A dire il vero questa “storia di vita”, oltre che molto semplice e molto vera, è un poco amara. Una piccola povera storia vera dalla quale cercar di trovare stimolo a vigilare meglio su noi stessi e su ciò che siamo e su chi ci sta intorno, per aiutarci e aiutare a prendere consapevolezza della dignità e della responsabilità che la vita merita: la vita non può essere sprecata. Vi lasciamo il racconto così come ci è stato trasmesso.
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Nel rione di San Giusto, a Pisa, per un certo periodo di tempo tra la fine della seconda guerra mondiale ed il pieno del miracolo economico italiano, erano sulla bocca di tutti due fratelli, nati ambedue intorno al 1910.
Si chiamavano Libertario e Giordanobruno Riglioni, ed i loro nomi la dicevano lunga sulle idee politiche del loro padre, per il quale anarchico era il pensiero giusto e verso l’anarchia doveva andare la storia.
Libertario si rese famoso per essere uno degli antifascisti più duri a morire e si fece un po’ di gattabuia e parecchio confino; dopo il 25 luglio del 1943 diede sfogo a tutto il suo patriottismo e, durante la guerra civile, non disdegnò di mettersi al servizio dell’Intelligence inglese e meritarsi, a fine conflitto, un bell’attestato del maresciallo Anders.
Fratello minore di Libertario era Giordanobruno, che non si occupò mai di politica per la paura di perdere il posto di fuochista nelle FFSS. Anzi, durante il ventennio del regime cambiò nome in un più semplice Bruno. Sposò una casalinga, brava cuoca, e si rese popolare in San Giusto come raccoglitore di funghi e di lumache. Fece il fuochista fino a che esistettero le locomotive da manovra a vapore, poi morì senza godersi la pensione.
Ebbe due figli che erano duri come il macigno: sì e no fecero le scuole dell’obbligo, ma senza profitto. Il maggiore, Velio, fece anche lui il ferroviere – settore personale viaggiante – e sbattè la porta in faccia ad amici e parenti quando seppe che qualcuno aveva detto di lui che nelle FFSS non era entrato per concorso ma per un colpo di fortuna.
Infatti, cominciò come facchino in una cooperativa di carico e scarico che fu sciolta all’arrivo della legge detta erga omnes, ed i cui dipendenti furono assunti dalle FFSS come manovali. Il lavoro da facchino glielo aveva trovato un suo lontano parente da parte di madre, preso da compassione per quel povero giovane che rischiava di divenire uno dei tanti disoccupati cronici dell’epoca.
Il secondo figlio, Rodolfo, aveva trovato, chissà come, un posto di saldatore nello stabilimento della Piaggio a Portammare, dove si assemblava l’Ape e dove, come inizio, si procurò, con la fiamma ossidrica, una ustione che gli fruttò alcune settimane di cassa mutua e riposo. Dato che era un bel ragazzo, era entrato in simpatia di un altro lontano parente, un impiegato spezzino dell’Inps che un giorno gli chiese perché, data la sua prestanza fisica, non avesse scelto la carriera del fotomodello: Firenze era vicina con il suo mondo della moda, e molte porte gli si sarebbero aperte con poca fatica. Ebbe però una risposta sibillina.
Altrettanto sibillina (“Sono mestieri periolosi”) la ebbe quando il parente gli chiese perché non facesse la guardia notturna o il carabiniere, data la dichiarata pesantezza del mestiere di saldatore: almeno, a far certi mestieri, come ad esempio la guardia notturna o il carabiniere, c’è poco da sfacchinare, si pensava.
Dato che erano in argomento, il parente previdenzialista si sentì chiedere se avesse conoscenze nella direzione della Piaggio per un’eventuale spintarella. Il previdenzialista non ebbe il coraggio di dire di no: parlò del ragazzo in termini benevoli con il capo del personale della Piaggio, che fece di tutto per far trasferire il Rodolfo Riglioni da Pisa a Pontedera, dove si stavano raddoppiando gli stabilimenti e i dipendenti.
Mal ne incolse al parente Inps, perché dopo due o tre mesi il raccomandato di ferro fu sbattuto fuori della Piaggio come una ramazza, per manifesto scarso rendimento. Infatti il Riglioni era stato, sì, spedito alla catena di montaggio della Vespa, ma gli era stato anche accennato che se ci sapeva fare sarebbe stato promosso di categoria e poi, chissà, avrebbe potuto divenire anche un capetto. Invece il Riglioni si fece subito venire una peritonite con conseguenti lunghe settimane di convalescenza, cure, e, soprattutto, riposo: situazioni che aggravarono la sua posizione di ritardatario cronico.
Egli si giustificò del licenziamento in tronco dicendo alla fidanzata, al parentado, ai cugini laureati, al parente Inps e alla relativa signora, che alla Piaggio di Pontedera si respirava un’aria mefitica fatta di controlli e di spinte, e che lui si era ribellato. Fu creduto.
Nonostante questo precedente, però, riuscì a trovare – forse con il metodo usato qualche anno prima da suo fratello – un posticino da autista nell’azienda municipalizzata dei trasporti cittadini, ove ti licenziano solo se spacchi la faccia ad un dirigente. E allora, dopo un annetto di guida degli autobus urbani, un’ernia del disco lo mise cappaò. Operazioni chirurgiche, degenze, convalescenze e riabilitazioni nelle principali stazioni termali della penisola, che convinsero l’azienda a considerarlo inabile alla guida: per compassione fu spedito in officina, ove si distinse per le sue movenze da bradipo, tanto che i suoi colleghi lo soprannominarono sarcasticamente Motorino.
Rimase in officina fino al prepensionamento, che avvenne in età talmente giovanile da permettergli di dedicarsi, finalmente, alla sua unica vera passione: la pesca sportiva. Ora sì che poteva alzarsi dal letto all’alba: ma non per andare all’odiato lavoro, bensì per andare coi gambali fino alla coscia nelle gelide acque del Serchio e in quelle vorticose della Lima per la pesca con la canna, e fra i marosi del Tirreno in burrasca per la pesca al rezzaglio.
Postumi della peritonite e dell’ernia del disco? Neanche a parlarne. Durante le battute di pesca al rezzaglio conobbe dei pescatori livornesi dai quali apprese le locuzioni “boiadè!” e “borda!”, con le quali modernizzò un pò il suo linguaggio. Infatti, avendo vissuto fino alla pubertà attaccato alle gonnelle della madre che era una popolana, diceva, ad esempio, “la diabete” invece che “il diabete”; e altre eleganze linguistiche.
La fidanzata, poi moglie, di Rodolfo Riglioni era una commessa di drogheria, figlia di un bracciante inurbato. Si chiamava Morena; aveva fatto sì e no le elementari, ma le piacevano tanto i soldi e l’oreficeria. Avrebbe voluto riscattarsi civilmente, ma non certo andando alle scuole serali, perché le sarebbero state proibite dal Riglioni Rodolfo, geloso come un Otello.
Avrebbe potuto, in alternativa, imparare qualcosa qua e là: ed il qua e là poteva essere attraverso il parente Inps e la relativa moglie, ai quali chiese infatti di poter andare a una gita collettiva verso San Gimignano, città che aveva sempre sentito nominare ma che non aveva mai visto neanche in cartolina: fece la richiesta perché sapeva che il previdenzialista e sua moglie erano una coppia colta, dalla quale avrebbe potuto imparare parecchio.
Il previdenzialista si diede in effetti da fare, spiegando la bellezza soave della cappella di Santa Fina del Ghirlandaio e quella di Piazza della Cisterna, tutta a sghimbescio ma pure piccolo capolavoro della urbanistica rinascimentale. Al ritorno, chiese al Riglioni se gli era piaciuta la piazza ed ebbe come tutta risposta che sì, poteva essere anche bella, ma “c’erano troppe cornacchie”.
Analoga risposta intelligente fu data dopo una gitarella in Garfagnana, subregione oggetto di culto da parte di tutta la borghesia di Pisa: “Forse saranno bei posti, ma ci sono troppe ùrve”. Così si beccò anche il soprannome di Cirillino Troppeurve.
Il parente previdenzialista era sposato, a sua volta, con una bella e simpatica impiegata dell’Autorità Portuale di Livorno, che morì improvvisamente divorata da un cancro: cosa che lasciò Riglioni talmente sconvolto da fargli decidere di lasciare tutto e traslocare nella Spezia, ove aveva lasciato qualche amico e qualche parente. E un giorno, nel trigesimo della morte della signora, guidato dalla Morena, Rodolfo si fece avanti per vedere se per caso lei avesse lasciato dell’oro e per sapere se, nell’intrico giuridico relativo alla quota legittima, c’era da raspare qualche milioncino di lire. Trovarono il portone chiuso ed un cartello di “vendesi” con la sola indicazione di un numero telefonico che iniziava con zero-uno-otto-sette. Tornarono indietro ritenendosi sfortunati…
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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Nel rione di San Giusto, a Pisa, per un certo periodo di tempo tra la fine della seconda guerra mondiale ed il pieno del miracolo economico italiano, erano sulla bocca di tutti due fratelli, nati ambedue intorno al 1910.
Si chiamavano Libertario e Giordanobruno Riglioni, ed i loro nomi la dicevano lunga sulle idee politiche del loro padre, per il quale anarchico era il pensiero giusto e verso l’anarchia doveva andare la storia.
Libertario si rese famoso per essere uno degli antifascisti più duri a morire e si fece un po’ di gattabuia e parecchio confino; dopo il 25 luglio del 1943 diede sfogo a tutto il suo patriottismo e, durante la guerra civile, non disdegnò di mettersi al servizio dell’Intelligence inglese e meritarsi, a fine conflitto, un bell’attestato del maresciallo Anders.
Fratello minore di Libertario era Giordanobruno, che non si occupò mai di politica per la paura di perdere il posto di fuochista nelle FFSS. Anzi, durante il ventennio del regime cambiò nome in un più semplice Bruno. Sposò una casalinga, brava cuoca, e si rese popolare in San Giusto come raccoglitore di funghi e di lumache. Fece il fuochista fino a che esistettero le locomotive da manovra a vapore, poi morì senza godersi la pensione.
Ebbe due figli che erano duri come il macigno: sì e no fecero le scuole dell’obbligo, ma senza profitto. Il maggiore, Velio, fece anche lui il ferroviere – settore personale viaggiante – e sbattè la porta in faccia ad amici e parenti quando seppe che qualcuno aveva detto di lui che nelle FFSS non era entrato per concorso ma per un colpo di fortuna.
Infatti, cominciò come facchino in una cooperativa di carico e scarico che fu sciolta all’arrivo della legge detta erga omnes, ed i cui dipendenti furono assunti dalle FFSS come manovali. Il lavoro da facchino glielo aveva trovato un suo lontano parente da parte di madre, preso da compassione per quel povero giovane che rischiava di divenire uno dei tanti disoccupati cronici dell’epoca.
Il secondo figlio, Rodolfo, aveva trovato, chissà come, un posto di saldatore nello stabilimento della Piaggio a Portammare, dove si assemblava l’Ape e dove, come inizio, si procurò, con la fiamma ossidrica, una ustione che gli fruttò alcune settimane di cassa mutua e riposo. Dato che era un bel ragazzo, era entrato in simpatia di un altro lontano parente, un impiegato spezzino dell’Inps che un giorno gli chiese perché, data la sua prestanza fisica, non avesse scelto la carriera del fotomodello: Firenze era vicina con il suo mondo della moda, e molte porte gli si sarebbero aperte con poca fatica. Ebbe però una risposta sibillina.
Altrettanto sibillina (“Sono mestieri periolosi”) la ebbe quando il parente gli chiese perché non facesse la guardia notturna o il carabiniere, data la dichiarata pesantezza del mestiere di saldatore: almeno, a far certi mestieri, come ad esempio la guardia notturna o il carabiniere, c’è poco da sfacchinare, si pensava.
Dato che erano in argomento, il parente previdenzialista si sentì chiedere se avesse conoscenze nella direzione della Piaggio per un’eventuale spintarella. Il previdenzialista non ebbe il coraggio di dire di no: parlò del ragazzo in termini benevoli con il capo del personale della Piaggio, che fece di tutto per far trasferire il Rodolfo Riglioni da Pisa a Pontedera, dove si stavano raddoppiando gli stabilimenti e i dipendenti.
Mal ne incolse al parente Inps, perché dopo due o tre mesi il raccomandato di ferro fu sbattuto fuori della Piaggio come una ramazza, per manifesto scarso rendimento. Infatti il Riglioni era stato, sì, spedito alla catena di montaggio della Vespa, ma gli era stato anche accennato che se ci sapeva fare sarebbe stato promosso di categoria e poi, chissà, avrebbe potuto divenire anche un capetto. Invece il Riglioni si fece subito venire una peritonite con conseguenti lunghe settimane di convalescenza, cure, e, soprattutto, riposo: situazioni che aggravarono la sua posizione di ritardatario cronico.
Egli si giustificò del licenziamento in tronco dicendo alla fidanzata, al parentado, ai cugini laureati, al parente Inps e alla relativa signora, che alla Piaggio di Pontedera si respirava un’aria mefitica fatta di controlli e di spinte, e che lui si era ribellato. Fu creduto.
Nonostante questo precedente, però, riuscì a trovare – forse con il metodo usato qualche anno prima da suo fratello – un posticino da autista nell’azienda municipalizzata dei trasporti cittadini, ove ti licenziano solo se spacchi la faccia ad un dirigente. E allora, dopo un annetto di guida degli autobus urbani, un’ernia del disco lo mise cappaò. Operazioni chirurgiche, degenze, convalescenze e riabilitazioni nelle principali stazioni termali della penisola, che convinsero l’azienda a considerarlo inabile alla guida: per compassione fu spedito in officina, ove si distinse per le sue movenze da bradipo, tanto che i suoi colleghi lo soprannominarono sarcasticamente Motorino.
Rimase in officina fino al prepensionamento, che avvenne in età talmente giovanile da permettergli di dedicarsi, finalmente, alla sua unica vera passione: la pesca sportiva. Ora sì che poteva alzarsi dal letto all’alba: ma non per andare all’odiato lavoro, bensì per andare coi gambali fino alla coscia nelle gelide acque del Serchio e in quelle vorticose della Lima per la pesca con la canna, e fra i marosi del Tirreno in burrasca per la pesca al rezzaglio.
Postumi della peritonite e dell’ernia del disco? Neanche a parlarne. Durante le battute di pesca al rezzaglio conobbe dei pescatori livornesi dai quali apprese le locuzioni “boiadè!” e “borda!”, con le quali modernizzò un pò il suo linguaggio. Infatti, avendo vissuto fino alla pubertà attaccato alle gonnelle della madre che era una popolana, diceva, ad esempio, “la diabete” invece che “il diabete”; e altre eleganze linguistiche.
La fidanzata, poi moglie, di Rodolfo Riglioni era una commessa di drogheria, figlia di un bracciante inurbato. Si chiamava Morena; aveva fatto sì e no le elementari, ma le piacevano tanto i soldi e l’oreficeria. Avrebbe voluto riscattarsi civilmente, ma non certo andando alle scuole serali, perché le sarebbero state proibite dal Riglioni Rodolfo, geloso come un Otello.
Avrebbe potuto, in alternativa, imparare qualcosa qua e là: ed il qua e là poteva essere attraverso il parente Inps e la relativa moglie, ai quali chiese infatti di poter andare a una gita collettiva verso San Gimignano, città che aveva sempre sentito nominare ma che non aveva mai visto neanche in cartolina: fece la richiesta perché sapeva che il previdenzialista e sua moglie erano una coppia colta, dalla quale avrebbe potuto imparare parecchio.
Il previdenzialista si diede in effetti da fare, spiegando la bellezza soave della cappella di Santa Fina del Ghirlandaio e quella di Piazza della Cisterna, tutta a sghimbescio ma pure piccolo capolavoro della urbanistica rinascimentale. Al ritorno, chiese al Riglioni se gli era piaciuta la piazza ed ebbe come tutta risposta che sì, poteva essere anche bella, ma “c’erano troppe cornacchie”.
Analoga risposta intelligente fu data dopo una gitarella in Garfagnana, subregione oggetto di culto da parte di tutta la borghesia di Pisa: “Forse saranno bei posti, ma ci sono troppe ùrve”. Così si beccò anche il soprannome di Cirillino Troppeurve.
Il parente previdenzialista era sposato, a sua volta, con una bella e simpatica impiegata dell’Autorità Portuale di Livorno, che morì improvvisamente divorata da un cancro: cosa che lasciò Riglioni talmente sconvolto da fargli decidere di lasciare tutto e traslocare nella Spezia, ove aveva lasciato qualche amico e qualche parente. E un giorno, nel trigesimo della morte della signora, guidato dalla Morena, Rodolfo si fece avanti per vedere se per caso lei avesse lasciato dell’oro e per sapere se, nell’intrico giuridico relativo alla quota legittima, c’era da raspare qualche milioncino di lire. Trovarono il portone chiuso ed un cartello di “vendesi” con la sola indicazione di un numero telefonico che iniziava con zero-uno-otto-sette. Tornarono indietro ritenendosi sfortunati…
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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