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Esperienze

SCELTA DI VITA

L’autrice l’ha raccontata così, dal vivo. E noi ve la trasmettiamo. Non siamo in grado di dire se la protagonista avrebbe potuto far qualcosa di più per cercar di salvare l’amica dal suo naufragio umano, come forse avremmo desiderato. Ma ci sembra buona cosa raccontarvene la esperienza.
 
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Silenzio. Tanto silenzio.  Era ciò che negli ultimi tempi le teneva più compagnia. Come al solito, quella sera si era chiusa in camera, si era distesa sul letto e osservando il nulla incipriato dal bianco del soffitto cercava di dimenticare: dimenticare Valeria, gli amici, i suoi vent’anni passati così in fretta. Serrava quella porta della camera come per impedire al tempo di entrare e operarvi il cambiamento: eppure quanto era cambiata la realtà! A volte le sembrava così difficile poter continuare a sognare: non riusciva a bramare il futuro come le era accaduto in passato. Viveva in bilico, appesa alla costante sensazione di una decisione imminente da prendere e che tuttavia non riusciva a prendere. 
Come ogni sera i ricordi partivano dal proiettore della sua memoria per accavallarsi sul fragile lembo dei suoi azzurri occhi: e dall’oscurità qualcosa appariva sempre. Ora si vedeva seduta in riva al mare, con Valeria. Avevano trascorso un’ottima giornata insieme, e mentre il sole splendeva alto sui loro corpi magrolini aspettavano allegre che si asciugassero le ultime gocce d’acqua salata sui capelli scomposti e i bikini colorati, prima di tornare a casa, lavarsi e prepararsi per un’altra indimenticabile serata insieme. Sicuramente avrebbero incontrato Antonino e Marco. Valeria si sarebbe rabbuiata, sulle prime, per poi sfogare il suo malumore con colorite espressioni, mentre Maria alla vista di Marco si sarebbe limitata ad un lungo sospiro con gli occhi lucidi.
Erano così diverse, eppure talmente legate! Valeria, impulsiva e passionale, agiva sempre senza riflettere. Maria, riflessiva e calma, non si lasciava andare a eccessi di alcun tipo: composta, precisa, gentile. Manteneva la sua personalità e sembrava non essere un’adolescente soggetta al vento della crescita ma piuttosto un’adulta già formata. Questo aspetto affascinava Valeria e la istigava ad emulare l’amica: ma, per quanto ci provasse, Valeria non era come Maria.
Maria lo stava capendo solo adesso, da sola, nella sua stanza, mentre con la mente accarezzava un altro flebile ricordo: lei e Valeria si abbracciavano strette strette con una energia che da un momento all’altro sembrava esplodere in una scarica elettrica. Erano nella cameretta di Valeria, dove avevano parlato a lungo del futuro e dei loro sogni. Maria li aveva già “srotolati “davanti a sé come una larga strada sterrata da cui, in lontananza, si intravedeva luce, tanta luce. Sarebbe diventata una giornalista e avrebbe fatto di tutto per cambiare il mondo. Valeria, invece, si apprestava allora ad iniziare il viaggio e la sua strada era ripida, a tratti oscura, piena di fossi e brutte discese.  Maria cercava allora di illuminarla, con la sua enfasi oratoria e il suo piccolo mondo interiore. Ed in queste fuggevoli ore trascorse insieme a sognare, Valeria e Maria erano un tutt’uno, un vortice di idee, di sentimenti, di speranze: erano amiche, ma amiche in una maniera assoluta. Un’amicizia pura e radiosa che le circondava senza che loro neanche se ne accorgessero.
Maria ricordava la prima volta che si erano viste, e da allora non aveva mai abbandonato Valeria. Quando quest’ultima si era innamorata per la prima volta, timorosa di aprire il suo cuore, Maria le era stata accanto ricordando come era buffa la solitudine in momenti simili: infatti quando era stata lei a innamorarsi non c’era stato nessuno a capirla. E allora cosa la spingeva a fare quel bene all’amica? Maria non lo sapeva: era fatta così! Dava senza pretendere niente in cambio. Ricordava quante parole e quanto coraggio aveva trasmesso all’altra e non le era mai pesato perché credeva in ciò che faceva e riusciva a gioire della felicità dell’altra. Quando vedeva Valeria tornare fra le braccia di Antonino quasi si commuoveva. Ne gioiva come vedendo realizzato il sogno che non era riuscita a realizzare con Marco: tra loro non c’era stata nessuna Maria; Maria, invece, c’era sempre stata per Valeria. C’era stata quando quella le riempiva la testa di chiacchiere inutili, c’era stata quando aveva bisogno di una spalla su cui piangere, c’era stata per prestarle soldi e vestiti, c’era stata per darle tutto l’affetto che le mancava in famiglia. C’era stata persino quando avevano scoperto Antonino a farsi di cocaina nel bagno di un locale e Valeria ne aveva pianto per una settimana. C’era stata sempre, eppure questo sembrava non esser bastato.
Ma ora tra loro si era posto il mare. Un’altra immagine le appariva dinanzi: un’immagine in cui non distingueva più le futili parole che quella le borbottava. Per Maria non era stata una buona giornata. Valeria era cambiata: Maria lo stava capendo pian piano, eppure non riusciva a tagliare del tutto il legame. Non capiva come quella specie di sanguisuga fallita avesse potuto prendere il posto della sua buona amica. Non poteva credere quella trasformazione di Valeria: era diventata insopportabile, parlava, parlava, parlava ma di una realtà distorta e astratta. “Io potrei fare tutto… Sono la migliore… Ma che ci vuole a fare quello che fai tu… Sono stufa di tutto… Nessuno si accorge del mio talento assoluto, che noia!...”. E intanto nulla faceva delle sue giornate e del suo futuro: non lavorava, non studiava, non ragionava, non sognava.  
Sulle prime Maria non aveva voluto vedere. Era vissuta per anni con l’idea perfetta di Valeria e ora era impossibile accettare tacitamente quel mostro perverso. Scappare, scappare lontano… solo questo era il pensiero che affollava la sua mente dopo quella scoperta. E mentre un paio di lacrime clandestine scendevano veloci lungo le guance, Maria osservava la foto attaccata all’armadio e che ancora non era riuscita a staccare. Le piaceva quella foto: come era felice, Maria, in quella foto! Si perdeva in quel ricordo così nitido e straziante che quasi le veniva voglia di strappare furiosamente quel quadratino di carta in migliaia di pezzettini. Quelle due ragazze non esistevano più. Velocemente Maria vedeva passare una scena e poi un’altra e poi un’altra ancora: in ognuna di esse era triste. Aveva smesso di essere felice qualche mese prima, quando al posto di “Valeria l’amica” aveva trovato “Valeria la drogata” in discesa libera verso il baratro dell’animalità. Non capiva come quella avesse fatto a tuffarsi a capofitto in un tale gorgo. Eppure Valeria sapeva quanto sarebbe stato difficile uscirne! Avevano vissuto con Antonino quell’incubo: da perfetta egoista quale era diventata, Valeria aveva provato una volta e poi un’altra e un’altra ancora e adesso aveva trovato quell’ingannevole sogno che tanto anelava e ci si era perduta: quale sorpresa dovette provare Maria al sentirsi dare della bambina, della stupida, dell’immatura, della vecchia, della pavida! Dopo tutto quello che avevano passato insieme e il bene che le aveva unite come sorelle!
A questo pensiero, quasi immediatamente lo stupore fu sostituito da una rabbia furibonda a cui altrettanto rapidamente seguì un disgusto nero e una profonda sensazione di pena. Poi il silenzio. Il silenzio che non lasciava spazio neanche alla sofferenza. Valeria era lontana e irraggiungibile nel suo nuovo mondo di oche sgualdrine, di venditori di fumo, di nottate insonni nelle prigioni di menti impasticcate, di serpi insidiose di amici. Scheletri in attesa di un rantolo letale.
E quel mondo era lì ad un passo da Maria. Bastava dire sì. Bastava alzare il telefono ed assecondare l’irreparabile pazzia di Valeria. Ma Maria era destinata a ben altro: era cresciuta spingendo la carrozzina del suo migliore amico malato di distrofia muscolare e volato via troppo presto. Si commuoveva per strada quando constatava la solitudine e la sofferenza di un barbone o di una mendicante con figlio appeso al petto e già esausto d’essere al mondo. Sognava d’aprire un centro d’integrazione per famiglie straniere poco inserite nella comunità italiana: così Maria si era curata lungo l’intero anno di Yao, di Yuliana, di Ali, di Sued, di Majid, di Abbass. E nonostante le strade della vita li avessero portati altrove, Maria li portava nel cuore come pezzi della sua stessa esistenza, come motivi di crescita, di amore e di verità. Maria credeva in quell’oscura forza che muove il pensiero aspirando a migliorare l’animo umano e la realtà…Leopardi, Dumas, Dickens, Dante, Dostojevskji, Tolstoj, Pirandello… la prosa, la poesia, l’arte, l’amore, la verità…la vita! Questo era lei: il sogno e la speranza, il coraggio e la purezza, la giovinezza e la saggezza insieme. E non sarebbe cambiata.
Pensava a quelle indimenticabili presenze della sua vita: la zingara della stazione, il barbone del Tevere, la ragazza cinese dagli eterni inchini, la brasiliana scontrosa che si difendeva dagli uomini rozzi, il ragazzo del Bangladesh che a vent’anni era già sposato con due figli e frequentava la scuola solo per imparare la lingua italiana e trovare lavori migliori del venditore ambulante senza paga sicura, l’afghano  scappato da Kabul col fratello minore dopo che le bombe e i talebani avevano reciso la vita dei genitori e della bellissima sorella Parvana recatasi alla fonte dell’acqua nel momento sbagliato.
Maria pensava a sua sorella Elisa, adottata in un tempo in cui Maria stessa non era ancora nata. Elisa bella e introversa, con gli occhioni scuri e la carnagione olivastra che tradivano le sue origini orientali, e quello sguardo da cui traluceva una storia incredibile, una di quelle storie fatte di abbandoni, dolori, ricordi confusi, sfide continue, paure. Ma era una storia di verità. La verità che Maria aveva scoperto in fondo alla sofferenza acuta che serra la vita nelle sale d’attesa degli ospedali, aspettando che Elisa scendesse dalla sala operatoria per un intervento alle gambe, alla vista, alle braccia, al seno. Eppure era ancora qui, Elisa, con gli occhi vivi e la voglia di vincere nonostante la malattia e la beffa della vita. Elisa era ancora pronta a lottare nonostante nei mesi seguenti dovesse rientrare in ospedale. E portava sempre il sorriso lucente di chi ancora può credere. Poi Maria pensava ai suoi genitori giusti, forti, stanchi, silenziosi, amorevoli, coraggiosi. Li accompagnava nella difficoltà impegnandosi affinchè ogni sua vittoria potesse divenire la luce di un sorriso anche per loro.
Così Maria aprì gli occhi. Si destò da quelle immagini caotiche e il silenzio solitario della sua stanza bastò alla netta scelta, una volta per tutte. Non avrebbe più cercato Valeria. E, in quella scelta, fu la vita.
                                                                                                        

                                                                                                                     (Anonimo, Premiopratoraccontiamoci)
 
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                                                                                          MM

Esperienze

ERA UN UFO

L’anziana autrice del racconto ci conferma ancora oggi che la vicenda andò proprio così, come lei la rivive  in questo ricordo del 1993.

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Dopo aver visitato la stupenda distesa archeologica dove riposa il gigante di Tolomei e dopo aver visitato la tomba di Terone, si andò verso la Valle dei Templi, dove si ergevano il tempio di Giunone, il tempio di Castore e Polluce, il tempio di Ercole; e mentre si andava i mandorli del viale scintillavano di frutti e di fiori  delicatissimi che inebriavano l’aria con il loro profumo di primavera precoce. A febbraio la primavera splendeva infatti già prepotentemente su quelle ondulate e folte chiome di alberi che sembravano prendere per mano i turisti, ammirati come davanti a un’incantevole processione fuori del tempo moderno.

Il Tempio della Concordia stava lì, in fondo al viale, maestoso nella sua fierezza, e mostrava a tutti la regalità della sua nobile mole vecchia di secoli. Un gruppo di turisti si sbizzarriva ad ammirare e fotografare i resti di quei templi con le loro sgretolature rose dai secoli, resti fascinosi nell’accogliere la folla dei visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Mi ero innamorata di quei luoghi di pace e di bellezza: gli spettri degli “dei” mi avevano affascinata al punto d’infondermi il desiderio di trascorrere la notte lì da sola, magari abbracciata ad una colonna, ad ammirare la maestosità del cielo che trapunto di stelle costituiva in quel luogo incantato uno spettacolo unico al mondo. Mi nascosi dietro una colonna e quando tutti i mormorii intorno a me sparirono mi sedetti su di un gradino ad aspettare il tramonto. Il Tempio della Concordia mi sembrava ora ancora più grande e le sue colonne, che svettavano verso il cielo blu cupo, davano la sensazione che volassero portandomi con loro verso tutto quel paradiso siciliano”, paradiso in ogni stagione dell’anno.

Guardavo intorno affascinata mentre pian piano, all’orizzonte, calava un manto rosso-fuoco che incendiava le colline di mille colori intorno ai Templi, i quali tingendosi di scuro sembrava mi venissero incontro. Abbracciai una colonna e il suo tocco m’invase l’animo di un tenue tepore facendomi pensare che gli dei l’avevano accarezzata tanto tempo fa e avevano lasciata la loro indelebile impronta in ogni angolo di quella valle meravigliosa. Godevo il tramonto infuocato mentre le stelle cominciavano il loro ingresso nella distesa infinita. Pian piano il cielo si popolò delle più belle stelle del firmamento e il loro luccichio illuminò lo scenario irripetibile.

Ad un tratto m’accorsi che nel cielo una luce molto grande mi fissava, cambiando di tonalità. Un po’ impaurita cercai di guardare altrove, ma gli occhi mi andavano sempre lì e quella luce mi accecava con i suoi riflessi diretti proprio a me. Non sapevo cosa fare ed ero impaurita: mi misi a correre oltrepassando tutti i Templi e finalmente uscii dalla Valle finendo nel grande parcheggio sottostante, dove speravo di trovare un taxi che mi portasse in albergo. In un angolo vicino ad un chiosco già chiuso intravidi qualcuno che si muoveva: poi un’ombra mi venne incontro dicendomi: “Dove scappa, signorina! Guardi che andare in giro di notte ad Agrigento è pericoloso, potrebbero rubarle la borsetta e magari violentarLa…”.

Mi accorsi che parlava un uomo di pelle nera, che si esprimeva bene in italiano ed era molto gentile; egli  proseguì dicendo che dormiva accanto ai chioschi, così al mattino era pronto e il primo chiosco che apriva gli consegnava dei souvenir da vendere ai turisti che visitavano la Valle dei Templi e i dintorni: e questo lavoro gli permetteva di comprarsi da mangiare. Gli chiesi se poteva accompagnarmi all’albergo perché, ancora più dopo il suo avvertimento, avevo paura ad andare da sola. Fu tanto gentile e chiacchierando ci avviammo verso il mio albergo, che non era molto distante. Nel salutarlo gli regalai 50.000 lire. Era così felice che mi prese fra le braccia e mi baciò, poi scappò via stringendo forte il pugno che forse non aveva mai stretto tutti quei soldi in una sola volta. In albergo feci una doccia, andai a letto e mi addormentai subito. Ma sognai che quella luce abbagliante mi aveva seguito ed ora stava dietro i vetri della mia finestra a guardarmi: mi svegliai di colpo, smarrita e madida di sudore, andai diritta alla finestra e scostai piano le taparelle; era buio fitto e nel cielo non c’era neanche una stella: ma quella luce grande era lì a fissarmi davvero e cambiava riflessi come per dirmi: “Ti abbiamo vista!”.

Percepivo ora un’intesa perfetta: appena io guardavo cambiavano i toni di luce e sapevo che i suoi misteriosi abitatori mi avevano vista. Dopo una mezzora di smarrimento chiusi le tende e andai a dormire cercando di levarmi dalla testa la luce e il suo strano movimento; erano le quattro del mattino e avevo bisogno di dormire per riprendere il mio giro turistico l’indomani. Alle otto del mattino ero infatti già fuori con il gruppo, composto di quarantatrè persone italo-australiane, e ci recammo verso gli antichi resti di Selinunte. Quanti campi enormi di limoni, aranci e mandarini splendevano al caldo sole primaverile e correvano veloci di fianco a noi! Poi il bus si inoltrava in distese gigantesche di carciofi e grano verdissimo che si piegava al  venticello creando onde sfumate di verde vibrante. Era bellissimo rivedere la mia Sicilia dopo venticinque anni e ritrovarla ancora più maestosa di prima! La Conca d’Oro era una delle meraviglie del mondo, con tutte quelle montagne intorno che la proteggevano da ogni intemperia e calamità.

Selinunte aveva subito la distruzione per mano dei cartaginesi, che vi avevano lasciato le loro orme nei secoli. Io guardavo estasiata il tempio G, il tempio F, la grandiosità del tempio E ricostruito con materiali preesistenti e riordinati da mani esperte. Sull’Acropoli , seduta tra le colonne, vidi di nuovo Abdul, il ragazzo africano che avevo conosciuto prima: “Ciao, come mai sei qui e non nella Valle dei Templi?”. “Ciao, Jenny: sono stato licenziato perché negli ultimi giorni ho venduto troppo poco; mi hanno cacciato dicendomi che sono un buono a nulla; sono venuto qui per parlarti. Ieri mi hai detto che saresti venuta a Selinunte e ti ho seguita: dove sei tu ci sarò anch’io, se vuoi”. “Senti, Abdul: io devo girare ancora tutta la Sicilia e non posso portarti con me. Tieni centomila lire e cercati un altro lavoro!”. Si sedette sopra la grande rotonda di pietra giallastra, rimasta affondata per metà nella terra perché impossibile alzarla e rimetterla al suo posto sul tempio ricostruito. E rimase lì a guardarmi, triste, mentre si passava dall’Acropoli al tempio D. e al tempio M. e poi al santuario di Malophoros.  

Lasciai Selinunte e tutto il suo fascino dorico. Per gli altri quindici giorni che rimasi in giro per la mia splendida Sicilia non vidi più il mio giovane amico africano. Lo rividi però a Vizzini, la mia stupenda cittadina, famosa per aver dato al mondo il grande scrittore Giovanni Verga, autore della Cavalleria Rusticana, di Mastro don Gesualdo, Jeli il Pastore, L’Amante di Gramigna, Pentolaccia, Libertà, Don Licciu Papa, La Roba, Il Mistero, Rosso Malpelo, Il Reverendo, Pane Nero, La Lupa... tutte opere  scritte appunto nei luoghi di Vizzini e rappresentate anche come opere teatrali nei posti dove sono immaginate le storie.

Mi trovavo in piazza Umberto I per visitare appunto i luoghi che parlano dello scrittore: il suo palazzo, che si erge maestoso in un angolo della piazza e che sul retro si affaccia nella piazzetta di Santa Teresa; la chiesa della Cavalleria Rusticana, la locanda di compare Turiddu, la casa di Santuzza e più in là la casa di Lola… Ma  davanti alla locanda di compare Turiddu c’era ancora Abdul, che appena mi vide corse ad abbracciarmi dicendo che aveva girato tanto per trovarmi, poi aveva ricordato che Vizzini era la mia ultima tappa e vi si era recato. Aveva cambiato tanti lavori e sempre li perdeva per futili motivi: ora era lì per la festa della ricotta e vendeva papiri provenienti dall’Egitto e non dal “Centro del Papiro” di Siracusa, dove pure si fabbricano i migliori papiri del mondo, provenienti dalla folta vegetazione curata lungo il fiume Ciane nei dintorni di Siracusa: ma nessuno comprava i suoi papiri. Quella enorme folla era attratta soltanto dal veder fare la ricotta e mangiarla. La sagra della ricotta a Vizzini si fa il 25 aprile e attira gente da ogni parte della Sicilia, con una manifestazione folcloristica dove centinaia di pentoloni, in piazza Marconi, nel piazzale di Santa Maria di Gesù e anche in viale Margherita, fanno bollire enormi quantità di latte da dove esce ricotta gustosissima e caldissima per tutti. Si mangia all’aperto e la folla enorme si accalca felice a mangiare, guardare e divertirsi mentre teorie di carretti siciliani stupendamente addobbati sfilano per il viale Marconi e il viale Margherita alternandosi a cortei d’auto d’epoca, a sbandieratori e a spettacoli dei Pupi siciliani, e mentre nelle sale, nella pace che qualcuno sogna dopo tutta quella baraonda, si rappresentano le opere teatrali del nostro Giovanni Verga. 

“Abdul – gli dissi – i papiri li compro tutti io, me li porto in Australia: faranno bella mostra nel mio salotto e nel mio studio, ma tu rimarrai a Vizzini, nel mio meraviglioso paese, dove sono nata e dove sono i miei cari. Te lo cerco io un lavoro sicuro”. Lo Lasciai allibito e andai da mio fratello, ragioniere commercialista, un bellissimo giovane che ha lo studio in piazza Marconi, mentre mia mamma e l’altro fratello anch’egli più giovane di me  abitano in Santa Maria di Gesù: tutte le feste si svolgono lì. Che meraviglia assistere anche ai fuochi d’artificio da una delle bellissime terrazze in casa di mia mamma! Mio fratello, ragioniere commercialista e revisore dei conti di parecchi comuni della Sicilia, ha un grande edificio tutto per sé, con uno stanzone dove c’è lo studio condiviso con sua moglie, anch’essa ragioniera, un altro studio in comune con sua moglie e con la sua segretaria, un ulteriore studio solo per mio fratello, una grande sala d’attesa, una stanza per l’archivio, una stanza vuota, una simpatica stanza da cucina e un bagno completo di ogni comfort, una bellissima terrazza affacciante su piazza Marconi con una vista stupenda su un panorama magnifico e in lontananza  la vista del monte Lauro e i boschi verdeggianti. Loro se volevano potevano abitare nello studio ma avevano anche una bellissima casa in fondo al viale Margherita, che non potevano lasciare inabitata: lo studio rimaneva perciò abitualmente vuoto alla sera e nei giorni festivi, con tutti gli impegni che mio fratello aveva in altre città, e i tantissimi clienti. Pensai che una persona che tenesse in ordine lo studio stesso e lo sorvegliasse di notte non sarebbe dispiaciuta a mio fratello. Chiesi allora  a lui e a mia cognata se volessero un ragazzo che tenesse in ordine lo studio e stesse attento di notte dormendo lì. Dapprima mio fratello credette che scherzassi, ma quando gli raccontai di quel ragazzo marocchino accettarono la mia idea: lo avrebbero aiutato mentre lui poteva aiutare loro, in uno scambio reciproco di cui peraltro avevano tanto bisogno; ci voleva davvero qualcuno che si prendesse cura della pulizia dello studio e vigilasse su eventuali ladri e vandali. Accettarono, dunque, e io mi recai a dare la bella notizia ad Abdul che ne fu felice e mi abbracciò dicendomi: “Tu sei il mio angelo italo-australiano!”.

Abdul cominciò la sera stessa. Non avrei più permesso che si coricasse sui marciapiedi o nelle rovine delle case diroccate. Portammo un lettino nella stanza vuota dello studio e lì avrebbe dormito da quella sera in poi. Era così contento che ci baciava tutti con tanta riconoscenza, specialmente quando mio fratello gli portò anche due paia di pantaloni con due camicie e un paio di scarpe nuove. Abdul, oltre a pulire, teneva in ordine e sistemava tutto con grande entusiasmo. Abitava lì e si prendeva anche una piccola paga mensile; era un tipo simpatico e intelligente, aveva anche un buon [G1] grado di cultura: era scappato dal suo paese solo perché non c’era lavoro e gli piaceva troppo l’Italia. Avrebbe fatto sacrifici di ogni genere pur di rimanerci. Ora il suo sogno finalmente si avverava.

Dopo un paio di settimane rientrai in Australia,  e lasciare i miei fu ancora una volta terribile: ma la speranza che sarei tornata in Sicilia mi dava ora il coraggio di partire. L’Australia era la mia seconda patria e l’amavo, era un paese stupendo, ma pensavo sempre anche ai meravigliosi  giorni trascorsi in Italia tra i miei cari che non vedevo da venticinque anni; e pensavo ad Abdul finalmente felice nel mio favoloso paese, il paese che avevo lasciato a vent’anni. Eravamo partiti con mio marito per un secondo viaggio di nozze in Australia e ci eravamo innamorati di quelle distese immense di verde, di quelle case tutte con splendidi giardini di fiori colorati, delle vastissime praterie e dei deserti immensi, delle strade larghissime e pulite e dei sontuosi grattacieli di Melbourne, che si specchiavano maestosi nel fiume Yarra, il quale divideva la città in due e ne disegnava un panorama da favola: meraviglie che ci avevano incantato al punto di farci decidere a rimanere. La facilità di trovare un lavoro, la fortuna inaspettata di poterci comprare una casa circondata da un giardino bellissimo, l’agiatezza della vita di tutti i giorni, hanno fatto il resto. Poi due bambini: e le loro esigenze dello studio ci hanno fatto decidere ancora più solidamente di restare per donare loro un avvenire sicuro in una terra in continuo sviluppo ed evoluzione.

Dopo parecchie settimane dal mio rientro in Australia ricevetti una lettera da Abdul, in cui mi diceva che fra pochi mesi si sarebbe sposato con la segretaria di mio fratello, una bella ragazza che si era innamorata subito di lui e l’aveva incoraggiato a coltivare quel loro bellissimo amore nato in uno studio di ragioniere commercialista fra scartoffie e computer, iva e faccende tributarie; un amore romantico tra una ragazza color di pesca, piccola e molto magra, e un ragazzo alto con tanti muscoli e color caffelatte.

Un mattino, dopo ore insonni, pensando ai miei cari lontani non riuscivo più a stare a letto e, sentendo il rientro di mio figlio che era stato al disco-night (erano le due del mattino del periodo pasquale del 1993) mi alzo e chissà perché scosto le persiane della mia finestra della camera da letto; c’era tanto buio, un cielo plumbeo, senza stelle nell’immenso firmamento sopra di me: ma una luce grande mi fissava cambiando toni; e io la fissavo stupita. Quella luce era stata tra i Templi di Agrigento: cosa ci faceva ora di rimpetto alla mia casa in Australia, altissima in cielo, bella in mostra, in un punto dove mi riusciva naturale portare il mio sguardo, proprio qui a Melbourne e precisamente nella mia città di Avondale Heights?

Chiamai mio figlio e anche lui rimase a fissarla stupito, mentre la luce continuava a sua volta a fissarci e cambiava riflessi. Non ci dicemmo niente, con mio figlio, ma entrambi sapevamo cos’era quella strana luce. Uscimmo in giardino davanti alla nostra casa ed essa ci fissava ancora di tra le folte chiome degli alberi. Rientrammo e aprimmo le persiane della finestra del salotto: essa era sempre lì, ombrata dagli alberi. Tornammo nella mia stanza da letto parlando dello strano avvenimento. Cosa più strana, mio marito con tutto quel nostro chiacchierio continuava a dormire placidamente senza sentire niente di tutto il rumore che noi due facevamo mentre continuavamo a fissare la luce da dietro le persiane aperte della mia finestra, perché  sapevo che solo da lì si poteva vedere chiara e precisa, in un continuo scambio telepatico intenso fra me e i suoi abitatori. Ad un tratto chiesi a mio figlio di telefonare alla polizia; ma lui non volle. Gli dissi allora di telefonare all’aeroporto domandando se il radar avesse avvistato una luce grande e strana nel bel mezzo del cielo buio di Keilor Avondale Heights, vicinissima all’aeroporto, ma lui mi disse di non pensarci più e di andare a dormire. Però a sua volta non andò a dormire: si mise a guardare la televisione e ogni tanto scostava le taparelle e sbirciava nel cielo e attraverso le fronde degli alberi la luce penetrava ancora i suoi potenti riflessi dorati anche su di lui!

Dalla mia camera continuai a guardare la mia sfera di luce stravagante, che mi fissava come corteggiandomi. Ora, guardandola, non avevo più paura: mi sentivo protetta e subentravano in me una forza ed un coraggio mai avuti prima, e mi prendeva una sicurezza inaspettata, guardavo estasiata e sentivo un’intesa perfetta da entrambe le parti. Tranquilla m’infilai allora nel letto, ma la mia mente mi chiedeva sempre di tornare ad alzarmi e scostare le persiane per guardare nel cielo buio la mia splendida stella luminosa e scintillante di luce fosforescente, con i raggi che mi entravano diritti al cuore e lo scaldavano come un sole d’estate, tanto erano diretti a me e solo a me.

Tutto questo durò fino alle quattro e trenta: col chiarore dell’alba i miei amici scomparvero, ma lasciarono in me un ricordo indelebile e la speranza che sarebbero tornati ancora. Sì, li aspetterò e ancora li aspetto,  ogni sera e ogni mattina, ed è diventato un rito per me spostare le persiane e fissare quel punto fantastico dove la mia grande sfera splendente ha lasciato la sua luce. La mia grande stella con gli occhi invisibili fissati su di me verrà.

Nessuno dei due, fra me e mio figlio, ha mai nominato la parola Ufo. Ma sappiamo che era un ufo, un extraterrestre venuto da lontano per manifestarsi a me, ed io sono qui che lo aspetto sempre; quell’intesa perfetta era nata a poco a poco e la cosa più strana è che la desidero tuttora e vivo nell’attesa di vederla ancora nel mio cielo di Avondale Heights Keylor per proteggermi e farmi diventare più coraggiosa.

Nei giornali del mattino, comunque, appariva un articolo in cui spiccava a grandi caratteri il titolo “Stanotte una strana, grande sfera di luce ha sostato per ore nel cielo di Avondale Heights Keylor”.

L’Ufo l’ho veramente visto, era la notte di Pasqua del 1993 e non dimentico mai la sua visione abbagliante di luce.

 
(Anonimo PremiopratoRaccontiamoci)
 
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Esperienze

STORIA DI CLAUDIO

Lo conosciamo da tanto ed in tanti, don Viscardo, in questa nostra realtà romana. Prete per convinzione e vocazione profonde, ogni tanto ci racconta qualcosa di ciò che gli accade. Volutamente il suo linguaggio è sempre quello poco aulico e molto popolare della comunità nella quale vive e della quale condivide i problemi.
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Gesù disse anche questa parabola: "Un tale aveva un albero di fico piantato nella vigna e venne a cogliervi frutti, ma non ne trovò. 
Allora disse al vignaiolo: Sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico e non ne trovo mai. Taglialo. Perché sfruttare così il terreno? 
Ma quello rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai (Vangelo secondo Luca, capitolo 13).
  • Te la senti?
  • Che vuol dire “te la senti”? Non mi conosci?
  • Beh, andare venerdì non solo al processo, ma pure a trovarlo al carcere di Civitavecchia, non è proprio il meglio per te. Fai il parroco, mica sei in pensione.
  • Che discorso mi fai? È oppure non è importante che io vada là? L’avvocato sei tu; dimmelo chiaro: vuoi che vada, sì o no?
  • Scherzi? Per un affare del genere la testimonianza di un prete, per di più parroco e sulla breccia, conta il doppio, te l’assicuro.
  • E allora vado e stop. A che ora? Anzi, no no; aspetta: fammi appuntare le cose importanti che dovrei dire in udienza.
Michele è un giovane avvocato, non proprio alle prime armi ma, insomma… insomma a lui gliene danno parecchie di grane da “avvocato d’ufficio”. Certe volte senza beccare una lira.
 
  • Ecco, sì: prendi una penna che ti detto i passi più importanti.
È per un povero diavolo. Claudio. Claudio fa su e giù da Rebibbia a Viterbo a Regina Coeli e appunto a Civitavecchia. Piccole cose, un balordo. E pure sfigato. Quasi sempre lo beccano.
Quella volta l’avevano preso che guidava un’Ape, ovviamente rubata, mentre usciva da un vivaio dell’Aurelia Antica. Dodici vasi di ciclamini, aveva fregato. Pensa tu che reato... Lì vicino c’era stata in passato una rapina col morto… e allora avevano fatto due per due e ci avevano infilato pure il fascicolo di quello scemo di Claudio.
 
Udienza:
  • Reverendo, come lo conosce, che ci dice di Claudio?
 
Era entrato tutto incatenato a una ragazzina. Pensa tu: una zingarella che al Verano faceva razzia di borse alle donne che cambiavano l’acqua ai fiori. Incatenati come due schiavi del film Quo Vadis. Da morire dal ridere (si fa per dire).
 
  • Beh, presidente, Claudio…. Claudio è un ragazzo… che vuole… un po’ disturbato, incostante, nervoso. Praticamente randagio. Con un’infanzia non facile da raccontare. Qualche volta càpita in parrocchia da noi. Mangia e dorme da noi e poi… poi per un po’ sparisce.
  • Fa il sagrestano?.
 
 
- Ma no, presidente, che sagrestano, non so neanche se crede… A noi… non ci piace chiedere troppo. Se possiamo diamo una mano: un piatto, un letto,stop. Ora per Claudio abbiamo iniziato un progetto di lavoro. Farà l’arrotino, signor presidente. A giorni dovrebbe arrivarci una bicicletta attrezzata. Un ragazzo ingenuo, Claudio, in fondo un bravo ragazzo, stupido sì ma non cattivo. Presidente, rispondo io....
  • Lo affido a lei, reverendo… Guardi che è l’ultima volta. Lei lo sa che Claudio ha una fedina lunga come I Promessi Sposi?
 
                                                                                                   °°°°°
  • Perché non mi dici mai niente di te, Claudio? Sei nato a Roma?… Uhm non parli tanto bene il romanesco spinto… mi sa di no… I tuoi genitori?
  • Ma che me stai a chiede, ma che me voi prenne pel….a Viscà? Ma quali genitori. Io nun so manco dove so’ nato. Certo a Roma no, un po’ de romanesco lo mastico, sennò  sarebbero guai peggio. No, io so’ Claudio e basta. E nun so  gniente, nun conto gniente e nun ci ho niente. E soprattutto nun me ne frega gniente, vabbè?
  • Neanche, che so, una casa-famiglia?
  • Uuhhh, ancora. Peggio me sento. So’ scappato da tutte, Viscà, scappo sempre io, lo voi capì? Le quattro mura me soffocano e le regole…oh Dio le regole, e fai questo e non fare quest’altro e lo psicologo e l’assistente sociale e il mezzo giudice. No guarda, nun è… ste cose nun so’  proprio pe’ me. Te dirò: sto’ mejo in galera. Almeno ci ho un letto, tre pasti caldi, sigarette che nun mancano mai e di tanto in tanto sì, di tanto in tanto pure un po’ de roba. Quella vera però. Quella speciale quella costosa, ma pe’ noi lì dentro aggratis. Perché nun te crede, Viscà, il carcere, te lo dico in perfetto italiano, per chi ci sa vivere, è un mondo. Fai amicizie, gente sincera, di parola. A me m’avevano praticamente adottato. Che se fai il carogna te massacrano ma se fai il bravo vivi bene. Certo comandano i capi, mica le guardie. Che nun te se filano proprio. Mejo così.
    Che voi sapé? Dicono che m’hanno raccorto da un cassonetto ma nun è      vero, so’  tutte stron…io so n’artra storia. Viscà: sarà che mì madre, da poraccia che era, non ce l’avrebbe fatta a tenemme. Ecco. Che colpa je do? Che t’ho da dì, càpita no? Càpita a un sacco de gente, e lì dentro a quer mucchio ce sto pure io, Claudio. È andata così. Volontà di Dio: non dite così, voi preti?
 
La bicicletta arriva.
 
  • Claudio, beh come va, come ti trovi, va bene? Ti danno lavoro? La bici?
  • Ah, sí, la bici… la bici… la bici purtroppo s’è rotta, Viscà. L’ho portata dal meccanico. Me la ridà dopodomani.
 
Capisco subito che se l’è bella e venduta! Claudio era quello che era e, a suo modo, ci era grato, riconoscente. Serviva a tavola. Gliene fossero rimaste due sole di sigarette, una era per Franco, che a quel tempo ancora fumava.
 
Citofono.
  • Chi è?
  • - Sono Marco. Viscardo, vengo su?
 
È Marco, il maresciallo di polizia che lavora al Commissariato di via Cavallotti.
  • Vieni, Marco. Mangi con noi?
  • No, scappo: m’aspettano a casa. Per …
 
E ride. “Pure voi eh, pure voi avete messo su un piccolo business? Eh, reverendi?”.
  • Ma che dici? Marco…
  • E che ci ho, qui nel pacco? Ci ho un tesoro, Viscardo. Ma pensa te. Io a Porta Portese non mi ci allungo praticamente mai, la domenica mattina. Stamattina mi dico quasi quasi m’affaccio…. No, non è possibile. Che ti vedo? Di sguincio, oh Signore, mi pare lui, ma sì, è proprio lui, quel ragazzo che ogni tanto ospitate. Come si chiama… Eccola qua. Non è… come la chiamate?…”.
  • Sì è ‘una pianeta’ da messa, quelle ovali, noi le chiamiamo scherzando ‘le pianete a mandolino’. Si usavano prima del Concilio. Caspita, ma è di valore. Ma sì, credo un fine-Settecento. La regalò  Pio XI nel ‘35 quando inaugurò  la parrocchia qui al Gianicolense. Portata di peso dalla sagrestia di San Pietro. Arrivò insieme alla bella pala d’altare della scuola di Raffaello che vedi nell’abside.
  • E insomma, ti dicevo, stava già contrattando… che io comincio a strillare” Ferma, ferma, fermaaaa!”. E il bancarellaro che trema come una foglia, e lui…lui sparito in un lampo. Ma, dico io, li tenete così a portata di mano questi tesori, Viscardo?
Due-tre giorni e tornava. Feci finta di niente. Sarebbe servito solo a umiliarlo e io a passare da pappa e ciccia con gli sbirri.
  • Viscardo, stasera, ecco qua, pe’ cena v’ho portato una bella torta… come si chiama? Mimosa, ecco, sì, una bella mimosa. Oggi non è la festa di Franco? La prima fetta a Franco. Auguri.
La pasticceria Desideri a via Carini ancora la piange, la bella mimosa. Insomma, Claudio ladruncolo, sì, ma di cuore...

Così una bella mattina vado per dire la messa e in punta di piedi allungo il braccio per prendere il mio piccolo calice. Un regalo della mia ordinazione sacerdotale. Quando nel ‘61 feci l’ultima notte per lei al Policlinico, a mamma la fede gliela sfilai dal dito appena spirata: prima che gliela fregassero giù in sala settoria. La feci poi incastonare sotto la coppa del mio calice per tenerla sempre con me.
 
  • Dov’è? Franco, Andrea, sapete dov’è finito il mio calice?…
Mi guardano sconsolati.
  • No. Stavolta però glielo dico, ci tengo troppo alla fede di mamma.
  • Ma che, era d’oro? - mi fa lui con quel sorrisetto malandrino - . Perché non me l’hai detto? L’avrei venduta meglio, no?
 
Mi mette la mano sulla spalla.
  • Giuro, Viscardo, che stavolta avrai tutto e pure di più. Te la riporto, promesso, mano sul cuore e se non è quella, una che le somiglia.
  • Ma no, Claudio, no. Credo che non fosse… sì, la fede d’oro credo l’avesse regalata al duce nel ‘36 al tempo delle sanzioni. L’oro alla patria. Lascia perdere, per favore. Hai capito? Te lo ripeto, lascia perdere, Claudio.
Non mi sbagliavo. Lo fregarono per sempre in una rapina (a mano armata ma con pistoloni giocattolo) a una gioielleria di viale Marconi. Erano in tre. A lui, nel palmo della mano sinistra, gli trovarono una fedina d’oro.
                                                           
                                                                                                                         (Lauro Viscardo)
 
                                                                                      °°°°°
                                                                                       MM

 

Esperienze

CAMMINARE... NON STANCA

Ma ci pensiamo? Camminare, mangiare, respirare… Ciascuna di queste semplicissime dimensioni della nostra vita quotidiana costituisce un immenso miracolo permanente, la cui misteriosità dovrebbe continuamente lasciarci pieni di stupore, di gratitudine, di meditazione sul senso più profondo della vita e del suo dono.
 

°°°°°
 
Sto in piedi, cammino.
 
A disegnare un uomo ci metto un minuto: un cerchietto, un rettangolino, due zeppetti per gambe, due trattini a fianco per braccia. Fatto. Tutto in verticale.
 
Un uomo, un uomo in piedi: ci pensi, che prodigio, stare in piedi? La pianta del piede, trenta- quaranta centimetri che reggono 80 e più chili.
 
Me ne rendo conto solo quando mi fanno male le ginocchia, quando ho il colpo della strega,  quando mi viene la sciatica. Solo allora mi accorgo che reggermi e muovermi da solo e allungare il passo è una fortuna e una grazia.
 
Un paio d'anni ci mette il cervello a maturare la zona dell'equilibrio: prima la regione del truncus poi il cervelletto poi il sistema vestibolare e, a completare tutto, certe zone della corteccia. Da quel momento so dove mi trovo, so da dove vengo, so dove vado. Intanto mi reggo in piedi e mi oriento, poi metterò un piede dietro l'altro, poi camminerò: ma la cosa più difficile è stare dritto. E sarà sempre la più faticosa. Un bambino, i primi anni corre, si agita sempre, non sta fermo un minuto,  non lo tieni a tavola perché non ce la fa: il suo sistema nervoso è immaturo, stare in equilibrio a lungo (in piedi o seduto) gli è impossibile. Ancora, per me in bicicletta sto in equilibrio solo se pedalo. Non sono un trapezista o un atleta, tanto meno una ballerina che volteggia, beata lei, sulle punte. Fare la fila mi riuscirà sempre più faticoso che un chilometro a piedi.
 
E questo, che ti sembra un ripasso di ortopedia, è invece una contemplazione. Certe volte mi fermo e guardo i tre nipotini: il primo disteso in culla, il secondo già gattona, il terzo barcolla, corricchia,  casca e si rialza da solo. In miniatura, l'evoluzione della nostra specie. E tenersi eretto su due piedi e non curvo su quattro zampe mi dà subito un orizzonte, mi fa allungare lo sguardo, mi fa organizzare lo spazio e il tempo.
 
Insomma, stare sulle gambe: da ringraziare Iddio a mani giunte.
 
Poi mi metto paura e immagino quando non ce la farò più e mi dovranno accompagnare e sostenere
sottobraccio e farmi tutto. Oggi ancora posso da solo, decido io, vado, non vado, mi chiudo in casa,
faccio una corsa al supermercato. Un istante e sto per strada: la metafora della mia libertà; e quando penso strada dico vita, quella che mi scelgo io e so io dove arrivare e nessuno me lo può imporre. Perché… Perché la strada che faccio a piedi tutti i giorni avanti e indietro mi riempie la testa di tanti pensieri. Tu pensa che sarei io oggi se non avessi scelto una strada mia, se non avessi seguito un sentiero mio, se avessi dovuto star dietro passo passo a qualcun altro, plagiato e schiavo della volontà di un altro. Invece a un certo punto ho detto signori io vi saluto, scendo, svolto e me ne vado per conto mio. Ne avevo le forze, dritto in piedi ci stavo, i mezzi per fare avanti e indietro li avevo. E la mia strada che porta a te… era la nostra ballata di tanti anni fa, col vento in poppa degli
anni giovanili.
 
S'infilano qui le belle pagine che abbiamo letto tante volte: i percorsi dei maestri della vita spirituale
oppure i poemi quasi disperati dei poeti laici. Beh, qualche riga del Canto del pastore errante di
Leopardi me la ricordo ancora ma il finale di Meriggiare pallido e assorto di Montale te lo trascrivo perché è troppo bello:
e andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
come tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare di muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
 
Strade dure, strade accidentate, strade in salita, strade col fiatone, col magone, fermandomi mille volte, farò bene farò male, perché tu sai cos’è restare in mezzo a una strada e ti senti abbandonato e non sai se andare di qua oppure prendere per laggiù.
 
Eh sì: camminare significa tante cose; e se non hai uno scopo e un traguardo vero tutto quel
camminare diventa una disperazione. Andare tanto per andare, camminare alla cieca, sbandare: ti
viene la tentazione di mandare tutto al diavolo e buttarti per terra e dire “basta, ho sbagliato strada,  ho imboccato un sentiero che non era il mio e, alla fine, che ne ho avuto...”.
 
Invece, anche se al buio e anche se in salita, una fiammella i maestri della vita spirituale, in testa, ce
l'hanno sempre, e un calore lo conservano sempre nell'anima, e quella tua macchinetta, che secondo
te solo allo sfascio dovresti portarla, loro ti dicono ma no, ma che dici, vieni qua, mettiamoci le mani, proviamo a darle un'aggiustatina, vedrai che ci cammini ancora. Insomma, piano piano pure io mi oriento, metto la freccia, ingrano le marce e ci provo ancora, a camminare, proprio come Giovanni della Croce che cerca di prendere di petto il suo immaginario monte Carmelo. Come?
Ecco, t'infili in macchina e ti fai il giro, di notte, nientemeno, che del grande raccordo anulare di
Roma, e a un certo punto ti metti a seguire le ambulanze con la sirena che strilla e ogni tanti ti fermi da una parte e dai un'occhiata a quello che è successo e alla fine dici mamma mia e te ne torni a casa. Ma che stupido a lamentarmi di tante cose invece di ringraziare Dio che ci ho ancora la buona salute e posso ancora camminare.
 
Ma camminare non è sempre così serio e duro. Quando camminare è invece un piacere...
 
E dai, facciamo due passi, tanto per muoverci, passeggiare, divertirci con lo struscio della domenica e un'occhiata alle vetrine, approfitto dei saldi, vuoi un caffè, ci sediamo, pronto, sì, certo, veniamo (dice che ha sotto mano una pizzeria che è un amore), ok, alle otto e mezzo, perfetto, veniamo, ciao. Lo vedi quanti regali la vita… e mi viene una fitta allo stomaco per impormi un grazie che non spunta mai da solo.
 
Non ti dico le foto di capodanno, ma davvero quello sono io: oh Dio, che ballo, volteggio, tango,  polka, qualche rock un po' sbilenco, un po' così, ma che importa, ma che ridere, ma che divertimento, che spasso, che allegria, e chi se le scorda quelle ore... “Tic tac”… fermi con i tappi dello spumante,  ancora non è mezzanotte. Abbracci, baci, e poi brindisi, in alto i calici e vieni,  balliamo il valzer del Gattopardo.
 
Il mappamondo non si ferma mai, gli do una giratina e plaf si ferma in America e resto col dito
puntato lì e ora papà ti fa vedere dove andremo l'estate prossima. Guarda da qui a qui: aereo a
Fiumicino e via sull'azzurro dell'Atlantico fino qui, a New York: guarda i grattacieli, la statua della
Libertà, il Central Park. I viaggi. I viaggi che solo a immaginarli ti faranno galleggiare in un sogno.
Vieni a papà, decidiamo insieme, prenotiamo, clic, ecco il volo, ecco qua l'albergo e se vogliamo
strafare pure i traghetti al largo di Manhattan. Pensa la felicità: per lui è il primo viaggio.
 
Ora però smetto, mi vengono le lacrime agli occhi. Per tanta grazia.
 
                                                                                                    (Viscardo Lauro)
 

Esperienze

ALLA SCUOLA DI ENRICO MATTEI

Giancarlo Lorefice ci ha lasciati da pochi giorni. Ha lasciato il grande mondo della Cisl, della Flaei, quello storico della Democrazia Cristiana, e il mondo della umanità lavoratrice, solidale, generosa e coraggiosa. E’ stato per tutta la vita, soprattutto, un sindacalista dal cuore ardente e dall’iniziativa inarrestabile. Un coraggioso che negli anni del terrorismo in Italia, quello delle “brigaterosse” (non meritano certo la lettera maiuscola) e delle sigle neofasciste, non temeva di andare per le strade ad affiggere, anche da solo, manifesti per la democrazia, per la libertà, per l’associazionismo, per i valori umani di fratellanza e solidarietà, per un sindacalismo di lotta e di corresponsabilità partecipativa. Sapeva di rischiare. Ma non si fermava. Lo animava un senso della giustizia grande e attenta agli umili, di fronte al quale metteva da parte anche amicizie e inimicizie. Ci vedevamo, ogni tanto, per un “caffè chiacchierato”. Nelle modalità esteriori poteva apparire facilmente, e appariva a volte, un poco irruento, disordinato, talvolta eccessivo: in realtà amava la cultura, l’attenzione al prossimo,  le cose fatte bene.

Lo avevo chiamato, l’ultima volta, per gli auguri di Natale e del nuovo anno, e mi aveva risposto con voce fioca:
  • Sono all’ospedale, Giuseppe, con una brutta broncopolmonite….
  • Guarisci bene, Giancarlo: ci aspetta uno dei nostri grandi caffè…”
era stata la mia risposta.

Qualche giorno dopo mi ha raggiunto la notizia della sua morte. Di fronte alla quale so soltanto rivolgermi, oltre che a Dio per una preghiera, ai suoi amori sociali e lavoristi di sempre, la Flaei e la Cisl, e dire loro: “Cara sua famiglia prediletta di impegno sociale, non dimenticare Giancarlo e non dimenticare queste figure umili ma a loro modo straordinariamente grandi per generosità, appassionate e ardenti di ideali. Portale a esempio di come si cresce e ci si forma, raccontane la storia prima di perdere tempo con le teorie accademiche e i dibattiti televisivi”.
 
Giancarlo Lorefice era, insomma, l’opposto della serpeggiante tentazione di autocompiaciuta medietà che minaccia anche tanta parte del mondo delle grandi intermediazioni sociali. E quando gli ho chiesto, sarà un anno fa, come mai ancora, “vecchietto pensionato come sei”, si agitasse e si desse da fare come trent’anni fa, mi ha risposto: “Ma tu lo sai bene quali maestri e quali esempi io ho conosciuto. Anzi… ti ricordi quando, qualche anno fa, ti avevo proposto di scrivere insieme un libro su Enrico Mattei, il grande fondatore dell’Eni? Ho iniziato praticamente a lavorare con lui, e ti assicuro che erano orizzonti pieni di efficienza e umanità insieme…”.
 
Fra i ricordi che affiorano nella mia mente ora che lui non c’è più, mi piace segnalarne uno, di pochi anni orsono, che testimonia con particolare efficacia l’impegno antifascista (ma anche anticomunista, e antidittatura in genere) che lo animava e che riprendeva vigore anche polemico quando si riandava a ragionare delle vicende storiche del nostro paese. Un giorno mi scrisse dunque:
 
“Caro Giuseppe,
 
eccoti il link riguardante il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, l’aberrazione del regime fascista, di cui ti parlavo l’altra volta..
 
Oltre a quanto potrai leggere nell'intera e odiosa legge, ti segnalo la seguente, testuale parte specifica: 
 
"Nei procedimenti pei delitti preveduti dalla presente legge si applicano le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Tutte le facoltà spettanti, ai termini del detto Codice, al comandante in capo, sono conferite al Ministro per la guerra".
 
Come se non bastasse, quanto previsto da una legge di inaudita inciviltà giuridica, la Legge 25 novembre 1926 - senza precedenti in nessuna nazione nel XX secolo - a cittadini civili, considerati meno che sudditi, viene applicata  in tempo di pace la procedura penale militare prevista per l'esercito in tempo di guerra, l'obbrobrio del giudizio unico, inappellabile e non cassabile. Nemmeno nella Romania di Ceausescu si era arrivati a tanto. E la firma di tale legge era: Vittorio E. III, Mussolini e il giurista Rocco. Tre criminali.
Giancarlo”.
 
Era così, Giancarlo. Lo ricorderò insomma come una persona anche ruvida ma di coraggio, di solidarietà  e di lealtà.
 
                                                                                                                            
                                                                                                                                             Giuseppe Ecca

MM
 
 
 

Esperienze

IL CRITERIO DEL FILO A PIOMBO

Caro Giuseppe, 

tardo un po’ nel mantenere l’impegno di comunicarti un’“idea” avuta nel periodo estivo. Le motivazioni di questo mio attardarmi sono due: una è dovuta alla mia funzione di nonno e l’altra, la più importante, è dovuta alla titubanza di continuare ad impegnarmi in ricerche culturali e sociali, non possedendo la strumentazione culturale adeguata per diffondere e rendere fruibili ad altri dei pensieri che necessariamente vanno messi in comune per ottenere una ”grande idea”, la quale diventa tale proprio perché non resta racchiusa in un cervello ma viene condivisa fino a raggiungere una partecipazione sociale e quindi politica. La propria idea può appagare la propria indole ma, se non diventa  “generativa”,  resta sterile.

Comunque, siccome sei un cocciuto stimolatore di speranza, non fosse altro per il rispetto che provo per la tua persona e per il tuo impegno ti invio questo scritto immaginando  che sia per te di una qualche utilità.
 
°°°°°
 
Traguardare col filo a piombo

Una delle materie scolastiche che insegnavano a noi ragazzini che frequentavamo la Scuola Professionale per l’industria e l’artigianato di Voghera, aveva un nome strano: si chiamava “Occhio”, e si traduceva nell’apprendere non a guardare ma a traguardare, e cioè a frapporre tra il tuo occhio e l’oggetto in osservazione un punto di riferimento in modo da allinearlo al tuo campo visivo.
Nella fattispecie ti parlo del filo a piombo, che è uno strumento semplice, usato nel tempo per verificare la verticalità di un oggetto. Nel caso concreto mi è stato utile nei primi anni di lavoro svolto nelle valli biellesi per posare i pali di sostegno dei conduttori elettrici.
In quei primi anni di lavoro (1966-1968) l’attività prevalente che svolgevo era quella di piantare pali e tirare fili, ed in alcuni casi, quando questi rasentavano il percorso stradale, appendere i lampioni. Erano gli anni della nazionalizzazione di Enel e si dovevano cambiare e modernizzare tutte le linee elettriche che erano obsolete ed inadeguate  allo sviluppo che il Paese stava vivendo.
Non esistevano allora mezzi adeguati che alleviassero la fatica fisica nello svolgere tale lavoro e, nelle vallate, il tutto si svolgeva “a mano” e ad “a occhio”.  Potrà apparirti strano che ti parli di questo ma, credimi, piantare un palo che sia perfettamente in verticale  rispetto a tutti gli angoli d’osservazione e prevedere “a fiuto” quale piccola pendenza lasciare affinchè lo stesso ritorni alla perpendicolarità con il peso dei conduttori  e dei lampioni di pubblica illuminazione, senza utilizzare “il filo a piombo” è impossibile.
Oggi, con l’utilizzo di strumenti laser e di mezzi meccanici, è tutt’altro: ma, allora, quello si usava e, benché fosse di uso semplice, si trovava sempre qualcuno che obiettava che, a suo modo di vedere, il palo pendeva da una parte o dall’altra: e lì, se si voleva mettere la parola fine alla discussione, “il filo a piombo”, che non pende per propria natura, ti salvava.
Un tale modo di guardare o, meglio, di traguardare, mi è rimasto appiccicato sulla pelle e quindi anche la mia vita, e quella sociale, la guardo e la traguardo usando lo stesso metodo di riferimento e di verifica. Non più il “filo a piombo” ma alcuni valori che già in giovane età mi si sono incarnati e che,  pur in modo intermittente, tutt’ora mantengo ben saldi.
Veniamo all’oggi: ma non subito. Ancora un ricordo, perchè ho visto che  fai docenza ad un percorso formativo dal titolo ”Memoria e futuro”: ed allora… ancora un po’ di memoria.
 
Nell’aprile del 1997, in segreteria regionale Flaei (il sindacato dei lavoratori elettrici della Cisl, ndr), si pensò di  predisporre una copertina che richiamasse i temi contenuti nella relazione congressuale piemontese. Non sto a dilungarmi nella descrizione delle tematiche di tale relazione perchè le conosci bene quanto me:
 
 Le problematiche europee, l’allargamento degli Stati partecipanti, l’influenza che tale situazione poteva avere sul sindacato e sui lavoratori…
 Le dinamiche dei “capitali oscuri” che spostavano i risparmi familiari in investimenti azionari rendendoli economicamente appetibili ma privatizzandone la speculazione a vantaggio di pochi .
 Il fenomeno dei poveri e delle migrazioni che si affacciavano al mondo, e che in una città come Torino erano già presenti nel sottobosco lavorativo, ed avrebbero sorpassato in quantità esponenziale le problematiche legate alle migrazioni Fiat.
 Nello specifico del nostro settore elettrico, la privatizzazione e lo spezzatino di Enel, che ha prodotto l’esborso azionario delle famiglie italiane per un valore approssimativo di 30.000 miliardi di lire per riacquistare una parte di Ente che era già loro e che trasformerà definitivamente dal prossimo anno 2019 l’utente in cliente. Chi capisce la differenza che passa tra “utenza” e “clientela” non ha bisogno di  parole di commento.
 
Ci fu una discussione che durò per qualche tempo, sull’opportunità o meno di inserire, nella copertina del volumetto che conteneva la relazione congressuale, la scritta in rosso “dagli un’anima(al sindacato, s’intende: è una scritta che ricorderai). I temi trattati allora sono ancora di tutta attualità ed irrisolti, ma il dibattito era su quella scritta,  che poi non venne stampata. Qual’era la motivazione che mi spingeva ad inserirla?
 
Vent’anni fa la percezione che si respirava nel mondo del lavoro e tra lavoratori e imprenditori era mutata rispetto a quella del primo dopoguerra, dove ancora la dignità ed il valore di una persona venivano identificati con la professione che la persona svolgeva, tant’è che non era raro trovare in Torino persone che parlando dell’Avvocato (Agnelli) lo chiamavano “Giuanin-lamera”, colui che, grazie ai suoi predecessori, aveva fatto di Fiat una cultura e un simbolo di prestigio internazionale (e nel 1966 ne divenne presidente).
 
Eravamo già nel post-industria, con le tecnologie, la robotica, i supporti informatici, la cultura sociale, le conquiste sindacali, ecc… Non c’era più, nè si veniva percepiti più,come valore in quanto capaci di esercitare nella vita una professione: decideva ormai il successo di se stessi o dell’impresa. Il mondo si era ristretto. 
 
Le grandi aziende si chiamavano ormai holding, i supermercati avevano soppiantato la media distribuzione, molte erano le aziende che de-localizzavano alla ricerca di un più alto profitto. Tradotto e sintetizzato un po’ volgarmente, “la persona ed il prodotto cessavano di essere tali per la loro qualità o quantità intrinseca”. Mentre in casa sindacale si discuteva di consumismo, alienazione,realizzazione di sé attraverso la professione, altri lavoravano alacremente per la “finanziarizzazione” di ogni cosa,  sia che fosse un oggetto sia che fosse una persona, un prodotto o un popolo, uno stato, un  continente. Tutto correva veloce e la finanza allegra galoppava.
 
Ancora un passettino indietro. Da pochi anni era caduto il Muro di Berlino e l’accorpamento dell’ovest con l’est della Germania avvenne con il concambio di valore della moneta di uno a uno. In pratica l’Ovest fece la lungimirante scelta politica di “parità di valore” rendendo la Nazione omogenea a se stessa e spostando il baricentro geografico-politico del commercio europeo sul proprio territorio, e allargando l’Unione  ai  Paesi dell’Est. La “parte vincitrice della Germania”  seppe “traguardare”, non si limitò ad una raggiunta unità territoriale. Spostò l’orizzonte ad est e così, in Europa, divenne “geograficamente centrale”, con tutto ciò che tale centralità ha comportato. Non la stessa lungimiranza, successivamente, fu applicata da parte nostra con l’introduzione dell’Euro (pensa solo per un attimo se, nel mentre si dibatteva dell’allargamento ad est, in quell’alta assise politica europea si fosse posto il problema dei migranti mediterranei che già allora “lavavano i vetri delle auto” nelle nostre città).
 
Con la caduta del muro, e sostanzialmente del Blocco Sovietico, cadde anche il marxismo: ed il capitalismo festeggiò se stesso. Molti furono gli onori che si auto-attribuì, alcuni anche meritati, “la proprietà privata” apparentemente aveva vinto su un ideologia che la riteneva un’idiozia, e molti di noi hanno esultato tant’è che di lì a poco Papa Wojtyla ritenne utile la promulgazione dell’ enciclica Centesimus Annus che richiamava all’attenzione i cento anni trascorsi dalla  Rerum Novarum ma anche rimodulava il pensiero della dottrina sociale, e questo nonostante nei precedenti anni avesse già promulgato la Laborem exercens sul lavoro umano, e la Sollicitudo rei socialis sui problemi dello sviluppo degli uomini e dei popoli.
 
Lavorando in Cisl avevo avuto l’opportunità di avere contatti diretti con alcuni esponenti di Solidarnosc, e di seguirne per un certo periodo l’affermazione. Ben sapevo il ruolo che Papa Wojtyla e la Chiesa avevano giocato nella caduta del Muro e del Blocco: non tanto nell’affermazione del capitalismo ma bensì nel coagulo dei bisogni di un popolo in un movimento che per la dignità della propria vita, non solo lavorativa, per la prima volta nella storia conosciuta “disarcionava un potere” senza incorrere in una rivoluzione più o meno violenta ma,  con lotte anche rischiose e con estenuanti trattative, sbriciolava il muro ed il centenario conflitto ideologico tra capitale e lavoro. Un “quasi miracolo”, di portata storica.
 
  Non la faccio tanto lunga, questi aspetti li conosci quanto me e meglio di me. Quelle erano le pulsioni che provavo quando insistevo un po’ su quel “dagli un’ anima”.
 
Vedi, vivendo in Torino e seguendo un po’ le dinamiche politiche cittadine, avvertivo ciò che in seguito si sarebbe sviluppato  sul territorio nazionale e cioè il fatto che si formasse una “saldatura di compromesso” tra il potere del capitale (Fiat) ed il Potere del Popolo (politica locale) fissando libertà di movimento e di riconoscimento. In termini concreti Fiat lasciava la gestione della comunità a condizione che la stessa lasciasse libertà di movimento e non interferisse più sulle scelte del capitale aziendale. Si ridussero i conflitti di fabbrica, si ridussero i conflitti sociali nel territorio e gli ex comunisti o socialisti governarono Torino, il Piemonte e parte dell’Italia accreditati in tutte le strutture sia pubbliche sia private, nelle Università come nelle Banche e Assicurazioni, nella Stampa ecc., fino allo scorso anno con l’avvento dei 5 stelle, i quali non mi pare abbiano capacità o volontà di modificare tale “accordo non scritto” ma applicato.
 
Il potere economico, su scala mondiale, aveva dichiarato il “cessate il fuoco” ideologico, lasciando la gestione della Polis ai partiti purchè non interferissero più di tanto sulla gestione privatistica del capitale. In gergo comune “si riposizionava” e se, a mio avviso, il mondo del lavoro non alzava l’asticella del “dagli un’anima ”, sarebbe rimasto risucchiato nell’“Economia Politica” del Paese, lasciando mano libera ad un sistema economico che già si stava spostando verso un sistema non più industriale ma finanziario. Il lavoratore, ed il prodotto del lavoro, cessavano la propria funzione storico-evolutiva; e i “bisogni del lavoro” non erano più nemmeno “merce” ma diventavano prodotti finanziari e come tali vendibili e messi sul mercato degli interessi privati.
 
Vedi, quando parlo di anima non mi riferisco a qualcosa di astratto né voglio prendere in considerazione la parte “spirituale” che nel comune pensare attiene alla religione: no, mi riferisco a quell’ “anima umana” che è presente in tutti, che è generatrice del principio di vita che dà origine al pensiero, al sentimento, alla volontà, alla stessa coscienza morale o sociale, e nella quale risiedono “i bisogni”, che si differenzia per cultura, ambiente, tradizione, stato sociale, famiglia ecc., ma che, se non trova cittadinanza nel “quotidiano del lavoro”  attraverso il riconoscimento valoriale della propria “unicità e socialità”,  come tutte le cose non utilizzate si atrofizza, si spegne.
 
Guardando l’esperienza di Solidarnosc avevo ritrovato quell’anima che non aveva scisso in se stessa i  valori e le esigenze di giustizia da quelli della necessità del vivere e del mangiare e il tutto l’aveva fatto unificando i bisogni di un popolo senza sottostare più di tanto a “regole di mercato” né a “rivoluzioni ideologiche”.
 
Ancora una cosa prima di parlare o, meglio, scrivere dell’oggi. Voglio essere chiaro. Credo profondamente “nell’approccio imprenditoriale della vita” e quindi del lavoro in ogni accezione considerato, sia esso dipendente o meno, credo nella “proprietà privata” della vita e del capitale, credo nel “rispetto delle differenze”: ma tutto ciò non può essere ottenuto senza l’applicazione di regole sociali che unifichino “in uno” i valori generatori di umanità, libertà e ricerca di verità che pre-esistono in ogni persona e ad ogni latitudine, ed occorre farlo con delle regole collettive che inducono alla partecipazione ed al diritto di cittadinanza sociale di quei valori attraverso la corresponsabilità di esercizio. Di questo dovrebbe occuparsi la politica, sia essa partitica, sindacale, imprenditoriale, personale, familiare: ma ahimè…
 
Esiste e deve esistere libertà economica, finanziaria, culturale, ecc., ma esiste, o dovrebbe esistere, uno Stato,  nel senso ampio del termine, che attraverso la legislazione regoli tali libertà affinchè una di esse non raggiunga un livello di potenza tale da ridurre le altre in dipendenza e schiavitù.
 
Veniamo all’oggi. Per brevità mi soffermo solo su un aspetto tra quelli che attanagliano la nostra vita lavorativalasciando ad altre occasioni l’approfondimento su altri temi che pur meritano.
 
Ciò che le tecnologie informatiche hanno reso possibile e fruibile in questo ultimo decennio mai si era affacciato sul pianeta Terra (salvo pensare agli alieni,  ma lì io non ci arrivo).
 
  Provo, con il filo a piombo, a traguardare iniziando da un’angolazione.
 
Oggi esistono nel mondo dei supercalcolatori in grado di svolgere 22 milioni di miliardi di operazioni matematiche nel tempo di un secondo, e sono in mano a società private (una di queste l’hanno piazzata in un paese vicino al mio), riesci a capire?  Non è agevole, vero? Provo con un altro esempio. I cellulari di ultima generazione che sono nelle nostre mani  e nelle mani di tantissimi ragazzi, cittadini del mondo, hanno una capacità di memoria tale che potrebbe contenere “un milione di computer”  simili  a quello che la NASA utilizzò per inviare l’uomo sulla Luna. Sì, hai letto proprio bene, “un milione”.
 
Nelle nostre mani ed ancor più nelle mani private di pochi gruppi mondiali vi è un potenziale informativo tale per dimensione e velocità esecutiva, da rendere superfluo il pensare e l’apprendere. Tant’è che per i comuni mortali tutto lo scibile umano che serve sta in un cellulare: l’orologio, la rubrica, gli appuntamenti, le fotografie, i giochi, come del resto la geografia, la storia, i libri, la cultura, ed anche le relazioni personali. Tutto lì, in palmo di mano e immediato. Per i mortali un po’ meno comuni, ma che in comune hanno l’interesse del profitto, a loro non sembra vero di poter disporre di una quantità assoluta di informazioni (che noi stessi forniamo loro nel nostro agire quotidiano), e di utilizzarle a proprio beneficio.
 
“I grandi fondi finanziari e oscurisono i possessori sia di quelle informazioni sia di enormi quantità di denaro cartaceo (in passato la parità con l’oro non lo consentiva) facilmente trasferibile con un “clik” ed immediatamente esigibile, ed il tutto avviene in assoluta assenza di norme giuridiche che impediscano l’accumulo eccessivo, che pertanto diventa “l’unico  dogma”. Non ci sono più le sfide del mercato libero che in qualche misura regolava il bene, frutto del lavoro, ed il profitto,  frutto dell’impresa.
 
Questa abnorme quantità, concentrata in poche mani private, punta attraverso la speculazione finanziaria ad accumulare la valuta nei propri magazzini sottraendola di fatto al mercato, in modo da renderla dipendente. La distribuzione, o meglio la redistribuzione, di beni e servizi viene sottoposta alla loro finanziarizzazione, e come tale regolata.
 
Nella civiltà contadina che ha accompagnato per millenni l’evoluzione umana e sociale fino ad un centinaio di anni fa, un meccanismo simile veniva adottato da coloro che “possedevano le sementi”. Non erano quelli che lavoravano la terra, né talvolta gli stessi proprietari terrieri, no, erano coloro che fornivano qualità e quantità di sementi non superiori alle necessità di sopravvivenza (o di mercato) e stabilivano quali terreni utilizzare o meno, e se un proprietario non garbava loro o non rendeva il dovuto, semplicemente quei terreni restavano incolti e le popolazioni rischiavano la fame.
 
Come vedi, nel metodo non è cambiato molto da allora, se non su un aspetto specifico. Le famiglie e le proprietà contadine, anche se analfabete, avevano consapevolezza di un tale metodo e, nella storia, con lotte e sacrifici l’hanno superato. Oggi, il seme del mondo economico è la “carta moneta” ma fingiamo  di non saperlo.
 
Ora provo con il filo a piombo a traguardare da un'altra angolazione.
 
La Cina è la più grande potenza economica mondiale, ha superato gli Stati Uniti, è orgogliosa di se stessa e della propria millenaria cultura. Aprendosi parzialmente al mercato, è diventata il Paese dove i marchi del lusso si mettono in fila per poter entrare, detta la propria etica e visione valoriale, e chi sgarra si affretta a scusarsi. La Cina non gira più il mondo per elemosinare ma “compra”. Da vastissime aree in territorio africano, ad  aziende in territorio europeo ed americano; compra squadre di calcio, compra case e negozi, ecc.
 
Detiene il maggior numero dei miliardari del mondo. Compra, paga in contanti e impone se stessa al mondo. Non a caso Trump è piuttosto incazzato. Chi l’avrebbe detto, ai tempi della rivoluzione maoista... Rimangono al proprio interno parecchi problemi ma, come sempre ha fatto, se non trova un accomodamento li risolve da sé. E’ di questi giorni, apparsa sulla stampa di casa nostra, la polemica pretestuosa su “Huawei” che con i propri prodotti informatici mina la sicurezza del mondo intero, a detta di Trump, come se le aziende americane, o altre, non fossero mai state violate.
 
Il continente africano, apparentemente negli anni si è liberato dalla schiavitù e dall’ imperialismo occidentale e quindi dovrebbe evolvere verso orizzonti di civiltà e libertà ben superiori a quelli attuali. In realtà tutti i settori decisivi dell’economia di quei paesi sono ancora saldamente nelle mani di imprese straniere che di volta in volta, anche attraverso la guerra tribale, finanziano i “Ras di turno” come a loro conviene, utilizzando altresì forme di fondamentalismo religioso che negano una qualsiasi possibilità di cittadinanza a chi non appartiene a loro.
 
I gruppi estremisti, che cercano di risolvere tali controversie con le armi, trovano appoggi politici, militari ed economici,  e coloro che cercano soluzioni meno cruente vengono emarginati ed il più delle volte uccisi. La produzione di miseria serve come deterrente per tenere a bada coloro che la miseria e la povertà  in casa propria l’hanno in qualche modo superata. Gli Stati Europei, tra i quali l’Italia, l’Olanda, la Francia, il Belgio, gli Stati Uniti, il Regno Unito, i paesi del Golfo arabo, la stessa Cina e la Russia, ancora oggi giocano sulla produzione di profughi e schiavi.
 
Non ci si è dati da fare per promuovere negli anni un “ceto mediocon cultura adeguata e  professionisti e quadri competenti, capaci di far funzionare uno Stato. Hai voglia poi di parlare di migranti, pensando che il problema sia risolvibile senza intervenire sulle cause che lo producono.
 
Analogamente, anche se con modalità differenti, avviene nei paesi dell’America Latina. Anche lì, con un residuato imperialismo, non solo europeo, si sono assemblate culture cristiano-marxiste su un umanesimo che laddove prova ad evidenziare una certa autonoma gestione o visione sociale e politica, viene estromesso dal mercato mondiale, utilizzando le leve del debito inestinguibile, e talvolta della repressione. Recenti sono i casi dei migranti che incolonnati sulle strade del Salvador, dell’Ecuador, del Venezuela, del Messico e probabilmente di altri Stati “cercano speranza” in quelle Nazioni che in realtà sono le stesse che mantengono critica la loro condizione di vita in casa propria, e che mantengono nelle proprie mani le condizioni e le risorse economiche utili al loro sviluppo.
 
Voglio ora “traguardare” ancora da un’ ulteriore angolazione.
 
Stiamo assistendo ad un collante  finanziario-religioso-politico, che qua e là ogni tanto appare. Si assiste, nel mondo attuale, ad una disgregazione politica dell’umanità accampando appartenenze a fedi religiose differenti che in funzione a recrudescenze fondamentaliste, per ragioni di “sicurezza nazionale” mirano a controllare in modo capillare e scientifico tutta la società affinchè diventi impossibile l’infiltrazione di un qualsiasi “pensiero distorto” che abbia come effetto collaterale l’autonomia dei popoli e la reale indipendenza storica e culturale. Mi è agevole a tal proposito osservare come autoritarismi, seppur di diverso colore politico, trovino coagulo e si affermino nella guida delle nazioni, con l’intento  di limitare il più possibile la libertà ed i valori generativi dell’umanità.
 
Tali movimenti diventano di facile lettura se si analizzano le prese di posizioni critiche nei confronti di questo Papato. Critiche più o meno evidenti arrivano dal continente americano e da quello europeo strumentalizzando il dramma della pedofilia, sul quale, in realtà, questo pontefice  è uno dei più acerrimi nemici.  C’è in atto un “collante protestante” che associa Trump (Stati Uniti), con Bolsonaro (Brasile), Mey (Regno Unito), ed alcune nazioni europee, che evidenzia politiche di nazionalismo.
 
La Chiesa russa, con Putin, stranamente fa sponda con la parte più intransigente di Israele nel gioco geo-politico mondiale, additando a questo papato la debole difesa dei valori cristiani, laddove i cristiani vengono da altri  martirizzati brandendo ragioni religiose. Per non parlare dei paesi arabi o di quelli nei quali la dottrina mussulmana è legge di stato ed i cristiani, generalmente intesi, sono “gli infedeli”. Non ultime sono le critiche mosse al Vaticano per il recente presunto accordo con il governo cinese nel riconoscimento dei vescovi nominati dal Papa ma in qualche misura graditi a Pechino. E tutto ciò trova appoggio all’interno della Chiesa Cattolica da parte di alcuni vescovi e laici che non trovano di meglio che accusare il Papa di apostasia.
 
Tutti questi interventi, se letti separatamente, sembrano incomprensibili: ma se si guarda la radice ci si accorge che la pianta  trae origine da una comune visione del mondo e della tangibilità della persona umana, che deve essere piegata agli interessi di chi comanda, anche se declinati in forme e colori politici differenti. La vera difficoltà di questo papato è che  il Vangelo del perdono e degli ultimi, la contrarietà alla guerra, l’aperta sfida più volte lanciata sul traffico di armi e di uomini, la contrarietà alla pena di morte, la pervicace volontà di “costruire ponti e non muri”, il “Laudato si” sull’ambiente, il richiamo continuo alla povertà reale, che deriva già dalla scelta iniziale del nome Francesco, la messa all’indice del “dio denaro”, tutto ciò rappresenta un pericolo per tutti coloro che vogliono gestire l’umanità, controllando perfino le coscienze in modo da poter agire, con maggior tranquillità, per fare i propri “porci comodi”.
 
Questo papato, richiamando la pratica quotidiana dei valori cristiani e non solo la loro divulgazione accademica, è in aperto contrasto con chi non accetta il principio di inviolabilità e di intangibilità della vita e della libertà, sia essa individuale o collettiva.
 
L’ultima “occhiata”, non ultima per importanza, riguarda casa nostra. Il nostro “Bel Paese” che inserito in questo contesto europeo e mondiale si dibatte in se stesso senza grandi prospettive di riemergere con una visione di futuro meno fosca. I dati dei vari istituti di ricerca segnano le difficoltà oggettive: disoccupazione, povertà, precarietà, assenza di prospettive. Mi pare che la nostra classe imprenditoriale, più che “fare impresa” sia quasi completamente assorbita nel “grande gioco finanziario”, restano attive le medie e piccole imprese che su scala mondiale rappresentano ciò che era l’orto di casa nella civiltà contadina.
 
Peraltro alcuni marchi industriali proseguono nel proprio posizionamento mondiale e pertanto a tali regole devono adattarsi. Restano ancora attive aziende che con la ricerca restano in dialogo permanente e fanno innovazione, ed un tessuto sociale che non vuole rassegnarsi e che si esprime in varie forme di volontariato. E comunque non siamo un corpo separato dal resto del mondo e se nel mondo le regole applicate sono quelle che ho accennato, piaccia o non piaccia regolano anche noi.
 
Negli ultimi decenni non c’è stato uno sviluppo che ci contraddistingua, più che altro c’è stato un adattamento del “sistema Italia” a sistemi da altri controllati e nei quali ci siamo inseriti. E questo lo vedo purtroppo, oltre che nelle aziende, anche nella cultura in generale, senza la quale, hai voglia crescere…
 
Dal punto di vista politico, pur senza nascondere le difficoltà che comporta la gestione pubblica, vedo che gli orizzonti  di sviluppo della collettività si sono ripiegati in una prospettiva di autosufficienza che risponde più ad una logica di autoassoluzione  che non al coraggio” che occorre per vivere e per scegliere come vivere.
 
Abbiamo lider di maggioranza che “scimiottanoed è già tanto se non rovinano ciò che è già precario, e lider di opposizione che cercano di “sfangarla” per se stessi. E’ bastato che “la finanza che conta” facesse “uno starnuto di spred” che tutto il coraggio innovativo si trasformasse in “piscio”. A tal proposito ridicolo e per certi versi pericoloso è l’atteggiamento che si vuole assumere in ambito internazionale spostando l’asse politico collaborativo verso Russia e Cina. Si potranno anche favorire aziende italiane e ricevere investimenti sul nostro territorio, ma entrambi questi blocchi, quando comprano, impongono la propria logica, chi con le armi, chi con la finanza, anche in campo religioso, giusto per non dimenticare.
 
D’altronde tutti sono stati eletti non più per le loro intrinseche capacità o visioni politiche ma attraverso un’abile analisi e gestione dei desideri popolari effettuata con adeguati algoritmi applicati ai dati informatici in loro possesso e che a ragion veduta sembrano portare risultato. Un po’ dovunque nel mondo siamo passati dalla politica dei grandi ideali alla politica dei “selfi” e degli “spot” che per loro natura attraggono come le foglie di un albero ornamentale presso il quale, se ci rivolgiamo per trovare frutta buona che ci alimenta, restiamo a digiuno.
 
  Avviandomi alla conclusione cerco di sintetizzare ciò che a mio modo di vedere è avvenuto e sta avvenendo e che ha incidenza sulla collettività e sulle persone che a tale collettività appartengono. Va da sè che il culto dello sviluppo attuato prevalentemente nelle cosiddette “società avanzate” abbia portato tali società ad una crescita del benessere complessivamente inteso, maggiori beni, maggiori servizi, maggiore tutela sociale, ecc … complessivamente a una vita migliore, e non credo nemmeno che lo sviluppo del capitalismo o, per contro, di culture marxiste, sia tutto da buttare nelle fogne.
 
C’era del buono in entrambe le visioni che, con conflitti molto aspri, hanno comunque raggiunto livelli di miglioramento delle condizioni di vita, e finchè tali conflitti sono riusciti a ridistribuire il risultato della loro affermazione in beni o solidarietà sociale, pur con grandi tragedie e guerre, “si costruiva”. Perché, attraverso le dinamiche del conflitto tutti si era chiamati ad interrogarci ed a vivere in aderenza automatica ai grandi ideali che sostenevano tali azioni. Pur in termini sbagliati, si viveva in simbiosi con i valori, poi via via nel tempo il tutto è stato “cartolarizzato” .
 
Specificatamente, “carta” più o meno straccia si è fatto di tali valori, “carta” più o meno straccia si è fatta del sapere, “carta” più o meno straccia si è fatta dell’umanità, “carta” più o meno straccia si è fatta delle aziende e dell’imprenditoria, “carta” più o meno straccia si è fatto dell’oro.
 
Tutto è stato assoggettato a “carta, più o meno straccia, anche “l’uomo”.  E la “carta” si è fatta “bait” (esca) e bait sé fatto “bit” che è l’unità di misura del contenuto d’informazione adottato con  il sistema di numerazione binaria nei computer e nei cellulari (quella che grossolanamente io chiamo la “matematica cinese”, quella composta da una sequenza di uno e zero, diversamente disposti) ed il “bit” opportunamente accumulato e diagnosticato, ha prodotto il “Bit-coin” che di per sé non ha sostanza, rappresenta il “nulla” eppure in questo “nulla” chi ci ha messo qualche soldo, nel volgere di un paio d’anni si è trovato miliardario.
 
Caro Giuseppe,
 
in questo bailamme descrittivo che uccide la speranza umana nell’aver capacità d’uscita, in realtà una piccola speranza mi deriva dalla Fede, e cioè dal ripercorrere a ritroso quell’antico e permanente soffio che è la vita presente in ognuno di noi. In ogni persona. Dovunque e comunque essa sia, perché se “Lui” non ci ha ingannati, il legame profondo che esiste tra libertà, verità, vita, e che risiede in ogni “anima del pianeta” non puoi nè dominarla, nè ingannarla, nè ucciderla, vive già l’eternità e pulsa vita in continuazione.
 
Ecco, quando guardo razionalmente  le cose cerco di usare “il filo a piombo”, che segue un principio di gravità terrestre al quale tutti siamo assoggettati,  se guardo le persone non posso  fare a meno di “traguardare l’anima” che segue un principio di amore, ed anche a quello siamo assoggettati.  Ovviamente mettendo in campo tutti i limiti ed i peccati di cui dispongo.
 
Fai bene, fai bene il bene, e che Dio ci aiuti.  
 

Un abbraccio, caro amico.
  
                                                                                                                                          (Enrico Forti)
 
 
P.S. - Per darti sollievo ti allego il “Post” che ho pubblicato ieri sera sulla mia pagina “Facebook”. E’ in tema, ma sorrido al pensiero  che tu, un “latinista della lingua italiana”,  sia stato costretto a leggere “post” e “ace book”.…..Lo scritto, usalo a tuo piacere…     Ciao!
 
 
Talvolta
portando la mente
a spasso nei campi
alzi gli occhi al cielo
e…
ti accorgi che Dio esiste.
 
°°°°°