A volte la nostra vita si specchia inattesamente in quella degli altri, magari per un episodio casuale del quale avevamo fino allora ignorato i protagonisti: e scopriamo che dietro quell’episodio c’è un insegnamento che fa anche per noi, o magari solo uno spunto di riflessione che è però occasione preziosa per farci semplicemente capire quanto è vasta e variegata la realtà umana che ogni giorno ci passa davanti e interseca i nostri passi; e quanto, in fin dei conti, valga la pena essere nei suoi confronti attenti e aperti.
*****
Il bambino che mi sedeva di fronte, sul treno regionale Genova-La Spezia, era mingherlino, aveva occhi castano-dorati, come i capelli, e gambette irrequiete. Quando si sentiva osservato si stringeva alla madre e reclinava la testa sul braccio di lei.
Lei, una giovane donna triste e pensosa, non badava al figlio né alle piccole stazioni dove il treno si fermava per pochi minuti: mentre lui ad ogni sosta si allungava verso il finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione; la vocetta era squillante anche se tradiva una lieve incertezza nel sillabare il nome sconosciuto della località: uno scolaretto di prima elementare, ne dedussi.
Dopo Sturla, il bambino si inginocchiò sul sedile e appoggiò la fronte al vetro. La madre si preoccupò allora di controllare che i suoi sandali non sfiorassero le mie ginocchia. Ignorò la mia occhiata benevola di comprensione e riprese il suo silenzioso raccoglimento, con le mani intrecciate sulla borsa di rafia.
“Quarto dei Mille!” esultò poco dopo il piccolo viaggiatore, puntando il dito fuori. E voltandosi: “Perché Mille? Mamma, cosa vuol dire?”. La donna non cambiò espressione: muta e indecifrabile come una statua. Era mai possibile che non sapesse rispondere a una domanda così semplice? mi chiesi. Il bimbo ripetè la domanda calcando su quel “mille”, che forse gli sembrava strambo, per un paese. Non ottenne nessun risultato. Il treno ripartì. Colsi una sua occhiata rivolta a me: conosco bene la psicologia dei bambini, dopo trentotto anni di insegnamento, e capii subito che questo era un tipetto sveglio con una gran voglia di scoprire e imparare. Se mi fossi messa a spiegargli l’evento storico legato a quel nome, dopo aver bevuto le mie parole mi avrebbe tempestato di domande. Colta da un senso di rispetto per il silenzio malinconico della madre, preferii tacere. Intanto il bambino seguitava a fissarmi, per cui io finsi di dormicchiare. Durante il percorso udivo però la sua voce che elencava i vari paesi costieri; ma il tono era stracco e poi si spense. Evidentemente non gli piaceva giocare da solo. Tra un battito di ciglia lo intravidi osservare svagato il grigiore del cielo che si rifletteva nel mare, e smuovere smanioso le gambe.
Appena il treno sferragliò sul ponte sopra il fiume Entella la donna si rivolse al figlio con un piglio brioso: “Su, Nuccio! La prossima è la nostra fermata”. Lui balzò in piedi e si fece agganciare lo zainetto alle spalle. “Siamo già a Lavagna?”, si informò. “Proprio a Lavagna”, confermai io, rompendo finalmente il cerchio del mio riserbo. E lui con gli occhi sgranati: “Io sulla lavagna ci scrivo”. “E io ci abito da un sacco di tempo”, replicai scherzosa.
Scendemmo tutti e tre insieme. La madre portava un borsone nero a tracolla e sul marciapiedi sbirciò attorno, indecisa. All’uscita dalla stazione mi chiese dove fosse via Devoto, controllando un biglietto tratto da una tasca dei jeans. ”Che numero?” chiesi a mia volta. “Trentuno”, mi rispose. “Andiamo, è il caseggiato di fronte al mio”, la rassicurai. Parve illuminarsi: “Grazie, signora; è da anni che non vengo da queste parti: abito a Udine, e qui mi aspetta una mia amica”. “La Luisita”, specificò il bambino con gli occhi ridenti. Ci salutammo quando già le prime gocce di pioggia cadevano su via Devoto.
Quando arrivai a casa accesi una sigaretta e misi a posto alcune scartoffie inerenti alla mia visita al provveditorato agli Studi di Genova. Più tardi il frigo poco fornito mi indusse a prendere l’ombrello e uscire. Tornando dal supermercato mi volsi casualmente verso il civico 31: scorsi il bambino del treno che mi guardava attraverso il vetro del portone con aria sconsolata. Tornai allora sui miei passi e mi accostai: la madre era rannicchiata sulla prima rampa delle scale con nello sguardo la medesima delusione del figlio. Spinsi la maniglia: “Siete ancora qui?”, mi meravigliai. La giovane si levò in piedi imbarazzata: “La mia amica forse si è scordata del nostro arrivo, doveva lasciare le chiavi alla vicina, che però non sa nulla e al cellulare non risponde. “La Luisita è proprio scema”, mormorò il bambino scuotendo il capo. “E adesso?”, mi impensierii. “Aspettiamo ancora un po’, se non viene cercherò un alberghetto per la notte”, mi rispose lei a occhi bassi. Controllai l’ora al polso e decisi su due piedi: “Venite su da me, intanto dovete pur cenare”. Madre e figlio parevano stupiti dell’invito: lui fu però pronto a sistemarsi le cinghie dello zainetto, mentre lei esitava a raccogliere il borsone.
“Signora, non vorrei darle disturbo, lei è troppo gentile…”. Le allungai la mano come per stringere un patto di solidarietà. “Mi chiamo Teresa”, mi presentai. “Io sono Ortensia”, replicò lei con un filo di voce. Quindi aprii l’ombrello e alla benemeglio li feci mettere sotto tutti e due.
Nello svegliarmi la mattina dopo ebbi subito la sensazione di non essere sola in casa. Erano quasi le otto e certo Ortensia era già uscita: doveva prendere un treno per Genova. Mi aveva lasciato il bambino e il borsone; e non aveva potuto contattare l’amica al cellulare.
La sua storia me l’aveva raccontata la sera prima: quattro parole al tavolo di cucina mentre Nuccio dormiva nella cameretta che era stata di mio figlio Alberto. Una storia cominciata bene, che si era deteriorata recentemente. Il suo compagno – oh, quanto detesto questo termine in uso per le coppie di fatto – aveva perso il lavoro di gruista e l’inerzia lo aveva reso sfuggente e irascibile. Stava tutto il giorno fuori, rientrava tardi e ogni tanto portava un po’ di soldi di dubbia provenienza. Ortensia temeva che si fosse messo in un brutto giro e i suoi sospetti si confermarono allorchè fu arrestato perché in possesso di pochi grammi di cocaina. Raccontando questa vicenda lei fumava, e io pure. La nuvola di fumo creava una sorta di velo confacente a questa sua improvvisa familiarità con un’estranea.
“Il giudice non ha accettato l’alibi che si trattasse della sua dose personale e l’hanno arrestato per spaccio”. E dopo una pausa, con tono supplice: “Mi creda, signora, ha avuto un momento di debolezza in seguito al licenziamento, ma è un brav’uomo e ci vuole bene”. Il posacenere era pieno di mozziconi. Per il processo imminente Ortensia intendeva rivolgersi a un buon avvocato di Genova. “La mia amica si è offerta di tenere Nuccio, così io posso muovermi liberamente”, aveva concluso con un sospiro.
Nuccio comparve sulla soglia della cucina strofinandosi gli occhi e mi domandò della madre, con la quale aveva condiviso il letto a una piazza. Gli risposi che era partita e sarebbe tornata la sera. Lui si strinse nelle spalle: “E’ per papà, lo so; lavora a Genova. E’ tanto che non lo vedo”. Poi scostò una sedia e si sedette al tavolo dove avevo preparato il tazzone di latte con i biscotti. Ortensia lo tirava su bene, il suo bambino, sebbene adesso potesse contare solo sul suo lavoro in un’impresa di pulizie. Verso le dieci uscimmo e andammo a passeggiare sul lungomare sotto lo sfolgorante sole di giugno: Nuccio mi dava la mano fiducioso. Al suo sguardo acuto non sfuggiva nessun dettaglio di quel paesaggio da cartolina; però non faceva domande. Così toccò a me prendere l’iniziativa: “Ti ricordi che in treno volevi sapere perché una stazione si chiama Quarto dei Mille?”.
Lui mi guardò di sotto in su e mi fece, un po’ imbronciato: “Nessuno mi ha risposto”. Niente di meglio di una panchina un po’ in ombra per colmare la lacuna: e il mio racconto gli sciolse la lingua. “Questo Garibaldi era davvero un eroe”, osservò Nuccio, che aveva ascoltato molto attento la narrazione dell’impresa dei Mille. E poi con una timida occhiata: “Tu sei una maestra?”. “Lo sono stata… e tu hai una brava maestra?”. “Io ne ho due, la Lory è simpatica, l‘altra è una streghetta con le unghie blu”. E si portò le mani alla bocca, pentito dell’impertinenza.
Nel pomeriggio Nuccio si mise a guardare i cartoni alla tivù e io presi un vecchio album dell’infanzia di mio figlio per mostrarglielo, ma cambiai idea e lo infilai di nuovo nel cassetto. Ortensia per tutto il giorno non si fece viva. Mentre cenavamo squillò il campanello della porta. Nuccio si strappò il tovagliolo e corse all’ingresso. Udii delle esclamazioni e lo seguii. Sulla soglia si stagliava una biondina sorridente che lo stava abbracciando: era la famosa Luisita che, una volta entrata, si scusò per le sue negligenze del giorno prima; “Sto allestendo un piccolo stabilimento balneare, un grande impegno che mi ha mandato in tilt e ho scordato tutto il resto…”.
Nuccio la guardava con una smorfia di rimprovero. “Su, adesso saluta questa gentile signora, prendi la tua roba e vieni da me… La mamma mi ha telefonato, ma il cellulare era mezzo scarico e non ho capito quasi niente”. Nuccio non si mosse dal mio fianco. “Stanotte dormo qui”, disse; “la maestra deve finire di raccontarmi le ultime imprese di Garibaldi”. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. La ragazza infine si arrese: sarebbe venuta a prenderlo l’indomani. Appena chiusi la porta Nuccio mi strizzò l’occhio: e rimase sveglio fino alle dieci ad ascoltare la lezione su Garibaldi. Prima di addormentarsi gettò un’occhiata verso la scrivania dove c’era la foto del mio Alberto. “ E’ tuo nipote?”, mi domandò. “E’ mio figlio a quindici anni”. “Dove è adesso?”. “All’estero”. “E non ti viene a trovare? ”Certo che viene, e anche di frequente”. Spensi la luce e uscii dalla stanza. Avevo il magone. Alberto era bello e bravo come appariva in quell’ultima immagine: ma quando suo padre se n’era andato via di casa per amore di una giovane turista inglese che viveva a Londra, era diventato duro e ribelle. Che si fosse messo in un brutto giro come il compagno di Ortensia me ne ero resa conto troppo tardi. Quell’estate particolarmente secca i boschi delle colline bruciavano e l’odore del fumo arrivava fino alla Via Aurelia. Incendi dolosi, scrivevano i giornali. Le guardie forestali scoprirono una piccola banda di minorenni che appiccavano il fuoco per divertimento. Alberto era fra loro. Cercò di scappare ma sull’orlo di un dirupo perse l’equilibrio e precipitò, facendo un volo di dieci metri.
Nuccio se ne andò la mattina dopo con “quella scema della Luisita”, lasciandomi dentro un’apprensiva tenerezza. La casa tornava vuota. Forse mi ero illusa che il bambino del treno restasse ancora un po’ a dare un senso alle mie giornate. Ma sarebbe stato come tradire Alberto che da decenni è l’ombra dolce che accompagna ogni istante della mia vita. Qualche volta scorgo Nuccio che gioca in spiaggia, allegro, abbronzato, con altri bambini. Oramai di Garibaldi sa tutto e non ha più bisogno di me. Ci lanciamo un saluto da lontano. Ortensia ogni tanto mi telefona. Spero che tutto si risolva presto: così Uccio tornerà a Udine con i suoi genitori.
(Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
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Lei, una giovane donna triste e pensosa, non badava al figlio né alle piccole stazioni dove il treno si fermava per pochi minuti: mentre lui ad ogni sosta si allungava verso il finestrino e leggeva ad alta voce il nome della stazione; la vocetta era squillante anche se tradiva una lieve incertezza nel sillabare il nome sconosciuto della località: uno scolaretto di prima elementare, ne dedussi.
Dopo Sturla, il bambino si inginocchiò sul sedile e appoggiò la fronte al vetro. La madre si preoccupò allora di controllare che i suoi sandali non sfiorassero le mie ginocchia. Ignorò la mia occhiata benevola di comprensione e riprese il suo silenzioso raccoglimento, con le mani intrecciate sulla borsa di rafia.
“Quarto dei Mille!” esultò poco dopo il piccolo viaggiatore, puntando il dito fuori. E voltandosi: “Perché Mille? Mamma, cosa vuol dire?”. La donna non cambiò espressione: muta e indecifrabile come una statua. Era mai possibile che non sapesse rispondere a una domanda così semplice? mi chiesi. Il bimbo ripetè la domanda calcando su quel “mille”, che forse gli sembrava strambo, per un paese. Non ottenne nessun risultato. Il treno ripartì. Colsi una sua occhiata rivolta a me: conosco bene la psicologia dei bambini, dopo trentotto anni di insegnamento, e capii subito che questo era un tipetto sveglio con una gran voglia di scoprire e imparare. Se mi fossi messa a spiegargli l’evento storico legato a quel nome, dopo aver bevuto le mie parole mi avrebbe tempestato di domande. Colta da un senso di rispetto per il silenzio malinconico della madre, preferii tacere. Intanto il bambino seguitava a fissarmi, per cui io finsi di dormicchiare. Durante il percorso udivo però la sua voce che elencava i vari paesi costieri; ma il tono era stracco e poi si spense. Evidentemente non gli piaceva giocare da solo. Tra un battito di ciglia lo intravidi osservare svagato il grigiore del cielo che si rifletteva nel mare, e smuovere smanioso le gambe.
Appena il treno sferragliò sul ponte sopra il fiume Entella la donna si rivolse al figlio con un piglio brioso: “Su, Nuccio! La prossima è la nostra fermata”. Lui balzò in piedi e si fece agganciare lo zainetto alle spalle. “Siamo già a Lavagna?”, si informò. “Proprio a Lavagna”, confermai io, rompendo finalmente il cerchio del mio riserbo. E lui con gli occhi sgranati: “Io sulla lavagna ci scrivo”. “E io ci abito da un sacco di tempo”, replicai scherzosa.
Scendemmo tutti e tre insieme. La madre portava un borsone nero a tracolla e sul marciapiedi sbirciò attorno, indecisa. All’uscita dalla stazione mi chiese dove fosse via Devoto, controllando un biglietto tratto da una tasca dei jeans. ”Che numero?” chiesi a mia volta. “Trentuno”, mi rispose. “Andiamo, è il caseggiato di fronte al mio”, la rassicurai. Parve illuminarsi: “Grazie, signora; è da anni che non vengo da queste parti: abito a Udine, e qui mi aspetta una mia amica”. “La Luisita”, specificò il bambino con gli occhi ridenti. Ci salutammo quando già le prime gocce di pioggia cadevano su via Devoto.
Quando arrivai a casa accesi una sigaretta e misi a posto alcune scartoffie inerenti alla mia visita al provveditorato agli Studi di Genova. Più tardi il frigo poco fornito mi indusse a prendere l’ombrello e uscire. Tornando dal supermercato mi volsi casualmente verso il civico 31: scorsi il bambino del treno che mi guardava attraverso il vetro del portone con aria sconsolata. Tornai allora sui miei passi e mi accostai: la madre era rannicchiata sulla prima rampa delle scale con nello sguardo la medesima delusione del figlio. Spinsi la maniglia: “Siete ancora qui?”, mi meravigliai. La giovane si levò in piedi imbarazzata: “La mia amica forse si è scordata del nostro arrivo, doveva lasciare le chiavi alla vicina, che però non sa nulla e al cellulare non risponde. “La Luisita è proprio scema”, mormorò il bambino scuotendo il capo. “E adesso?”, mi impensierii. “Aspettiamo ancora un po’, se non viene cercherò un alberghetto per la notte”, mi rispose lei a occhi bassi. Controllai l’ora al polso e decisi su due piedi: “Venite su da me, intanto dovete pur cenare”. Madre e figlio parevano stupiti dell’invito: lui fu però pronto a sistemarsi le cinghie dello zainetto, mentre lei esitava a raccogliere il borsone.
“Signora, non vorrei darle disturbo, lei è troppo gentile…”. Le allungai la mano come per stringere un patto di solidarietà. “Mi chiamo Teresa”, mi presentai. “Io sono Ortensia”, replicò lei con un filo di voce. Quindi aprii l’ombrello e alla benemeglio li feci mettere sotto tutti e due.
Nello svegliarmi la mattina dopo ebbi subito la sensazione di non essere sola in casa. Erano quasi le otto e certo Ortensia era già uscita: doveva prendere un treno per Genova. Mi aveva lasciato il bambino e il borsone; e non aveva potuto contattare l’amica al cellulare.
La sua storia me l’aveva raccontata la sera prima: quattro parole al tavolo di cucina mentre Nuccio dormiva nella cameretta che era stata di mio figlio Alberto. Una storia cominciata bene, che si era deteriorata recentemente. Il suo compagno – oh, quanto detesto questo termine in uso per le coppie di fatto – aveva perso il lavoro di gruista e l’inerzia lo aveva reso sfuggente e irascibile. Stava tutto il giorno fuori, rientrava tardi e ogni tanto portava un po’ di soldi di dubbia provenienza. Ortensia temeva che si fosse messo in un brutto giro e i suoi sospetti si confermarono allorchè fu arrestato perché in possesso di pochi grammi di cocaina. Raccontando questa vicenda lei fumava, e io pure. La nuvola di fumo creava una sorta di velo confacente a questa sua improvvisa familiarità con un’estranea.
“Il giudice non ha accettato l’alibi che si trattasse della sua dose personale e l’hanno arrestato per spaccio”. E dopo una pausa, con tono supplice: “Mi creda, signora, ha avuto un momento di debolezza in seguito al licenziamento, ma è un brav’uomo e ci vuole bene”. Il posacenere era pieno di mozziconi. Per il processo imminente Ortensia intendeva rivolgersi a un buon avvocato di Genova. “La mia amica si è offerta di tenere Nuccio, così io posso muovermi liberamente”, aveva concluso con un sospiro.
Nuccio comparve sulla soglia della cucina strofinandosi gli occhi e mi domandò della madre, con la quale aveva condiviso il letto a una piazza. Gli risposi che era partita e sarebbe tornata la sera. Lui si strinse nelle spalle: “E’ per papà, lo so; lavora a Genova. E’ tanto che non lo vedo”. Poi scostò una sedia e si sedette al tavolo dove avevo preparato il tazzone di latte con i biscotti. Ortensia lo tirava su bene, il suo bambino, sebbene adesso potesse contare solo sul suo lavoro in un’impresa di pulizie. Verso le dieci uscimmo e andammo a passeggiare sul lungomare sotto lo sfolgorante sole di giugno: Nuccio mi dava la mano fiducioso. Al suo sguardo acuto non sfuggiva nessun dettaglio di quel paesaggio da cartolina; però non faceva domande. Così toccò a me prendere l’iniziativa: “Ti ricordi che in treno volevi sapere perché una stazione si chiama Quarto dei Mille?”.
Lui mi guardò di sotto in su e mi fece, un po’ imbronciato: “Nessuno mi ha risposto”. Niente di meglio di una panchina un po’ in ombra per colmare la lacuna: e il mio racconto gli sciolse la lingua. “Questo Garibaldi era davvero un eroe”, osservò Nuccio, che aveva ascoltato molto attento la narrazione dell’impresa dei Mille. E poi con una timida occhiata: “Tu sei una maestra?”. “Lo sono stata… e tu hai una brava maestra?”. “Io ne ho due, la Lory è simpatica, l‘altra è una streghetta con le unghie blu”. E si portò le mani alla bocca, pentito dell’impertinenza.
Nel pomeriggio Nuccio si mise a guardare i cartoni alla tivù e io presi un vecchio album dell’infanzia di mio figlio per mostrarglielo, ma cambiai idea e lo infilai di nuovo nel cassetto. Ortensia per tutto il giorno non si fece viva. Mentre cenavamo squillò il campanello della porta. Nuccio si strappò il tovagliolo e corse all’ingresso. Udii delle esclamazioni e lo seguii. Sulla soglia si stagliava una biondina sorridente che lo stava abbracciando: era la famosa Luisita che, una volta entrata, si scusò per le sue negligenze del giorno prima; “Sto allestendo un piccolo stabilimento balneare, un grande impegno che mi ha mandato in tilt e ho scordato tutto il resto…”.
Nuccio la guardava con una smorfia di rimprovero. “Su, adesso saluta questa gentile signora, prendi la tua roba e vieni da me… La mamma mi ha telefonato, ma il cellulare era mezzo scarico e non ho capito quasi niente”. Nuccio non si mosse dal mio fianco. “Stanotte dormo qui”, disse; “la maestra deve finire di raccontarmi le ultime imprese di Garibaldi”. Non ci fu verso di fargli cambiare idea. La ragazza infine si arrese: sarebbe venuta a prenderlo l’indomani. Appena chiusi la porta Nuccio mi strizzò l’occhio: e rimase sveglio fino alle dieci ad ascoltare la lezione su Garibaldi. Prima di addormentarsi gettò un’occhiata verso la scrivania dove c’era la foto del mio Alberto. “ E’ tuo nipote?”, mi domandò. “E’ mio figlio a quindici anni”. “Dove è adesso?”. “All’estero”. “E non ti viene a trovare? ”Certo che viene, e anche di frequente”. Spensi la luce e uscii dalla stanza. Avevo il magone. Alberto era bello e bravo come appariva in quell’ultima immagine: ma quando suo padre se n’era andato via di casa per amore di una giovane turista inglese che viveva a Londra, era diventato duro e ribelle. Che si fosse messo in un brutto giro come il compagno di Ortensia me ne ero resa conto troppo tardi. Quell’estate particolarmente secca i boschi delle colline bruciavano e l’odore del fumo arrivava fino alla Via Aurelia. Incendi dolosi, scrivevano i giornali. Le guardie forestali scoprirono una piccola banda di minorenni che appiccavano il fuoco per divertimento. Alberto era fra loro. Cercò di scappare ma sull’orlo di un dirupo perse l’equilibrio e precipitò, facendo un volo di dieci metri.
Nuccio se ne andò la mattina dopo con “quella scema della Luisita”, lasciandomi dentro un’apprensiva tenerezza. La casa tornava vuota. Forse mi ero illusa che il bambino del treno restasse ancora un po’ a dare un senso alle mie giornate. Ma sarebbe stato come tradire Alberto che da decenni è l’ombra dolce che accompagna ogni istante della mia vita. Qualche volta scorgo Nuccio che gioca in spiaggia, allegro, abbronzato, con altri bambini. Oramai di Garibaldi sa tutto e non ha più bisogno di me. Ci lanciamo un saluto da lontano. Ortensia ogni tanto mi telefona. Spero che tutto si risolva presto: così Uccio tornerà a Udine con i suoi genitori.
(Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
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