Come già abbiamo avuto occasione di dire, quando pubblichiamo racconti di vita rispettiamo pienamente lo scritto dell’autore ed il suo stile, non apportando al testo correzioni se non di semplici errori eventuali di grammatica o sintassi, come può facilmente accadere se gli autori stessi sono persone che non hanno potuto sviluppare una elevata cultura scolastica formale: riteniamo in questo modo di rispettare non soltanto le loro persone ma anche la psicologia intima e unica con la quale essi raccontano. Come nel caso presente.
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Da piccola vivevo in campagna, meglio direi in una conca: perché quando pioveva si era sempre sotto l’acqua; spesso si rompevano gli argini dei fiumi e l’acqua correva, correva sempre, e ricordo che i ragazzi più poveri, non avendo da calzarsi, vogavano nell’acqua, essendo il clima meno freddo che altrove.
Ma da quella campagna si aveva modo di vedere anche colline e montagne meravigliose, che nessun pittore avrebbe potuto dipingere; a Sud i monti di San Baronto, Quarrata, Tizzana, Seano, e il regale Poggio a Caiano; a Nord l’Abetone con le sue punte innevate, e giù gli Appennini montalesi, Montemurlo, fino a Prato con i suoi castelli principeschi, la Rocca, e nelle belle giornate, dopo la pioggia, quando l’aria era più pura e la luce dei raggi del sole giocava, e il tutto prendeva colori da sogno che ogni momento si mutavano dal verde azzurro sfumato all’oro e al rosa, fino al violaceo, io sognavo principi, streghe, guerrieri, fantesche, rozzi braccianti e anche spiriti, e mi incuriosiva ogni finestra: mi pareva di vederci affacciate dame e damigelle di mille anni fa, e mi sarebbe piaciuto viverci, incontrare il principe azzurro ed entrare in quella magica avventura.
Ma forse… non ero il tipo adatto per affrontare quella realtà ed era per questo che sognavo; e mi faceva paura il poggio ferrato, sempre scuro, pesante come il piombo anche quando nelle giornate invernali nevicava e tutti gli altri monti erano bianchi: solo quello restava scuro ed io ne domandavo il perché ad Alfredo Buscioni, un uomo robusto e saggio, vicino di casa e molto affezionato, che aiutava mio padre nelle faccende dei campi e mi raccontava storie e leggende di paesi e città lontane, mi diceva ad esempio che molte migliaia di anni prima su quel monte innevato c’era la bocca di un vulcano e perciò sotto ci doveva essere ancora il fuoco anche se da tanto non eruttava; e poi aggiungeva che nel lontano 1.600 il papa Gregorio XII in un concilio ci aveva “confinato le anime malvagie che tornano sulla terra ad impaurire le persone”.
Erano storie popolari tramandate da padre in figlio: non essendoci altro con cui distrarsi, specialmente nelle veglie invernali, ci si divertiva così; i grandi ci raccontavano di spiriti, di draghi, d’eroi, di lupi mannari, di maghi e di altro: anche di morti che di notte giravano le maniglie delle porte, ci scoprivano i piedi e ci tiravano le gambe; e noi piccoli avevamo paura, ma ci piaceva ascoltare, ci affascinava quel mondo misterioso di lumini accesi, di pipistrelli e civette che sorvolavano a bassa quota per portarci il malaugurio: la civetta, secondo come canta, mi fa paura anche ora, mi dà l’impressione di essere un ficcanaso tremendo, con quegli occhi grandi e gialli capaci di vedere molto lontano e di capire tutto quello che sta succedendo per le case…
Mio padre faceva il vetturino; ho saputo da grande che quando era giovanotto faceva il cocchiere alla Villa Coralia, residenza dei conti Lensoni di Santallemura, in Quarrata, e ogni venerdì portava i conti a Firenze, in Santa Croce a confessarsi, e al mercato per fare compere, con una carrozza nera trainata da due pariglie di cavalli bianchi, vestito in livrea nera con camicia di gala e guanti bianchi; e come sapeva destreggiarsi, quando partendo dalla villa entrava nella Statale Fiorentina a Pontetorto, e c’era tutto il paese per le strade a vedere passare la carrozza! Come pure quando entrava in Firenze: era proprio un bravo guidatore, figlio di un domatore di cavalli da tante generazioni; ed io l’ammiravo.
Spesso mi portava con sé, quando conduceva le persone alle feste e ai mercati. Ricordo la festa della Beata a Signa il lunedì di Pasqua, la processione di Gesù morto il venerdì santo a Casalguidi, poi quella del santuario di Valdibrana in maggio: erano giorni belli, primaverili, tempi dei primi amori e dei vestitini nuovi; e ricordo in particolare un giovedì pomeriggio (era il giorno dell’Ascensione) in cui mio padre attaccò il cavallo e disse che andava in Galceti perché ai piedi di monte Ferrato c’era la festa del grillo; io non vi ero mai stata: era una giornata meravigliosa, un clima dolce e tenero, la campagna in fiore e il sole scintillava tra il verde come un incanto; allora chiesi a mio padre di portarmi con sé. Egli mi disse: “Cara figliola, mi occupi un posto; ti sistemerò comunque vicino a me, a cassetta”; io in realtà non chiedevo di meglio, e col vestito a nuovo si partì verso il Monteferrato; c’erano per strada tanti ciottoli scuri, sembravano bruciati come la terra, e poca vegetazione con cespugli di ginestre, felci, ulivi e molte conifere tra una casa e l’altra.
Anche se era passato molto tempo dall’eruzione del vulcano, sembrava alla mia immaginazione che di recente lì fossero passati il fuoco e la lava, e forse - mi dissi - qui il risveglio del vulcano appare improbabile perché la crosta è dura come il ferro e non dà la possibilità al magma di risalire in superficie: con tutte le costruzioni vicine sarebbe un disastro, si resterebbe tutti sommersi da quella cenere infuocata e da tutti quei materiali piroclastici.
Si fece sera e le ombre viola del tramonto velarono i colli; mio papà allora mi disse: “Stai qui, seduta vicino a questo banco di dolciumi”; mi comprò brigidini, chicchi di menta e mandorlati, pensando anche a chi ci aspettava a casa; io li misi nella borsetta nuova e mi accinsi ad aspettare. Egli aggiunse: “Ora devo riportare le persone a casa, poi ti vengo a prendere”. Intanto scendeva la notte ed il viola si fece presto nero ed io mi trovai lì sola ad aspettare, mentre una brezza rendeva l’aria più fresca e non rimaneva anima viva intorno: anche i commessi del banco di dolciumi erano partiti.
Finalmente però papà arrivò e si partì a cassetta con i pochi ritardatari, che scesero in via Pistoiese. Eravamo soli, ora: ma, verso le due, per strada incontrammo cinque uomini armati di fucile e col cappello tirato sugli occhi. Capii subito il pericolo e vidi mio padre preoccupato e silenzioso; quando si arrivò vicini a loro egli fece finta di non averli visti e dette una sferzata improvvisa al cavallo, che cominciò a trottare velocemente; quando quei figuri vennero sorpassati io gli dissi: “Babbo, l’abbiamo scampata bella, saranno gli spiriti maligni…”, che a quei tempi ancora mi terrorizzavano. “Macchè - fece mio padre- quelli sono banditi”. Arrivati a Ponte Bocci li incontrammo di nuovo, e uno di loro, con fucile puntato e passamontagna, a voce roca fece l’altolà intimando a mio padre: “Vetturino, sono qui per quell’affare che tu sai”.
Mio padre gli disse che non capiva. “Dove vai, porca miseria”, vociò quello. Papà gli rispose che andava a Pistoia. “Vai, vai, presto, fila!”; e noi si partì col cuore in gola e felici per lo scampato pericolo. Allora dissi: “Papà, saranno gli spiriti del Monferrato…”. “No – rispose - gli spiriti sono confinati su quel monte; e poi sai che ti dico: io ho più paura dei vivi che dei morti; ho avuto paura che questi banditi ci uccidessero per rubarci il portafoglio”. Ma mio padre era stato previdente e quando si arrivò a casa vidi che si levava i soldi da sotto i calzini dove se li era nascosti, e l’orologio dal petto. Erano anni di grande carestia e di miseria e quando gli uomini tornavano tardi la sera, spesso incontravano i ladri che andavano per lo più a scassinare i pollai e spesso entravano nelle case ricche per cercare gioielli e soldi, dato che i padroni li nascondevano dentro le travi dei saloni e dei tetti.
Quell’avventura mi maturò perché da allora ebbi davvero più paura dei vivi che dei morti, come diceva saggiamente mio padre: il più grande eroe della mia infanzia.
(Anonimo, PremioPrato Raccontiamoci)
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Da piccola vivevo in campagna, meglio direi in una conca: perché quando pioveva si era sempre sotto l’acqua; spesso si rompevano gli argini dei fiumi e l’acqua correva, correva sempre, e ricordo che i ragazzi più poveri, non avendo da calzarsi, vogavano nell’acqua, essendo il clima meno freddo che altrove.
Ma da quella campagna si aveva modo di vedere anche colline e montagne meravigliose, che nessun pittore avrebbe potuto dipingere; a Sud i monti di San Baronto, Quarrata, Tizzana, Seano, e il regale Poggio a Caiano; a Nord l’Abetone con le sue punte innevate, e giù gli Appennini montalesi, Montemurlo, fino a Prato con i suoi castelli principeschi, la Rocca, e nelle belle giornate, dopo la pioggia, quando l’aria era più pura e la luce dei raggi del sole giocava, e il tutto prendeva colori da sogno che ogni momento si mutavano dal verde azzurro sfumato all’oro e al rosa, fino al violaceo, io sognavo principi, streghe, guerrieri, fantesche, rozzi braccianti e anche spiriti, e mi incuriosiva ogni finestra: mi pareva di vederci affacciate dame e damigelle di mille anni fa, e mi sarebbe piaciuto viverci, incontrare il principe azzurro ed entrare in quella magica avventura.
Ma forse… non ero il tipo adatto per affrontare quella realtà ed era per questo che sognavo; e mi faceva paura il poggio ferrato, sempre scuro, pesante come il piombo anche quando nelle giornate invernali nevicava e tutti gli altri monti erano bianchi: solo quello restava scuro ed io ne domandavo il perché ad Alfredo Buscioni, un uomo robusto e saggio, vicino di casa e molto affezionato, che aiutava mio padre nelle faccende dei campi e mi raccontava storie e leggende di paesi e città lontane, mi diceva ad esempio che molte migliaia di anni prima su quel monte innevato c’era la bocca di un vulcano e perciò sotto ci doveva essere ancora il fuoco anche se da tanto non eruttava; e poi aggiungeva che nel lontano 1.600 il papa Gregorio XII in un concilio ci aveva “confinato le anime malvagie che tornano sulla terra ad impaurire le persone”.
Erano storie popolari tramandate da padre in figlio: non essendoci altro con cui distrarsi, specialmente nelle veglie invernali, ci si divertiva così; i grandi ci raccontavano di spiriti, di draghi, d’eroi, di lupi mannari, di maghi e di altro: anche di morti che di notte giravano le maniglie delle porte, ci scoprivano i piedi e ci tiravano le gambe; e noi piccoli avevamo paura, ma ci piaceva ascoltare, ci affascinava quel mondo misterioso di lumini accesi, di pipistrelli e civette che sorvolavano a bassa quota per portarci il malaugurio: la civetta, secondo come canta, mi fa paura anche ora, mi dà l’impressione di essere un ficcanaso tremendo, con quegli occhi grandi e gialli capaci di vedere molto lontano e di capire tutto quello che sta succedendo per le case…
Mio padre faceva il vetturino; ho saputo da grande che quando era giovanotto faceva il cocchiere alla Villa Coralia, residenza dei conti Lensoni di Santallemura, in Quarrata, e ogni venerdì portava i conti a Firenze, in Santa Croce a confessarsi, e al mercato per fare compere, con una carrozza nera trainata da due pariglie di cavalli bianchi, vestito in livrea nera con camicia di gala e guanti bianchi; e come sapeva destreggiarsi, quando partendo dalla villa entrava nella Statale Fiorentina a Pontetorto, e c’era tutto il paese per le strade a vedere passare la carrozza! Come pure quando entrava in Firenze: era proprio un bravo guidatore, figlio di un domatore di cavalli da tante generazioni; ed io l’ammiravo.
Spesso mi portava con sé, quando conduceva le persone alle feste e ai mercati. Ricordo la festa della Beata a Signa il lunedì di Pasqua, la processione di Gesù morto il venerdì santo a Casalguidi, poi quella del santuario di Valdibrana in maggio: erano giorni belli, primaverili, tempi dei primi amori e dei vestitini nuovi; e ricordo in particolare un giovedì pomeriggio (era il giorno dell’Ascensione) in cui mio padre attaccò il cavallo e disse che andava in Galceti perché ai piedi di monte Ferrato c’era la festa del grillo; io non vi ero mai stata: era una giornata meravigliosa, un clima dolce e tenero, la campagna in fiore e il sole scintillava tra il verde come un incanto; allora chiesi a mio padre di portarmi con sé. Egli mi disse: “Cara figliola, mi occupi un posto; ti sistemerò comunque vicino a me, a cassetta”; io in realtà non chiedevo di meglio, e col vestito a nuovo si partì verso il Monteferrato; c’erano per strada tanti ciottoli scuri, sembravano bruciati come la terra, e poca vegetazione con cespugli di ginestre, felci, ulivi e molte conifere tra una casa e l’altra.
Anche se era passato molto tempo dall’eruzione del vulcano, sembrava alla mia immaginazione che di recente lì fossero passati il fuoco e la lava, e forse - mi dissi - qui il risveglio del vulcano appare improbabile perché la crosta è dura come il ferro e non dà la possibilità al magma di risalire in superficie: con tutte le costruzioni vicine sarebbe un disastro, si resterebbe tutti sommersi da quella cenere infuocata e da tutti quei materiali piroclastici.
Si fece sera e le ombre viola del tramonto velarono i colli; mio papà allora mi disse: “Stai qui, seduta vicino a questo banco di dolciumi”; mi comprò brigidini, chicchi di menta e mandorlati, pensando anche a chi ci aspettava a casa; io li misi nella borsetta nuova e mi accinsi ad aspettare. Egli aggiunse: “Ora devo riportare le persone a casa, poi ti vengo a prendere”. Intanto scendeva la notte ed il viola si fece presto nero ed io mi trovai lì sola ad aspettare, mentre una brezza rendeva l’aria più fresca e non rimaneva anima viva intorno: anche i commessi del banco di dolciumi erano partiti.
Finalmente però papà arrivò e si partì a cassetta con i pochi ritardatari, che scesero in via Pistoiese. Eravamo soli, ora: ma, verso le due, per strada incontrammo cinque uomini armati di fucile e col cappello tirato sugli occhi. Capii subito il pericolo e vidi mio padre preoccupato e silenzioso; quando si arrivò vicini a loro egli fece finta di non averli visti e dette una sferzata improvvisa al cavallo, che cominciò a trottare velocemente; quando quei figuri vennero sorpassati io gli dissi: “Babbo, l’abbiamo scampata bella, saranno gli spiriti maligni…”, che a quei tempi ancora mi terrorizzavano. “Macchè - fece mio padre- quelli sono banditi”. Arrivati a Ponte Bocci li incontrammo di nuovo, e uno di loro, con fucile puntato e passamontagna, a voce roca fece l’altolà intimando a mio padre: “Vetturino, sono qui per quell’affare che tu sai”.
Mio padre gli disse che non capiva. “Dove vai, porca miseria”, vociò quello. Papà gli rispose che andava a Pistoia. “Vai, vai, presto, fila!”; e noi si partì col cuore in gola e felici per lo scampato pericolo. Allora dissi: “Papà, saranno gli spiriti del Monferrato…”. “No – rispose - gli spiriti sono confinati su quel monte; e poi sai che ti dico: io ho più paura dei vivi che dei morti; ho avuto paura che questi banditi ci uccidessero per rubarci il portafoglio”. Ma mio padre era stato previdente e quando si arrivò a casa vidi che si levava i soldi da sotto i calzini dove se li era nascosti, e l’orologio dal petto. Erano anni di grande carestia e di miseria e quando gli uomini tornavano tardi la sera, spesso incontravano i ladri che andavano per lo più a scassinare i pollai e spesso entravano nelle case ricche per cercare gioielli e soldi, dato che i padroni li nascondevano dentro le travi dei saloni e dei tetti.
Quell’avventura mi maturò perché da allora ebbi davvero più paura dei vivi che dei morti, come diceva saggiamente mio padre: il più grande eroe della mia infanzia.
(Anonimo, PremioPrato Raccontiamoci)
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