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Cultura e società

DAVANTI AL FENOMENO DELL'"IMBAGASCIMENTO DEL LINGUAGGIO"

Quando sentii la parola per la prima volta, pronunciata in un ambiente di studio tutt’altro che maleducato, come è da sempre il Censis di Giuseppe De Rita, rimasi interdetto: avevo capito bene? Eppure sì, la parola era proprio “imbagascimento” e si riferiva alla crescente banalizzazione, a volte trivializzazione, spesso sciatteria, e inzeppamento istupidito di gergalismi e inglesismi, all’interno della bellissima lingua italiana, da parte anche di giornalisti e divulgatori di ogni settore. Fenomeno strano, che in una certa misura ci riporta a tempi lontani, quando l’Italia insegnava arte e civiltà al mondo ma nessuna città italiana, orgogliosamente repubblica o signoria a sé, riusciva ad andare d’accordo con nessun’altra e tutte preferivano un dominatore straniero a un’alleanza con altri italiani. Il fenomeno preoccupante riprende in chiave linguistica? Non è davvero strano che questo fenomeno sia oggetto di studio da parte di autorevole istituto come il Censis, a sottolinearne la gravità. Nel 1917, in particolare, il Censis organizzò sul tema un intenso convegno, del quale riportiamo qui uno degli interventi significativi.
 
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Nel nostro paese è in corso, per dirla con Gadda, un processo di imbagascimento del linguaggio, che è un atto socialmente eversivo.
 
Il linguaggio per noi ordinario (quello dei lettori di libri e giornali… quello degli atti pubblici…) “è sempre meno connotante e unificante: tende a essere sostituito da un lessico gergale, strutturalmente povero, senza articolazioni, segnato da istinti pauperistici e nei fatti vocazionalmente plebeo; diventa sempre meno utilizzabile, quindi, per mobilitare scambi e convergenze di pensiero e opere”.
 
E’ comprensibile che fra noi cittadini italiani non si riesca a stabilire significativi rapporti di dialettica, o almeno di relazione. Il turpiloquio che inonda la nostra vita collettiva non aiuta a capirci, rimuove le relazioni fra i soggetti, anzi è fatto apposta per romperle (si pensi al valore a dir poco distanziante del “vaffa”).
 
Nella storia italiana sono arrivate prima le idee e le parole, e solo dopo sono arrivate le opzioni politiche, l’azione programmatica, l’azione operativa. Le parole che hanno guidato le trasformazioni sociali sono state fatte di atti amministrativi per costruire la macchina pubblica, di libri di testo per fare lo sviluppo scolastico, di retorica indipendentista per fare le guerre…
 
Allora il linguaggio modellava il corpo sociale, oggi sembra avvenire il contrario: la società si disarticola, si scompone, si deteriora, e tutto ciò induce silenziosamente la crisi della lingua.
 
E’ come se la società non volesse o non potesse più crescere, ma volesse restare così com’è, lasciando la lingua a logorarsi nella sua diminuita funzione, nella propensione a esasperare i toni per coprire il vuoto crescente di contenuti.
 
Si scorrazza a piacimento con una grande carica di soggettività anche etica e non senza una forte componente di rancorosità che è dentro i messaggi.
 
L’evoluzione degli ultimi decenni ha creato un enorme, indistinto ceto medio ma non ha costruito una borghesia capace di iniziativa autonoma e di responsabilità.
 
Si può arguire che la cetomedizzazione abbia lasciato come eredità in queste persone un atteggiamento più o meno consapevole di rancorosità per la incompiutezza di un processo che ha messo in circolo anche paure di regressione e di passività economica e culturale.
 
A oggi sembra di poter dire che si vadano delineando due realtà: una di soggettività ancora più spinta, vera “coriandolizzazione” dei comportamenti e dei linguaggi, un’altra di moltiplicazione di nuove tribù di interessi e identità, che a loro vota segmentano il linguaggio.
 
Va tentata l’impresa di risemantizzare la nostra lingua. Ancora, infatti, è la lingua che fa la nazione: se la lingua è povera, anche la società rischia di essere povera.
 
Si è detto che si tratta di impresa “difficilissima dall’alto perché ci vorrebbero troppi cicli di esercizi spirituali di stampo ignaziano”. Si può però egregiamente lavorare per un arricchimento del lessico quotidiano e della sua correttezza, in ottica di ricca poliarchia linguistica.
 
E’ stato detto che:
“Viviamo nel paese dove, sciatto, L’ok suona.
Il maestro mixa fuori delle sale di missaggio.
Il padre cancella panzane e passa a fake news.
Il bidello sbraita voci onomatopeiche.
Il compagno si crogiola nelle trivialità.
Il nonno convivente gronda burocratese.
La mamma non incoraggia lettura idonee”.
 
L’impoverimento nell’uso delle parole è il tema vero di oggi. Che avvantaggia i costruttori di false verità, i propagandisti, i populisti, le tecnostrutture che dietro gli specialismi e gli inglesismi nascondono interessi e poteri. Per uscirne serve rimettere buoni libri in mano ai ragazzi, fin dalle scuole elementari. E insegnare a leggerli, a raccontarli, a farne punto di partenza per una scrittura esatta. Essenziale, ricca di valori e di senso.
 
La lingua ha un potere ordinante (interpretativo) e mobilitante (emotivo) che, insieme contribuiscono a creare identità e destini comuni.
 
Togliatti (per non citare sempre Gramsci), aveva ordinato ai suoi redattori di non evitare le parole difficili e le complicazioni insite nella lingua colta: che gli operai imparassero e non gli si rendesse la vita artificialmente facile.
 
Probabilmente Togliatti immaginava che la classe operaia avrebbe fatto lievitare i suoi valori positivi e profondi: ma accadde che invece essa si imborghesì puntando ai falsi valori della borghesia, consumismo, macchina, frigorifero, vacanze e tinello.
 
Nella scuola andrebbe reintrodotto un principio di severità: ma si concilia il principio di severità con la ricerca del consenso sui cui è basato il nostro gioco politico?
 
Tra il Milleduecento e il Millequattrocento il rapporto fra latino e lingue volgari della penisola fu alto: il latino era correttamente parlato come lingua veicolare e le lingue volgari non venivano volgarizzate. Dante è stato maestro in questo, tanto è vero che oggi capiamo benissimo Dante, mentre un inglese e un francese o un tedesco non sono più in grado di capire le coeve lingue dei loro paesi.
 
Asor Rosa arriva a dire che nel Risorgimento italiano vinsero i moderati e non i radicali perché ai primi il Manzoni aveva dato una lingua capace di dialogare con lessici specialistici e dialetti, cosa che i secondi non avevano.
 
La decadenza linguistica fa parte di quel pensiero unico che ha rivoluzionato la cultura europea negli ultimi quarant’anni. La cosiddetta morte delle ideologie non è che una ideologia più forte delle altre perché si sottrae a qualsiasi verifica critica. E questa ideologia si è impossessata del nostro presente soprattutto a partire dalla rivoluzione mediatica che ci ha travolti.
 
Carlo Freccero osserva: “L’ibridazione della nostra lingua con l’inglese, che non è una lingua neolatina, e la trasformazione della lingua da fini teorici a fini pratici, hanno voluto rappresentare un veicolo per interagire con i nuovi media. La nuova scuola trasferisce l’obiettivo della istruzione dalla “formazione del cittadino” all’”avviamento al lavoro”, da un ideale astratto a finalità concrete, dal pensare al fare”. E lo fa ridimensionando la nostra lingua rispetto ai nuovi miti della comunicazione: l’inglese e il computer. Già adesso è prevista la discussione in inglese di testi classici.
 
La lingua italiana è transitata da strumento di pensiero critico a strumento del fare. E da strumento di letteratura a strumento di manualistica.
 
Oggi la cultura europea non è insidiata tanto da culture diverse, come l’islamismo, ma da appiattimento e depotenziamento, e additata come obsoleta dal pensiero unico.
 
Purtroppo prosperano tribù poliglotte che usano uno standard english ancora più povero dell’italiano standard “scritto come parlato”, da cui partono.
 
Nella primitivizzazione del dialogo si segnala un dettaglio che colpisce: l’immenso uso del turpiloquio nel dialogo tra i ragazzi nei contesti urbani, con particolare maniacalità nelle ragazze, fino all’uso, che purtroppo non è desueto, della bestemmia.
 
                                                                                                                   (Censis, anno 2017)
                 
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