CERCA



Persona e società

PERCHE'?

Non ci pensiamo mai abbastanza: il quesito e il mistero di esistenze che ci scorrono al fianco, che dipendono dalla nostra attenzione, che possono realizzarsi positivamente oppure perdersi proprio sulla base di come noi le affianchiamo: dipendono da noi, insomma. Adulti perduti misteriosamente nella demenza senile, malati cronici affidati a strutture con scarso coinvolgimento delle famiglie, bambini con il diritto alla vita sospeso da genitori padroni e non custodi. E’ l’immane dramma del silenzio sociale che circonda queste vite, che non possono difendersi da sole e spesso non vengono difese da noi. Possibile che il silenzio continui?
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Quel tavolino per scrivere è sufficiente. Certo, il computer era diventato per me un’abitudine inveterata, ma si vede che qui non posso tenerlo. Beh, nel caso mi venisse in mente qualcosa scriverò a mano. Del resto, ho sempre fatto così. Soltanto in un secondo momento ho bisogno di sviluppare, tagliare, spostare brani del lavoro, e farlo con i fogli è problematico. Allora chiederò che mi venga ridato il mio computer. In questa camera non c’è telefono. Eventualmente, per le connessioni di cui avessi bisogno, userò una chiavetta. Intanto però dovranno mettermi degli scaffali per un po’ di libri. Il posto per una piccola libreria c’è, proprio di fianco al tavolino.

Non capisco però come mi sia deciso a venire in questo posto. Non ricordo di averlo scelto. E poi, per quale motivo avrei dovuto sceglierlo? A casa mia avevo ogni comodità, e i miei libri, i miei quadri, il mio pianoforte, che sono parte di me, ma soprattutto mia moglie, che amo e che mi ama. Come ha potuto farmi uscire di casa e consentirmi di prendere alloggio qui? E i miei figli dove sono andati a finire? Sono confuso: sono troppe le cose che non mi tornano. Non mi pare di essere in ferie. Ci andiamo insieme, io e mia moglie. Siamo sempre andati insieme. Se poi lo fossi ci sarebbe il mare. Qui non c’è. Neppure campagna c’è, come io la intendo, come era quella dove avevo la casa una volta. Io però in ferie vado soltanto al mare. I monti non mi piacciono. Soprattutto non mi piacciono le strade che conducono ai monti e li percorrono. Non sopporto il vuoto visto da una strada. Posso guardare giù dall’aereo senza problemi, anche in fase di atterraggio, ma il vuoto visto da una strada… Ne consegue che certamente non sono in ferie. Non sono neppure malato. I miei mali li conosco fin troppo bene e non mi danno disturbi nuovi rispetto a quelli di cui soffro da più di vent’anni. Del resto, questo non è un ospedale. Gli ospedali li conosco bene come i miei mali. Come potrebbe essere diversamente? Ci ho passato mesi, complessivamente molti mesi. Li conosco bene.

Questo ambiente mi sembra più un pensionato. A tavola oggi avevo un commensale, abbastanza più giovane di me, che non si è presentato, non ha risposto al mio saluto ed è rimasto tutto il tempo con gli occhi fissi nel piatto, ma non mangiava. Hanno dovuto imboccarlo. Non so chi fosse la signora che lo ha fatto. Non era un’infermiera. Forse era una parente, ma anche lei non ha proferito parola. Sono sempre meno le persone capaci di comunicare, di rapportarsi agli altri parlando.

Quanti giorni saranno che mi trovo qui? Non mi ricordo quando ci sono arrivato e non so che giorno sia oggi. Un calendario…Ecco, sì, mi ci vuole un calendario, altrimenti come posso fare? A casa, anche senza calendario… sapevo dal computer che giorno era: la data, intendo, mi dava solo la data, ma non mi diceva il giorno della settimana. Però, meglio di niente, com’è invece in questo posto.

Ieri sono uscito. Lo ricordo bene. Sono sceso dalla camera e mi sono ritrovato in giardino. Mi sembra di esserci stato altre volte. Volevo andare in strada, ma in fondo al vialetto del giardino ho trovato un cancello. Chiuso. Senza bottone per aprirlo. Allora sono rientrato e ho chiesto alla portinaia che sta nell’ingresso di aprirmelo. E’ una bella ragazza, la portinaia. Non arriva a trent’anni. Oggi era dietro a quel bancone che c’è. Si notavano solo quei seni prorompenti che ha. Non molto grandi: staranno fra la terza e la quarta, più terza che quarta, ma che figura su quel corpicino snello! E un paio di glutei ben modellati e sicuramente sodi, così come deve avere le cosce. Porta i pantaloni e ieri l’ho vista bene. E’ anche gentile, e si è schermita, dicendo che non aveva modo di aprire il cancello al momento, e che le dispiaceva. Poi una signora ha suonato, il cancello si è aperto e, mentre lei entrava, io sono uscito in strada. Ci siamo salutati con un cenno della testa. Mi è parso che anche lei risortisse. Ma non mi sono girato. Ho fatto un bel giro. Insomma, un bel giro… un giro, per quanto mi consente di camminare, senza disagio, questa mia gamba sinistra, dove porto una protesi all’anca. Devo confessare che non conosco il rione dov’è il mio pensionato. Non credo sia nella mia città. Ma non mi sono perso. Ho fatto il giro dell’isolato, un isolato enorme, tenendomi sempre sul marciapiede. A un certo punto mi sono ritrovato al mio cancello. L’ho osservato bene di fuori. C’è il campanello vicino, ma nessuna targa che indichi come si chiama la pensione o albergo che sia. Non c’è neppure un’insegna con le stelle della categoria cui appartiene. Da come si presenta dentro, mi sembra assai scarso. Non credo possa meritarsi un fregio di più di due stelle. Solo Martina, così si chiama la ragazza in portineria, meriterebbe quattro o cinque stelle. Per poterle dare una classificazione di quattro o cinque stelle occorrerebbero esami che io ho smesso di fare da tanto e che non so se lei mi avrebbe permesso comunque di farle. Ma così, a occhio, credo che potrebbe salire al top.

Ho atteso che qualcuno volesse entrare. Ho aspettato più che per uscire, ma a un certo punto è arrivata a suonare una signora, una bella signora, di qualche anno d’età ma di quelle che portano la loro maturità con semplicità, che non mascherano i propri dignitosi capelli grigi con tinture di colori improbabili che, quelli sì, fin da lontano rivelano l’età tarda di chi li ostenta. Sono tornato con lei. Ho rifatto il vialetto e mi sono seduto su una delle panchine che ci sono in prossimità della portineria. Ho evitato tuttavia di farmi vedere da Martina. C’erano altri ospiti, seduti lì, tre donne e due uomini. Presumo che fossero ospiti perché una delle donne indossava uno spolverino di un celestino stinto, come usano in casa le donne di campagna, un’altra era piuttosto trasandata, con lo sguardo perso davanti a sé, e la terza entrava e usciva nervosamente dalla portineria. I due uomini, più giovani di me all’aspetto, indossavano entrambi quelle pantofole alte di stoffa a quadri colorati, tipo i kilt scozzesi, con il pelo dentro, come portano gli anziani, e si tenevano il collo ben coperto, anche aiutandosi con le mani, quasi fosse freddo. Era invece una calda giornata di primavera inoltrata, tanto che io mi ero sbottonato il colletto della camicia.

Dopo una mezzora sono venuti a chiamarci perché il pranzo era pronto. Non si mangia male in questo posto, ma non c’è possibilità di scelta. Solo quello che passa il convento, come si dice, e a sorpresa. All’albergo sul mare, dove andiamo noi, ci sono tre primi a scelta e tre secondi, sia a pranzo che a cena, ed è roba buonissima e abbondante, anche troppo, oltre a un buffet libero e ricchissimo. Eppure è soltanto un tre stelle. Ho valutato bene: questo non ne merita neppure due. Spero di rimanerci poco e comincio a chiedermi perché ci sono capitato. Sono qui dentro ormai da diversi giorni. Non so dire quanti, per il problema del calendario. Nel frattempo ho studiato com’è l’andazzo del pensionato: non si può uscire in strada, nessuno degli ospiti esce. Solo io ci riesco con il sotterfugio di stare in attesa in prossimità del cancello. 

Ora però ho un problema: non so come rientrare in camera mia perché non ne ricordo il numero. Ma è un giorno fortunato: si è affacciato nella sala della televisione Carlo. Caro è un giovane uomo che fa servizio all’interno da un paio di giorni, forse. Riguarda porte, finestre, rubinetti, bagni. Fa insomma tutti quei lavoretti di manutenzione spicciola che tanto sono necessari nelle grandi strutture. E’ disponibile sempre e ci si può parlare bene. Io, per la verità, non l’ho in grande simpatia perché mi pare che faccia la corte a Martina, ma soprattutto perché mi pare che Martina gli corrisponda, con quelle risatine che le ho visto fare alle battute insulse di lui. Mi sono dominato, ho ricacciato questa sorta di ripulsa che ho nei suoi confronti, mi sono allargato in un sorriso a quaranta denti (finti) e gli ho detto: “Carlo, ho un cassetto in camera mia che non scorre bene. Duro un po’ di fatica ad aprirlo e chiuderlo. Quando hai un minuto puoi venire a dargli un’occhiata? La mia camera è la numero… la numero…”
  • Ventisei: La Sua camera è la ventisei.
  • Oh, bravo Carlo! Sì, la ventisei. Ti aspetto.
  • Non dubiti. Vengo subito dopo che sarà ristabilito.
  • Grazie, Carlo. Grazie davvero.
Ecco, è la ventisei. Sono riuscito a farmelo ricordare senza destare sospetti. Se fossi andato a chiederlo a Martina o a qualcuna delle donne mi sarei fregato da solo. Qui dentro ho capito che se pensano che uno non abbia più mente ti tengono d’occhio, ti prendono di mira e non ti fanno fare più un passo. Non mi posso permettere che capiti anche a me. Come farei a uscire in strada? Se non potessi mi sentirei prigioniero e la paura, la claustrofobia di cui ho sempre sofferto, mi distruggerebbe. Ora però cosa gli invento a Carlo, su in camera? I cassetti scorrono tutti bene… Forse quello del tavolino per scrivere si può considerare un po’ difettoso ma non dà problemi, in realtà. Dirò che è quello che talvolta pare incastrarsi. Çi riguarderà e, al più, mi dirà che va bene. Tutto qui. A proposito del tavolino: devo ricordarmi di chiedere un paio di biro a Martina. Ne consumo molte a scrivere. Quasi non ho più neppure fogli.
Toc, toc.
  • Chi è?
  • Sono Carlo, per i cassetti.
  • Ti apro. Vieni, Carlo. Vieni.
  • Qual è il cassetto che le dà problemi?
  • Il cassetto, dici? Qual è? Non mi ricordo, Carlo…
  • Non si preoccupi. Li controlliamo tutti, così… Questo va bene… questi altri anche… E qui siamo a posto… Vediamo quello del tavolino. Capperi! Come fa ad aprirlo, questo? E’ incastrato. Una scartatina… Ecco, ora scorre bene. Tutto fatto. C’è qualche altro problema?
  • No, Carlo. Grazie
  • Di niente. Arrivederla.
  • Ciao, Carlo. Arrivederci. Ah Carlo…
  • Mi dica.
  • Quella ragazza, giù…
  • Quella ragazza… Chi? Sonia?
  • No, non Sonia. Sonia non la conosco. Dico di Martina. Sai, quella in  portineria? Martina!
  • Martina? Ah! Cosa ha fatto Martina?
  • Meglio perderla che acquistarla, quella, sai…
  • Perché?
  • E’ sempre al telefono. Fa tutto malvolentieri. Non è troppo educata…
  • Davvero è così? Meglio starle alla larga, allora.
  • Ecco, hai capito. Non vale proprio la pena.
  • Ha fatto bene a dirmelo. Io non ho tempo da perdere con chi non merita.
  • Bravo, Carlo!
  • ArrivederLa, di nuovo.
  • Arrivederci, arrivederci.
Tutto sommato è un bravo ragazzo, quel Carlo. E’ anche educato. Mi dà del lei, diversamente da altri che neanche conosco. Io gli do del tu, non per mancanza di rispetto, ma perché fra me e lui ci corrono di sicuro quasi cinquant’anni.
  • Sonia!
  • Che c’è?
  • Il vecchio, su, della ventisei…
  • Che ha fatto?
  • E’ innamorato di te.
  • Lo so. Tu come te ne sei accorto?
  • Mi ha parlato male di te. Ma era chiaro che lo ha fatto per cercare di sminuirti ai miei occhi. Una cosa strana, però: ti ha chiamato Martina.
  • So anche quello. Certi giorni passa le mattinate a guardarmi di sottecchi. Passerà cento volte davanti al banco, e mi osserva, senza parere. Mi ha spiegato la moglie che gli ricordo una ragazza che aveva in gioventù e che si chiamava Martina.
Quella povera donna di sua moglie, una donna squisita, è sempre qui. Abita vicino. Lui è abitudinario e tutti i giorni si prepara per uscire alla stessa ora. Non credo neppure che consulti l’orologio. Ce l’ha dentro, incorporato, come gli animali. Lei lo accompagna e gli fa fare un giro, anche se lui non cammina bene, come si vede. Lo fa uscire e lo segue per tutto il tempo. Lui è convinto di essere solo. Non la riconosce, così come non riconosce i suoi figli.
  • Me però mi riconosce e mi chiama per nome.
  • Sì, ma non ti meravigliare se a un tratto non saprà più chi sei. Ormai sono cinque anni che è ricoverato e ogni persona nuova che ha visto l’ha riconosciuta per qualche mese e poi più nulla. L’ho verificato di persona. Io per lui, come hai sentito, sono Martina. Sono stata Sonia per solo due mesi.
  • Poveraccio!
  • Sì, ma poveracci più che altro i suoi che rimpiangono l’uomo intelligente che era. Era un artista, sai?
  • Ah sì?
  • Era uno scrittore, un poeta, e pittore, anche bravo. Ho letto tutti i suoi libri e visto alcuni suoi quadri. Tutto notevole! Ora vuole sempre fogli bianchi, che tiene sul tavolo, e li imbratta di ghirigori con la biro fino a farli neri.
  • Allora è un peccato che sia ridotto così.
  • E’ sempre un peccato! Ma quando tocca a persone così… del resto, però…anche personaggi celebri…
Quel Carlo è stato bravo ad accomodarmi il cassetto. Ora magari esco. Mi metto la giacca ed esco. Controllo se ho le chiavi…Dove le ho messe? Non ce l’ho. E questo foglio in tasca, tutto arrotolato, consumato…Vediamo: c’è scritto “26”. Ventisei cosa? Boh! Buttiamolo via.
                                                                                                                            
                                                                                         (Anonimo, Premio PratoRaccontiamoci)

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MM