.
 
Quasi odiavo la sua situazione, perchè mi faceva sentire in colpa. A me non mancava nulla: potevo giocare ad acchiapparella e nascondino, potevo saltare a corda, potevo prendere i soldi ed andare a mangiare un gelato, potevo rotolarmi sul prato, potevo fare i capricci per un giocattolo, potevo ridere, potevo piangere, potevo andare al bagno, potevo essere una bambina. Potevo fare qualsiasi cosa avessi voluto: bastava la voglia, la volontà, e tutto era possibile.
 
Si dice che volere è potere ma, oltre ad insegnare che questi verbi vengono definiti modali e che ognuno dovrebbe saperli coniugare correttamente, la scuola dovrebbe spiegare perchè non tutti li possiedono: non dovrebbe lasciare all’esperienza personale e al caso l’insegnamento più grande, quello della vita.
 
Forse, in realtà, spiegazioni non ci sono, o è meglio non cercarle. Ma questo non bastava ad azzittire le mie continue domande: perchè proprio Danilo era malato? Perché io stavo bene? Cosa aveva fatto di tanto male per essere destinato ad osservare il mondo senza viverlo pienamente? Perché era così? Ogni attività dei bambini implica movimento ma questa sua condizione lo escludeva perennemente. Ci guardava da un angolo, sempre. Io sentivo i suoi occhi, sentivo quella rabbia, quel disagio e quell’immensa impotenza che portano a tenersi a distanza da tutto. Infatti, anche quando trovavamo il modo di farlo partecipare, Danilo restava sulle sue o si tirava indietro, invitandoci a non preoccuparci per lui.
 
Come ci si sente a vedere gli altri insieme, che si divertono, e poi, ad un tratto, cercano altri giochi per farti partecipare, senza però divertirsi come prima? Senza essere capaci di capirti, di non farti sentire diverso, un peso?
 
Provare ad immaginare il suo dolore, e vederlo con quell’aria triste, mi faceva male. Non capivo come gli altri non si accorgessero del suo bisogno di affetto, di comprensione, di aiuto. Eppure quel bisogno urlava forte, era padrone del suo solito silenzio.
 
Non ho mai creduto di essere migliore degli altri, anzi pensavo di esagerare con tutti quei pensieri su di lui. Ma, pian piano, capii che l’unica differenza tra me e gli altri compagni era che loro non si ponevano il problema. Vivevano la loro vita, nel loro piccolo mondo, con i loro agi, pregi e difetti. Non era a loro che il Signore aveva rifilato quel destino, e questo bastava a giustificare la loro indifferenza. Non è questione di migliore o peggiore, basta decidere che persona vuoi essere: e io non volevo essere come gli altri, non volevo ignorarlo. Volevo essere sua amica.
 
Ci misi un po’ per capire che in realtà già lo ero. Sedevamo vicini al banco, ridevamo, parlavamo e facevo di tutto per farlo sentire a suo agio. Per me era un piacere stare insieme a lui. Gli volevo davvero molto bene. Gli ultimi anni di scuola elementare, precisamente tra la quarta e la quinta, iniziai ad andare a casa sua, il pomeriggio. Di solito andavo a casa delle mie amiche, dopo aver fatto i compiti, o uscivo con loro in giro per il paese. Mi resi conto che uscite del genere Danilo non poteva farle: lui dipendeva sempre da qualcuno, dalla mamma, dall’assistente, dalle maestre, da chiunque spingesse la carrozzella, visto che con il passare degli anni non riusciva più a muovere le braccia, figuriamoci spingere le ruote!
 
Andavo da lui, sempre, con qualche pensierino: un vassoio di dolcetti, qualche giocattolo, qualsiasi cosa avesse a che fare con la Roma. Mi faceva proprio piacere vedere un sorriso sincero nascere sulle sue labbra: mi faceva sperare che almeno in quei momenti era felice. In genere, dopo aver giocato un po’ alla playstation, uscivamo nel piazzaletto fuori casa sua: in realtà era un vialetto, sul quale si affacciavano tutti i pianerottoli delle case popolari. Era abbastanza largo, tanto che riuscivo a girare bene la carrozzella una volta arrivata alla fine, ma non era molto lungo. A volte eravamo costretti a fare su e giù all’infinito, fingendo di essere da un’altra parte: in riva al mare, su un prato fiorito, in sella alle nuvole, in cima ad una montagna. Mi divertivo a farlo sognare e a vedere quel sorriso ingenuo comparire con il distendersi delle sue labbra, prima di dirmi che ero matta. Altri giorni, invece, fingevamo che la sua malattia non fosse un problema e giocavamo a nascondino. Ero sempre io a nascondermi e a non dover trovare nascondigli troppo difficili o troppo lontani. Purtroppo il nostro unico spazio era quel viale: fuori di lì c’erano due nemiche: la discesa e la salita. E, da sola, non ce l’avrei mai fatta a spingerlo tenendo sotto controllo la situazione. Così inventai un altro gioco, simile ad acchiapparella. In verità, nessuno acchiappava nessuno: però si correva. Io mi posizionavo dietro la carrozzella come se fossi ai comandi di una macchina, e simulavo il rombo del motore. Subito dopo l’”1-2-3 via” iniziavo a correre con tutta la forza che avevo, come una pazza. Danilo rideva, urlava, si divertiva. Ed io ero felice.
 
Purtroppo c’erano giorni in cui non ci andava di giocare, in cui eravamo particolarmente tristi, perché sentivamo che le cose stavano per cambiare, che stavamo crescendo e che quel viale non sarebbe più bastato. Io non sarei più bastata. Danilo sapeva anche che c’era un mondo di persone oltre me, e una volta mi confidò proprio che non capiva il motivo per cui andassi a trovarlo o tenessi così tanto a lui: non facevo parte né della sua famiglia, né degli adulti che accoglievano di più la sua diversità rispetto ai nostri coetanei.
 
Non capiva perché fossi così diversa. Io risposi che essere così presente nella sua vita era la dimostrazione che non era solo. In realtà, speravo molto nella sua guarigione: volevo aiutarlo a sconfiggere questo male, e, come accade nei films, nei libri, nelle favole, pensavo che c’è sempre un lieto fine. Con l’amore, con l’amicizia, c’è la forza. Insieme si può tutto. Non riuscivo proprio  a farmi una ragione del fatto che non avrebbe più camminato: era assurdo credere a questa prospettiva. Eravamo così piccoli… nove anni. Ero convinta che avremmo avuto molto tempo per rimediare alla malattia e un giorno avremmo camminato insieme, come accadeva sempre nei miei sogni.
 
Un giorno, finalmente, ebbi un’altra idea: chiamare tutti i compagni per poter uscire dal viale e portare Danilo a fare una passeggiata altrove; sarebbe stato così felice… Tutti insieme ce l’avremmo fatta a spingerlo per le salite e a frenarlo lungo le discese. Ricordo che quella sera ero eccitatissima al pensiero di raccontare questa bella trovata anche agli altri compagni. Neanche per un attimo mi ero immaginata le smorfie, le risate, le scuse banali che mi aspettavano l’indomani. Nessuno era disponibile per quel pomeriggio: alcuni avevano gli allenamenti, altre ginnastica artistica, altri avevano impegni con i genitori, altre ancora si erano organizzate tra loro per uscire “normalmente”.
 
Così ci ritrovammo di nuovo, soltanto io e Danilo, nel vialetto. Lui non sapeva niente, ovviamente: ma io non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di quell’uscita collettiva e della gioia che essa gli avrebbe portato. Dovevo continuare fino a riuscire a convincere tutti. Riprovai, riprovai e riprovai. Niente. Era strabiliante constatare quanto fossero impegnati bambini di appena dieci anni!
 
Mi si intrufolava sempre più spesso nella testa l’idea che mentissero: ma solo quando una mia compagna mi rivelò come stavano le cose, ne ebbi la certezza. Non solo inventavano scuse ma, tutti i miei compagni, iniziarono a scocciarsi dei miei continui inviti per la tanto sperata uscita collettiva. Per di più, la mia compagna mi consigliava di smetterla perché stavo diventando antipatica ad alcuni di loro.
 
Ricordo la delusione, la tristezza, la malinconia che mi assalirono. Ma, più di ogni altra emozione, ricordo la rabbia e il rancore che incominciai a portarmi dentro verso quelle persone, e da cui non mi sarei mai liberata.
 
Uno degli ultimi giorni che passammo insieme lo ricordo particolarmente bene. Eravamo abbastanza taciturni. Io sedevo sulle scalette al lato opposto del suo pianerottolo, e lui stava davanti a me. Non avrei frequentato la scuola media con lui, nel nostro paese. Avevo bisogno di cambiare, di scappare dal duro processo di crescita che mi stava assalendo pian piano.
 
Gli spiegai quanto mi dispiaceva e quanto non avrei permesso che i rapporti tra noi cambiassero. Mi sorrise e con voce ferma mi ringraziò per essere sua amica. Poi, pronunciò una frase che non scorderò mai: “Gli altri non mi capiscono, tu sì. Ecco perché sei così diversa. Un po’ come me”.
 
Quella frase mi spezzò il cuore. Percepii il suo senso di solitudine, e insieme la sua gratitudine. Bisogna esser grati a qualcuno che ci vuole bene perché il mondo ci ignora? E il motivo era solo una sedia su cui dover stare perennemente. Mi vergognai di essere “normale” come gli altri e mi si strinse un nodo in gola. Ora, più che mai volevo scappare. Le persone non erano buone, la malattia di Danilo peggiorava e forse dovevo iniziare ad accettare che non avremmo mai camminato insieme. Ma non lo accettavo.
 
Come ogni partenza, il mio cambiare scuola, luoghi, amici, vita, mi allontanò da tutto quello che era stata la mia infanzia. Compreso Danilo. Spesso volevo andare a trovarlo, come ai vecchi tempi, ma rimandavo: rimandavo per non ammettere che non ce l’avrei fatta a sopportare di trovarlo solo. In più di un’occasione comunque ci incontrammo, e, ogni volta, mi sentivo male. Sentivo come una fitta intensa, che ti stringe dentro. Lui peggiorava, perdeva anche l’agilità delle mani. Non potevo vederlo così. Non potevo accettare che le cose volgessero sempre al peggio. Pensavo che forse stavo sbagliando, che dovevo essere forte e andare come sempre da lui. Ma non ero forte. Avevo paura di verificare che si avvicinasse la fine. A volte mi sono odiata, credendo di star diventando come tutti quelli che avevo sempre detestato: una stronza, cinica, egoista e menefreghista. Ma, dentro di me, sapevo che non era così e  volevo che lui non pensasse questo di me, volevo che sapesse che l’affetto per lui era sempre rimasto vivo nella mia vita. Eppure non riuscivo proprio a trovare il momento giusto per vederlo come avrei voluto.
 
Ma il destino è imprevedibile e, pochi mesi orsono, dopo molto tempo, dopo anni, mi ha donato questa occasione. I compagni delle elementari hanno organizzato una cena per “ritrovarsi”, e sia io che Danilo ci siamo andati. Tra l’antipasto e la pizza, quasi tutti uscirono per fumare. Io, invece, parlai con lui, come non mi capitava da troppo tempo. Mi raccontò che era sereno, che aveva avuto buoni voti a scuola, e che amava la Roma più che mai. Era l’amico che ricordavo: stesso sorriso, stessa bontà, stesso sguardo. Non era cambiato niente tra noi. Bastava un attimo per tornare indietro nel tempo, nel nostro viale. In fondo, avevamo solo qualche anno di più, ma eravamo sempre noi, i bambini del vialetto, dei giochi inventati, protagonisti di un legame vero.
 
Al termine della serata lo guardai negli occhi e gli promisi che, questa volta, davvero sarei tornata a trovarlo: non avrei aspettato tanto tempo. Le cose belle sono rare e mi odiai per aver perso tutto quel tempo dietro inutili paure. Gli schioccai un bacio sulla guancia e, dopo che il papà lo caricò sul loro pulmino, lo vidi andar via.
 
Quel giorno, non sapevo che sarebbe stato l’ultimo. Non avrei avuto più tempo. Il 23 giugno (siamo nel 2009) Danilo è morto. Non so spiegare il mio stato d’animo quel giorno. Mi sentivo persa. Era come se una parte della mia vita e del mio cuore fosse volata via per sempre. Eppure lui era ancora lì, dentro la bara, nell’ospedale, ricoperto di accessori sportivi della sua Roma, ricoperto di lacrime e di fiori. Era ancora nella chiesa, davanti all’altare, al cospetto di un Dio misterioso e davanti a una platea che lo piangeva senza conoscerlo davvero. 
 
Volevo gridare, volevo correre finchè le gambe non mi avessero fatto male, volevo sferrare pugni al muro, volevo cacciare via tutti, volevo piangere. Non riuscii a fare niente. Mi limitai a trascinarmi tra le persone, nel corteo funebre, e a riprendere la mia vita da dove l’avevo interrotta quello stesso pomeriggio, quando aveva squillato il telefono e avevo saputo.
 
Nei giorni seguenti pensai solo a lui, con un senso di vuoto, con rimorsi, e mille domande. Non accettavo la sua morte. Ero tormentata da quello che era accaduto e avevo paura che quel senso di angoscia mi avrebbe accompagnato per molto altro tempo.
 
Invece, circa una settimana dopo, rividi improvvisamente Danilo. Era in piedi, vicino a me. Corremmo in riva al mare, ci rotolammo sul prato fiorito, galoppammo in sella alle nuvole, urlammo dalla cima di una montagna, ed eravamo felici come quando giocavamo nel viale.  Ora, poteva farlo! Mi resi conto che era anche più alto di me: cosa che non potevo notare quando era sulla carrozzella. Era magnifico, il mio sogno si era avverato.
 
Eppure, come d’un tratto, si infilò violentemente nella mia testa il ricordo del funerale, della sua morte, e mi sentii frastornata. Non poteva essere qui, con me, se era morto. Mi domandò cosa avessi, e gli dissi i miei pensieri. Il suo viso si illuminò di un sorriso buono, sincero: disse che mi aveva portato con sé per avverare i nostri sogni di tanti anni fa, perché ora poteva fare tutto, molto più di tutti, e ne era particolarmente soddisfatto. Poteva anche volare.
 
Io continuavo a non capire cosa stesse accadendo. Mi disse che non dovevo preoccuparmi. Mi prese la mano, mi portò davanti a casa sua e disse: “Ora sarò qui, per sempre. Non posso abbandonare la mia famiglia, devo proteggerli ed amarli come hanno sempre fatto con me. Ma, se avrai bisogno di me, sai dove trovarmi. Io per te ci sarò sempre e ti vorrò sempre bene. Sei stata una grande amica, non mi perderai mai”.
 
Continuavo  a non capire.
 
“Capirai. Ti chiedo solo un’ultima cosa: vai a trovare mia madre, raccontale delle nostre avventure, di come sto bene, di come continuo ad amarla anche se sono morto, di come sarò sempre accanto a lei, a papà, e a mia sorella. E un giorno cammineremo insieme”.
 
Entrò in casa, alzò il braccio, agitò velocemente la mano da dietro il vetro della porta, con il solito sorriso, e sparì. Io mi sentii trascinata vorticosamente nel vuoto. Lentamente mi ritrovai ad aprire gli occhi e mi sorpresi di essere a casa, nel letto, e nella realtà. Eppure non mi colpì un senso di delusione o di tristezza: mi invase una profonda sensazione di pace.
 
Forse è stato solo un sogno, come la maggior parte della gente potrebbe pensare. Ma a me piace credere che sia accaduto realmente un miracolo. Il senso di angoscia mi è svanito. Ora, so che Danilo è felice e questo basta a calmare l’egoismo di volerlo ancora in questa vita. So che la nostra amicizia non è finita. Certi legami non si piegano sotto la forza del tempo e del cambiamento. Restano vivi dentro, donando la speranza di ritrovarli, prima o poi.
 
Accadrà. Lo so. Lo sento. E, un giorno, cammineremo insieme.
 
                                                                             (Fonte: PremioPrato, da autrice anonima)
 

Cultura

IL MIO LIBRO, IL MIO REGNO

Ci sono libri e libri, naturalmente. Ci sono anche libri che meritano solo il cestino. Fatti per propaganda, o per fare soldi, o per altre povere ragioni. Ma i libri veri… quelli nei quali l’anima parla, il pensiero ricerca, la parola si approfondisce… Il mio libro è quello, il mio regno è quello.
 
 
Me lo trovo fra le mani. Lo tasto, lo strofino, e certe volte distrattamente lo maltratto o lo macchio col caffè.
 
Il mio libro.
 
Di questi tempi non ne posso a fare a meno, specie la sera, prima di prendere sonno. Le livre de chevet lo chiamano i francesi, il libro del cuscino, lì, sul comodino, fra mille cianfrusaglie utili per la sera e la notte, la tisana, gli occhiali, le pillole per la pressione; lui, il mio libro, è anche il mio amico e fra poco mi accompagnerà a prendere sonno.
 
Il libro di stasera non è la Bibbia e non è un libro religioso: è solo un libro di letteratura, magari di poesia o di racconti. Ma è sacro lo stesso; ogni libro ha la sua sacralità e coltiva la pretesa di essere il preferito.
 
Cos'è un libro, cos'è una scrittura?
 
Stasera mi viene in mente un'altra mia dimenticanza. Non ho mai ringraziato Iddio e la vita del grande regalo di leggere e di scrivere (e di poter andare a teatro o al cinema). Ma non è mai tardi.
 
Torno alla sinagoga di Nazareth e quasi mi ci trovo bene. Non perché quella gente mi stia simpatica; ci torno solo per contemplare Lui. Guardalo, sta leggendo. L'unica volta nel vangelo: Gesù chiede di leggere, gli piace leggere, è importante leggere, è meraviglioso leggere.
 
Dici scrittura e pensi a un'idea che non va persa. La parola, invece, appena fuori dai denti si alza e si sperde. La scrittura fu il passo decisivo verso la civiltà: i caratteri, gli ideogrammi, gli alfabeti, le grafiche, le tecniche, ne segneranno la strada.
 
Le mie idee: appena scritte posso vederle vivere e muoversi e torcersi come fossero i personaggi di una mia commedia. Le mie fantasie: non solo prendono il tono dalla mia voce ma ora addirittura le tasto e le afferro. E mi commuovo due volte.
 
La scrittura: due segni, due ghirigori, un geroglifico, e la pagina si anima e suona.
 
Che miracolo, la scrittura. I pensieri del mio cervello sono lì ora, impressi, chiari, evidenti, sotto gli occhi di tutti. È come se la mia testa si fosse spaccata e quei sogni fossero colati giù lungo le mie braccia e, fra dita, penne e tastiera si piantassero belli, neri o colorati, sul foglio.
 
Ma non ti sembra la creazione di un dio? Guardale, le mie speranze e le mie proteste,  come brillano e sgusciano fra i margini e gli spazi: eccole lì, grandi, piccole, in grassetto, in corsivo. I miei pensieri, appena concepiti e nati, pluff, ora scorrono vivi su una pagina, liberi di andare, piacere, annoiare, far arrabbiare, oppure dritti dritti al cestino. Se poi cascano sul video basta un niente e… clic, posta indesiderata, finito.
 
Il mio libro stasera è un classico e lo riprendo in mano dopo anni, ma appena mi stancherò ci farò l'orecchietta, ci metterò una cartolina o un santino e ci tornerò domani.
 
Il mio libro. Nato chissà quando, da quali amori e delusioni, entusiasmi o ricordi: chissà. Ora è qui, la sua vita è con me e mi si infila dentro e resto col dito fra copertina e ultimo foglio, sorpreso e sospeso.
 
Col mio libro ci parlo, lo strazio di segni, di chiose e postille, come un vecchio amanuense. Col mio libro mi fermo, ci sto, e domani in pizzeria ne parleremo: con lui o con lei il mio libro circolerà e nascerà in altre teste e in anime diverse.
 
Comunicare, intermediare, trasmettere. I media. Gli inchiostri, i fili di rame, le fibre ottiche, tutto, senza demonizzare niente, appena mi serve e ne ho voglia lo uso; se no, smetto. Testi e libri, scritture e giornali: tutte le invenzioni di ieri e di oggi. Tutto, pur di mediare o stringere l'umanità e radunarla e (se ci si fa) impedirle di combattersi e distruggersi. Stampa o kindle o mail o social network, come, quando, dove, non importa, oggi catturano, prendono ed eccitano miliardi di uomini e donne. Si scrive, si legge ,si pensa, si crede, si rifiuta.
 
La biblioteca di Alessandria nel II secolo avanti Cristo: anche la Bibbia ebraica tradotta nel greco koinè. Oggi Amazon, Google, Apple, già milioni di libri in archivio. L'universo che non vuole soffocare nell'ignoranza e nella depressione. Distruggere una biblioteca, come a Timbuctu, è un genocidio.
 
Parlare è vivere, leggere e scrivere è il piacere di vivere.
 
Le religioni furono fra le prime a capirlo. Non bastavano più scuole e maestri per poi mandare a memoria saghe e racconti. Per bocca, si sa, tutto vola e domani… chi se ne ricorda? Nascono le scritture, la religione si organizza e fa suo, tramanda e custodisce, copia, trasmette, inventa, costruisce da capo. Una specie di eternità fra umani. Finché conserveremo quei testi Iddio ci parlerà e ne sentiremo gli accenti e ne godremo le pause e le sue melodie ci daranno conforto. Le scritture diventano l'asse portante della religione. Se ci distruggessero il tempio, se mandassero a fuoco sinagoghe, chiese e moschee, avanti ancora. Le scritture saranno il nostro tempio mobile.
 
Il momento delle sacre scritture: il lettore si avvicina al leggio e io tremo di attesa. Fra poco aprirà il grande libro, Gesù svolgerà il rotolo e piano piano la voce dell'antico profeta sbatterà fra le pareti del mio cervello. Alla fine risponderò amen anche se, come sempre, la lettura mi troverà incerto, balbettante e pieno di distrazioni. Poi mi riprenderò e penserò: “La scrittura ha riportato qui il profeta, come se fossi vissuto al suo tempo”.
 
Che genesi, amico mio, che creazione, la scrittura, la lettura e l'ascolto. Non ho più fiato e lacrime per dire grazie.
 
Poi certo la scrittura, come a far rima, mette paura. Perché, vuoi sapere? Ma è chiaro, perché rende liberi e crea e costruisce gli uomini liberi. Nessun potere ama scrittori, poeti,  compositori e giornalisti. Nessuno. Scrivendo e leggendo si fa opinione, si allarga il dissenso, si abbattono i recinti e le censure. Difatti: guarda come va a finire qui a Nazareth: lo prendono a calci, lo spingono, lo trascinano fuori, lo cacciano. Per miracolo Gesù si svincola e scappa. Sempre così.
 
Quella mattina del 1600, in pieno anno santo, così trascinavano Bruno a Campo de’ fiori. Gli avevano messo la mordacchia, una specie di pettine di ferro che gli serrava le labbra perché finalmente smettesse di proclamare le sue idee. Ma quelle erano già libere e vive perché scritte, stampate, e tutta Europa le conosceva e le discuteva da tempo. I nazisti con il rogo di libri e dipinti non riuscirono a distruggere il teatro di Brecht e di Kurt Weill, la musica di Alban Berg e dei cabaret di Berlino, l'espressionismo e la Bauhaus.  Così Stalin con Shostakovic e Prokoviev.
 
La stampa, la fotografia, il cinema, salveranno la libertà.
 
Il mio libro, il mio regno.
 
Come Il profeta Ezechiele vorrei quasi mangiarlo, il mio libro.
 
Sarebbe troppo?
 
Ora è tardi e lo poso sul comodino. A domani.
 
                                                                               (Viscardo Lauro)
         
 
 

Questo sito

CI SIAMO SEMPRE, CI SIAMO MEGLIO

Nato molti anni orsono come semplice Letteraperta periodica riservata a un indirizzario ampio ma pur sempre selezionato di amici ed esperti, ed attraversata anche una breve stagione come semplice blog, Studisociali diventa ora un sito. Ci hanno chiesto in molti, e da tempo, questo cambiamento, per consentire al nostro Circolodelmeglio, autentica comunità di studio, formazione e impegno civile, una continuità più intensa di presenza, una partecipazione più vasta di persone sensibili alle tematiche trattate, un’articolazione più ricca di contenuti.  
 
Nasce dunque il sito, ma restano confermate le caratteristiche ispiratrici con le quali la piccola testata venne pensata: l’attenzione viva alla qualità dei contenuti e dei linguaggi (la parola, ogni parola, ha valore e peso intrascurabile), la partecipazione diffusa a quanti desiderino esprimere il loro pensiero, anche critico o criticissimo, l’orizzonte totale sulla esperienza umana, l’orientamento esplicito a quell’umanesimo plenario che fu preoccupazione costante del papa Paolo VI, una sensibilità particolarmente accentuata per i temi del lavoro, della cultura, della formazione, della politica, della spiritualità, temi, tutti, attorno ai quali si svolge la sfida permanente del cammino verso una “civiltà a misura di persona e di comunità”.
 
All’apertura dialogante verso tutti gli apporti costruttivi, aggiungiamo qui un esplicito invito alla partecipazione più intensa non solo quanto a dibattito sui contenuti ma anche quanto a proposta permanente per ogni possibile miglioramento del sito stesso, il quale vuol vivere in chiave di vera casa comune e autentico circolo del meglio per la condivisione del nostro impegno civile e sociale e per la costruzione progressiva di un’autentica democraziacooperativa.
 
Per chiarezza piena, sottolineiamo che “Studisociali” ha come terminazione di identità informatica il “punto org”, distinguendosi pertanto da una testata con lo stesso nome ma con terminazione “punto it”, e da altre con diversa terminazione che dovessero sorgere: abbiamo rilevato infatti, all’atto di registrare questo nostro sito, che un soggetto da noi non conosciuto ha già provveduto a registrare lo stesso nome senza avvisarcene, nonostante che da molti anni noi lo pubblicassimo. Ci sembra, questa, un’avvertenza doverosa in quanto non intendiamo confondere la nostra precisa impostazione con altre culturalmente o valorialmente diverse. E’ semplicemente un problema di onesta identità.

 
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Politica e Società

LE RADICI PROFONDE NON GELANO

Non stupitevi se questo numero di Studisociali “apre”, subito dopo la presentazione del sito, con una riflessione che è in realtà la lettera affettuosa e personale inviataci da un vecchio amico di lontani anni sindacali, con il quale condividevamo molto più di quanto ci dicessimo esplicitamente, e con il quale questo lungo trascorrere di anni ha fatto lievitare una bella consapevolezza di amicizia anche senza montagne di parole, rese impossibili, del resto, dal fatto che, a un certo punto, ci siamo semplicemente quasi persi di vista. Quella offerta a me ed a tutti voi da Enrico è riflessione profonda e utile di vita, tanto che… gli perdoniamo volentieri persino quell’arretrato “Facebook” che lui si ostina a scrivere come erroneamente glielo hanno insegnato, ma che sa benissimo doversi scrivere “Feisbuc”. C’è tempo per adeguarsi!...
La riflessione di Enrico prende le mosse dal fatto che l’ultima edizione di Studisociali in formato di Letteraperta dava rilievo all’analisi del lungo e complesso movimento teso a far riemergere nel panorama della politica italiana un impegno organizzato dei cattolici attorno alla eredità del pensiero e della testimonianza di Sturzo, De Gasperi, Moro e gli altri “padri” della grande politica di ispirazione cristiana in Italia.
 
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Caro Giuseppe,
mi sono letto il fascicolo di StudiSociali inviatomi, di cui non conoscevo l’esistenza. Non sapevo nemmeno che in alcune persone “ad alti livelli” albergasse ancora una genuina visione della Democrazia Cristiana.
Ho trovato nel tuo scritto valutazioni e modi di pensare che mi appartengono e mi sollecitano un intervento che restituisca continuità ad un dialogo interrotto dal tempo e dalla distanza.
Un altro stimolo mi è stato dato involontariamente da mio nipote, tecnico chimico, che da qualche anno ha interrato nel praticello  di casa alcune piante di luppolo e si diletta, avendone le capacità, a farsi la birra in casa. Due giorni fa ha postato su Facebook (so che non gradisci questo modo di scrivere ma non ne conosco altro), una fotografia delle stesse con la seguente frase “Puntuale come sempre, le radici profonde non gelano”. Quando scriveva queste parole qui da noi era ancora inverno.
Un’ulteriore motivazione per scriverti la trovo nella necessità di mettere un pò di ordine negli archivi della memoria che da tempo erano ricoperti di polvere e ragnatele. Nella necessità dello scrivere si ricuperano gli appunti dormienti. E così, per appunti, mi presento e, sempre per appunti, tocco vari argomenti che ho trovato nei tuoi scritti. Utilizzo questo doppio binario immaginando di facilitarti la comprensione.
Sono nato nel 1950, famiglia operaia, ambiente contadino, allora oltre i duemila abitanti, oggi milleduecento, clima di paese (Frascarolo), pressoché inalterato nel tempo. Ho frequentato le scuole elementari nel paese, successivamente quattro anni di collegio (coi preti) a studiare in una scuola professionale di Voghera per acquisire il diplomino di “Elettricista Provetto”; terminata la scuola, assunzione all’Enel a Biella, all’età di 16 anni. In tale azienda, pur con ruoli e mansioni diverse, sono rimasto fino al raggiungimento della pensione, arrivata nel 2006. Nell’intervallo di tempo tra i 16 ed i 56 anni, all’età di 22 anni mi sono sposato ed a 23 sono diventato padre, ho vissuto ad Alessandria, ho girato per tutto il Piemonte, ed oggi sono nonno di una nipotina e sono tornato a vivere nella casa natia. Ancora un’annotazione riguarda la scelta di vita familiare che, anche indirizzata da alcune vicissitudini, è sempre stata vissuta a mono-reddito, ed oggi a mono-pensione.
In questo mio citarmi (non mi piace, ma serve a far comprendere) devo dire che mai mi sono estraniato dal sociale e dal politico. In giovane età, chierichetto, oratorio, azione cattolica, gruppo giovani ecc.. fino all’ iscrizione al sindacato Cisl avvenuta il primo giorno successivo al termine del periodo di prova (tre mesi) relativo all’assunzione, e cioè il primo ottobre del 1966. Da quella data iniziai ad operare nel sindacato in ruoli prevalentemente territoriali fino al 2005, data di cessazione dal lavoro.
In quel periodo della nostra storia italiana nelle famiglie era opinione comune che “ti devi guadagnare il pane che mangi” sia per necessità di ordine economico che per scelta etica di vita. Ed “il pane che mangi” te lo guadagni con il lavoro ed, avendone la facoltà e la possibilità, con lo studio proficuo. Esulavano da questa regola due categorie: la prima era quella di chi poteva permettersi di “vivere di rendita” e quindi far lavorare gli altri, la seconda era quella dei “lavativi” che snobbavano il lavoro e lo studio. Talvolta le due categorie si identificavano.
Di quel periodo una cosa che ho sperimentato nei primi giorni di assunzione mi è sempre rimasta viva in memoria. Presentandomi, ragazzino educato, a lavorare ed a piantar pali con personale più anziano proveniente dalle imprese elettriche che confluirono in Enel mi fu chiesto: “Chi sei, quanti anni hai?” ed io estrassi il documento di identità. “No, no, quello non conta niente, fammi vedere il libretto di lavoro. Quello conta, quella è la tua identità”. In quel comune sentire, io ritrovo il primo articolo della nostra Costituzione. In quella frase, pronunciata in maniera anche un po’ rozza, c’è tutto il valore e la dignità che i Padri Costituenti hanno attribuito al fattore lavoro. Credo, venendo all’oggi, che occorra fare un passo in più. Il lavoro non è merce di scambio della produzione. Attraverso il lavoro (di qualsiasi forma lo si intenda) la persona realizza se stessa ed il guadagno che ne deriva sotto tutti i punti di vista, anche economici, soddisfa i bisogni per sè, per la propria famiglia e per lo Stato nel quale opera. Occorre attribuire sul piano culturale al lavoro “un anima”. E’ coinvolto non l’individuo ma l’intera persona, la propria famiglia, la propria comunità.
Crescendo in età, vivendo in Alessandria, ed avendo responsabilità di famiglia, ritenendo non sufficiente l’impegno sindacale, essendo attratto dalla dottrina sociale della Chiesa e dagli ideali dei padri fondatori, nel 1973 mi iscrissi alla DC alessandrina con lo scopo di praticare con altri una militanza politica che desse consistenza pratica alle idee che mi frullavano in testa. Un disastro. Durò tre anni e, nell’interpretazione  che devo dare di quel periodo, mi limito a dire che la distanza tra i valori e gli ideali enunciati e la pratica quotidiana e relazionale all’interno del partito era abissale, incolmabile e non priva di vigliaccherie e opportunismi sfrenati. Il mio impegno nel partito e nei partiti iniziò e finì lì.
La negativa sorpresa non mi trovò impreparato. Tempo prima, pur con la dovuta qualità distintiva, avevo vissuto negli ambienti cattolici un’analoga situazione. Ci si trovava, si discuteva, si progettava, il tutto però sotto obbedienza vescovile, anche nel pensiero e, se un progetto non sfagiolava l’autorità di turno, chi voleva comunque realizzarlo era eretico e marginalizzato. Una cosa in particolare mi è sempre rimasta indigesta e lo è tutt’ora. La non trasposizione di quanto detto in pratica vissuta ed in norme che siano conseguenti agli ideali in cui uno crede e vive.
Nel sindacato, seppur con incapacità e difficoltà, sono riuscito ha vivere un ideale, e cioè a trasferire in norma condivisa i bisogni di quei lavoratori che in quel momento rappresentavo.
Ecco, io credo che la politica ed il governo della politica debba tendere, attuando la Costituzione, ad emanare norme e leggi che agevolino lo sviluppo di un pensiero partecipativo ai beni comuni e non solo un pensiero produttivo di leggi e leggine che soddisfino le “lobby” ed i loro emissari.
A tal proposito mi sovviene di pensare a ciò che nel tuo documento viene richiamato a proposito della partecipazione femminile. La vita, quella vera, nella quale ognuno di noi è coinvolto e che oggi nel pianeta interessa quasi 8 miliardi di persone, ci è stata trasmessa dall’unione di un uomo e una donna, possibilmente, marito e moglie e comunque Padre e Madre. Attraverso questa unione, nel seno della madre abbiamo preso vita e solo dopo, quando ne siamo usciti, sono iniziate le differenze, di eredità, di sesso, di colore della pelle, di ambiente, di cultura, di stato sociale,di tradizioni ecc.
Ovvero tutte le differenze che conosciamo e che in parti più o meno ampie interessano otto miliardi di persone le abbiamo acquisite e successivamente vissute in modi diversi e personali influenzati dalle stesse differenze. Forse non abbiamo ancora ben presente che la vita diventa tale solo attraverso la “generazione” e non la “produzione”. Il genere umano non è frutto di un prodotto. Il prodotto è sterile, è fine a se stesso. Non genera vita. La legge, fine a se stessa, se non applicata nella condivisione è sterile, produce  morte. Generare vita e persone consapevoli e corresponsabili gli uni per gli altri. Ecco, un pensiero alto, da questo punto di vista, che riguarda le donne ma anche gli uomini. Occorrerebbe rielaborarlo.
Nel merito della relazione al congresso nazionale Dc del novembre 2012, da te riprodotta, ho ritrovato molto di me. Pur con una soggettività diversa per storia e cultura ho ritrovato molti stimoli che mi hanno accompagnato nel lavoro sindacale sia in Federazione che in Confederazione e pertanto non posso che apprezzarla.
Sul simbolo dello scudocrociato. Attribuisco molta importanza ai simboli, l’umanità per millenni si è riconosciuta e ritrovata attraverso alcuni simboli. Essi tutt’ora aggregano e motivano imponenti masse senza che le stesse siano in grado di comprenderne a fondo il significato. Il simbolo in quanto tale è proprietà collettiva. Non può essere posseduto. Esso rappresenta valori condivisi che appartengono alle persone e non alla struttura. La struttura può legittimamente lottare per il bene dell’immagine ma, a differenza del marchio di fabbrica, se non viene più percepito per i valori per i quali è nato finisce di avere efficacia. Occorre trovare un simbolo che richiamandosi alla tradizione cristiana nel sociale riesca ad essere percepito da giovani e non più giovani come radice del nostro operare.
Sulle tematiche di merito. Oggi, più che nel passato, ci troviamo in una società che io chiamo la “società dei desideri indotti”. Siamo portati a desiderare tantissime cose, dalla giustizia sociale alla pace al benessere alla tutela del privato, al lavoro per tutti, alla dignità delle persone, ad un governo capace e rappresentativo, ecc. Desideriamo ma non realizziamo. Nei tempi passati, con il contributo determinante dei cattolici in politica, di realizzazioni importanti per il nostro Paese ne sono state fatte moltissime nei più disparati settori, sociale, culturale, industriale, agrario, che ben vengono ricordate in relazione. Ora, probabilmente, per la diaspora cattolica in politica tutto sembra fermo. Convengo su questa prima valutazione ma, per come sono fatto, non mi basta e quindi cerco con alcuni esempi di focalizzare il mio pensiero.
Esempio 1. Anni fa, (credo ne siano trascorsi una trentina) Benetton, prima di altri applicò nel processo produttivo e distributivo dei propri prodotti il Just In Time (e qui mi tiri un altro accidente per via dell’inglese). Una filosofia industriale di derivazione giapponese che ha invertito il vecchio metodo di produzione. Appena in tempo, si fa quanto richiesto dal cliente, si eliminano i tempi morti e le scorte, il tutto in un tempo estremamente ridotto e dettato dalle richieste. Il tutto con una campagna promozionale a tratti scioccante ma ben dosata. Da quel momento, in Italia si iniziò non più a pubblicizzare un prodotto ma, utilizzando informazioni di quell’epoca, ad influire preventivamente sui desideri sociali e personali.
Esempio 2. Oggi siamo informati che nella campagna elettorale americana una azienda che analizza i dati di tutti gli utenti di Facebook ha prelevato (probabilmente con il consenso) da 50 milioni di server qualche miliardo di dati sensibili (desideri e aspettative si possono individuare facilmente analizzando i dati di trasmissione) e con tali dati è stata calibrata la campagna elettorale tra provocazioni delle aspettative, ambiente di riferimento e soluzione dei desideri. Da noi, in Italia, tale processo è stato applicato in maniera massiccia dai gestori dei 5 stelle ed i risultati ottenuti ne confermano l’efficacia. Le persone, in massa, senza che vi sia alcuna concreta possibilità di realizzazione delle promesse elettorali (specificatamente il sud d’Italia) hanno approvato. Lo scopo di tali tecniche di formazione e disinformazione non è quello di orientare le persone attraverso la partecipazione alla soluzione dei problemi, bensì quello di orientarli a scegliere una scatola chiusa inducendo la certezza che solo dentro a quella scatola esistono le soluzioni.
Esempio 3. Questo mi preme ancor più degli altri. Nel 2001 dovendo preparare una relazioncina congressuale sindacale dovetti imbattermi oltre che sui temi di carattere generale (Lavoro, Europa, Stato sociale ecc.), anche su quelli che venivano definiti “i capitali senza volto” che già mordevano negli ambienti di lavoro spostando l’attività e l’economia da industriale a finanziaria. Già allora le aziende ed i posti di lavoro godevano di interesse se realizzavano profitti finanziari attraverso la produzione di beni e servizi, altrimenti semplicemente chiudevano. Le lotte e la sopravvivenza del lavoro esulava dall’azienda, ci si spostava massicciamente nel mercato finanziario e questo non era più contrattualizzabile. I passaggi ulteriori hanno fatto saltare il rapporto tra produzione e distribuzione di beni materiali ed immateriali. La “retribuzione” non era più legata al prodotto ma assumeva valore solo ciò che nell’immaginario aggregava. Anche perché nell’immaginario collettivo si riusciva ad influire agevolmente (pensiamo agli oltre 200 milioni di euro per avere un giocatore nella squadra del Paris Saint Germain...).
La “dottrina della crescita” basata su un’efficace ed efficiente produzione di beni e servizi e distribuzione o re-distribuzione dei profitti e del reddito è saltata. Oggi con la possibilità di monitorare il pianeta e di immagazzinare miliardi di informazioni e di disporre di migliaia di miliardi di capitali gestiti privatamente da singoli soggetti o piccoli gruppi, in totale autonomia di qualsiasi scelta politica in una frazione di secondo, pigiando su alcuni tasti si definiscono le vite delle aziende e le vite delle popolazioni di intere nazioni. Credo che sia giunto il tempo, anche sul piano culturale, di chiamare questi accumuli finanziari con il nome che a loro compete: questa non è ricchezza, ancorchè ridotta a pochi soggetti. Questa è “usura” e come tale agisce e va combattuta a viso aperto.
Ultima annotazione: la struttura e la forma del partito deve essere funzionale alla propria essenza in modo che essa stessa diventi elemento generativo di partecipazione, consenso e responsabilità. C’è nella documentazione un richiamo forte al concetto di Comunità; lo approvo, ma anche qui vado oltre. Abbiamo per troppo tempo immaginato che bastasse dire Comunità per capire di cosa stavamo parlando. Un certo tipo di comunità, piaccia o non piaccia, è il risultato che si ottiene se si pratica la “condivisione”, diversamente la comunità è data dalle persone che a tale comunità nazionale appartengono. Insomma, è la condivisione che fa comunità e non la comunità che fa condivisione. Per cui sarebbe opportuno approfondire in termini culturali sociali, etici, economici e politici il profondo significato di “Condivisione politica” intendendo per “Politica” l’arte e l’etica di governo di una nazione.

Caro Giuseppe, la chiudo qui. Era dai tempi della Flaei che con te non avevo più avuto modo di scambiare qualche pensiero e sembra ieri, ma sono già trascorsi tredici anni. L’ho fatta un po’ lunga ma per farmi perdonare ti allego la foto di in icona che mi è particolarmente cara.
Un Abbraccio
Enrico Forti

 


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Europa

L’UNIONE EUROPEA ALLA PROVA DEI NUOVI EQUILIBRI INTERNAZIONALI

Dopo quanto è successo in Canada alla riunione del G8 (8 e 9 Giugno 2018), con il documento finale, prima sottoscritto e poi ripudiato da Donald Trump, riappare lo spettro di una guerra commerciale tra USA e resto del mondo, con particolare riferimento all’UE,  e lo scenario della geopolitica internazionale sembra stravolto.
 
Trump con il suo cambio di strategia apre un contenzioso forte con l’Europa e sembra affermare la volontà degli USA di sostituire al G8 una triade USA-Cina-Russia, con l’Europa ridotta ad un ruolo laterale e marginale. Tutto ciò costituisce elemento di una necessaria non rinviabile riflessione in previsione del rinnovo del prossimo parlamento europeo.
 
Le difficoltà operative nella governance dell’Unione europea, anche a seguito della Brexit, con le sue conseguenze tuttora in fase di complessa risoluzione; i contrasti con i Paese di Visegrad e tra i Paesi del Nord e quelli mediterranei, non solo in materia di politiche di governo dei flussi migratori, si aggiungono a quelli più ampi della geopolitica internazionale, in conseguenza dei nuovi equilibri che l’annunciata “guerra doganale” con gli USA sembra determinare.
 
L’instabilità politica della Germania, dove si sta consumando la lunga stagione dell’egemonia di frau Merkel, le difficoltà in cui si dibatte Macron in Francia, dopo e nonostante  l’ottimo risultato elettorale delle presidenziali, il trionfo dei partiti sovranisti in Austria, Ungheria e la stessa recente formazione del governo italiano giallo-verde; l’avvio del quarto round della Brexit, che si sta dimostrando assai più complicato rispetto alle premesse, con riflessi contraddittori anche all’interno della stessa politica del Regno Unito, sono tutti elementi  che caratterizzano l’attuale difficoltà nel processo di costruzione e sviluppo dell’Unione europea.
 
Come è noto,  marzo del 2019 è la data fissata per la definitiva uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Al riguardo va tenuto presente che, in assenza di un accordo e nel caso  di “un’uscita disordinata”,  il Regno Unito dovrebbe operare secondo le regole del WTO, con la sequela di controlli doganali e tariffe da esse prescritte. A Londra già si teme per la scarsità di prodotti di vario genere e conseguenze sul piano della stabilità dei prezzi e nella disponibilità anche su prodotti di prima necessità.
 
Con l’uscita della Gran Bretagna si è riaperto, com’ è noto, il confronto acceso tra i 27 Paesi UE per decidere la definitiva allocazione delle sedi di EMA (Agenzia del farmaco), dopo il no alla proposta dell’Italia per Milano, e dell’Eba ( Autorità Bancaria) per la quale la Germania rivendicava la sede di Francoforte, dove già è allocata quella della Bce.
 
 Per l’Ema, la sede vinta per sorteggio da Amsterdam, dopo i ricorsi respinti dell’Italia e della città di Milano, a tutt’oggi non è ancora in costruzione e l’edificio temporaneo che dovrà ospitare l’Ema nei primi mesi del 2019, quando avverrà il trasferimento, non sarà in grado di ospitare l’intero staff dell’agenzia (si parla di circa 900 dipendenti). L’Eba alla fine, anch’essa per sorteggio, è toccata alla Francia e sarà ubicata  a Parigi la sede della prestigiosa autorità bancaria europea, a riconferma del ruolo dominante di Germania e Francia ( la “ Framania”) nell’Unione europea.
 
Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, d’altra parte, non è ancora ben chiaro il destino dell’Unione europea. Il Libro Bianco sul futuro dell’Europa mostra, infatti, cinque scenari diversi da qui al 2025: mantenimento dello status quo; semplice mercato unico; unità europea nella politica estera;  Europa a due  velocità; governance della politica dell’immigrazione col superamento del trattato di Dublino e politica comune della difesa.
 
Sul fronte dell’area Euro, infine, emerge l’ipotesi di un ministro delle Finanze unico della zona euro e la trasformazione dell’Esm, il meccanismo di stabilità, in un Fondo monetario europeo. Tema particolarmente arduo e delicato il completamento dell’unione bancaria con un sistema di garanzia unico per i depositi, prospettiva mal digerita e osteggiata sin qui dalla Germania.
 
La prossima riunione del Consiglio  dei ministri dell’UE per la definizione del bilancio comunitario e la riduzione graduale sino all’annullamento del Quantitative Easing, sono i passaggi a breve più delicati cui dovrà far fronte l’Unione europea. L’Italia, con la nuova maggioranza di governo, si appresta a richiedere per l’ennesima volta uno sconto sul deficit, al fine di garantirsi una maggiore disponibilità sui conti pubblici e margini di investimento per il rilancio dell’occupazione. Tutto dipenderà dalle scelte che sul Def in corso di definizione, il governo italiano sarà in grado di mettere in mostra rispetto alle attese dei partner europei.
 
Se questi  sono i temi più urgenti della prossima agenda europea, non vanno dimenticati quelli più strettamente politici connessi alla deriva politica dell’ Europa verso la destra radicale che accompagna la crisi profonda dei partiti tradizionali, gli assi portanti sin qui del parlamento europeo: Ppe e Spd, una crisi che sembra inarrestabile.
 
In un prossimo articolo cercherò di esaminare due temi a mio avviso essenziali per proporre una seria proposta riformatrice di ispirazione popolare ed europeista secondo i principi dei padri fondatori: Adenauer, De Gasperi e Schuman.
 
Il primo è quello del rapporto da rinegoziare nei trattati, al fine di superare i conflitti rivelatisi insanabili con la nostra Costituzione, specie quando, come nel caso del fiscal compact, quella decisione, nettamente in contrasto con gli stessi trattati liberamente sottoscritti, è stata il frutto di un regolamento di grado normativo inferiore ai trattati, redatto da euro-burocrati, con l’avallo irresponsabile anche di nostri autorevoli esponenti di governo. Fatto quest’ultimo ampiamente dimostrato dai saggi del prof Giuseppe Guarino, ahimè, sin qui  volutamente e colpevolmente misconosciuti.
 
Il secondo è il tema della sovranità monetaria che, nei modi  in cui si è sin qui realizzata a livello dell’Unione e in quasi tutti i Paesi componenti della stessa, con il controllo de facto della Bce e delle banche centrali dei diversi Paesi da parte degli edge funds anglo caucasici (kazari), riduce la “sovranità popolare” a  un ectoplasma senza sostanza; con le politiche economiche prone al dominio degli interessi dei poteri finanziari, che subordinano ad essi tanto l’economia reale che la politica. In sostanza, annullano de facto la democrazia e le fondamenta stesse su cui si regge il nostro patto costituzionale.

 
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Politica e interessi collettivi

DOBBIAMO ANCORA DARE RETTA ALLA BANCA D’ITALIA?

Quest’anno la tradizionale relazione della Banca d’Italia è caduta sotto silenzio per la coincidenza con una situazione di grave crisi politica. Eppure si tratta di una voce autorevole in grado di fornire alcuni punti fermi nella transizione in atto.

La constatazione da cui partire è che l’Italia da un quarto di secolo ha perso il passo dei principali paesi europei. Una bassa crescita economica, una elevata disoccupazione (soprattutto giovanile), nuove sacche di povertà. La causa va individuata nel prolungato ristagno della produttività, l’indicatore che misura la capacità di innovazione del sistema produttivo e dell’intera società. All’origine di questo ristagno ci sono i noti ritardi strutturali (pubblica amministrazione, giustizia, infrastrutture materiali ed immateriali) resistenti ad ogni riforma perché i grumi di interessi a loro difesa sono più forti della stessa politica.

La politica è così venuta meno all’obiettivo di accrescere il reddito ed il benessere dei cittadini, penalizzando le fasce più deboli della popolazione. Questa insoddisfazione ha portato al governo due movimenti politici (Lega, 5 Stelle) premiati da una offerta elettorale quanto mai generosa che ora dovrà fare i conti con quanto il paese può realmente permettersi in funzione delle risorse economiche attivabili e con quanto consentito dal sistema di alleanze in cui è collocato, a livello europeo ed internazionale.

Due sono i punti fermi forniti dalla relazione della Banca d’Italia che meritano di essere tenuti presenti.

Il primo è rivolto soprattutto alla nuova classe di governo: il destino dell’Italia è il destino europeo. Certo l’Unione Europea deve rivedere i suoi strumenti di intervento e crearne di nuovi perché, come avvenuto con la nascita degli stati nazionali, la sua sovranità sarà legittimata quando i suoi cittadini si riconosceranno in interessi comuni. Un obiettivo di non breve periodo che richiederà correzioni di percorso ma è illusorio pensare che un solo Paese possa raddrizzare con l’ascia il legno storto su cui si regge l’attuale Unione Europea. Non c’è alternativa ad un paziente lavoro di lima con cui risaldare quanto ci unisce e risagomare quanto ci divide.

Il secondo punto fermo è rivolto alla classe politica e alle parti sociali. Riguarda il nodo vizioso che lega bassa produttività-bassa qualità del capitale umano. Siamo di fronte alle nuove sfide dell’economia digitale, una opportunità da non perdere per recuperare capacità di crescita. I problemi che si pongono sono  tanti: ricapitalizzare il lavoro dal lato delle competenze, rivitalizzare le istituzioni preposte al funzionamento del mercato del lavoro, riorientare la contrattazione collettiva verso un condiviso recupero di produttività, reinserire l’economia dei lavoretti gestiti dalle nuove piattaforme tecnologiche nel sistema di welfare e del diritto del lavoro, tutelare socialmente quanti scartati o sostituiti dai robot.

 Difficile sarà far capire alle nuove forze di governo, portatrici di una concezione totalizzante del potere, che la politica in tali campi dovrà fare i conti con le parti sociali che godono di autonome prerogative sottratte all’autorità dello Stato. Così come sarà difficile richiedere alle parti sociali una riconsiderazione delle loro strategie di tutela degli interessi rappresentati da riposizionare nella nuova economia digitale. Tenendo anche conto che la natura flessibile, articolata delle nuove tecnologie richiederà la ricerca di nuovi equilibri fra i meccanismi regolativi centralizzati ed i restanti strumenti di regolazione che fanno capo alle istituzioni locali.

La Banca d’Italia, al di là del suo mandato, è una risorsa per l’intero paese, soprattutto in un momento come questo nel quale le promesse elettorali devono essere trasformate in priorità di governo, con un contestuale riposizionamento dei diversi interessi collettivi che fanno parte della realtà economica e sociale del Paese. La percezione diffusa dello stallo in cui ci troviamo esige che il cambiamento tanto evocato non affondi di nuovo nel pantano. Anche perché non c’è in vista nessun Barone di Münchausen con la capacità di uscirne con le proprie forze. Meglio così perché il paese ha bisogno di realismo, non di ulteriore illusionismo.

 
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Fiabe

LA CASA AL LIMITARE DEL BOSCO

Fiabe
 
LA CASA AL LIMITARE DEL BOSCO
 
In una mattina come tante, in un piccolo centro, mentre la vita riprendeva il suo ritmo, si vide arrivare dalla via principale uno straniero in groppa al suo cavallo. L’uomo decise di sostare in quel paese e si avviò dunque verso per il mercato.
- Chi sei, straniero? Cosa ti porta qui?
domandò il panettiere.
- Sono un viaggiatore. Visito centri abitati, valli, boschi.
- Perché mai fai questo?
domandò la lavandaia.
- Voglio scoprire il mondo.
Intervenne un vecchio che era seduto lì vicino.
- Il mondo è tutto uguale, cosa vai a cercare? Gli uomini invece hanno caratteristiche differenti, tante personalità.
- Cosa intendi?
chiese il giovane viaggiatore.
- Intendo che viaggiando ti imbatterai negli stessi alberi, negli stessi boschi, negli stessi castelli negli stessi borghi. Negli uomini, invece, troverai diversità.
- Vorrei davvero conoscere persone diverse, fuori dal comune. Come posso fare?
chiese allora il giovane.
- Va’ al limitare del bosco, vi è lì una casina e ne avrai conferma.
Il giovane viaggiatore si avviò. Camminando nel bosco non poté fare a meno di notare la bellezza di questo; alberi maestosi, prati fioriti, i raggi del sole che giocavano tra i rami. Mentre proseguiva, udiva in lontananza un dolce cantare. Sceso da cavallo, proseguendo a piedi, incontrò un gruppo di ricci il quale proseguiva in fila indiana; poco lontano anche le formiche procedevano nel loro modo ordinato fino alla tana. Arrivò da lontano l’eco di un urlo il quale destabilizzò le piccole creature, che corsero via sciogliendo le file. Ma egli continuò, e, con il sole giunto nel suo punto più alto, arrivò alla casa al limitare del bosco, dalla quale si riudì il dolce cantare. “Che bel canto, che bella voce. Il canto sarà forse una delle caratteristiche umane che ci particolarizzano?” pensò il giovane mentre bussava alla porta. Il canto cessò e la porta venne subito aperta. Apparve una giovane donna.
- Hai udito il mio canto vero?
disse lei con un lieve sorriso.
- Sì. Io sono un viaggiatore, mi trovavo qui per esplorare nuovi luoghi ma mi hanno parlato delle diversità degli uomini, ed ora che sono qui vorrei conoscerle. Qual è il tuo nome, dolce fanciulla?
- Il mio nome l’ho dimenticato, da molto tempo ormai vivo qui, questa è la casa della follia.
- Cosa vuol dire?
chiese il giovane meravigliato.
- Vuol dire che la follia vive qui con me, ai margini del bosco, vive sola con me così che i miei canti, i miei lamenti non possano arrecare fastidio a nessuno. E intanto aspetto che lui ritorni.
- Il tuo canto invece è molto bello e tutti dovrebbero ascoltarlo.
- Eppure mi hanno mandato qui sola...
disse lei iniziando lentamente a girare su sé stessa, come se stesse iniziando i passi di una qualche danza.
- E chi è che aspetti, se posso chiederlo?
- Aspetto qualcuno che mi porti nel nostro eden. Un luogo dove l’inverno non arriva mai, dove i fiori non appassiscono, dove il pane non brucia, dove le candele non si consumano e dove non si sente più dolore.
- Un posto così non esiste, nessuno ti ci potrà portare.
- No, non esiste.
rispose lei. Il giovane rimase sbigottito.
- Allora, se lo sai già che non esiste, cosa aspetti a fare?
- Aspetto qualcuno che possa crearlo. Se ami qualcuno, se sei amato da qualcuno, un posto così lo crei. Crei un mondo migliore, dove nessuno conosce la sofferenza, un luogo dove l’inverno non arriva mai, dove i fiori non appassiscono, dove il pane non brucia, dove le candele non si consumano e dove non si sente più dolore. Ma gli uomini non si amano: per questo un posto così ancora non esiste, ed è per questo che io attendo qui, sola, nella casa della follia.

 
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