Scritto nel 2013, questo piccolo pezzo riportava la pura cronaca di un incidentale episodio che attirò la mia attenzione mentre mi apprestavo a imboccare la via XX Settembre, a Roma, vicinissimo alla sede del ministero dell’agricoltura. Nonostante il tempo trascorso mi pare che esso, purtroppo, continui a essere attuale per diversi aspetti e a richiamare la nostra attenzione attiva di cittadini onesti. Per questo lo ripropongo.
Il 2013… diversi governi si sono succeduti da allora alla guida del nostro paese, formati dal centrodestra o dal centrosinistra, ma nessuno di essi ha saputo spostare in alto l’asticella della civiltà con la quale la politica affronta la questione di far funzionare con efficienza le strutture pubbliche senza sprecare il lavoro delle persone e nello stesso tempo senza confondere efficienza con arbitrio di gestione o asetticità sociale di contenuti. Siamo ancora al punto di allora, dunque: e abbiamo l’impressione che anche il governo appena entrato in carica in questi giorni abbia sì cambiato colore e nomi dei suoi ministri, ma non abbia annunciato un orizzonte metodologico di miglioramento relativo al come impostare i problemi. Almeno a giudicare dai fiumi di frasi fatte e generiche con cui si sono presentati i nuovi capi dei dicasteri con i relativi programmi.
Me lo rigiro fra le mani, questo libretto di novantotto pagine, dal titolo Linee guida per una sana alimentazione italiana, che mi viene consegnato con una targhetta appiccicata sopra, la quale reca: Omaggio dei dipendenti ex Inran, in protesta sotto il Ministero dell’Agricoltura perché senza stipendio.
Di sottecchi torno a guardare la ragazza che con gentilezza me lo ha offerto. Gratis. Ma perché me lo offre? Che ci fanno, qui, sotto il ministero dell’agricoltura, tante decine di lavoratori radunati educatamente, anche se non silenziosamente?
L’Inran è l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. Il nome lo conoscevo. Faceva opera di divulgazione intelligente, questo istituto, come ricordo.
“Ma… dipendenti privati o pubblici?” – azzardo alla ragazza, per avere una conferma.
“Pubblici, pubblici… Ed è questo che non capiamo; sono i tagli: ma che tagli, se non ti spiegano nulla? Le sembra civile? Questo è lo Stato al cui servizio lavoriamo… Posso capire (mica scusare) le imprese private, che prendono e licenziano su due piedi: ma lo Stato dovrebbe spiegare, preparare, aiutare… E’ il modo, capisce? Il modo incivile: lo Stato è la comunità di tutti...”.
E la ragazza gentile, affiancata da alcuni colleghi, continua a raccontarmi una storia inverosimile:
- Sa che succede? Siamo ricercatori, soprattutto, ma anche impiegati… comunque quasi tutti con una famiglia da mantenere. Ora, succede che andiamo a ritirare lo stipendio e ci viene detto che… lo stipendio, semplicemente, non c’è.
- Come, non c’è? E dov’è? – facciamo noi.
- Beh, noi non lo sappiamo – rispondono; - ci hanno detto che da questo mese siete stati smembrati, in diversi gruppi, ma non sappiamo dove, non sappiamo altro… Provate a chiedere… non so… a un dirigente…
E comincia il calvario, perché in realtà nessuno ti riceve. Nessuno di quelli che possono realmente fare qualcosa. E nessuno sembra sapere nulla. Ma come è possibile? Riusciamo a far giungere la nostra voce, finalmente, al ministro, ma questi non solo non ci riceve ma si limita a farci sapere che… ignora tutto del problema. Ma che Stato è? Ma che politici sono? E che dirigenti sono?
In effetti, tutto questo ha dell’inverosimile: non perché non si possa decidere lo smantellamento di un istituto; anzi, ciò a volte è necessario, quando non sia possibile la sua trasformazione utile. Il fatto è che non si può decidere lo smantellamento delle persone. Questa è un’altra cosa. Lo impedisce la costituzione, lo impedisce anche il diritto naturale, lo impedisce una sana logica d’impresa pubblica.
Eppure la legge, in Italia, da un po’ di tempo a questa parte, non risponde più né alla costituzione né al diritto naturale né a una sana logica d’impresa: la legge agisce ormai come se vivesse per conto suo, essa è il ghigno di una entità astratta che si chiama formalmente parlamento o governo, ma forse questi formalizzano solo quanto stanze più oscure e nascoste decidono con obiettivi più oscuri e nascosti.
Delle cose non discute il paese, in modo che poi il parlamento riassuma la discussione e responsabilmente formuli l’approccio migliore di affrontarle: la legge è pronta, già preparata in qualche oscuro luogo da oscuri esperti al servizio di qualcuno, e viene data ai capigruppo parlamentari perché la facciano ingoiare a quei poveretti di parlamentari (il modo con il quale sono stati eletti, in liste preconfezionate, come branchi di buoi ubbidienti, è adatto in effetti solo a un ammasso di suddetti, anche se non raramente i suddetti sono o si trasformano a loro volta in carognette) e questi formalizzano senza sapere, il più delle volte, neanche l’oggetto della legge che votano. Il capo manda in giro a dire “lunedì ore 12 tutti in aula: si vota sì al decreto numero…”. Ed è fatta.
E’ fatta, cioè quelli votano. E poi, naturalmente, a tempo debito, vanno a riscuotere la pacca sulla spalla, da parte del capo soddisfatto. Il che assicura loro sempre qualcosa: una riconferma di mandato, comunque il lauto stipendio parlamentare, la lauta pensione parlamentare, spesso anche un incarico di consulenza presso un ente quando parlamentari non saranno più… Quale ente? Mah, chissà: forse anche un Inran qualsiasi: le cui spese cresceranno, ma che importa? Male che vada, diremo ai lavoratori che non ci sono più soldi e che dei licenziamenti sono inevitabili. Pian piano si rassegneranno.
Rassegnarsi? Ad esempio non andare a votare? No, no… mai. Cerchiamo piuttosto con il lumicino le persone in gamba, dovunque siano, rinforziamo quelle, quanto più possiamo, dovunque siano. Anche questo è fare politica. Ma non arrendiamoci, mai.
(Giuseppe Ecca)
Il 2013… diversi governi si sono succeduti da allora alla guida del nostro paese, formati dal centrodestra o dal centrosinistra, ma nessuno di essi ha saputo spostare in alto l’asticella della civiltà con la quale la politica affronta la questione di far funzionare con efficienza le strutture pubbliche senza sprecare il lavoro delle persone e nello stesso tempo senza confondere efficienza con arbitrio di gestione o asetticità sociale di contenuti. Siamo ancora al punto di allora, dunque: e abbiamo l’impressione che anche il governo appena entrato in carica in questi giorni abbia sì cambiato colore e nomi dei suoi ministri, ma non abbia annunciato un orizzonte metodologico di miglioramento relativo al come impostare i problemi. Almeno a giudicare dai fiumi di frasi fatte e generiche con cui si sono presentati i nuovi capi dei dicasteri con i relativi programmi.
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Me lo rigiro fra le mani, questo libretto di novantotto pagine, dal titolo Linee guida per una sana alimentazione italiana, che mi viene consegnato con una targhetta appiccicata sopra, la quale reca: Omaggio dei dipendenti ex Inran, in protesta sotto il Ministero dell’Agricoltura perché senza stipendio.
Di sottecchi torno a guardare la ragazza che con gentilezza me lo ha offerto. Gratis. Ma perché me lo offre? Che ci fanno, qui, sotto il ministero dell’agricoltura, tante decine di lavoratori radunati educatamente, anche se non silenziosamente?
L’Inran è l’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. Il nome lo conoscevo. Faceva opera di divulgazione intelligente, questo istituto, come ricordo.
“Ma… dipendenti privati o pubblici?” – azzardo alla ragazza, per avere una conferma.
“Pubblici, pubblici… Ed è questo che non capiamo; sono i tagli: ma che tagli, se non ti spiegano nulla? Le sembra civile? Questo è lo Stato al cui servizio lavoriamo… Posso capire (mica scusare) le imprese private, che prendono e licenziano su due piedi: ma lo Stato dovrebbe spiegare, preparare, aiutare… E’ il modo, capisce? Il modo incivile: lo Stato è la comunità di tutti...”.
E la ragazza gentile, affiancata da alcuni colleghi, continua a raccontarmi una storia inverosimile:
- Sa che succede? Siamo ricercatori, soprattutto, ma anche impiegati… comunque quasi tutti con una famiglia da mantenere. Ora, succede che andiamo a ritirare lo stipendio e ci viene detto che… lo stipendio, semplicemente, non c’è.
- Come, non c’è? E dov’è? – facciamo noi.
- Beh, noi non lo sappiamo – rispondono; - ci hanno detto che da questo mese siete stati smembrati, in diversi gruppi, ma non sappiamo dove, non sappiamo altro… Provate a chiedere… non so… a un dirigente…
E comincia il calvario, perché in realtà nessuno ti riceve. Nessuno di quelli che possono realmente fare qualcosa. E nessuno sembra sapere nulla. Ma come è possibile? Riusciamo a far giungere la nostra voce, finalmente, al ministro, ma questi non solo non ci riceve ma si limita a farci sapere che… ignora tutto del problema. Ma che Stato è? Ma che politici sono? E che dirigenti sono?
In effetti, tutto questo ha dell’inverosimile: non perché non si possa decidere lo smantellamento di un istituto; anzi, ciò a volte è necessario, quando non sia possibile la sua trasformazione utile. Il fatto è che non si può decidere lo smantellamento delle persone. Questa è un’altra cosa. Lo impedisce la costituzione, lo impedisce anche il diritto naturale, lo impedisce una sana logica d’impresa pubblica.
Eppure la legge, in Italia, da un po’ di tempo a questa parte, non risponde più né alla costituzione né al diritto naturale né a una sana logica d’impresa: la legge agisce ormai come se vivesse per conto suo, essa è il ghigno di una entità astratta che si chiama formalmente parlamento o governo, ma forse questi formalizzano solo quanto stanze più oscure e nascoste decidono con obiettivi più oscuri e nascosti.
Delle cose non discute il paese, in modo che poi il parlamento riassuma la discussione e responsabilmente formuli l’approccio migliore di affrontarle: la legge è pronta, già preparata in qualche oscuro luogo da oscuri esperti al servizio di qualcuno, e viene data ai capigruppo parlamentari perché la facciano ingoiare a quei poveretti di parlamentari (il modo con il quale sono stati eletti, in liste preconfezionate, come branchi di buoi ubbidienti, è adatto in effetti solo a un ammasso di suddetti, anche se non raramente i suddetti sono o si trasformano a loro volta in carognette) e questi formalizzano senza sapere, il più delle volte, neanche l’oggetto della legge che votano. Il capo manda in giro a dire “lunedì ore 12 tutti in aula: si vota sì al decreto numero…”. Ed è fatta.
E’ fatta, cioè quelli votano. E poi, naturalmente, a tempo debito, vanno a riscuotere la pacca sulla spalla, da parte del capo soddisfatto. Il che assicura loro sempre qualcosa: una riconferma di mandato, comunque il lauto stipendio parlamentare, la lauta pensione parlamentare, spesso anche un incarico di consulenza presso un ente quando parlamentari non saranno più… Quale ente? Mah, chissà: forse anche un Inran qualsiasi: le cui spese cresceranno, ma che importa? Male che vada, diremo ai lavoratori che non ci sono più soldi e che dei licenziamenti sono inevitabili. Pian piano si rassegneranno.
Rassegnarsi? Ad esempio non andare a votare? No, no… mai. Cerchiamo piuttosto con il lumicino le persone in gamba, dovunque siano, rinforziamo quelle, quanto più possiamo, dovunque siano. Anche questo è fare politica. Ma non arrendiamoci, mai.
(Giuseppe Ecca)
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