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Lavoro

IN TEMA DI FLESSIBILITA' DEL LAVORO

Il telelavoro (smartuorking, come spesso lo chiamate voi in dialetto) ha riaccentuato il tema della flessibilità del lavoro sull’onda emergenziale della pandemia da covid, rischiando di farlo percepire, appunto, come problema emergenziale, e non già come problema strutturale e stabile della economia e del lavoro nella società del ventunesimo secolo. Prima della pandemia, d’altro canto, il tema era prevalentemente distorto da una prospettiva ugualmente sbagliata e confusa, cioè quella di uno strumento, più o meno sindacalmente negoziato, da mettere a disposizione delle aziende per renderle più competitive nel mercato globale, compensandone in qualche modo i lavoratori. Giustamente Giambattista Liazza puntualizzava già, in questa riflessione del 2017, la natura assolutamente strutturale del tema, legata alla complessiva intelligenza ed efficienza della civiltà del lavoro.
 
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Proviamo a riflettere sinteticamente su ciò che si può intendere dalle affermazioni che circolano in bocca agli “addetti ai lavori”.
 
  1. flessibilità in entrata, ovvero disponibilità a fare qualunque lavoro;
 
  1. flessibilità in uscita, ovvero possibilità di essere licenziato anche senza giusta causa o giustificato motivo.
 
 
Un po’ di storia
 
Era già dagli anni Settanta/Ottanta che si riteneva in crisi la prospettiva del posto fisso e infatti si tentava di tutto nelle aziende per evitare le assunzioni a tempo indeterminato. Il mercato ne soffriva e la disoccupazione giovanile era notevole. Come logica conseguenza, infatti, cominciò l’epoca del contratto di formazione e lavoro che favorì appunto un sensibile incremento dell’occupazione giovanile. Quasi tutte le aziende vi facevano ricorso, era anche un modo per valutare in un periodo adeguato le capacità dei soggetti assunti.
 
Poi negli anni 1990 arrivarono le nuove forme di ingresso nel mercato del lavoro con diverse regole contrattuali come ad esempio il contratto a progetto. Questi provvedimenti furono introdotti dal ministro del lavoro di allora Tiziano Treu in accordo con le forze sociali e con la classe politica. Bene o male si capiva che il mercato del lavoro era ingessato e quindi inadeguato all’evoluzione socio-economica, tecnologica e generale del paese e del contesto mondiale.
 
La situazione non poteva reggere ma non c’era sufficiente coraggio da parte di tutti per affrontare radicalmente e seriamente il problema, lo stesso che ci fa tanto soffrire oggi. Non dimentichiamo che le Brigate Rosse (ma chi erano realmente costoro?) hanno ucciso uomini di competenza e valore che si occupavano per conto dei governi di allora (anni 1980/1990) di cambiare questo sistema. Ma invece di rafforzare l’impegno a riformare, i politici hanno continuato a pasticciare, e oggi siamo ancora qui alle soglie di decisioni che verranno prese comunque e sotto la mannaia del risanamento di un debito che pagheremo tutti in modo molto oneroso.
 
Vi è una considerazione da fare sul sistema del collocamento in Italia, il quale risaliva a matrici ideologiche e quindi era regolato da leggi inadeguate, concepite nell’immediato dopoguerra (uffici di collocamento, liste a chiamata numerica e limitatissima possibilità di assunzione a chiamata diretta, obbligo di nulla osta, ecc.). Non parliamo poi di un sistema di formazione professionale di tipo assistenziale, costosa, poco produttiva. Qualunque proposta di ammodernamento in questo strategico settore urtava contro gli interessi consolidati di sindacati, enti pubblici, privati, speculativi di ogni tipo (vi furono molti casi di manette), ecc. Un sistema ingessato che nessuno aveva il coraggio di cambiare, mentre l’economia e il mercato del lavoro mutavano radicalmente e cosi la società, che mostrava un più elevato livello di scolarità, di tenore di vita, di aspettative. Qui il ritardo e le titubanze della politica furono deleteri, quasi fatali, perchè hanno di fatto innescato quei problemi che oggi sembrano irrisolvibili o verranno risolti con compromessi o atti d’imperio che lasceranno  insoddisfatte tutte le parti in causa.
 
La flessibilità
 
Il posto cosiddetto fisso è superato da molti anni e resiste un equivoco sulle relative interpretazioni. Cerchiamo di fare chiarezza. Il cosiddetto posto fisso non esiste più. E’ da molto tempo ormai che diviene difficile se non impossibile pensare di fare lo stesso lavoro per tutta la vita o almeno nella stessa organizzazione per tutta la vita. Allora il problema è un altro: non il posto fisso ma la certezza di avere lavoro per tutta la vita. Lavorare per organizzazioni diverse, magari anche in luoghi diversi, ma per tutto il tempo necessario a garantire un percorso, una carriera, un traguardo pensionistico. Questo aveva già detto anche Monti ma la stampa aveva preferito enfatizzare una supposta ironia fuori luogo del premier. Ormai in Italia siamo fatti così, abbiamo bisogno di fare sensazione, è questo universo mediatico che ci rende difficile un’opinione seria sui problemi che ci riguardano.
 
Vogliamo nasconderci allora che molti pensionati sono ancora in grado di lavorare e lavorano in occupazioni diverse da quelle praticate fino alla pensione? E cosa dire di molti cassaintegrati che utilizzano il tempo divenuto libero in lavori diversi da quello usuale, e magari obbligatoriamente in nero? I giovani studenti poi si arrangiano in tutti i modi per mantenersi agli studi e non per meritarsi l’appellativo di sfigati da un politico inadeguato e raccomandato (diventato cioè per raccomandazione sottosegretario di Stato nello stesso governo Monti).
 
E’ questa la flessibilità invocata per superare la nostra crisi di competitività? Riteniamo di no. Così facendo si resta nella confusione e nella precarietà. E non riteniamo neppure che l’annoso problema si risolva modificando leggi e contratti sindacali: sono almeno trenta anni che sapientoni e maneggioni si esercitano sulla materia senza produrre risultati utili alla gente e alla nazione per un sistema più competitivo. Tarantelli, D’Antona e Biagi ci stavano provando con un approccio da studiosi seri, ma per questo ci hanno lasciato la pelle per opera di queste strane Br. Vogliamo riflettere su questa barbarie? Chi ha interesse che le cose non cambino in questo paese, chi vuole impedire che l’Italia si ammoderni per il bene di tutti?
 
La flessibilità delle risorse produttive non è nelle leggi e nei contratti che semmai, prendendone atto, ne devono regolare l’utilizzo. La flessibilità deve essere nelle persone, nel loro modo di pensare e di agire e per questo essere allevate e orientate a divenire flessibili per disposizione, per scelta e non per costrizione legislativa o contrattuale. Se un contratto obbliga alla flessibilità un soggetto rigido, immaginiamo il risultato da stress permanente. Oppure la situazione contraria. Crediamo che la natura si ribelli a certe scempiaggini.
 
A nostro avviso il problema è che per parlare di flessibilità si devono considerare innanzitutto le persone e la loro disposizione ad essere attivamente flessibili. Altrimenti, qualunque sia la legge che le riguarda, saranno passivamente scontente, insofferenti, terribilmente frustrate. Chi aiuta le persone, i giovani in particolare, ad essere flessibili?
 
La famiglia? La scuola? Il modello organizzativo prevalente applicato nei luoghi di lavoro? il management privato e pubblico arrivato spesso al vertice non per i meriti ma.......? La classe dirigente politica e amministrativa a tutti i livelli? Il sistema delle raccomandazioni?
Perchè chi lavora all’estero dice che lì è tutto diverso? La nostra prevalente cultura gerarchica e autoritaria a tutti i livelli esprime un sistema niente affatto flessibile ma è in questi sistemi che il soggetto ”flessibile” dovrebbe muoversi.
 
E’ vero che si valorizzano i talenti nelle organizzazioni?
 
Potremmo dilungarci ancora ma è meglio non perdere di vista il problema della flessibilità.
 
Se poi non pensiamo ai giovani ma ai quaranta/cinquantenni espulsi dal sistema produttivo, di quale flessibilità parliamo? Cosa ci aspettiamo in materia di flessibilità? Educare e formare persone predisponendole alla flessibilità, compatibili con un sistema meritocratico ad alta produttività e competitività, è davvero essenziale.
 
Abbiamo titoli di studio legalmente riconosciuti, cui si perviene spesso da percorsi tortuosi, diversi, addirittura illogici e incomprensibili. Allora che senso hanno? A nostro avviso è importante ciò che una persona è, cosa sa fare, quali responsabilità sa prendersi, quali risultati è in grado di produrre. Garantito il diritto allo studio per tutti, sono la natura, le opportunità, le qualità di una persona che fanno la differenza.
 
Temiamo che il sistema da noi non voglia essere moderno ed adeguato. Facciamo un esempio: capita che un operaio o un impiegato di un’azienda sia scarsamente considerato e ritenuto poco meritevole di valorizzazione; poi si scopre che nell’organizzazione della protezione civile, da volontario, è un ottimo organizzatore, un capo stimato e seguito, molto affidabile, un vero lider, ecc. Qualcosa non torna; cosa non va? Eppure ci sono moltissimi casi del genere. Perchè questo operaio è così bravo fuori dal luogo di lavoro e magari dimostra da volontario qualità che sarebbero utilissime alla organizzazione che lo retribuisce?
 
Forse non abbiamo abbastanza attenzione alla persona, al suo saper essere, al suo divenire, come pare invece che accada più frequentemente in altri paesi più pragmatici,  ad esempio in Usa. Se penso alle operaie licenziate dall’Omsa di Faenza, che successivamente nella loro lotta hanno rivelato temperamenti addirittura artistici, mi chiedo quali delle loro risorse siano state effettivamente utilizzate dalla loro azienda, che invece le ha lasciate in mezzo a una strada. E’ flessibile, il nostro sistema produttivo, oppure è tradizionalmente rigido e in ritardo,  almeno nella maggior parte delle imprese, soprattutto le piccole, che sono la maggioranza?
 
Anche il sindacato si è distinto spesso, in questi anni, per rigidità e conservatorismo. Se non  cambia non si dimostra una risorsa utile per cambiare il paese, per renderlo più moderno, agile e competitivo, nell’interesse di tutti e non solo di qualcuno.
 
Le persone si trovano, prevalentemente, di fronte ai contenuti del lavoro, scarsamente preparate, e debbono sforzarsi molto per muoversi agevolmente. La tecnologia ha camminato più velocemente dei sistemi scolastici e formativi in genere. Si impara in azienda secondo processi e prassi che vanno assimilate in fretta, spesso acriticamente. Più subendo che conquistando. Le procedure divengono le guide di comportamenti e prestazioni: si fa così, o cosà, e così ancora: ma non dovete chiedere mai perchè, chiederlo non è percepito come segno di partecipato interesse ma come segnale preoccupante di insofferenza all’ordine costituito. I capi sono fatti così nella maggior parte dei casi; non sono disponibili o capaci o disposti a spiegare, insegnare, convincere. Meglio far finta di aver capito.... Ma è proprio giusto così?
 
Conoscete diplomati che inseriti nel lavoro trovino la loro preparazione scolastica veramente utile, adeguata ed in linea con le mansioni cui vengono adibiti?  A nostro avviso la frattura fra scuola e lavoro è ancora significativa e non aiuta a risolvere il nostro problema.
 
                                                                                         (Giambattista Liazza)
 
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Storia e storie

MIO PADRE

Piccolo e disadorno quadretto di esperienza personale e familiare, che non fu premiato allo storico Concorso pratese, ma che ci segnala un problema sociale vero, a volte drammatico, antico e non del tutto raro. Per la nostra consapevolezza e responsab ilità umana ed educativa.

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Quest’anno febbraio è arrivato con il suo consueto fardello di neve, creando il solito bellissimo paesaggio. Ma quella sera il vento gelido ululava per la valle, adagiando qua e là i suoi fiocchi di neve. Rincasando dal lavoro mi affrettai ad accendere il camino e dopo un po’ la legna scoppiettava, esalando i suoi fumi. Il mio gatto Fuffi, sdraiato accanto a me, faceva le fusa, beato di assaporare il tiepido calore, ed io, seduta alla scrivania, ero impegnata nella correzione del compito in classe dei miei alunni.
Pensai a questo mio secondo anno da insegnante, che aveva appagato tutti i miei sacrifici, dato che avevo impegnato tutto il mio tempo tra lo studio e l’osservazione dei bambini che creavano ogni giorno novità da scoprire e meditare.
Il tema che avevo dato da svolgere riguardava la famiglia: titolo “I tuoi genitori”; nei racconti i ragazzi esaltavano soprattutto la figura paterna con trasporto e amore, anche se adoravano non meno la mamma.
Mi addolorai però leggendo l’ultimo compito: la bimba parlava del legame tra lei e la madre, di una reciproca devozione che però veniva rattristata dalla mancata figura paterna, che la piccola non aveva mai conosciuto. Lentamente, copiose lacrime rigarono anche il mio viso: capivo l’amarezza del cuore di quella bambina per l’inferiorità di quel sentirsi senza padre.
E come la capivo! Lo avevo già fatto, quel percorso pieno di tristezza, e per mia sensibilità questo argomento mi era di un dolore particolarmente acuto.
Mia madre, una donna taciturna, difficile da capire, aveva in me una figlia con scarsa abilità a leggere la sua mente, e del resto lei non parlava quasi mai, alle mie domande si chiudeva in un silenzio assoluto mentre io aspettavo risposte che non arrivavano mai.
Da quella ragazzina introversa che ero non avevo avuto amicizie, mi allontanavo da tutti per paura che si scoprisse questo mio segreto dolore. A scuola mi arrabbiavo se le ragazze, parlando a bassa voce, mi additavano con occhiate di compassione come forse solo i bimbi sanno fare.
Convinta di aver seppellito tutto in fondo al cuore, ecco, leggendo il piccolo tema della mia alunna,  riaffacciarsi ora lui, quel padre al quale la mia mente aveva dato mille volti senza nome, e che le righe scritte da una bimba avevano reingigantito con amari ricordi.
Chiusi il quaderno perché invasa da emozioni troppo forti; la mia vista si era un po’ appannata e pensai di chiedere ancora una volta di mio padre per capire se ero una figlia indesiderata, ma erano tante le domande collegate con questa… “Ma a che scopo? – pensai; - Al cuore non si può comandare, forse, e ci si deve rassegnare…”.
Con questi pensieri mi avviai verso la mia cameretta, lasciando tutto al nuovo giorno che bene o male, tra problemi e gioie, avrebbe riempito quel vuoto creato a me da una vita di quesiti senza risposta. Tuttora presenti.

                                                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                    
                                                                                                  °°°°
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Diritti e doveri

LAVORO: NON UN SEMPLICE "VALORE FRA GLI ALTRI"

Mi hanno detto che sono forse un poco esagerato: ma resto convinto che hanno torto. Anche gli amici più stretti. Ne sono veramente convinto: il lavoro è un diritto soggettivo in senso stretto, anche giuridicamente parlando, ed è, correlativamente, un dovere altrettanto stretto. Così è perché lo è, innanzitutto, in senso morale ed in senso politico. Se qualche amico, come pure è accaduto, vuole per questo tacciarmi di “comunista”, io, mai comunista e sempre democraticocristiano, preferisco accettare senz’altro la taccia e confermare la mia convinzione.  La paginetta che segue fu scritta nel 2013, se ricordo bene, ed era destinata a un convegno.
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Tutte le volte che mi hanno chiesto: “Quale è per te la cosa più importante nella vita?”, sapendomi cattolico si aspettavano che io rispondessi “la famiglia”.
Ma non ho mai risposto così. Ho sempre risposto invece “il lavoro.
Perché se non hai il lavoro la famiglia non puoi neanche creartela, e se ce l’hai non avverti davanti ad essa serenità e dignità. Né di padre, né di marito, né di adulto. E non puoi darle serenità e dignità. Come fai a farne la cosa più importante della tua vita e della società?
Senza lavoro non c’è dignità umana.
Dunque non c’è neanche società ordinata.
Dunque non c’è neanche ordinamento giuridico che meriti di essere rispettato.
Questo è lo stato d’animo tendenziale di chi è senza lavoro. Abituiamoci a esaminare i problemi, ogni giorno, mettendoci nei panni di chi li vive!
Non è affatto un caso se il lavoro è messo a fondamento della nostra Costituzione: al suo inizio e al suo centro.
Piero Calamandrei, padre costituente, in un suo famoso discorso agli studenti precisò bene, sostanzialmente, che il “diritto al lavoro” è un vero e proprio diritto soggettivo della persona, non una semplice legittima aspettativa del cittadino. 
Il diritto al lavoro è per il pensiero democratico cristiano coessenziale al diritto alla libertà, alla democrazia, alla giustizia.
Il lavoro è la prima forma di solidarietà sociale. Vincolante come diritto e come dovere.
Il pensiero di ispirazione cristiana è in questo senso naturalmente alternativo al pensiero dell’economia liberista pura e semplice.
                                                                                                                                    
                                                                                      (Giuseppe Ecca)

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Politica

CATTOLICI E POLITICA: E' RICOMPONIBILE IL DIVORZIO?

 
Il titolo può sembrare stantio, ripetitivo, persino noioso. Ma Giuseppe Bianchi lo sottopone ad argomentazione particolarmente solida, non limitata ai consueti rilievi sociologici, ma spinta alla ricerca di una risposta fondata su ragioni più strutturali e di lunga gittata. Del resto, a nostro parere, fino a che una risposta chiara non venga data dalla stessa oggettività degli eventi del nostro paese, il quesito resta di importanza altissima, e non solo per l’Italia.
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L’occasione creata dal centenario della fondazione del Partito Popolare, ad opera di Don Sturzo, ha riproposto l’impegno dei cattolici in politica che, come è noto, è proseguito con la Democrazia Cristiana, asse centrale del Governo per oltre quarant’anni.
Una cultura ed una rappresentanza oggi dispersa sul piano politico con significative presenze rimaste nelle organizzazioni di volontariato. Analoga sorte è capitata ad altri movimenti politici laici portatori di culture altrettanto solide e consolidate sul piano della rappresentanza.
Fenomeno questo evocato come crisi delle ideologie del Novecento di cui i partiti erano espressione con le loro identità collettive in cui motivazione, ideali e azione politica si sostenevano tra loro, almeno nella rappresentazione offerta al comune cittadino. Sarebbe inutile ora parlare di questo passato se il presente non evidenziasse segni di regressione nella vita politica e civile del Paese.
Il dato emergente è che la politica post-ideologica, avviata da Berlusconi e proseguita dalle successive maggioranze per arrivare a quella attuale, ha assunto un connotato fortemente utilitaristico basato su uno scambio tra benefici economici e consenso politico. Nuove offerte politiche, in concorrenza tra di loro, che si fanno carico di offrire protezione al cittadino, disorientato di fronte alle nuove sfide della precarietà sia essa economica che valoriale.
Due sono gli effetti di accompagnamento di questa evoluzione politica: il cittadino non più partecipe della galassia dei corpi intermedi che, soprattutto a livello locale, lo legavano alla politica, cerca nuove identificazioni in qualcuno che lo rappresenti e lo rassicuri; la nuova concorrenza tra i partiti per acquisire consenso si realizza nella generosità delle promesse che avallano una concezione totalizzante della politica, destinataria esclusiva dei bisogni dei cittadini.
Questa riaccreditata concezione di Stato Provvidenza, alla prova dei fatti non ha prodotto i risultati attesi: sia in termini di soddisfazione dei bisogni economici ed occupazionali dei cittadini, sia in termini di risposta alle inquietudini derivanti dalla messa in discussione di consuetudini e di credenze sfidate dai nuovi sviluppi scientifici la cui irradiazione coinvolge l’insieme del loro vissuto.
A questo punto diventa legittima una domanda: questa politica ha le energie morali per offrire un futuro al cittadino visto che non tutto è riconducibile a decisioni politiche ispirate dalla razionalità economica (reale o presunta) e/o dalla soddisfazione degli interessi individuali?  Conseguente l’ulteriore domanda che ci riporta al tema iniziale: la cultura cattolica può contribuire a rendere le nostre società più sicure e solidali? Dal punto di vista astratto la risposta non può che essere positiva: per la centralità che viene data alla persona ed ai gruppi in cui si riconosce che riposiziona la politica al servizio dei loro obiettivi; per il rilievo accordato ai valori del pluralismo sociale, della sussidiarietà con cui sconfiggere l’isolamento dei cittadini facendoli partecipi di una rete di aggregazioni comunitarie.
Sul piano pratico tale prospettiva si presenta più problematica. Improbabile un nuovo partito dei cattolici, oggi minoranza dispersa, improponibile un ritorno nostalgico alla Democrazia Cristiana esaurita dal troppo lungo governo, fragile l’ancoraggio alla dottrina sociale della Chiesa alla luce dei mutamenti strutturali intervenuti.
Una soluzione può essere offerta da un rinnovato appello, a cent’anni da quello sturziano, agli uomini liberi e forti che condividono ideali di libertà e di giustizia e che si riconoscono nei fondamenti dei valori cristiani.
Un appello rivolto ai cattolici praticanti, ma anche ai cattolici insofferenti nei confronti delle prescrizioni ecclesiastiche troppo limitative delle loro condizioni di vita.
Un appello per un comune impegno culturale, prima che politico organizzativo, che accresca la consapevolezza pubblica della modernità e dei problemi inediti che essa produce sui diversi piani della vita in comune, grazie ad un supplemento di virtù che l’umanesimo cattolico può portare alla politica. I cittadini per partecipare alla politica chiedono che non solo i loro interessi ma anche che i loro valori, i loro progetti di vita trovino accoglienza nel dibattito pubblico nella condivisione delle procedure democratiche che ne determinano l’esito.
Questo circuito virtuoso di partecipazione presuppone cittadini informati e consapevoli che la pratica dei doveri è il presupposto per il godimento dei diritti.
                                                                                                                (Giuseppe Bianchi)
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Storia e storie

SOLIDARIETA' PRATESE

Piccola storia vera di città, memoria da salvare nella sua semplicità affinchè le nuove generazioni continuino a imparare che c’è sempre qualcosa di buono che possiamo fare per noi e per la comunità in cui viviamo, e che in fondo è quasi sempre il cuore che fa i miracoli. La traiamo dagli “Inediti del Premio Prato Raccontiamoci.
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Questa è la storia di alcuni pratesi che nel gennaio del 1951 decisero di dotare l’Ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato, del “Polmone d’Acciaio”. Si trattava di un macchinario all’avanguardia per quei tempi, usato con efficacia in tutti i casi in cui occorre la respirazione artificiale: e sono tante le patologie in cui può essere impiegato per salvare vite umane. La cittadinanza rispose con grande solidarietà all’appello, con donazioni piccole e grandi che in meno di due mesi raggiunsero la cifra record di due milioni delle vecchie lire. L’ospedale fiorentino di Careggi ne era già dotato e la stampa aveva riportato la notizia di questo macchinario che riscuoteva successo nel campo medico e salvava vite umane.
Per ritrovare questa storia pratese, rimasta viva dopo tanti anni nella mia memoria – io sono della classe 1927 e all’epoca del fatto che racconto ero milite della Pubblica Assistenza L’Avvenire – si deve tornare indietro più di mezzo secolo, quando Prato risorgeva dalle rovine della guerra e iniziava una nuova epoca che avrebbe cambiato la nostra città non solo nel tessuto sociale ma anche in quello lavorativo e generale, soprattutto con l’arrivo di tanti immigrati, e tutto il territorio avrebbe subito mutamenti grandi. Era l’anno 1951, appunto, avevo 24 anni ed ero appassionato di fotografia, ero impiegato alla fabbrica tessile Lenzi di Gabolana, a Vaiano. La sera quando tornavo dal lavoro mi fermavo volentieri allo studio fotografico dei coniugi Massai in via Ricasoli, a Prato, a fare quattro chiacchiere con la signora Nadina, che era una vecchia crocerossina e si occupava di volontariato.
Frequentava lo studio fotografico anche Giuseppe Giagnoni (detto Beppe) giornalista della Nazione, che ci informava soprattutto sulle ultime notizie. Il nostro argomento di conversazione una sera fu la novità del Polmone d’Acciaio già in funzione all’ospedale di Careggi. “Perché non attivarsi per acquistare anche per il nostro ospedale pratese quel macchinario così necessario?”. Decidemmo allora di costituire un comitato per raccogliere fondi e dotare appunto anche il nostro ospedale di questo prestigioso “polmone d’acciaio”.
In poco tempo aderirono al comitato il presidente della Pubblica Assistenza dottor Loengrin Payer, Giuseppe Giagnoni presidente del gruppo Stampa, Ferdinando Cetica, anche lui giornalista della Nazione, Nadina Massai crocerossina, Mario Baroni commerciante, il sottoscritto Renzo Tonfoni impiegato, Ivan Ventisette sottofilatore, Gloria Godi proprietaria del cinema Rosson, Manfredo Santini edicolante, Alimo Cocci industriale, Ferdinando Turreni rappresentante. Fu nominato presidente del “Comitato per il Polmone d’Acciaio” il dottor Marino Luchetti industriale. Spero di non aver dimenticato nessuno. E’ giusto ricordarli tutti.
Formato il comitato, per prima cosa interpellammo il ragionier Paris Masti, all’epoca direttore amministrativo dell’Ospedale, il quale accettò con gioia la nostra iniziativa. Essendo il ragionier Masti anche segretario amministrativo della Pubblica Assistenza offrì la sede per le nostre riunioni. All’inizio le offerte non furono molte e allora decidemmo di rivolgerci alla stampa per sollecitare i cittadini. La prima notizia dell’iniziativa venne pubblicata sul quotidiano “Il Mattino” del 21 gennaio. Spiegava l’utilità di questo apparecchio medico scrivendo: “L’iniziativa di dotare il nosocomio di Prato del Polmone d’Acciaio è sorta da alcuni militi della “Pubblica Assistenza L’Avvenire” e da alcuni cittadini che si sono uniti subito a loro. Ma l’apparecchio costa una cifra non indifferente, quindi il Comitato che ha preso questa bella e lodevole iniziativa ha sentito il bisogno di lanciare attraverso la stampa cittadina un appello ai pratesi, che in verità non sono mai rimasti insensibili di fronte a simili necessità. Ed ecco le prime offerte: C.C. lire 500; Calvano 150; Montemoni in memoria di Maria Poccianti 500. Ulteriori offerte possono essere versate all’edicola Santini in piazza del Comune sotto i loggiati, che ancora una volta si presta per uno scopo nobilissimo”.
Mentre sulla Nazione dell’11 febbraio 1951 si legge: “Molti consensi e interessanti iniziative per acquistare il Polmone d’Acciaio;  lo spettacolo Giramento del Mondo ritorna al Metastasio, all’Apollo si sta preparando una festa danzante. Si cammina a grandi passi verso il milione!”.
I pratesi risposero con generosità e velocità, e il 18 febbraio il giornale La Nazione pubblicò ancora: “La somma per l’acquisto del polmone d’acciaio è stata raggiunta ieri”, con nel sottotitolo “Le cospicue offerte di due industriali pratesi e l’attesa per la Rivista Goliardica al Metastasio (organizzata dagli studenti del Buzzi), nonché la festa danzante all’Apollo”. In seguito fu presa l’importante decisione ulteriore di acquistare anche il “Polmoncino d’Acciaio” (incubatrice). A sorpresa, due fratelli noti industriali pratesi, Agostino e Giuseppe Canovai, che avevano un lanificio in San Giorgio angolo via Cavallotti, consegnarono personalmente al comitato un assegno di lire 750.000.
Fu proprio questa ultima donazione che accelerò i tempi, oltre a quella della signora Godi che donò l’incasso di due serate del cinema Rosson, in Corso Mazzoni. Questo ci diede l’impulso a intensificare ancora di più l’attenzione della cittadinanza e finalmente la cifra fu raggiunta e anzi superata e fu deciso di acquistare perciò anche la “Culla Termica”, che ancora mancava in maternità; e addirittura avanzarono ancora dei soldi, che furono spesi per l’acquisto di biancheria, dato che l’ospedale ne era carente. Finalmente arrivò il fatidico giorno dell’inaugurazione, con nostra grande soddisfazione.
Il quotidiano Il Mattino del 27 febbraio 1951 riporta la notizia che “è stato inaugurato il nuovo reparto ortopedico ed è stato benedetto anche il “polmone d’acciaio” che la cittadinanza pratese, in pochi giorni, anche per il munifico contributo dato dai fratelli Agostino e Giuseppe Canovai, ha reso possibile realizzando l’iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese.  
L’inaugurazione avvenne dunque il 26 febbraio del 1951, insieme a quella del nuovo reparto ortopedico. Il giornale del 27 febbraio riporta: “La cerimonia svoltasi domenica mattina ha raccolto una gran massa di invitati e di popolo. Gli onori di casa sono stati fatti dal Commissario Prefettizio marchese Degli Albizi, dal segretario dell’Ospedale rag. Pari Masti, dal direttore dell’Ospedale e del corpo sanitario. Fra i numerosi presenti abbiamo notato: il comm. Avvocato Vanni in rappresentanza del Prefetto; l’on. Senatore Guido Bisori; il pretore avvocato Massimiliano Malenotti e Mario Luchetti presidente del comitato per il “Polmone d’Acciaio”; il sindaco ragionier Roberto Giovannini con gli assessori Adriano Pucetti, Pietro Zella, Ugo Cantini, Tarquinio Fini; il commissario capo di P.S. dott. Cesare Tarantelli; il maresciallo Luigi Nesti comandante interinale della tenenza dei carabinieri; i consiglieri comunali Leopoldo Pieragnoli segretario della locale sezione della Dc e Pietro Giusti; il prof. Alighiero Ceri presidente della Pro Prato; Giuseppe Giagnoni presidente del Gruppo Stampa Pratese; il presidente della società Corale “Guido Monaco” e presidente del Conservatorio “S.Caterina”; Michele Vinattieri; il presidente della società Corale  Giuseppe Verdi rag. Fernando D’Agiana; il presidente dell’Istituto “Rosa Giorgi” Giovanni Bacci; rappresentanti del Cif; rappresentanti dell’Udi; Lorenzo Ferroni rappresentante dell’Onmi anche in rappresentanza del presidente; il direttore della Cassa di Risparmio cav.Gastone Lenzi; l’ing. Tommaso Gatti; il cav. Alfonso Carlesi ufficiale sanitario; l’ing. Lorini; Angelo Pugi presidente della Casa di Riposo, con il segretario cav. Gracco Bruschi; il segretario della Casa Pia dei Ceppi dott. Arnaldo Gradi; la signora Nadina Massai che tanta parte ha avuto in tutta la preparazione; il prof. Vito Mori consigliere comunale; il prof. Sante Pisani direttore sanitario dell’ospedale; il prof. Aurelio Angeli chirurgo primario con l’intero corpo medico; Dante Lastrucci proposto della Misericordia; il dott. Payar presidente della Pubblica Assistenza “L’Avvenire”; il comm. Silvano Bini presidente della Croce d’Oro; l’intero comitato del Polmone d’Acciaio. Dopo la benedizione del nuovo reparto ortopedico il vescovo di Prato e Pistoia, monsignor Giuseppe De Bernardi, accompagnato dal vicario generale della diocesi mons. Eugenio Fantaccini, si è recato a benedire il polmone d’acciaio. Nel discorso del commissario prefettizio poi si legge: “Il nostro Ospedale deve assai alla collaborazione dei cittadini, che, ad iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese, hanno offerto il Polmone d’Acciaio”.
Alcune delle prime notizie apparse sulla stampa circa l’utilità di questo macchinario: sul quotidiano La Nazione del 20 gennaio nella cronaca di Firenze si legge: Per un caso di congestione, un paziente è stato sottoposto alle cure opportune fra le quali il trattamento con il polmone d’acciaio”. Mentre sulla Nazione del 15 marzo del 1952, in quarta pagina, alla cronaca di Prato, si riporta quanto segue: “La culla incubatrice in funzione al nostro ospedale. Quando si trattò di acquistare tra gli apparecchi spitalieri anche la culla incubatrice in virtù di quella non ancora dimenticata sottoscrizione per il “polmone d’acciaio” rilevammo la piena soddisfazione della nostra cittadinanza nel dare in donazione al nostro ospedale anche questo necessario mezzo moderno per i neonati prematuri per i quali prima si doveva ricorrere a Firenze al Mayer. In questi giorni un caso notevolmente specifico si è presentato agli occhi dei nostri sanitari, perché tale culla potesse essere usata nella sua essenziale funzionalità. Si tratta di due gemelli dati prematuramente alla luce dalla signora Zita negli Innocenti. I neonati, Piero e Paolo, grazie alle amorevoli cure dei medici e del personale ospedaliero, disposti immediatamente nell’incubatrice sono ormai salvi e continuano a sopravvivere in un ambiente come quello naturale, che potrà condurli al normale periodo di gestazione”.
Personalmente sono stato felice di aver contribuito anche solo in minima parte all’acquisto dell’incubatrice. Quando nel 1966 è nata la mia secondogenita ed ha passato il suo primo mese di vita nell’incubatrice, essendo nata sottopeso, ho capito quanto sia stato importante quello che avevano fatto i cittadini di Prato con la loro generosità. Il reparto di maternità, diretto con grande professionalità dal prof. Ruindi, già a quel tempo era dotato di diverse incubatrici moderne e funzionali.
                                                                                                                                     (Renzo Tonfoni)

(Ricerche di archivio alla Emeroteca della Biblioteca Lazzeriniana in Via del Ceppo Vecchio a Prato).

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Formazione

15 SETTEMBRE 2021: PARTE FORMAITALIA

La nota che segue è per tutti gli amici di Studisociali e per tutti gli interessati e appassionati alla grande e cruciale tematica della formazione profonda e integrata delle persone.

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Cari amici,

finalmente, dunque, parte Formaitalia, la formazione profonda e integrata per le persone (e per il paese).

Ne avevamo preannunciato l’inizio, volutamente e quasi provocatoriamente, per lo scorso luglio, alla vigilia del periodo delle vacanze,  con sede provvisoria… in un bar, proprio a significare l’assoluta libertà, il massimo decondizionamento, la dominante intenzione di qualità integrale, ma anche la non ulteriore procrastinabilità dell’iniziativa.

Le vicende covid hanno suggerito una piccola dilazione tecnica ma ora la data è fissata definitivamente per il 15 settembre 2021, alle ore 10, in Roma, al numero 51 della via Ostiense, duecento metri dalla stazione Piramide della metropolitana. Questa sede di inizio ci viene offerta dagli amici della Flaei, cui da tempo quasi immemorabile mi legano anche personalmente sensibilità, amicizia e attività di studio e formazione intensamente condivise.  

La domanda di una simile formazione integrata si è fatta sempre più intensa in questi anni, spinta particolarmente da ambiti legati alle iniziative di ripresa di un impegno politico di ispirazione cristiana per il nostro paese, ma anche da numerose persone di diversificati ambiti di impegno civile e sociale, accomunate dall’interesse al tema della crescita personale e comunitaria in chiave di umanesimo integrale.

In avvio, la formula prevede semplicemente un incontro al mese, in data e ora fissa, e della durata di non più di due ore, al massimo tre. Non è una formazione che prevede costi per i partecipanti: come per qualche altra iniziativa in passato (abbiamo utilizzato questa formula per la costituzione del piccolo gruppo di DemocraziaComunitaria) viene chiesto un euro (un euro, alla lettera) come valore simbolico di adesione e consapevolezza, e per rispondere a qualche possibile esigenza minima di materiali da fotocopiare o simili.

La docenza non si limiterà al sottoscritto ma coinvolgerà naturalmente via via esperti in diverse discipline ed approcci, secondo i casi, e valorizzerà esperienze e testimonianze. I tre temi di avvio, corrispondenti ai primi tre incontri, sono comunque:
1.           Prospettive della politica italiana: La dimenticanza più grave quando si parla di Democrazia Cristiana.
2.           Tornare a guidare l’Italia: Formare dirigenti o formare persone?
3.           Economia e lavoro:
Costituzione italiana tradita?

A seguire, i temi verranno via via concertati secondo il criterio dello “scorrimento continuo” in una strategia condivisa e nel quadro di riferimento metodologico che molti amici mi hanno sentito definire spesso come “modello monasteriale”, proposto già in passato anche per la citata e auspicata iniziativa di rinnovamento della politica.

Nella sostanza si tratta certamente di “formazione alta” ma… proprio perché alta essa non avrà nulla da spartire, anzi aborrisce esplicitamente, alti titoli e alti linguaggi, alte sponsorizzazioni e alti atteggiamenti accademici… e simili vuotaggini. E’ formazione alta proprio perché… non va in alto bensì, al contrario, in profondità: costruisce nel profondo delle coscienze per far crescere, integrati, valori e competenze. Per questo il risultato sarà anche “alto”, ma nel senso vero e pregnante. E per questo ogni incontro, pur essendo autonomo e dotato di valore proprio, è anche collegato agli altri dalla strategia della visione generale, che è appunto quella dell’umanesimo personalista e comunitario.
Scusandomi con voi per la relativa lunghezza di questo messaggio, mi permetto infine, per completezza conoscitiva dello spirito con il quale parte e con il quale fin dagli anni scorsi fu pensata l’iniziativa, di riproporvi la piccola sintesi di “filosofia della formazione” che fin dal 2016 era stata predisposta per i numerosi amici con i quali si cercava di porre le basi per la ripresa di un pensiero e di un’azione più specificamente rinnovati per la politica e per la società del nostro paese. Tale sintesi recitava:

“Che idea abbiamo della formazione?
Molto alta.
La formazione infatti è il cammino della persona totale verso il proprio orizzonte infinito, in armonia con la comunità in cui essa vive e cresce.
Tutte le sue potenzialità di sviluppo e miglioramento si mettono in movimento con essa.
E perché formarsi? Perché migliorarsi è vocazione fondativa e irrinunciabile della persona.
E anche perché, se è buona formazione, essa mette insieme armonicamente crescita personale e crescita comunitaria: cioè l’unica crescita che abbia senso compiuto per l’uomo.
L’uomo è infatti, nella sua pienezza, contemporaneamente, “persona e comunità”.
La formazione non è indottrinamento.
Non è semplice aumento di nozioni nel nostro cervello.
Non sono professori che fanno conferenze.
Non sono esami e promozioni o dichiarazioni di idoneità.
Tanto meno sono bocciature.
Queste ultime, quando ci sono, caso mai bocciano la capacità della scuola di essere utile alla crescita delle persone.
La formazione non è un “master” conquistato in una prestigiosa università
Da esibire stupidamente in un curriculum
O da contemplare narcisisticamente incorniciato a una parete
O da esibire allusivamente in un discorso pubblico.
La formazione è il tuo cammino di vita nel miglioramento continuo:
Quel cammino della tua anima e di tutto il tuo essere che non finisce mai
Che non delude mai
Che non inganna mai
Basta che tu sia leale con testesso.
La formazione sei tu sempre più consapevole dei tuoi limiti ma anche delle tue potenzialità
E della loro concretezza
Del tesoro nascosto che possiedi e che… sei un irresponsabile se lo lasci perdere.
La formazione è la tua occasione di tutta la vita:
Qualunque mestiere tu faccia
Basta che faccia il mestiere di esistere
E di essere una persona che si vuol realizzare compiutamente.
Ti trovi a fare la scommessa decisiva della tua vita se ti prendi cura della tua formazione permanente o te ne infischi.
In una comunità che... forse ne è inconsapevole ma si vuol realizzare anch’essa
ed è chiamata a dire a sua volta sì o no a questa sua e tua realizzazione.
Qualunque mestiere tu faccia:
Lavoratore dipendente o disoccupato o studente o imprenditore o anziano in quiescenza o politico o amministratore locale o studioso o libero professionista o sportivo…
Ed a qualunque gradino tu sia in quella idiota e immorale falsificazione di vita che chiamano scala sociale.
In qualunque ambiente tu viva
Da qualunque punto tu parta
sei dunque chiamato a decidere se ti prendi cura della tua crescita permanente
o se ti infischi del destino della tua vita.
Anche la formazione politica rientra pienamente in questi criteri e risponde a queste esigenze.
Formarsi in politica, in particolare,
non significa imparare a far comizi efficaci turlupinando la gente
Né apprendere a creare manifesti elettorali più brillanti di quelli dell’avversario di turno
E neanche trovare la battuta efficace per controbattere l’ultima berlusconata.
Formarsi in politica
Se davvero hai valori di ispirazione cristiana o comunque umanistica
Significa imparare ogni giorno a capire più profondamente te stesso e contemporaneamente gli altri
A vedere di te stesso e degli altri un futuro lungo e non solo dieci centimetri dal tuo naso
A saper affrontare tutti i problemi anche sbagliando, ma riconoscendo gli errori e migliorando sempre
Ad acquisire competenze crescenti nelle materie che hai scelto come tua specializzazione
Senza mai trascurare il miglioramento delle tue conoscenze più generali
E contemporaneamente a consolidare valori più alti per testimoniarli più fortemente
Mettendo tutto ciò a disposizione attiva della tua comunità
Oltre che di testesso.
La formazione usa anche le aule ma se occorre sa farne a meno.
La formazione, se è davvero buona, deve costare pochi soldi e molta costanza di impegno
Deve chiedere l’aiuto di pochi professori e di molti maestri di vita
Deve mettere insieme teoria e pratica
Perché la teoria senza la pratica è priva di vita
Ma anche la pratica senza la teoria è un cammino a rischio di dispersione.
Per tutto questo la formazione non ha età
Né cariche sociali né gerarchie che esentino da essa
Né sapienti che possano farne a meno
Né arrivati che non ne abbiano più bisogno.
Beh… vi interessa?
Se sì, siete sulla strada giusta.
Se no, riflettete sui pericoli della vostra situazione.
Qualunque cosa pensiate,
la nostra formazione sarà così
o non sarà per nulla, perché, diversa da così, non vale la pena farne.
Perché solo così essa ha un senso di bene
Per noi stessi, per le speranze del nostro paese e anche oltre il nostro paese.
Un sogno?
Se volete, sì: un sogno. E che c’è di più concreto e utile di un sogno di bene, per migliorare davvero la realtà?
In fondo, alla chetichella, abbiamo già cominciato da molto a tastare il terreno:
ci siamo visti con tanti di voi, in diverse occasioni
giusto per cominciare a immaginarla, questa formazione
giusto per cominciare a dirci che puntiamo in alto
puntiamo alla nostra persona totale da sviluppare
ed alla nostra comunità senza esclusioni
per migliorarle davvero entrambe e senza confini”.
(Giuseppe Ecca, giugno 2016)
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Ebbene, cari amici: chi di voi è interessato a vivere con noi questa esperienza può semplicemente scrivere per posta elettronica all’indirizzo giuseppe.ecca@gmail.com., o contattare il sottoscritto per telefono o secondo gli altri canali consuetamente utilizzati fra noi (compreso Feisbuc): ma sarà mia cura fornirvi in tempi rapidi e comunque fin dal primo incontro anche altri semplici riferimenti, ora in via di definizione.
A tutti voi un caro saluto.
                                                                                                                                     Giuseppe Ecca
Roma, agosto 2021
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Storia e storie

PORTO IL NOME DEL MIO PAPA' E MI SENTO SEMPRE ITALIANA

Ancora storie di emigrazione, ancora esperienze forti di vita, in semplicità di stile e di sentimento. Storie vere. E ancora Australia.

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Mamma mi raccontava sempre che a mio papà piaceva una famiglia grande, essendo lui figlio unico: aveva sofferto tanta solitudine nella casa dei suoi genitori, prima di sposarsi. Per questo la nostra famiglia era numerosa: eravamo sette femmine e due maschi. Mio papà aveva un tantino di amore particolare per me, mi è sempre parso. Ero la quinta dei nove figli ed eravamo comunque, così numerosi, una famiglia felice. Quando papà decise di partire in guerra, per l’Africa Orientale, i figli erano ancora soltanto quattro, tutte femmine. Papà decise di partire perché chi partiva volontario veniva pagato bene e qualche volta poteva tornare a casa in licenza. Insomma, per la famiglia si trattava di un bell’aiuto.
Essendo sempre innamorati, i miei genitori pensavano ancora di aumentare la famiglia e così mia mamma si trovò incinta della quinta figlia: ma questa gravidanza era diversa dalle altre quattro; tutte le donne le dicevano che sarebbe arrivato un maschietto; ma la risposta della mamma era invariabilmente: “Non m’importa che sia maschio o femmina: basta che ritorni mio marito dalla guerra e che il bambino sia bello e sano”.
Quando fu l’ora del parto, questo si presentò difficile: il bambino infatti aveva il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo. La mamma pregava Dio che si salvasse, e tutto andò bene; finalmente nacque la bambina: ero io! Mia mamma era felice e poiché papà si chiamava Vincenzo, quando andò al municipio per registrare la mia nascita fui chiamata Emilia Vincenza: ecco perché porto il nome di mio papà.
Subito dopo che fu registrata la nascita, il Duce, Benito Mussolini, mandò alla mamma il premio di lire 5.000, che in quei tempi erano tanti soldi, e così divenni “la figlia del premio”. Ancora più forte si fece il ricordo continuo di mio papà lontano dalla famiglia a combattere in guerra con il rischio di morire, per aiutare tutti noi. Il duce dava il premio a tutte le famiglie con bambini quando i loro papà erano in guerra come volontari.
Più crescevo e più la somiglianza con papà era forte; ero in particolare di pelle scura come lui; e mia mamma ripeteva: “Questa figlia suo padre l’ha portata dall’Africa e perciò è scura come lui”. Dopo di me, lei ebbe altri quattro figli, due femmine e due maschi: dunque, nove figli in tutto. Finalmente, con la nascita dell’ultimo finì la sua missione di avere bambini: non poteva averne più; in tutto aveva avuto diciotto gravidanze! E’ stata una mamma fortissima: oltre a crescere nove figli era anche sarta di uomo e di donna, lavorava all’uncinetto, faceva coperte da letto e centrini, lavorava il pane due volte la settimana e i biscotti tradizionali per Pasqua e Natale.
Quando ebbi compiuto diciotto anni di età decisi di partire per l’Australia: lì c’erano già due mie sorelle maggiori, sposate per procura; perciò anche io partivo contenta. Loro mi scrivevano sempre chiedendomi se volevo partire dato che lì si lavorava bene e la paga era settimanale. In effetti tutto procedette bene e in un anno di tempo per prepararmi partii: era il 29 ottobre del 1960.
Contentissima quando decidevo di emigrare, mi sono trovata triste all’atto di partire. Il giorno della partenza è stato in effetti il più triste della mia vita. Arrivata l’ora di lasciare mia mamma, le due mie sorelle più giovani di me e i due fratellini più piccoli, mi resi conto di quello che mi accadeva: ma ormai dovevo proseguire, e  così in compagnia di mio papà presi la corriera dal mio paese, poi il treno fino a Reggio e il battello fino a Messina. Finalmente arrivammo al porto, dove una grande nave mi aspettava: portava il nome “Roma”.
Quanta gente attorno a quella nave! Fra viaggiatori e parenti non si riconosceva chi erano gli emigranti, cioè chi doveva partire. Ad un tratto aprirono i passaggi per gli imbarchi nel grande bastimento, che fu subito carico di passeggeri, piccoli e grandi, giovani e meno giovani, uomini e donne. Mio papà venne con me dentro la nave, ricordo come fosse oggi; dopo pochi istanti la nave cominciava a dare i segnali di partenza e mio papà mi abbracciò forte forte, mi baciò e con le lacrime agli occhi mi disse: “Figlia mia, devo lasciarti; tu lo sai che devo ritornare a casa, questa partenza è stata la tua decisione: se ti piace stai nel luogo che hai scelto ma altrimenti ritorna qui, con tutta la ricchezza della tua bella giovane età; buona fortuna e a presto!”.
E mi lasciò. Io rimasi triste e con le lacrime agli occhi uscii fuori, dove tutti salutavano, col fazzoletto in mano, i loro cari. Vidi anche mio papà, col fazzoletto in mano, che diceva: “Ciao, Emilia!”. Man  mano che la nave si allontanava dal porto, le parole di tutti noi erano: ”Arrivederci, Italia mia, resterai sempre la mia patria!”. La giornata era al declino, il sole si nascondeva e incominciava ad imbrunire. Ognuno di noi cominciava a sistemarsi in cabina, perché avevamo bisogno di riposo, stanchi e straziati dopo una lunga giornata di lacrime per il distacco dai nostri cari.
I giorni passavano e il viaggio continuava con un tempo sempre variabile: un giorno sole, un altro burrasca. Si facevano nuove conoscenze e ci si raccontava il motivo di quel viaggio: alcuni perché sposati con procura, altri per trovare i familiari, altri per lavoro temporaneo ma con l’intenzione che se si fossero trovati bene si sarebbero sistemati definitivamente nella nuova terra. Dopo un lungo viaggio, ventotto giorni, siamo arrivati a Melbourne: era il 26 novembre 1960. La gioia che provai quel giorno del mio arrivo fu immensa soprattutto per la grande emozione nel vedere le mie sorelle dopo quattro anni di lontananza, insieme ai loro mariti e ai bambini. Ci salutammo e contenti, abbracciati a lungo come avevamo fatto prima di lasciarci, salimmo infine in macchina per andare a casa. Loro abitavano al numero 42 di Clifton St. Richmond.
Pranzammo e subito dopo cominciai a parlare di lavoro, contenta e piena di entusiasmo, e dicevo: ”Lo sapete che questo è lo scopo per cui sono venuta in Australia: lavorare!”. Per una settimana rimasi a casa per riposarmi, poi trovai lavoro proprio vicino all’abitazione delle mie sorelle: era un maglificio con pochi operai, lì si lavorava e si mangiava, e si faceva il tè, di cui mi diedero l’incarico nominandomi “tè girl”; dovevo preparare il tè tre volta al giorno, andare a fare la spesa con le note di ciò che i lavoranti volevano, scritte sulla carta in lingua inglese.
La paga era solo di sette sterline la settimana, ma io ero contentissima. Però un giorno, portando il tè, come al solito, al padrone per il suo pranzo, egli mi disse che non lo voleva sul tavolo e andò su tutte le furie, non so per quale ragione, chiamò una ragazza italiana e le ordinò: “Dì a questa girl che io oggi vado fuori per il lunch, perciò il tè non lo voglio”. La ragazza me lo riferì e io in quel giorno, con l’umiliazione che sentivo per questa scenata e per il fatto che non potevo replicare in lingua inglese, dissi a me stessa: “Che pazzia che ho fatto a lasciarti, Italia mia!”. In realtà l’Italia mi è sempre mancata molto.
                                                                                                      (Anonimo, Premio “Prato Raccontiamoci”)
 
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Storia e storie

1956: PRIMI GIORNI IN AUSTRALIA

Ancora una volta un racconto di vita inedito, tratto dalla serie “Prato Raccontiamoci”. Pubblichiamo questa storia e quelle simili così come ci pervengono, scritte da mani semplici di persone che hanno vissuto una vita intensa, nella prima metà del secolo scorso, quando ancora dall’Italia si emigrava quasi in massa;  e, il più delle volte, non hanno certo potuto permettersi lunghi studi letterari per scrivere con raffinatezza formale: ci raccontano la vita, semplicemente. E questo ci interessa più di tutto.

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Aprile 1956, Melbourne, Australia. Cielo nuvoloso, con la brezza che muove le foglie degli alberi. Il traffico non è pesante come a Roma. La casa che mi aspetta è sopra un negozio di generi alimentari. Dalla finestra vedo la Sydney Road, la gente che si appresta a salire sul tram per andare a lavorare nei vari sobborghi. La città è estesa, lunga e larga. Ci sono parchi, campi sportivi, polmoni di verde ben evidenti. Gli uomini hanno pantaloni larghi, camicie larghe, scarpe grosse e di color marrone, capelli tagliati corti e senza basette. Con la mano destra reggono borse pesanti. Molti si coprono la testa con enormi cappelli
Io trovo il mio primo lavoro in una fabbrica di scarpe. Sono giovanissimo e la paga è piuttosto magra. La fabbrica è gestita da una famiglia ebrea. Marito e moglie danno le direttive e comandano le operazioni del giorno; hanno un figlio che fa le scuole superiori, ma dopo scuola lavora anche lui per tre ore: poi va a casa per studiare. Una famiglia piccola, però unita e serena. I miei compagni di lavoro sono tre australiani. Uno di loro mi dice quando devo lavorare veloce e quando devo lavorare più lentamente e pigliarmi tempo. A mezzogiorno mi mandano a comprare il pesce e le patatine fritte con la Coca Cola.
Il cibo non è come il nostro… contiene tanto grasso! La carne di pecora non è che piaccia a tutti. Usano il lardo e non l’olio  d’oliva. E, invece del vino, bevono birra a non finire. Siccome i bar chiudono alle 18, dopo il lavoro scappano in questi locali onde poter bere la birra prima di ritornare a casa. Spesso ritornano a casa  un po’ brilli e litigano con le mogli… 
Le donne, quelle di una certa età, coprono le rughe con la cipria, tanta cipria! Non si fanno mancare il rossetto ed il cappellino, grigio o verde. Quelle giovani portano la gonna corta e mostrano la bellezza delle gambe. Un popolo di sportivi, questi australiani! Corrono anche sotto la pioggia, fanno ginnastica e nuotano come pesci.  Io ho una vecchia bicicletta e nelle ore libere giro per le strade di Coburg. Amo il ciclismo ed il calcio. Sognavo di diventare un portiere di qualità come Moro, Casari, Viola e Bugatti: ma dopo il lavoro non me la sento di andare a fare gli allenamenti. E poi incontro una ragazza italiana, Caterina, figlia di calabresi, ed incomincio a farle la corte. E’ più alta di me, più matura nel calcolare le cose della vita. Capelli lunghi e neri, due occhi vivaci, un nasino affilato, la bocca minuscola e con un viso fatto di lineamenti regolari. Mentre nel cielo brilla il sole e gli uccelli volano felici, decidiamo di fare una passeggiata al vicino parco. Ci buttiamo sull’erba verde, asciutta; ci guardiamo negli occhi come se fossimo imbarazzati, poi la mia mano trova quella di Caterina ed iniziano piccole carezze. Gioco coi suoi capelli, le bacio la fronte e subito sento le sue labbra sulle mie! I passeri saltellano sull’erba cercando qualcosa da beccare. Una ragazzina ci passa vicino e noi la smettiamo con le carezze. Due farfalle bianche si posano sui fiori. Il sole si avvia al tramonto ed è ora di lasciare il parco. Caterina non vuole che i genitori scoprano la nostra storia e rientra a casa con la solita puntualità: dice che i suoi genitori sono all’antica e quindi molto severi!
Certo, un bel paese, questa Australia! C’è serenità, allegria, lavoro, sole, pioggia e vento! A me però manca la piazza, il posto dove andare la sera per vedere gli amici, e manca il caffè corto. Qui fanno un caffè all’americana, cioè lungo e senza sapore: è come bere l’acqua sporca. Ancora non mi sono abituato a bere il tè, mentre gli australiani bevono tè e birra. Mangiano assai dolci e sono golosi. Adesso, finalmente, è arrivata pure la televisione! Appaiono le prime trasmissioni in bianco e nero, perlopiù sono pellicole americane oppure inglesi. Gli americani invadono l’Australia coi film western: sullo schermo appaiono cavalli, indiani, frecce, morti e feriti. La sera la famiglia si unisce attorno a questa scatola e commenta, di tanto in tanto, il corso delle azioni. C’è subito meno comunicazione di prima. Prima, di fronte al fuoco, si parlava di più e si raccontavano avvenimenti del passato realmente vissuti. Ora la Tv ci fa conoscere storie inventate e distanti dalla vita quotidiana. Divertimento in casa, cinema in casa. Le cose cambiano anche in Australia.
Frequento le scuole serali per imparare la lingua inglese. Bisogna conoscere la lingua inglese per fare la spesa, per capire cosa fare sul lavoro, per chiedere il nome di una strada, per pagare le fatture. A CoIburg c’è la chiesa cattolica di San Paolo. Molte donne italiane, la domenica, vanno a messa e a messa finita si trovano fuori e si scambiano le notizie. Parlano del marito, dei figli, della comare rimasta incinta prima del matrimonio, della casa da pagare, della nonna in Italia che sta male. Io sono cattolico, entro in chiesa e mi raccomando al Signore. Però al mio paese nativo era tutta un’altra storia! Al mio paese conoscevo i fedeli, il parroco, i santi, le varie cappelle. Qui, invece, non conosco nessuno. Nemmeno i santi mi sembrano veri, non mi destano fiducia. Il parroco non parla italiano e quindi io non mi confesso. Fortuna che di peccati ne faccio pochi! Quelli più gravi sono i baci che do a Caterina quando ci incontriamo sull’erba del parco: roba di poco conto, sfogo di gioventù! L’amore esiste anche a Melbourne, in Australia: lo si trova ovunque, l’amore. E non importa se uno vive in Australia o in Italia: l’amore è necessario e ci dà la forza di vivere, di combattere le avversità. Amo l’Italia dove sono nato, ma amo pure l’Australia dove lavoro e vivo: due amori, ma una sola vita.
                                                                                                             
                                                                                                                     (Anonimo, raccolta “Prato Raccontiamoci”)
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Società

L'INTEGRAZIONE INTELLIGENTE E RESPONSABILE

Non so se ancora operino, perché il mio incontro con loro risale a qualche anno fa e dopo di allora i contatti si sono diradati per esigenze diverse legate soprattutto ai miei impegni lavorativi. Ma la impressione lasciatami dal loro operare concreto, educato, portato direttamente sui problemi delle singole persone, e non sulle generiche posizioni astratte, mi aveva colpito e affascinato vivamente. Perchè cercava contremporaneamente il bene delle singole persone e quello di tutti.

 
La comunità si chiama Ripa dei Sette soli. Sono francescani e amici di francescani. Educati, senza insistere, ti offrono (così fu per me, nei paraggi di San Giovanni, a Roma, quando quasi casualmente li conobbi) questo loro piccolo pieghevole di presentazione: sono persone che hanno “trovato” l’unico modo davvero conreto e giusto concreto di affrontare il “problema immigrati” senza retorica e senza astrattezze. Il problema di quei profughi che sbarcano nel nostro paese, provenienti dall’Africa perlopiù, ed ai quali, una volta che abbiano messo piede in terra italiana, nessuno più dà una mano, lasciandoli a perdersi o a recuperarsi, per i fatti loro, altrettanto disperatamente, attraverso strade e campagne. Molti si salvano e molti si perdono, molti diventano risorse per la società ch eli ha salvati e molti altri diventano minacce e pericoli.
 
Mentre il resto d’Europa, generalmente, fa ancora peggio; da qualche parte (pare lo abbiano fatto più volte maltesi e spagnoli, ad esempio) sparano loro addosso perché non osino neppure mettere piede sul loro suolo.
 
Ripa dei Sette Soli ha letto il loro problema con semplicità ed efficacia immediata, con la semplicità di luce ispirata da San Francesco. Senza la barbara ostilità dei “nonvivogliamo” e senza la contrapposta stupidità irresponsabile dei “ venite-pure-venite-tutti-tanto-qualcuno-ci-penserà-basta-che-non-chiediate-nulla-a-me,  tipico di tanto pollame pacifista, buonista, sentimentalarcadico, compreso qualche cattolico dalla facile generosità retorica a carico dello Stato e in genere degli altri.
 
Da Ripa dei Sette Soli i ragazzi vengono invece raccolti e avviati immediatamente, con amore, a imparare piccolissimi mestieri di vita quotidiana, o a perfezionarli se per avventura già ne conoscono qualcosa. Di quei mestieri utili così spesso alla nostra vita cittadina, e, così spesso, introvabili o trovabili a prezzi esorbitanti fra i nostri connazionali: piccole riparazioni di impianti elettrici o idraulici, piccole riparazioni di falegnameria, tinteggiatura, intonacatura, muratura, pulizia di ambienti e cantine, lavaggio auto, raccolta ortaggi e frutta, piccoli traslochi, servizi di giardinaggio, assistenza ospedaliera, accompagnamento anziani alle commissioni di posta, municipi, medico, ospedali, e ancora taglio capelli e barba, servizi di igiene personale,  preparazione pasti, recapito a casa della spesa, pagamento bollette, cura animali, e vari altri  “problemucci”, come li chiamano loro stessi, per i quali tanti cittadini hanno bisogno di una mano di aiuto e… non sanno proprio a chi rivolgersi.
 
La relazione che si instaura non comporta rischi, nel senso che chi desidera avvalersi di questo “servizio garantito” non ha che da chiamare (così era quando ho conosciuto la comunitài) il numero telefonico 327.1790333, dalle ore 9,30 alle ore 17, o inviare una email a ripadeisettesoli@gmail.com: risponde una operatrice che prende in carico il problema, individuando la persona adatta alla sua soluzione. La prestazione non ha un prezzo o una tariffa: la regola è quella di una offerta libera lasciata al buon cuore di chi chiede il servizio. Si tratta di donazione, oltretutto fiscalmente deducibile, purchè il pagamento di essa avvenga attraverso operazione bancaria o postale.
 
Insomma, la parola d’ordine dei frati minori è: “Accogliamo nella nostra fraternità persone condannate alla vita di strada, per ridare una opportunità a chi non ha più lavoro né un luogo familiare dove vivere. Ma vigiliamo anche sui comportamenti”. La Fraternità di Ripadeisettesoli è in piazza San francesco d’Assisi 88, nel luogo, mi dicono, dove proprio san Francesco di Assisi amava stare in Roma.
 
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Italia

BELLISSIMA MA DISORDINATA

Circolano giustamente, in tv, su giornali e riviste, in films e documentari, nonostante il periodo di covid, immagini bellissime del nostro paese, delle sue attrattive incomparabili di arte, di storia, di paesaggio, di cultura, di spiritualità, di umanesimo. E’ vero: nessun altro paese al mondo assomma tanta bellezza e, in fondo, tanto bene.

Dirlo, raccontarlo, mostrarlo, tutto questo bene, è comportamento non solo legittimo al fine di riequilibrare tanta tendenza, a volte malata, all’autodenigrazione o all’autocommiserazione, ma anche doveroso in quanto gesto di responsabilità e di amore per ricostituire un’attenzione psicologica, morale, culturale e politica sulle dimensioni positive del nostro paese, e sulla loro sviluppabilità ulteriore a vantaggio anche di tutto il mondo.

Perché è questo l’approccio che, senza nascondere i limiti da correggere, consente un atteggiamento educativo e proattivo di incoraggiamento al fare per migliorare, al costruire il bene, che va oltre il limitarsi a criticare. Abbiamo cose immense e uniche da valorizzare, dunque, e abbiamo anche cose immense e uniche da recuperare: ricordiamolo, perché le cose belle, se non le custodiamo, rischiano pian piano e in silenzio di deteriorarsi. Abbiamo celebrato da poco il primo maggio, festa universale del lavoro e dei lavoratori: i tre sindacati confederali italiani, in genere non ricchissimi di fantasia negli ultimi anni, hanno coniato per l’occasione un bellissimo messaggio che incentra la sua attenzione sui due concetti del completamento delle vaccinazioni contro il carognavirus e della ripresa vigorosa e totale del lavoro (sia pure con rallentamento dei ritmi e distanziamento degli spazi) come metodo e via per il superamento decisivo del dramma pandemico.

Noi vediamo giuste queste due dimensioni: e ne allargheremo volentieri il significato verso una sanità nazionale pubblica nuovamente centrale nelle attività dello Stato come segno della civiltà solidaristica del paese, la sanità come servizio veramente per tutti e veramente efficiente, senza sprechi e senza parassitismi ma anche senza deleghe alla pur legittima sanità privata con fini di lucro; e verso il lavoro, in modo più specifico,  come diritto e dovere per ogni cittadino, effettivamente garantito senza assistenzialismi ma con reale sguardo permanente a una adeguata produzione di ricchezza e a una altrettanto adeguata redistribuzione  universale di essa. Non è tutto, perché a questo quadro di necessaria ripresa mancherebbero ancora altre dimensioni del bene comune e in particolare quelle della cultura e dello spirito: ma sarebbe già cosa immensa e davvero degna della grandezza di un paese che sa ancora e sempre migliorarsi. Comunque, godetevi le bellissime immagini che qui ho tentato (ci sarò riuscito?) di allegarvi. (No, non ci sono riuscito: devo ancora imparare... lo prometto).

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Economia e società

ECONOMIA E LAVORO: COSTITUZIONE TRADITA?

La centralità del lavoro, fondamento della nostra repubblica per dettato costituzionale fin dall’articolo 1 del nostro documento fondativo: eppure lottiamo ancora perché tale fondamento trovi attuazione vera e sostanziale. Giuseppe Amari, studioso di Federico Caffè e più in generale del mondo del lavoro e dell’ecponomia, se ne occupa in questo articolo, non per la prima volta, richiamandone la drammatica attualità.
 
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Il lavoro e del suo futuro; un tema sempre più centrale e drammatico, non solo in Italia, certo aggravato dalla Pandemia.
Possiamo cominciare dalla nascita della disciplina economica con Adam Smith che affermò, contro i mercantilisti, che la vera ricchezza delle
nazioni risiedeva, non nel denaro, ma nel lavoro e la sua produttività. Che dipendeva, a sua volta, dalla specializzazione del lavoro e dall'apertura dei mercati esteri come sbocco per la produzione. Purtroppo abbiamo visto un ritorno alla vecchia concezione; il
«neomercantilismo» con la pretesa di avere la bilancia dei pagamenti costantemente in attivo e con un ripresa quindi di egoismi nazionali. In
Europa è soprattutto la politica tedesca.

Smith, era anche consapevole che una spinta parcellizzazione del lavoro portava a conseguenze negative sul piano culturale e psicologico; quelle
che poi Marx chiamerà alienazione; approfondita in seguito da tanti altri intellettuali, economisti, sociologi, psicologi. Alienazione di prodotto e di
processo, che oggi si propone aggravata quando intermediata da un algoritmo. Dai tempi di David Ricardo, agli albori della Rivoluzione industriale, si discute se il progresso scientifico e tecnico distrugga o meno occupazione. Sappiamo che storicamente la quantità di lavoro umano è
progressivamente passata dal settore agricolo a quello industriale a quello dei servizi; investiti questi ultimi sempre di più dall'innovazione,
dall'intelligenza artificiale, dalla robotizzazione. Quale futuro per il lavoro?

Benedetto Croce chiamava «metereologiche» queste domande, e rispondeva: «I problemi morali, intellettuali, estetici e politici non stanno
fuori di noi come la pioggia e il bel tempo... Bisognando invece, unicamente, risolversi a operare ciascuno secondo la propria coscienza e la
propria capacità…». Il progresso scientifico deve essere al servizio dell'uomo e della collettività, servire a liberare dalla pena del lavoro faticoso, ma non dall'impegno a contribuire all'avanzamento della società: liberazione nel lavoro che evolve e non dal lavoro.

Secondo me questo è il vero senso e il vero obiettivo dell'art. 4 della Costituzione che «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». E se il lavoro del futuro sarà chiamato soprattutto
a quest'ultimo compito sarà un salto vero di civiltà, compreso quello in un mondo di pace e fratellanza dei popoli.

L'illustre storico dell'economia C. M. Cipolla chiede che il progresso scientifico e tecnico sia accompagnato a quello etico, perché si può
regredire allo stato ferino anche con tutta la «banda larga». Ma non si devono dimenticare i costi sociali che il progresso scientifico
comporta nei settori che ne sono investiti o penalizzati. Federico Caffè, concludendo un suo intervento all'Accademia dei Lincei
nel lontano 1968 sulle conseguenze dell'automazione, diceva: «Dopo tutto il fatto importante non è che si vada verso una società in grado
di avvalersi della moneta elettronica, ma che le già stridenti diseguaglianze sociali non vengano accentuate dai mezzi tecnici da noi stessi creati».
Nel secondo dopoguerra i paesi democratici e civili si posero l'obiettivo della «piena occupazione in una società libera».

Allora si usava molto il concetto di prodotto potenziale (oggi dimenticato): quel prodotto derivabile dalla piena occupazione degli
uomini e dei capitali disponibili. La differenza tra il prodotto potenziale e quello effettivamente realizzato, rappresenta la perdita di ricchezza sopportata. Ricchezza perduta per sempre. Perdita non solo materiale, ma anche spirituale per le persone, private di quel diritto e dovere, e per la intera società (art. 3 e 4 Cost.). La sensibilità sociale e democratica aggiunge alla piena occupazione la «dignitosa occupazione», nelle linee essenziali delineata tra l'altro dalla nostra Costituzione.

Joan Robinson, un'allieva di Keynes rilevava che oltre all'occupazione si doveva porre il problema di cosa, come e per chi produrre.
Questi sono obiettivi che non possono essere lasciati al mercato, ma appartengono alla responsabilità della politica, delle istituzioni e delle
stesse forze sociali in un contesto di democrazia progressiva e diffusa. Che investa anche il mondo della produzione e del lavoro (democrazia
industriale ed economica); un modo anche per rispondere all'alienazione. Ma è un problema di democrazia complessiva secondo il filosofo
Guido Calogero che afferma giustamente come «la più solida democrazia si fondi sulla pluralità delle democrazie» tra loro solidali, non meno delle
libertà.

Impegno politico e istituzionale se non si vuole tradire - diceva Caffè - «l'ideale che lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello
sviluppo economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito». E aggiungeva: «una ripresa congiunturale che non comporti una
diminuzione della disoccupazione è una mera espressione contabile di scarso significato». Ma il «sistema economico in cui viviamo» (come Keynes chiamava il capitalismo, un concetto peraltro sfuggente) può sopportare la piena stabile e dignitosa occupazione? Gli studiosi hanno dato risposte diverse su cui non possiamo soffermarci.
Ne accenno a tre: Marx e coloro che a lui direttamente o indirettamente si richiamano, come Kalecki, Baran e Sweezy parlano di un «esercito industriale di riserva» necessario a tenere a bada i lavoratori e di ostacoli soprattutto politici; i neoliberisti (meglio pseudoliberisti) con il cervellotico concetto di «saggio naturale di disoccupazione»; i riformisti veri, come Keynes, Caffè e Roosevelt, concordando di fatto con le parole di Croce contro le domande «metereologiche», si ingegnano per raggiungere l'obiettivo di più avanzata civiltà. Oggi si cita il New Deal, ma il suo vero significato ce lo ricorda lo stesso FDR quando assicurava che «le attuali difficoltà economiche non devono fermare il nostro governo civile». E fece riforme civili e sociali insieme a politiche di ripresa economica. Prevedeva tra l'altro la diminuzione dell'orario di lavoro e il salario minimo.

Temi sempre attuali insieme a quelli del reddito di cittadinanza o meglio universale. Dopo i «Trenta Gloriosi» seguirono, con la Tacher e Reagan, i
«Quaranta Ingloriosi», o forse meglio i «Quaranta Miserabili». Da allora ad ogni crisi e recessione economica è seguita una regressione
civile e sociale. Della «Grande Regressione, il lavoro ne è stata la prima vittima: con disoccupazione e soprattutto con la mortificazione della sua dignità: anzi - con la responsabilità di economisti e ancor peggio giuslavoristi - si è preteso e si pretende di scambiare l'occupazione o meglio una minore disoccupazione con il peggioramente delle sue condizioni. Stiamo tornando alla condizione mortificante del bracciantato contro
cui si batteva Giuseppe Di Vittorio, ben rappresentata dalla canzone «Bella ciao» che nacque come un canto di liberazione delle mondine.
Oggi il padrone ha fatto dell'algoritmo il suo caporale, non meno violento ma più insidioso. Oggi analizziamo un caso emblematico di tale grave regressione civile e sociale; e che può rappresentare - se non fermato - la vera distopia del futuro.
                                                                                                         (Giuseppe Amari)

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Politica

DIZIONARIO PROGRAMMATICO A PARTECIPAZIOE DIFFUSA

I temi proposti non sono in ordine gerarchico bensì alfabetico: vogliono costituire infatti i tasselli di un lavoro collettivo di elaborazione “a scorrimento continuo” delle linee di programma dell’Associazione, con la partecipazione aperta e permanente di iscritti, esperti e cittadini. Soprattutto, di iscritti. E’ uno strumento di lavoro informale approvato dagli organi associativi e da essi vigilato, e che, con la loro approvazione ufficiale, acquista nei suoi contenuti, via via, il crisma del documento formale di impegno dell’Associazione.
 
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Acqua. E’ un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di garantirne qualità e quantità sufficiente a prezzi sociali appartiene alla mano pubblica in senso diretto. Alla mano privata non possono che essere riservati ruoli di carattere nettamente sussidiario, ininfluenti sulle politiche relative a questo bene. E’ escluso a priori che dall’acqua si possa trarre profitto privato a qualunque titolo.
Adesioni a DemocraziaComunitaria. Le domande devono essere presentate sul modulo predisposto dalla sede centrale e firmato dall’aspirante socio, con il corredo dei dati personali e della quota associativa o di una ricevuta del suo versamento. La domanda è perfetta ed accolta all’adempimento di tale modalità ed alla firma di accettazione del presidente nazionale. In ogni territorio comunale, il primo socio è anche referente organizzativo per la costituzione dei relativi organi non appena altri soci avranno perfezionato la loro adesione. In fase di avvio dell'Associazione possono essere stabilite modalità di adesione semplificate.
Ambiente. E’ un bene comune, non privatizzabile. La responsabilità di mantenerlo tale appartiene direttamente alla mano pubblica. La legge stabilisce la proporzione tassativa di superficie verde da salvaguardare in ogni opera manufatta, pubblica e privata.
Authorities. Le autorità di settore, gemmate, sul modello di organismi funzionanti negli Stati Uniti in diverso contesto culturale, sono venute manifestandosi organismi costosi e, alla fine, non adatti a costituirsi come garanti super partes nelle materie di cui si occupano: così da porre ormai la esigenza di un ritorno alle naturali fonti di garanzia costituite dal parlamento, dai comitati interministeriali e dai loro già storicamente sperimentati strumenti di lavoro. Risparmiando gran parte dei relativi costi.
Autonomia differenziata. DemocraziaComunitaria è contraria al principio delle autonomie differenziate. Le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato di tutti: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, in quanto sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse. Le regioni devono piuttosto venir sottoposte a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche affidate.
Autostrade. La rete autostradale nazionale italiana, cioè quella che collega fra loro tutte le regioni italiane  in un unico sistema strategico, intorno al quale vivono e pulsano le altre categorie di strade (statali, provinciali, etc,), appartiene per stretta e intima natura alla categoria tecnica e politica delle “infrastrutture critiche” del paese: quelle infrastrutture, cioè, che costituiscono l’ossatura strategica, ineliminabile e indivisibile, che sostiene  e realizza l’unità sistemica e la sicurezza del paese. Essa non può pertanto, in via di principio inderogabile, essere altro che pubblica e statale sia nella proprietà sia nella gestione. Qualunque sia stata dunque a suo tempo la motivazione che ha malauguratamente e inefficientemente indotto lo Stato ad affidare tale rete in concessione a privati, essa va assolutamente riacquisita alla piena e contestuale proprietà e gestione dello Stato medesimo, quale integrante, diretto e insurrogabile strumento del bene comune.
Banca. Il miglioramento verso semplicità, controllabilità e trasparenza delle leggi relative all’attività bancaria parte dal ripristino di una netta differenziazione fra banca ordinaria di risparmio e investimento, e banca d’affari o speculativa. DemocraziaComunitaria vede con particolare favore il ripotenziamento di una cultura diffusiva delle forme bancarie popolari e cooperative, la riacquisizione allo Stato di una banca nazionale per la tutela del risparmio dei cittadini, e la valorizzazione del risparmio collettivo in sede d’impresa.
Conflitti d’interesse. DemocraziaComunitaria propone una più tassativa definizione dei casi nei quali si debba dare esito a una pura e semplice incompatibilità non sanabile.
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. DemocraziaComunitaria ne propone il superamento puro e semplice per esaurimento dei suoi compiti storici. 
Consumo del territorio. Anche l’Italia è diventata un paese che, specialmente in alcune regioni, vede ormai diventare preoccupante il problema del “consumo del territorio”, un consumo talmente vasto e nello stesso tempo abusato, da porre al paese stesso un quesito urgente circa il suo equilibrio ambientale di lungo periodo. DemocraziaComunitaria propone di stabilire un vincolo rigido alla percentuale di territorio consumabile (cementificazione e forme assimilabili di scomparsa del terreno vergine) per ogni unità di costruzione. Inoltre propone di rendere concretamente più severa e snella la funzione di controllo e salvaguardia attiva del patrimonio forestale e idrogeologico del paese.
Costi della politica. DemocraziaComunitaria propone l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, a favore di un finanziamento libero da parte di ciascun cittadino nei confronti del partito in cui si riconosca. Riconosce il valore politico-istituzionale dei partiti nei termini esplicitati dalla Costituzione, e il relativo sostegno, esclusivamente nella forma della fornitura, a ogni formazione politica che abbia rappresentanza in parlamento, di una sede operativa, unica per tutto il territorio nazionale, con spazi limitati alle esigenze di funzionalità essenziali, con corredo di linea telefonica, computer, stampante, collegamento internet e similari secondo ragionevole coerenza. Escluso ogni altro supporto, che è da considerare strettamente riservato alla privata organizzazione del partito medesimo.
Diritto e obbligo della formazione. Fino alla maggiore età la vita dell’individuo è dedicata in misura privilegiata alla formazione integrale della personalità, affidata innanzitutto alla famiglia con il sostegno della scuola: quest’ultima deve costituire, prioritariamente, un sistema pubblico a costi sociali fino all’università, aperto a tutti, nel rispetto per la eventuale scelta della singola famiglia che preferisca rivolgersi a scuole private; le quali ultime non avranno diritto a sostegno pubblico che vada al di là della corresponsione alle famiglie del costo che lo Stato sostiene per ogni suo alunno della scuola pubblica. Le scuole private non potranno comunque rilasciare titoli aventi valore di legge.
Emolumenti per incarichi pubblici. DemocraziaComunitaria sostiene una equa proporzionalizzazione reciproca fra gli emolumenti riservati alle cariche pubbliche, elettive e non elettive, a tutti i livelli compreso quello parlamentare e tutti quelli dirigenziali, assumendo a riferimento i trattamenti previsti dalle normative collettive generali e l’andamento complessivo del reddito nazionale, nonché i carichi di lavoro effettivamente affidati e gestiti.    
 
Esame di Stato per l’accesso alle professioni. Con il riconoscimento del titolo di studio istituzionale esigito per accedere a una determinata professione, ad esempio la laurea in giurisprudenza per lo svolgimento dell’attività legale, o la laurea in medicina per l’accesso alla professione medica, il cittadino acquisisce il diritto di accedere effettivamente a tale professione, senza necessità di ulteriori “esami di Stato” quali lasciapassare, che rappresentano un abuso sia concettuale sia morale sia politico da parte dello Stato e delle organizzazioni professionali nei confronti del cittadino stesso. DemocraziaComunitaria sostiene pertanto la pura e semplice abolizione di tali “esami di Stato” per l’accesso alle professioni, e sottolinea piuttosto la logica, ove sia il caso, di restituire ai titoli di studio rilasciati al termine dei curricoli scolastici istituzionali una adeguata rispondenza di preparazione effettivamente certificata negli studenti.
 
Etica pubblica. L’etica dei comportamenti anche personali è esigita con particolare forza in tutti i soggetti che svolgono funzioni pubbliche. Ogni ruolo pubblico è proprietà morale della collettività ed è incompatibile con qualsiasi comportamento che violi la fede pubblica. Tale eventuale comportamento va perseguito d’ufficio.
Europa. Il ritorno ai padri fondatori, in particolare De Gasperi, Schumann, Adenauer, che anteponevano la messa in comune delle risorse e della solidarietà valoriale alla dominanza economica e finanziaria, è obiettivo esplicito e vincolate di DemocraziaComunitaria.
Farmaci. Impensabile che possano essere ambito di puro e semplice mercato privato, lo Stato cura sia il corretto controllo della loro qualità scientifica ed etica rispetto alla loro funzione di servizio nei confronti della qualità della vita personale e sociale, sia la loro equa accessibilità economica a tutti i cittadini nel quadro del Servizio Sanitario Nazionale.
Finanziamenti pubblici. DemocraziaComunitaria sostiene l’abolizione di ogni forma di finanziamento all’editoria, compresa quella di partito. Sostiene inoltre una politica di rigorosa severità in materia di controlli, in corso ed ex post, sull’utilizzo completo e tempestivo dei finanziamenti pubblici in generale, e sulla loro coerente finalizzazione.
 Fisco, sistema generale. Il controllo della evasione deve diventare più severo in parallelo con la semplificazione normativa e la riduzione della giungla delle differenziazioni impositive. All’autonomia impositiva di regioni e comuni va preferita una partecipazione delle stesse pro-quota nella fiscalità generale. Un trattamento fiscalmente incentivante è giusto prevedere a livello di impresa per gli utili reinvestiti nell’impresa stessa rispetto a quelli distribuiti ad azionisti e lavoratori.
Fisco e trasparenza. Oltre alle imprese-persone giuridiche, anche ogni persona fisica è imprenditrice in senso sostanziale, partecipando al processo produttivo e alla formazione del prodotto interno lordo attraverso il suo lavoro e la conseguente attivazione e spendita del suo reddito nel circuito dell’economia. In tale quadro DemocraziaComunitaria ritiene efficiente, equo e trasparente un sistema fiscale che incentivi la fatturazione di ogni transazione e, tendenzialmente, la generalizzi. Ogni spesa sulla quale viene pagata l’iva deve poter essere dedotta dall’imponibile in sede di dichiarazione dei redditi. Tale sistema consente, oltretutto, attraverso il concreto interesse del cittadino alla fatturazione del bene o servizio acquistato, una lotta efficace alla evasione fiscale ed alla economia sommersa, generando una massa di risorse fiscali tale da consentire anche una significativa riduzione dell’attuale iniqua ed inefficiente pressione del fisco stesso su cittadini e imprese.
Formazione dei prezzi. Un intervento più stringente, soprattutto di controllo, da parte della mano pubblica, è necessario in materia di formazione dei prezzi relativi a beni di pubblica utilità rilevante, come ad esempio la casa, i carburanti, i medicinali, a evitare distorsioni speculative. La stessa mano pubblica non deve escludere il suo intervento diretto come imprenditrice di libero mercato nei casi in cui non vi siano diversi strumenti atti ad assicurare prezzi equi a beni essenziali.
Formazione interna. DemocraziaComunitaria: è soggetto di formazione permanente nei confronti di tutti i suoi aderenti. L’attività di formazione, oltre a essere concepita come permanente e diffusa, è anche articolata fra coordinamento centrale e autonomie del territorio. Tenendo conto della sua missione, l’associazione può offrire opportunità formative anche ai non iscritti.
Giustizia. Lo snellimento dei tempi processuali, la effettiva esecuzione delle sanzioni e la effettiva accessibilità dei costi per tutti sono elemento essenziale per la credibilità e la giustizia amministrata dallo Stato nei confronti di tutti i cittadini, ed hanno importanza fondativa pari a quella della chiarezza, semplicità ed equità delle normative di riferimento.
Imposte, progressività e proporzionalità. DemocraziaComunitaria sostiene un criterio severamente proporzionalista della imposizione fiscale, ritenendo che esso costituisca nel ventunesimo secolo la lettura più avanzata, efficiente ed equa del concetto di progressività espresso dalla Costituzione italiana. Se tutti i cittadini pagano la medesima percentuale di imposte sul loro reddito, ciò costituisce una semplificazione gestionale del sistema e una conseguente facilitazione degli adempimenti relativi, uno strumento di più facile controllo e correzione equitativa degli eventuali squilibri ingiusti nella distribuzione del reddito, e insomma un elemento di trasparenza dell’intero sistema.
Impresa. Essa va sostenuta come bene di inestimabile valore per tutta la comunità; ne va perciò semplificato il processo burocratico di nascita, e facilitata la propensione allo sviluppo, soprattutto attraverso un tangibile snellimento delle normative riguardanti le autorizzazioni, i controlli ed il credito. DemocraziaComunitaria favorisce il modello d’impresa partecipativa nelle sue diverse forme possibili, dalla cointeressenza nei risultati alla cogestione ed alle forme variamente cooperative.
Impresa privata e impresa pubblica. Superando i contrapposti eccessi storici di interventismo assistenzialista e di privatizzazione pregiudizialmente preferenziale, DemocraziaCooperativa è favorevole a una ottica diffusa di liberalizzazione senza privatizzazione, per quanto attiene al campo delle imprese pubbliche che si occupano di beni e servizi essenziali o primari per la dignità e lo sviluppo delle persone. Senza rinunciare alla propria partecipazione diretta nella erogazione di tali beni e servizi, lo Stato e gli enti territoriali di decentramento consentono che l’iniziativa privata, sia con scopo di lucro sia senza scopo di lucro, partecipi competitivamente a tale erogazione, senza sussidi pubblici.
 Innovazione. DemocraziaComunitaria è per introdurre forme di tutela semplice ed efficace per quanti depositano  brevetti o sono autori di importanti  realizzazioni o idee artistiche e culturali. Nei limiti delle risorse disponibili, una politica di premialità per la innovazione efficace è tra le priorità che DemocraziaComunitaria sostiene nel contesto delle politiche di sviluppo.
Intervento dello Stato in economia. E’ possibile ed è doveroso l’intervento dello Stato, come pure, ai rispettivi livelli, della regione e del comune, sia direttamente come imprenditore in regime di liberalizzazione quando si tratti di beni incidenti direttamente sulla qualità essenziale di vita delle persone, sia indirettamente con efficaci politiche di sostegno ai consumi, sempre nel campo dei beni relativi alla dignità e allo sviluppo della persona.
 Lavoro. Fonte essenziale di dignità e fondamento della repubblica, il diritto al lavoro è un diritto soggettivo e non una semplice legittima aspettativa. DemocraziaComunitaria sostiene in tal senso una lettura precettiva della Costituzione. La realizzabilità di questo diritto si fonda su una politica sicura di redistribuzione sia delle opportunità di lavoro sia dei redditi in generale, a cominciare dalla riduzione della forbice immorale attualmente esistente spesso anche all’interno delle imprese. Il trattamento economico della dirigenza deve essere in questo senso collegato e non scorporato da quello di tutti gli altri lavoratori. DemocraziaComunitaria propone la riorganizzazione del sistema pubblico tradizionale di collocamento per trasformarlo in moderno istituto dell’accompagnamento attivo al lavoro. Correlativamente, una concezione precettiva del diritto al lavoro esclude che esso possa venir interpretato come diritto al “posto fisso”. Con pari importanza rispetto alla sua dimensione di diritto, infine, il lavoro è un dovere primario del cittadino e di chiunque viva nell’ordinamento giuridico dello Stato.
Legge elettorale. DemocraziaComunitaria ritiene una democrazia non compiuta, e anzi vistosamente e negativamente limitata, quella che si esprime attraverso sistemi a liste bloccate. Occorre che i cittadini abbiano la possibilità di scegliere persone, o persone e liste, ma mai solo liste. Il sistema elettorale che DemocraziaComunitaria valuta meglio rispondente alle esigenze della democrazia italiana è quello che ha come punto di riferimento il “collegio uninominale secco”. Centralizzando l’attenzione sulla singola personalità del candidato da eleggere, sia egli espressione di un partito o meno, essa stimola il candidato medesimo ad assumersi diretta ed intera la responsabilità di rappresentare la comunità che lo elegge.
Mediterraneo. Il “lago comune” delle tre grandi religioni monoteiste, nostro comune “lago di Tiberiade” secondo la fascinosa espressione di La Pira, è per DemocraziaComunitaria una dimensione di pari dignità rispetto a quella europeista, per una politica del dialogo permanente e solidale.
Mercato. Lo Stato è chiamato a svolgere funzione di garante del mercato per tutte le componenti di esso, operando attivamente, in particolare, per il rispetto e la tutela dei soggetti deboli nei confronti di distorsioni speculative. 
 Numero chiuso nelle università. Va superato in considerazione del valore intrinseco della formazione universitaria, che non può essere concepita come finalizzata al mercato del lavoro ed alle sue esigenze, bensì alla formazione compiuta e integrata della persona ed alla massima valorizzazione concreta della ricchezza culturale di tutta la società.
Onu. Il cammino delle Nazioni Unite è verso un autentico parlamento dei popoli; in tale spirito deve venir sviluppato, gradualmente ma senza attendere, il rinnovamento delle norme regolative del consiglio di sicurezza, sottraendone composizione e metodo di lavoro agli equilibri ormai inadeguati scaturiti dalla seconda guerra mondiale.
Ordini professionali. La semplificazione dell’accesso e una più evidente esigibilità del codice etico sono, per DemocraziaComunitaria, passaggi necessari ma che non escludono il possibile superamento degli stessi ordini, a favore di istituti di più snella, accessibile e trasparente tutela delle garanzie di professionalità e di etica nei rispettivi settori. Anche l’assetto istituzionale degli ordini ha infatti come valore di riferimento il bene comune.
Pandemia 2020. DemocraziaComunitaria è convinta, in linea generale, che le emergenze di carattere straordinario vadano affrontate innanzitutto facendo funzionare bene le strutture, gli strumenti ed i servizi ordinari. Nel caso specifico della pandemia 2020 da coronavirus vanno innanzitutto perfezionate dovunque la efficienza e la qualità del servizio sanitario nazionale. A tale impegno va aggiunto dovunque un supplemento di valorizzazione delle sinergie positive con le realtà della sanità privata e del volontariato ovunque sia possibile. Per quanto attiene a quello che DemocraziaComunitaria ha sempre definito “rischio di pandemia economica e sociale come effetto della pandemia sanitaria”, DemocraziaComunitaria ritiene che le attività economiche ed il lavoro non debbano essere bloccate ma semplicemente e adeguatamente rallentate e distanziate, utilizzando comunque le eventuali misure economiche di ristoro per realizzare occupazione aggiuntiva e investimenti di sviluppo che consentano appunto gli accennati rallentamenti e distanziamenti fisici del lavoro attraverso prolungamenti idonei dei tempi di lavoro e di servizio: mai per realizzare misure di puro assistenzialismo passivo.
Parlamento. DemocraziaComunitaria propone la riduzione del numero dei deputati da 630 a 500, e dei senatori da 315 a 250. Propone inoltre l’abolizione della figura dei senatori a vita di nomina del presidente della repubblica, e la unificazione, in logica di tendenziale unicameralità del parlamento, di un significativo numero di funzioni fra le due Camere.
Pensioni. Così come per la forbice delle retribuzioni all’interno delle imprese, adeguati rapporti di equità vanno costruiti nel campo delle prestazioni pensionistiche, senza eccezioni di categorie e con la universalizzazione rigorosa del metodo contributivo. 
Persona e famiglia. DemocraziaComunitaria è associazione di personalismo sussidiario e solidale. La persona è centro di imputazione di tutti i diritti e di tutti i doveri. Essa si sviluppa innanzitutto nella famiglia, che perciò deve essere protetta a sostenuta attraverso la tutela attiva della paternità e della maternità responsabile, attraverso servizi di assistenza, cura e formazione dei giovani, attraverso una organizzazione del lavoro che oltre ad assicurare il diritto a una occupazione produttiva faciliti forme di telelavoro e flessibilità organizzativa tutte le volte che siano compatibili con le esigenze oggettive della giusta produttività aziendale.  
Posizione costituzionale delle regioni. DemocraziaComunitaria ritiene maturati i tempi per parificare la dignità costituzionale fra regioni attualmente a statuto ordinario e regioni attualmente a statuto speciale. Appaiono infatti ormai superate le ragioni straordinarie che storicamente giustificarono tale differenziazione.
Progressività di pene e sanzioni. Sia la consapevolezza della fallibilità umana in generale sia lo scopo pedagogico che sempre deve accompagnare pene e sanzioni, esige un criterio di oculata ed efficace progressività delle stesse. In tal senso la legge stabilisce per ogni infrazione, sulla base della relativa gravità, la pena o sanzione minima di base: su questa il giudice applicherà in ogni caso di reiterazione di colpa la misura aggiuntiva esigita da equità e giustizia.
Province ed altri enti intermedi. DemocraziaComunitaria propone l’abolizione pura e semplice delle province, e di tutti gli altri enti territoriali intermedi fra comune e regione, fatte salve le possibili libere semplici fusioni o anche associazioni o consorzi di comuni per la gestione di singoli servizi.
Reati economici e finanziari. La certezza e tempestività di esecuzione delle sentenze è prioritaria soprattutto per i casi di violazione della fede pubblica. Si impone comunque una revisione del sistema che restituisca prudenza ed eccezionalità agli istituti degli sconti di pena, dell’amnistia e dell’indulto, particolarmente nel campo dei reati commessi ai danni dell’intera società civile e della citata fede pubblica.
Riferimento culturale e valoriale dell’azione democratico-comunitaria. Esso è costituito essenzialmente da: a. la storia del cattolicesimo democratico in Italia, nella sua interezza; b. la dottrina sociale della Chiesa e gli insegnamenti del suo magistero; c. la Costituzione italiana e tutto il patrimonio culturale e ideale di testimoni ed esperienze di umanesimo laico di consonanti valori, .
Sanità. Il bene primario della sanità dei cittadini non è considerato da DemocraziaComunitaria come appartenente al campo del libero mercato privato bensì a quello del diretto intervento dello Stato attraverso un sistema sanitario nazionale unitario, che pur decentrandosi a livello di regioni e comuni non vanifichi la effettiva uguaglianza fra tutti i cittadini di fronte ad esso. La struttura centrale si sostituirà tempestivamente alle strutture regionali inadempienti o inefficienti, fino a che non siano ripristinate le condizioni di piena adeguatezza di esse. Ugualmente lo Stato farà nei confronti delle eventuali strutture cittadine ove non intervenga tempestivamente la struttura regionale di competenza. L’iniziativa privata opera liberamente e competitivamente nel campo della sanità, nel rispetto delle normative pubbliche che garantiscono la tutela e la promozione della salute dei cittadini come prioritaria rispetto al profitto d’impresa.
Stato di diritto. Ogni legge e normativa pubblica deve prevedere e garantire reale pari dignità e tutela tra il soggetto pubblico e il cittadino o entità sociale intermedia, in sede di contenzioso privatistico. In tal senso devono, ad esempio, essere garantiti i tempi e la certezza di pagamento da parte dello Stato e degli Enti pubblici verso fornitori e prestatori d’opera.
Strumenti e qualità della formazione. Prezzi e contenuti dei libri scolastici e degli strumenti didattici collegati devono andare rispettivamente in direzione di una evidente socialità i primi e di una altrettanto evidente caratterizzazione unitaria e integrata della formazione, i secondi, contrastando le spinte a una separatezza specialistica che DemocraziaComunitaria vede opportuna soltanto al livello universitario. Altresì, DemocraziaComunitaria annette valore essenziale e imprescindibile alla formazione permanente dei docenti, come di tutti gli adulti. 
Tassazione. Il criterio costituzionale della progressività, che trova la sua ragion d’essere nel principio valoriale della equità, va sempre ed in concreto misurato su di essa: vanno pertanto superate le condizioni inique prodotte tecnicamente sia dalla frantumazione distorsiva e sperequatrice delle norme sia da passaggi di aliquota mal calibrati quanto a gradualità.
Titoli di studio. La missione di formare la personalità dei ragazzi lungo tutta la loro vita fino alla soglia dell’università, è prioritaria rispetto a quella del rilascio di titoli di studio formali destinati al mercato del lavoro, e rispetto allo stesso mercato del lavoro, cui invece può essere più direttamente attenta l’università. In tal senso DemocraziaComunitaria propone di approfondire la ipotesi di superamento del valore legale dei titoli di studio, perché l’attenzione della scuola possa più e meglio concentrarsi sull’effettivo impegno formativo nei confronti degli utenti.
Tolleranza e rispetto in campo religioso. La laicità dello Stato si accompagna a una considerazione attentissima dei valori collegati con il riconoscimento della dignità integrale della persona e della dimensione trascendente della vita. DemocraziaComunitaria ritiene che la scuola, in particolare, debba accentuare la educazione alla citata importanza del trascendente ed al rispetto delle diverse vie attraverso le quali la persona realizza la sua esigenza di religiosità.  
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Democrazia Comunitaria

POLITICA: NOI RIPRENDIAMO LA VIA...

La espressione “ritrovare la via” fu di Luigi Sturzo, con riferimento ai grandi fondamenti necessari per una alta ed organica politica laica di ispirazione cristiana.
Il suo Partito Popolare, e la successiva Democrazia Cristiana che ne assumeva l’ispirazione e ne faceva evolvere  il programma, hanno costituito in questo senso esempi storici luminosi (basterebbe pensare allo stesso Luigi Sturzo e ad Achille Grandi per il primo partito, ad Alcide De Gasperi e ad Aldo Moro per il secondo): anche se, con il passare del tempo, hanno pure consentito, nei loro epigoni ed in un universo di adesioni diventato via via vastissimo e diversificato socialmente e culturalmente, esempi a volte mediocri e negativi. Come in genere capita nelle vicende umane, specialmente a partire dalla morte dei fondatori e dalla transizione della prima generazione. Del resto, ben pochi altri soggetti politici possono dire, nel mondo, di avere fatto meglio di questi due.
La storia di entrambi è ormai morta da tempo, come è morta la storia degli altri che, contestualmente con essi, determinarono la politica italiana per decenni. Ne rimangono oggi sparsi segnali soltanto a livello di singole testimonianze di persone e gruppi, anch’essi di diversificato valore morale e culturale; che manifestano sul piano complessivo caratteristiche comuni facilmente riscontrabili: molta buona volontà ma anche molta frantumazione, grande difficoltà ad autodisciplinarsi intorno a regole alte ed effettivamente vincolanti di comportamento e di metodo, prevalente orientamento alla critica degli altri soggetti politici piuttosto che alla costruzione del proprio, mancanza finale di un lider di sicuro e carismatico riferimento.
In questa situazione non sembra esserci molta e fondata speranza di conclusione positiva, a oggi 2021, del tanto auspicato progetto di ripresa organica del relativo movimento. Eppure non ci sentiamo di concludere neppure con un rassegnato quanto diffuso “non c’è nulla da fare, bisogna soltanto aspettare che qualcosa di meglio succeda”. Non possiamo accettare questo atteggiamento per due ragioni: la prima è morale, dato che ognuno deve comunque assumersi in ogni situazione la responsabilità di quanto dipende da lui, la seconda è politica, dato che è sempre meglio partecipare e sostenere le eventuali altre esperienze in atto nelle quali vi siano elementi di positività condivisibili e sviluppabili, piuttosto che limitarsi ad attendere passivamente “tempi migliori”.
Analizzando gli accadimenti degli ultimi trent’anni, ci sembra in realtà esserci stato un tentativo davvero organico e alto (uno solo) per caratura di impostazione morale, valoriale e programmatica, teso a riedificare un partito forte, nazionale e transnazionale, laico e di ispirazione cristiana: ed è stato quello che ha avuto a riferimento coordinativo Gianni Fontana, già deputato e senatore della Dc storica, ministro dell’agricoltura, studioso e cattolico impegnato. Nel novembre 2012 fu celebrato con il suo coordinamento il 19° congresso della Democrazia Cristiana storica, che avrebbe voluto riprendere giuridicamente, politicamente e culturalmente la eredità del partito già scomparso dalla scena politica italiana da oltre un decennio, adeguarne alle esigenze del ventunesimo secolo statuto e programma, riaffermarne ideali, valori e azione.
Ma fu un tentativo stroncato nel giro di poche settimane da un intervento annullatore della magistratura, sollecitato da controinteressati sulla base di istanze giuridicistiche formali, che rivelarono, a noi pare, l’esistenza marginale ma inquinante di ambigui interessi personali o di gruppo connessi sia al vetusto e disperso ma imponente patrimonio materiale della Dc storica (a partire dai non meno di cinquecento immobili) sia a inesauste speranze di riacquisizioni personalistiche e gruppuscolari di potere, sia infine, e soprattutto,  a una visione più ideologica che valoriale della ispirazione cristiana. Salve, naturalmente, le singole lodevoli eccezioni personali di diversi amici.
Da allora, la diaspora democratico-cristiana e popolare si è accentuata e si è dispersa ulteriormente. Avrebbe peraltro potuto venir ricondotta a sintesi alta e unificante, ancora una volta con il riferimento coordinativo di Gianni Fontana,  se non si fosse acceduto incautamente (la valutazione è nostra ma, riteniamo, ben comprovabile) a una scelta tendenziale di “ecumenismo organizzativo” che puntava ad accogliere in spirito di dialogo e unità di cammino tutte e singole le disparate, troppo disparate, realtà gruppuscolari e personali che aspiravano a partecipare all’impresa:  scelta rivelatasi tanto carica di ottime intenzioni quanto minata da mancanza di realismo.
A partire dall’impedito rilancio del 2012, e dal relativo documento di base di impostazione valoriale e programmatica, che era la relazione politica e programmatica presentata da Gianni Fontana, sono stati elaborati comunque via via documenti ulteriori di approfondimento, che consideriamo di alto valore e che fanno fede della piena e coerente adeguatezza e continuità della idea originaria di rinascita e rivitalizzazione del pensiero e dell’azione politica di ispirazione democratico-cristiana, cui manca, dunque, solo “capacità attuativa coerente”: sono stati elaborati, tali documenti, fino all’appuntamento del mese di ottobre 2018, quando parve che finalmente fossero maturate le condizioni di un pieno risanamento di tutte le questioni anche giuridiche frappostesi sul cammino di ripartenza, e fu indetto un nuovo congresso.
Ma toccò proprio a chi scrive la presente nota prendere formalmente atto finale, con rammarico, della assoluta e definitiva insussistenza delle condizioni statutarie e morali necessarie per tale ripresa, a motivo dello spettacolo avvilente di sotterfugi e forzature e falsificazioni e persino tentativi di violenza e proposte mediatorie fra interessi meno ideali e limpidi. Così dichiarammo definitivamente conclusa, almeno per quanto ci riguardava, la questione della Democrazia Cristiana storica. E tutto ciò che è seguito a tale data dell’ottobre 2018 è considerato da noi privo della caratura che occorre per poter rappresentare una speranza di ripresa strutturale per la qualità alta della politica nel nostro paese partendo da quella che fu la Dc storica-formale.  
E dunque, oggi? Oggi noi, con semplicità, umiltà e fermezza, ponendo fine a un tale tentativo rivelatosi sbagliato, decidiamo, semplicemente e onestamente, di riprendere la via originaria ma senza inquinamenti, la via che, dopo il blocco operato dalla magistratura nei confronti del congresso Dc del 2012, era già da noi sostenuta: dare vita cioè a una associazione e rete del  tutto nuova di cittadini di ispirazione cristiana, e laica di consonanti valori, decisi a riproporre semplicemente al paese, e a vivere essi stessi, la testimonianza di quegli ideali d’origine, convinti come siamo della loro altissima qualità intrinseca e della loro valenza e fertilità durature al di là di tutte le provvisorietà e contingenze della vicenda politica del paese, ma anche al di là di qualsiasi richiamo a un continuismo formale con quell’antica storia dei due partiti-matrice.
Non ci importa pertanto più, fra l’altro, il numero delle adesioni ma la loro qualità; non il successo elettorale ma la credibilità della testimonianza; non il ruolo di governanti ma quello di fertilizzatori di bene comune; non il colore delle possibili alleanze ma il loro orientamento effettuale al bene comune.
Ripartiamo con novità, dunque, Urge ripartire. E il modello più specifico intorno al quale ci organizziamo è quello che più volte abbiamo definito “monasteriale”: centralità della persona e insieme solidarietà comunitaria, statuto snello e insieme inderogabile nei confronti di tutti per la sua valenza etica e formativa ancor prima che organizzativa, formazione permanente e insieme integrata e per tutti, programma a scorrimento continuo ma orientato sempre dai valori e principi del bene comune, linguaggio semplice, chiaro, costruttivo.
I documenti principali di avvio di questo rinnovato impegno intendono essere lo Statuto, compresa la sua Premessa di Valori,  e il Vocabolario di programma, entrambi allegati alla presente nota. Si aderisce all’associazione con contestuali: a. accettazione integrale dello statuto stesso; b. versamento della quota annua di libero ammontare (a partire da un simbolico euro), c. firma personale per adesione. L’autore della presente nota provvederà, come ha già in parte fatto nei mesi trascorsi, a completare e mettere a disposizione di chiunque sia interessato la susseguenza storica degli altri documenti che testimoniano e fondano l’itinerario compiuto della presente iniziativa, a partire dalla già citata relazione introduttiva  congressuale del 2012 presentata dall’amico Fontana, e via via attraverso le successive fasi e analisi sviluppatesi presso la sede di Santa Chiara e fino alla evoluzione verso Democrazia Cooperativa e ora Democrazia Comunitaria, senza trascurare il notevole processo ancora in atto di Politicainsieme, di cui pure siamo stati, con Gianni Fontana, iniziatori e animatori.  
Come ogni corpo sociale vivo che nasce, i punti di partenza di questa nuova ripresa di cammino sono dati e certi attraverso questo documento e gli altri poco sopra citati, mentre la loro evoluzione possibile è affidata ai meccanismi di democrazia associativa, partecipativa e pluralista, ivi contenuti, secondo lo spirito ancora una volta sempre idealmente condiviso con l’amico Gianni Fontana.  
Crediamo soprattutto nella vocazione a sviluppo integrale della persona e della comunità, nel bene comune, nella ispirazione cristiana, nella fraternità universale, nel diritto e dovere al lavoro e alla formazione permanente per tutti, nella impresa partecipativa e nella economia di cointeressenza, nella famiglia e nella vita fin dal suo concepimento, nel ruolo attivamente equitativo dello Stato, nella democrazia personalista e solidale. Siamo “Democrazia Comunitaria”.
                                                                                                                                     (Giuseppe Ecca)
Roma, 10 maggio 2021.
 
                                                                                                       °°°°°

P.S. DemocraziaComunitaria, pur operando già da alcuni anni come libero gruppo di amici che condividono ideali, discutono e propongono, ha avviato dunque la procedura di regolare registrazione giuridica della sua realtà associativa. Comincerà pertanto fin dai prossimi giorni la sua graduale attività anche statutaria.
Chi desidera prendere contatto, ricevere il testo dello statuto o il Vocabolario di programma (già ricco di un certo numero di voci ma destinato naturalmente a crescere con gradualità secondo il metodo citato della democrazia associativa) può rivolgersi fin da ora, oltre che al sottoscritto, all’amico Maurizio Principali (democraziacomunitaria@gmail.com) il quale assume in questa fase di avvio il ruolo di referente operativo e politico insieme con lo stesso sottoscritto, salve le determinazioni che verranno fin dai prossimi giorni assunte e comunicate dagli organi provvisori anche per quanto riguarda tutti gli altri amici che concorrono a questa speranza e a questa impresa.
Mi è intanto gradito preannunciarvi che alla unanimità il gruppo di amici citati ha espresso, su mia doverosa proposta, l’auspicio che Gianni Fontana voglia assumere in tale impresa comune il ruolo di presidente onorario a vita, sancito dalla sua storia e dagli ideali condivisi.
Infine, a quanti leggeranno questo messaggio va la nostra richiesta di una ragionevole comprensione per la gradualità con la quale, in prima fase, saremo in grado di far fronte alle sollecitazioni di informativa e di iniziativa, in quanto l’associazione nasce (e di questo ci vantiamo) in assoluta e francescana povertà di mezzi. Siamo tutti volontari e… disponiamo per ora soltanto della nostra sincera buona volontà e dedizione personale. A tutti voi il nostro grazie per l’attenzione prestata anche soltanto a questo messaggio.
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Cultura e società

DAVANTI AL FENOMENO DELL'"IMBAGASCIMENTO DEL LINGUAGGIO"

Quando sentii la parola per la prima volta, pronunciata in un ambiente di studio tutt’altro che maleducato, come è da sempre il Censis di Giuseppe De Rita, rimasi interdetto: avevo capito bene? Eppure sì, la parola era proprio “imbagascimento” e si riferiva alla crescente banalizzazione, a volte trivializzazione, spesso sciatteria, e inzeppamento istupidito di gergalismi e inglesismi, all’interno della bellissima lingua italiana, da parte anche di giornalisti e divulgatori di ogni settore. Fenomeno strano, che in una certa misura ci riporta a tempi lontani, quando l’Italia insegnava arte e civiltà al mondo ma nessuna città italiana, orgogliosamente repubblica o signoria a sé, riusciva ad andare d’accordo con nessun’altra e tutte preferivano un dominatore straniero a un’alleanza con altri italiani. Il fenomeno preoccupante riprende in chiave linguistica? Non è davvero strano che questo fenomeno sia oggetto di studio da parte di autorevole istituto come il Censis, a sottolinearne la gravità. Nel 1917, in particolare, il Censis organizzò sul tema un intenso convegno, del quale riportiamo qui uno degli interventi significativi.
 
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Nel nostro paese è in corso, per dirla con Gadda, un processo di imbagascimento del linguaggio, che è un atto socialmente eversivo.
 
Il linguaggio per noi ordinario (quello dei lettori di libri e giornali… quello degli atti pubblici…) “è sempre meno connotante e unificante: tende a essere sostituito da un lessico gergale, strutturalmente povero, senza articolazioni, segnato da istinti pauperistici e nei fatti vocazionalmente plebeo; diventa sempre meno utilizzabile, quindi, per mobilitare scambi e convergenze di pensiero e opere”.
 
E’ comprensibile che fra noi cittadini italiani non si riesca a stabilire significativi rapporti di dialettica, o almeno di relazione. Il turpiloquio che inonda la nostra vita collettiva non aiuta a capirci, rimuove le relazioni fra i soggetti, anzi è fatto apposta per romperle (si pensi al valore a dir poco distanziante del “vaffa”).
 
Nella storia italiana sono arrivate prima le idee e le parole, e solo dopo sono arrivate le opzioni politiche, l’azione programmatica, l’azione operativa. Le parole che hanno guidato le trasformazioni sociali sono state fatte di atti amministrativi per costruire la macchina pubblica, di libri di testo per fare lo sviluppo scolastico, di retorica indipendentista per fare le guerre…
 
Allora il linguaggio modellava il corpo sociale, oggi sembra avvenire il contrario: la società si disarticola, si scompone, si deteriora, e tutto ciò induce silenziosamente la crisi della lingua.
 
E’ come se la società non volesse o non potesse più crescere, ma volesse restare così com’è, lasciando la lingua a logorarsi nella sua diminuita funzione, nella propensione a esasperare i toni per coprire il vuoto crescente di contenuti.
 
Si scorrazza a piacimento con una grande carica di soggettività anche etica e non senza una forte componente di rancorosità che è dentro i messaggi.
 
L’evoluzione degli ultimi decenni ha creato un enorme, indistinto ceto medio ma non ha costruito una borghesia capace di iniziativa autonoma e di responsabilità.
 
Si può arguire che la cetomedizzazione abbia lasciato come eredità in queste persone un atteggiamento più o meno consapevole di rancorosità per la incompiutezza di un processo che ha messo in circolo anche paure di regressione e di passività economica e culturale.
 
A oggi sembra di poter dire che si vadano delineando due realtà: una di soggettività ancora più spinta, vera “coriandolizzazione” dei comportamenti e dei linguaggi, un’altra di moltiplicazione di nuove tribù di interessi e identità, che a loro vota segmentano il linguaggio.
 
Va tentata l’impresa di risemantizzare la nostra lingua. Ancora, infatti, è la lingua che fa la nazione: se la lingua è povera, anche la società rischia di essere povera.
 
Si è detto che si tratta di impresa “difficilissima dall’alto perché ci vorrebbero troppi cicli di esercizi spirituali di stampo ignaziano”. Si può però egregiamente lavorare per un arricchimento del lessico quotidiano e della sua correttezza, in ottica di ricca poliarchia linguistica.
 
E’ stato detto che:
“Viviamo nel paese dove, sciatto, L’ok suona.
Il maestro mixa fuori delle sale di missaggio.
Il padre cancella panzane e passa a fake news.
Il bidello sbraita voci onomatopeiche.
Il compagno si crogiola nelle trivialità.
Il nonno convivente gronda burocratese.
La mamma non incoraggia lettura idonee”.
 
L’impoverimento nell’uso delle parole è il tema vero di oggi. Che avvantaggia i costruttori di false verità, i propagandisti, i populisti, le tecnostrutture che dietro gli specialismi e gli inglesismi nascondono interessi e poteri. Per uscirne serve rimettere buoni libri in mano ai ragazzi, fin dalle scuole elementari. E insegnare a leggerli, a raccontarli, a farne punto di partenza per una scrittura esatta. Essenziale, ricca di valori e di senso.
 
La lingua ha un potere ordinante (interpretativo) e mobilitante (emotivo) che, insieme contribuiscono a creare identità e destini comuni.
 
Togliatti (per non citare sempre Gramsci), aveva ordinato ai suoi redattori di non evitare le parole difficili e le complicazioni insite nella lingua colta: che gli operai imparassero e non gli si rendesse la vita artificialmente facile.
 
Probabilmente Togliatti immaginava che la classe operaia avrebbe fatto lievitare i suoi valori positivi e profondi: ma accadde che invece essa si imborghesì puntando ai falsi valori della borghesia, consumismo, macchina, frigorifero, vacanze e tinello.
 
Nella scuola andrebbe reintrodotto un principio di severità: ma si concilia il principio di severità con la ricerca del consenso sui cui è basato il nostro gioco politico?
 
Tra il Milleduecento e il Millequattrocento il rapporto fra latino e lingue volgari della penisola fu alto: il latino era correttamente parlato come lingua veicolare e le lingue volgari non venivano volgarizzate. Dante è stato maestro in questo, tanto è vero che oggi capiamo benissimo Dante, mentre un inglese e un francese o un tedesco non sono più in grado di capire le coeve lingue dei loro paesi.
 
Asor Rosa arriva a dire che nel Risorgimento italiano vinsero i moderati e non i radicali perché ai primi il Manzoni aveva dato una lingua capace di dialogare con lessici specialistici e dialetti, cosa che i secondi non avevano.
 
La decadenza linguistica fa parte di quel pensiero unico che ha rivoluzionato la cultura europea negli ultimi quarant’anni. La cosiddetta morte delle ideologie non è che una ideologia più forte delle altre perché si sottrae a qualsiasi verifica critica. E questa ideologia si è impossessata del nostro presente soprattutto a partire dalla rivoluzione mediatica che ci ha travolti.
 
Carlo Freccero osserva: “L’ibridazione della nostra lingua con l’inglese, che non è una lingua neolatina, e la trasformazione della lingua da fini teorici a fini pratici, hanno voluto rappresentare un veicolo per interagire con i nuovi media. La nuova scuola trasferisce l’obiettivo della istruzione dalla “formazione del cittadino” all’”avviamento al lavoro”, da un ideale astratto a finalità concrete, dal pensare al fare”. E lo fa ridimensionando la nostra lingua rispetto ai nuovi miti della comunicazione: l’inglese e il computer. Già adesso è prevista la discussione in inglese di testi classici.
 
La lingua italiana è transitata da strumento di pensiero critico a strumento del fare. E da strumento di letteratura a strumento di manualistica.
 
Oggi la cultura europea non è insidiata tanto da culture diverse, come l’islamismo, ma da appiattimento e depotenziamento, e additata come obsoleta dal pensiero unico.
 
Purtroppo prosperano tribù poliglotte che usano uno standard english ancora più povero dell’italiano standard “scritto come parlato”, da cui partono.
 
Nella primitivizzazione del dialogo si segnala un dettaglio che colpisce: l’immenso uso del turpiloquio nel dialogo tra i ragazzi nei contesti urbani, con particolare maniacalità nelle ragazze, fino all’uso, che purtroppo non è desueto, della bestemmia.
 
                                                                                                                   (Censis, anno 2017)
                 
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Politica e Società

IL CITTADINO IN AFFANNO CON IL SISTEMA SANITARIO PUBBLICO

Ampio estratto da una riflessione di Giuseppe Bianchi, svolta prima che la pandemia rompesse gli argini alterando tante valutazioni diffuse nei tempi di normalità, ed evidenziando punti deboli insospettati, come ad esempio quello lombardo. Tuttavia la riflessione torna a segnalare la necessità giusta di restituire al sistema sanitario pubblico ed alla politica sanitaria una centralità che non è soltanto affermazione necessaria dello Stato sociale ma anche fattore vivo di sviluppo economico e occupazionale.  
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Il rapporto cittadino-sistema sanitario, e soprattutto cittadino-sistema ospedaliero, è decisivo nell’influenzare la qualità del rapporto cittadino-Stato.  Rapporto che oggi viene vissuto in condizioni di stress reciproco: stress dello Stato le cui offerte di prestazioni sono sottodimensionate rispetto alla domanda; stress del cittadino nel percorrere le strade impervie per accedere alle prestazioni richieste.

Stanno così allargandosi alcune crepe nel sistema pubblico sanitario su cui intervenire per mantenere la sostenibilità dell’impianto complessivo.
La prima crepa riguarda il suo carattere universale e ugualitario. Gli squilibri tra domanda ed offerta stanno diffondendo pratiche oblique di accesso alle prestazioni sanitarie e soprattutto a quelle ospedaliere, basate su relazioni privilegiate. La visita privata del primario, la conoscenza di operatori interni, le raccomandazioni importanti, invertono spesso l’ordine di priorità con la penalizzazione dei ceti sociali più deboli.
La seconda crepa è l’arroccamento, a fini di autodifesa, delle strutture burocratiche di gestione (medici e figure ausiliarie) nei confronti di una pressione esterna alimentata da una domanda insoddisfatta. Situazione che provoca stress nelle condizioni di lavoro interne, ma che, nello stesso tempo, dilata l’area della intermediazione clientelare.
Tutti i dati disponibili di natura demografica, finanziaria, tecnologica, concorrono nel dire che le suddette crepe sono destinate ad allargarsi, compromettendo la conquista sociale più importante del secondo dopoguerra.
Non conforta il cittadino l’ormai cronica contrapposizione nel dibattito politico fra sanità pubblica e sanità privata che non rimuove le sue alternative nel caso del bisogno: indebitarsi per lungo tempo se ricorre alla sanità privata o attendere i tempi lunghi (non sempre disponibili) della sanità pubblica a costo zero.
Nel mezzo c’è un’ampia fascia di cittadini che vorrebbe soluzioni intermedie accollandosi una parte ragionevole dei costi. Si tratta di allargare l’offerta di servizi sanitari, integrando investimenti pubblici con investimenti privati, grazie a nuovi modelli di regolazione nell’accesso alle prestazioni sanitarie. E’ il caso del cosiddetto welfare aziendale che vede impegnate soprattutto le medio-grandi imprese nel creare fondi per una sanità integrativa a favore dei propri dipendenti. E’ anche il modello Lombardia la cui politica per la sanità, basata sul regime delle convenzioni, ha dato vita ad una struttura di eccellenza come il S. Raffaele anche se, nello stesso tempo, non ha impedito iniziative truffaldine promosse da investitori privati disonesti.
Ricondurre il sistema sanitario alle sue funzioni inclusive originarie non è un problema solo di regole che attraggono nuovi investimenti pubblici e privati e di più avanzate capacità manageriali ed organizzative. Occorre dare centralità all’autonomia di chi ha la responsabilità di vertice di queste strutture ponendo anche le strutture sanitarie pubbliche al riparo dalle interferenze politiche e da appesantimenti normativi e burocratici superflui.
In questo contesto va recuperata e valorizzata la funzione del controllo interno, non solo nella sua dimensione contabile per evitare ruberie rilevate ex post dalla magistratura anche in Lombardia, ma nella sua funzione di programmare, per poi controllare, un percorso di recupero di sprechi ed inefficienze così da combinare la migliore soddisfazione del paziente con il minor costo delle singole prestazioni sanitarie.
La prima conclusione da trarre è che il tema della salute deve tornare al centro del dibattito pubblico, come lo fu negli anni ’70, anche perché milioni di cittadini traggono dai loro rapporti con le strutture sanitarie il loro giudizio sullo Stato e le sue politiche.
La seconda conclusione deve prendere atto che il sistema sanitario è parte di una filiera produttiva (ricerca, industria, servizi) in grado di concorrere alla ripresa della crescita per soddisfare una domanda interna ed internazionale di salute in continuo aumento. L’Italia ha le competenze per aprirsi alle potenzialità della nuova sanità digitale.
In sintesi il tema della salute non è solo spesa pubblica da contenere ma pilastro potenziale di sviluppo di un sistema articolato e complesso che richiede una gestione pubblica e privata accorta e programmatica.
Una strada perché lo Stato ritrovi la fiducia dei suoi cittadini.  
                                                                               
                                                                                                                     (Giuseppe Bianchi, Isril)

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Personaggi

A PROPOSITO DI DON CAMILLO E PEPPONE

“Peppone e don Camillo…”: e giù risate. Ancora, il grande capolavoro di Guareschi fa sorridere, rasserena e infonde positività. Ma per il misterioso destino che a volte colpisce autentici capolavori e i loro autori, si pensa diffusamente a Guareschi e alla sua opera come a una sorridente descrizione bonaria della realtà dell’Italia dell’immediato dopoguerra, tesa a togliere, quasi per principio, drammaticità e importanza effettivamente decisiva agli eventi che in quella società si svolgevano. Vale invece assolutamente la pena di sottolineare che Giovannino Guareschi è una grande personalità umana, civile e politica, e la sua opera, e i personaggi particolari di Don Camillo e Peppone, oltre che un capolavoro d’arte sono un capolavoro di cultura civile e politica, raffinato e impegnato. Ne riproponiamo una interessante segnalazione specifica.
 
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Guareschi è famoso soprattutto come autore del Don Camillo. Non molti, però, conoscono l’ampiezza della sua produzione, e soprattutto la sua forza di carattere.
 
Quest’uomo ha affrontato ben due prigionie: la prima in un campo di concentramento tedesco, la seconda nelle carceri italiane. Ed entrambe per una pura questione di principio (nel primo caso, in particolare, perché rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò).
 
Moralmente, inoltre, egli era una delle colonne portanti del campo, nonostante la salute declinante (quando arrivò pesava 86 chili; quando se ne andò, 46). Fondò persino una sorta di giornale clandestino: scriveva articoli che poi diffondeva oralmente, leggendoli nelle baracche per rialzare il morale dei compagni. “Signora Germania” fu, appunto, uno dei pezzi più fortunati.
 
In questo brano troviamo la stessa semplicità dei racconti di Don Camillo (una semplicità, peraltro, non priva di ricercatezza, perché tutto il testo è costruito su metafore e simmetrie). Guareschi stesso, infatti, si vantava di usare in tutto 300 parole per scrivere i suoi racconti. E tuttavia è riuscito a comunicare un’incredibile profondità di sentimenti. Ma da dove viene questa forza?
 
Sicuramente le sue scelte lessicali sono provocatoriamente incisive, e lo stile affabile cattura il lettore senza che se ne accorga. Ma non solo: Guareschi si sforza di trovare parole che abbiano un’eco diretta nell’esperienza del destinatario. Parole, cioè, tanto vitali da poter sopravvivere anche in contesti in cui ogni retorica si disgrega.
 
E non sceglie parole di odio, la cui potenza è più immediatamente percepibile. Sceglie invece di richiamarsi ad altre risorse: la dimensione affettiva (il ricordo di casa) e spirituale (la fede religiosa). Questo infatti è, secondo Guareschi, il nucleo profondo e universale dell’anima umana.
E dunque a partire da questo si può costruire un ponte tra gli uomini, ricordando loro la propria dignità. Una vera «fregatura» per ogni riduzionismo ideologico.
 
Ecco il suo pezzo “Signora Germania”, tratto da Diario clandestino:
 
Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. È inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. […] Entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. […] Tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. È inutile, signora Germania: tu non puoi trovare niente, e invece lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia casa, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire. […]
L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania.
 
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MM
 
 

Internazionale

PAPA FRANCESCO IN IRAQ TERRA DI ABRAMO

Nakia Matti Pauls è una carissima amica irachena, cristiana: di quell’antichissima comunità cristiana irachena che, mi ricorda sempre con commozione ed orgoglio, risale fino ai tempi degli apostoli, all’apostolo Tommaso in particolare. Nakia porta oggi dentro di sé le ferite di questa terra, una terra da anni senza pace, vittima del terrorismo ma, prima ancora, delle macerie lasciate da dubitabilissimi interventi della politica internazionale anche occidentale, dopo secoli di convivenza costruttiva fra religioni. Di grande cultura (fu docente e dirigente scolastica per lunghi anni prima di trasferirsi in Italia) Nakia vede nel viaggio-pellegrinaggio di Papa Francesco che oggi è cominciato, il segno di un inizio di ricostruzione di pace finalmente credibile. Forte del dialogo fraterno che in quel territorio le tre religioni monoteiste seppero testimoniare così a lungo: e ce ne parla in questo articolo, pubblicato nei giorni scorsi per la rivista “San Bonaventura”.

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Il logo del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq reca, in alto, la dicitura “Voi siete tutti fratelli” (citazione dal Vangelo di Matteo 23,8), scritta al centro in aramaico, a destra in arabo e a sinistra in curdo, a forma di sole sorgente sull’Iraq, con i due fiumi, il Tigre e l’Eufrate, e le bandiere del Vaticano e dell’Iraq con il suo tricolore orizzontale rosso, bianco e nero e al centro la scritta “Dio è Grande”, sormontate da una colomba che porta nel becco un ramoscello di ulivo. Alla base una palma e Sua Santità in atto di benedire questa terra, martoriata e ferita da aggressioni e violenze.
Papa Francesco intende, con questo viaggio desiderato da anni e voluto anche dal suo predecessore san Giovanni Paolo II (che aveva rinnovato senza sosta e con la massima chiarezza i suoi appelli alla pace nel 2003), portare il proprio amore paterno verso un popolo da anni sofferente, e trasmettere il significato della pace e del vivere in armonia e rispetto fraterno, seppur nelle differenze religiose, etniche, culturali, ecc..., perché l’amore e la misericordia di Dio sono più grandi di ogni differenza. Le immagini del logo simboleggiano per questo la pace, l’amore, l’unità, l’armonia e il rispetto.
Il logo speciale del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq e, in particolare, a Baghdeda (Qaraqosh), è frutto della creatività del giovane Ragheed Nnwaia e della convinzione che “è un dovere usare i simboli storici ispirati alla storia di Baghdeda, e questo è ciò che abbiamo fatto”. L’arco a volta presente nel logo è uno dei più importanti simboli di Baghdeda, denominato “Qantarat Al-Ina”, o “Arcata della Famiglia di Ina”, ora non più presente, ma che resta scolpito tuttora nella memoria e nella coscienza di tutti gli abitanti del Paese.
L’arco a volta fa da cornice all’immagine di papa Francesco, racchiudendola sotto di sè. Tale arco è stato, in passato e per lunghi secoli, un passaggio di accesso al centro di uno dei vicoli della città antica, prima della sua scomparsa, fino a diventare, durante tutti quei secoli, uno dei simboli identitari della città e dei suoi abitanti che l’hanno costruita con le proprie braccia. Al centro di questo arco vi è il Santo Padre nell’atto di benedire. L’arco delinea, nella sua forma generale, anche il profilo della Chiesa cattolica, simboleggiante la storia del Paese ma anche l’antico disegno delle porte lignee delle case di Baghdeda, a richiamare come il Papa entri nelle case di tutti gli abitanti dell’area, come segno del loro amore per Lui. Al centro dell’arco a volta è rappresentato il Santo Padre che porta sulle spalle una stola tradizionale ricamata a mano tipica di Baghdeda (tuttora indossata nelle festività), i cui disegni raffigurano la storia di questo popolo e del Paese, la profondità della sua civiltà e delle sue radici storiche.
L’anziana donna vestita di nero, nell’angolo inferiore a destra, sta a significare la terra che dona con generosità, la madre Baghdeda, madre dei martiri di tutti i tempi e, pertanto, indossa un abito nero, come vuole la tradizione del lutto nel Paese. È rappresentata nell’atto di lavorare all’uncinetto, per sostentarsi e poter sopravvivere in assenza degli uomini, come madre che deve ricostruire la storia di Baghdeda, come dovesse “ricamare”, appunto, e ricostruire la storia stessa del Paese. Si fa riferimento anche al sangue dei martiri come seme di vita: il martirio è un atto normale per i Baghdedani, in quanto cristiani fin dall’origine. Si ricorda il martirio dei due sacerdoti di Baghdeda per mano degli Ottomani, la cui commemorazione cade il 29 giugno (festa dei santi Pietro e Paolo). Essi sono il simbolo di tutti martiri del Paese, compresi quelli della guerra con l’Iran, che ha strappato alla vita migliaia di giovani e, ultimamente, i martiri uccisi dalle bande terroristiche di Daesh/Isis. Viene poi richiamata l’immagine dell’esodo e del ritorno, degli sfollati e degli esuli, fuggiti soprattutto nella metà del 2014, quando gli abitanti del Paese hanno dovuto lasciare le proprie case, le proprie Chiese e la propria storia, in una scena di vero e proprio esodo.

Ma quali sono le aspettative del viaggio del Papa? Si tratta di un viaggio molto importante, una tappa motivata dalla fratellanza universale. Fratelli tuttiè un messaggio molto forte e profondo, una prospettiva che fa abbracciare la civiltà antica con il presente massacrato dalla violenza, dalla crudeltà, dalle guerre e dalle sofferenze. Papa Francesco è il primo pontefice a visitare questa terra e il popolo iracheno che, provato dopo tanta sofferenza e distruzione, ha bisogno di questa visita con la quale il Papa porterà la pace, l’amore, la tenerezza di un Padre verso i suoi figli smarriti e sfiniti dagli eventi vissuti durante tutti questi anni.

Il viaggio del Santo Padre significa tanto per un popolo che proviene dal diluvio, cosi sofferente e provato da lunghi anni di guerra, afflizioni, attacchi, aggressioni settarie e terrorismo, ed è un punto di partenza per intraprendere un dialogo interreligioso, un incontro tra tutte le religioni, rompere la catena del rancore, gli ostacoli e le barriere che si frappongono, al fine di suscitare il sentimento della fratellanza, della collaborazione costruttiva tra tutte le comunità del popolo iracheno, sia a livello religioso che politico, per creare e costruire uno Stato Iracheno moderno e forte, e ridare lo spirito di speranza a tutti gli iracheni e, soprattutto, ai giovani che attendono un futuro migliore.
Il Papa aprirà per tutto il popolo iracheno una porta sul dialogo e il rispetto reciproco, come era una volta: un popolo che conviveva in maniera pacifica con tutti, prima che si intromettessero i nemici nel Paese; prima dell’azione divisiva di alcuni gruppi. Il dialogo e l’intesa tra i cristiani e i musulmani in Iraq non si erano mai interrotti: il Patriarca cristiano seguiva il Califfo musulmano quando questi cambiava la propria residenza, per continuare i loro incontri nell’ambito di un dialogo continuo.
La presenza del Santo Padre rafforzerà i rapporti tra tutte le componenti del tessuto sociale iracheno, sia dal punto di vista religioso, grazie all’incontro tra rappresentanti cristiani, musulmani sunniti e sciiti, ebrei, mandei, yazidi, bahai, ecc ..., sia a livello politico: un evento straordinario, che ridisegnerà gli equilibri interni ed esterni del mondo islamico e cristiano.

Questo viaggio sarà un incoraggiamento ad andare avanti e a restare attaccati alla terra dei propri antenati: alla Mesopotamia, terra del primo uomo Adamo, nel giardino di Eden; terra del padre delle genti Noè, e terra della prima rivelazione di Abramo, nato a Ur dei Caldei; terra della prima legge di Hammurabi, re di Babele; culla dei profeti Ezechiele, Daniele, Naum e Giona (nella cui ricorrenza i cristiani ancora oggi osservano il digiuno tradizionale locale di tre giorni, chiamato digiuno di “Ba’uth Ninawa”, ovvero “Rinascita della gente di Ninive”).
La presenza del Papa esorterà i profughi e gli esuli a tornare nella terra dei loro padri, dei loro nonni e dei loro avi. Il Cristianesimo in Iraq ha messo radici fin dal primo secolo dopo Cristo, per mezzo di san Tommaso apostolo. In passato, i cristiani dell’Iraq raggiungevano quasi 1,5 milioni di abitanti, ma dopo la comparsa di Daesh, si sono ridotti a circa 300-400 mila; nonostante ciò, l’elemento cristiano rimane una presenza meravigliosa e luminosa.

A Mosul, nella Piana di Nineve, il Papa pregherà per tutte le vittime della guerra, nella Chiesa costruita dai Padri Domenicani italiani nel 1762, chiamata Chiesa dei Padri Domenicani; successivamente, vennero i padri domenicani francesi, i quali portarono con sé un grande orologio che fu innalzato su un torre nella piazza della Chiesa e, da allora, la Chiesa prese il nome di “Chiesa dell’Orologio”.
A Qaraqosh, il Papa reciterà la preghiera dell’Angelus nella Chiesa dell’Immacolata (Al-Tahira), costruita nel XIII secolo; sin dall’avvento del Cristianesimo nel Paese, tale Chiesa prese il nome di “Chiesa della Madre di Dio” e, successivamente, “Chiesa della Vergine” (1129), mentre oggi viene chiamata “Chiesa dell’Immacolata” ed è, attualmente, un santuario afferente all’Ordine del Sacro Cuore di Gesù; accanto ad essa, venne costruita la nuova “Chiesa dell’Immacolata”, la cui prima pietra venne posta nel 1932, per essere,
in seguito, costruita dagli stessi fedeli, mossi dal proprio zelo e collaborazione reciproca. Le Chiese presenti a Qaraqosh, in ordine di antichità storica, sono la Chiesa dell’Immacolata (o Chiesa Vecchia dell’Immacolata, attualmente santuario dell’Ordine del Sacro Cuore di Gesù), Chiesa di Mar Zena, Chiesa di Sarkis e Bakos (Chiesa di Sergio e Bacco), Chiesa di Mart Bshmoni, Chiesa di Mar Korghis (Chiesa di San Giorgio), Chiesa di Mar Yuhana Al Ma’madan (Chiesa di San Giovanni Battista), Chiesa di Mar Yacob Al Muqatta’ (Chiesa di San Giacomo l’Interciso), Chiesa Nuova dell’Immacolata, Chiesa dei Martiri Bahnam e Sara (2008), Chiesa della Speranza, di cui è stata posta finora solo la prima pietra.
Nell’area si trovano anche diversi santuari e conventi: Santuario e cappella della Regina del Rosario dei Padri Domenicani (Ordine di Mar Abd al-Ahd), Santuario e cappella dell’Ordine di Maria Vergine Concepita senza peccato, Santuario e Cappella dell’Ordine di Mar Polos (San Paolo), Convento di Mar Yohanna Al-Daylami o Muqertaya, Convento di Mar Qiryaqos, al cui interno è stato, di recente, costruito il “Convento della Croce”, Convento di Gesù Redentore, costruito nel 2009, afferente alla Comunità di Gesù Redentore dei Frati di Gesù Redentore.
è anche interessante ricordare come Qaraqosh è una parola turca che significa “passero nero” e il Paese
ha assunto questo nome durante l’occupazione ottomana; alcune leggende attribuiscono tale nome agli
abiti neri che indossavano gli uomini e le donne del posto. Baghdeda è, invece, una parola persiana che
significa “Casa di Dio”, o“Casa degli Dei”. È difficile parlare dell’identità e dell’antichità di Baghdeda, perché essa comprende molteplici etnie, data la sua funzione di ponte che ha visto il passaggio di moltissime generazioni e di diversi popoli. Si tramanda anche che il borgo di Baghdeda sia di origine aramaica, mentre, secondo altre versioni, sarebbe di origine araba; la lingua parlata è l’aramaico, nella sua versione dialettale locale.
 
                                                                                                                      Nakia Matti Pauls
                                                                                               (lavora presso l'ambasciata della Repubblica dell’Iraq in Roma)

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MM

Magistratura e politica

MBEH... E VOI?

Ministro della giustizia nel nuovo governo Draghi è Marta Cartabia, che viene dalla esperienza prestigiosa e autorevolissima della Corte Costituzionale, e della quale pare fondata una opinione largamente positiva. Costituisce dunque la speranza di un ministero autorevole e rigoroso, attivo, credibile e responsabile. Il paese ne ha bisogno, davanti a una situazione lenta, burocratica, a volte inaffidabile, quale è attualmente quella della giustizia italiana. A sintetizzarne le problematiche di fondo ci sembra utile ripubblicare una riflessione risalente al 2016, che prendeva spunto dalla recente (in quel momento) nomina di Pier Camillo Davigo alla presidenza dell’Associazioni Magistrati.
 
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Piercamillo Davigo, diventato da una manciata di giorni presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, alla notizia della sua elezione mi ha immediatamente fatto tirare un respiro di sollievo: perché quella di Mani Pulite, alla cui squadra storica egli appartiene, fu una fase di forte presa di coscienza del nostro paese su sestesso e sul suo incamminamento civile e politico da correggere.
 
Perciò, in un lampo, ho pensato (e per la verità penso tuttora) che un nuovo tassello di speranza si possa inserire nella travagliata situazione italiana proprio grazie alla sua azione.
 
Certo, furono anche commessi degli errori, da parte di quella squadra di magistrati, e specialmente da parte dell’irruento Di Pietro (basti ricordare il gaglioffo avviso di garanzia consegnato a Berlusconi proprio nei giorni nei quali il tronfio ma povero arcorino rappresentava, come capo del governo, il nostro paese in una importantissima assise mondiale; oppure qualche probo cittadino chiamato in causa e mandato avventatamente in carcere, e scosso nella reputazione, prima che il fondamento delle sue responsabilità venisse davvero chiarito): ma fondamentalmente vivemmo, in quella stagione storica e grazie a quella squadra di magistrati, una fase per la quale il paese ebbe un soprassalto di coscienza che avrebbe potuto costituire l’inizio di una grande ripresa anche etica, solo che la classe politica, la scuola, il movimento sindacale, altri gangli importanti della vita italiana, e la stessa magistratura nella sua complessività, avessero saputo coglierne l’opportunità per innescare potentemente e costantemente un’azione correttiva e moralizzatrice sui comportamenti pubblici e privati.
 
Non fu così ma, per le coscienze limpide, “Mani Pulite” resta tuttora un esempio di iniziativa reattiva di responsabili della cosa pubblica davanti a momenti di crisi, da non dimenticare e da cercar di reiterare, in ogni settore della vita nazionale, a cura di ciascuno di noi per quel che a ciascuno di noi sia possibile.
 
Piercamillo Davigo, dunque, con la sua elezione a presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati  ha riacceso oggettivamente una speranza che io credo possa ancora essere coltivata. Ma non posso negare, nello stesso tempo, che dopo appena qualche giorno dalla sua elezione, in questo stesso scorcio di fine aprile, egli ha riacceso anche un inquietante quesito. Se ho capito bene il riferimento della notizia televisiva che ho colto quasi per caso in quei giorni, egli ha rilasciato una dichiarazione, o intervista, nella quale ha perentoriamente ed esplicitamente affermato che “la classe politica italiana, dopo Mani Pulite, ruba più di prima e si vergogna di meno”.
 
Una dichiarazione pesantissima, che è assolutamente rispondente al vero anche nella mia coscienza: è infatti la medesima opinione che io stesso mi sono costruito in questi lunghi anni di esperienza di vita, immerso nel mare agitato della nostra società, comprese vicende e uomini e donne politici, amministratori, accademici, operatori economici, insegnanti, professionisti di ogni settore, semplici cittadini di ogni specie e territorio e ruolo.
 
Rubano assolutamente di più, e si vergognano assolutamente di meno. Per scrupolo doveroso di coscienza ho provato a chiedermi, molte volte, di fronte a tale drammatica constatazione, se non possa trattarsi in realtà di altro fenomeno: quello secondo cui, come a volte viene osservato, “non è che si rubi di più: è che ora le cose si sanno di più…”. Ma ogni verifica effettuata mi ha smentito: è vero che si ruba proprio di più, e ci si vergogna proprio di meno.
 
E questo terribile stato di cose non è l’effetto paradossale di Mani Pulite, come pure è stato insinuato da qualche superficiale: Mani Pulite è stato un banco di prova che ha semplicemente dimostrato alla parte peggiore del paese che, se si lasciano crollare contemporaneamente tutti i sistemi formativi del paese stesso, e se altri gangli vitali del paese non concorrono attivamente nella ripresa morale del costume diffuso, questa è la fine che il paese tende a fare: cioè, le cose non soltanto non migliorano ma possono peggiorare.
 
Ora, i sistemi formativi del paese, appunto, sono stati fatti crollare: tutti e contemporaneamente. Nel giro di trent’anni. Quelli dei partiti, quelli dei sindacati, quelli aziendali (dove c’erano), quelli amministrativi, persino quelli militari (almeno in parte, a me pare) e quelli generali e istituzionali, a cominciare dalla scuola di Stato (ma non esclusa la scuola cattolica: non si illudano i miei fratelli di fede!). Né altri gangli vitali del paese hanno testimoniato una capacità reattiva di fronte alla china negativa: non il sindacato, ad esempio, né la pubblica amministrazione… In questo quadro è comprensibile e logico, dunque, che si rubi di più, e che rubino di più soprattutto i politici, per il semplice fatto che tendenzialmente hanno più occasioni e più potere per farlo.
 
Nonostante ciò, Piercamillo Davigo ha sbagliato il suo intervento (e questo mi è molto dispiaciuto) in  almeno due dimensioni:
 
  • Quella dell’analisi; in effetti non “ruba di più” la classe politica, ma la più complessiva classe dirigente del paese, a cominciare da quella amministrativa (dirigenti e funzionari con poteri di rappresentanza e firma, centrali e periferici, a volte di fatto più potenti dei politici a cui formalmente rispondono: e mi pare addirittura che, in proporzione, le regioni e le realtà locali siano più pasticciate dello Stato) e rubano non meno, secondo le loro possibilità, tanti impiegati, pubblici e privati, giovani e vecchi, acculturati e non; rubano anche tanti operai, quando capita, fra gli attrezzi di lavoro, ruba in generale tanta “gente comune”; lo fa diffusamente: si ruba la carta igienica nelle scuole da parte dei bidelli, si rubano fotocopie negli uffici pubblici da parte degli impiegati, si rubano ore di lavoro facendocisi timbrare il cartellino di lavoro da colleghi corrotti, si rubano dichiarazioni false di malattia facendocisi prescrivere diagnosi false da medici di famiglia impossibilitati a verifiche – se io mi presento al medico accusando forte emicrania è oggettivamente difficile che il medico riesca ad accertare la mia bugia - si rubano, al contrario, da parte di sanitari corrotti, parcelle per prestazioni mediche non necessarie ma prescritte a pagamento per suddividerne i proventi con altri colleghi sanitari ugualmente corrotti, si rubano garze e medicamenti vari da parte di infermieri; e credo di capire che si rubi persino tra i militari, dalle dispense delle mense di caserma o da occasioni similari; hanno colto in flagrante persino il prete sbagliato di Montecassino, abate per gli onori del mondo, che rubava sulle elemosine….
 
E lo si fa effettivamente con sempre minore vergogna e con sempre minore scrupolo nonostante che si possa constatarne facilmente una delle più macroscopiche conseguenze nel fatto che, per limiti di bilancio, vengono poi fatalmente a mancare i giubbotti antiproiettile per i militari esposti in servizi pericolosi, o la carta igienica per i bimbi nelle scuole…).
 
Vi prego, ora, mentre leggete, di non eccepire un eccesso di genericismo in queste mie parole: non sto dicendo che “rubano tutti”; il nostro paese infatti è anche stracolmo di persone oneste, positive, e non raramente eroiche (altrimenti non avrebbe spiegazione la montagna di cose belle che esso continua a esprimere ogni giorno); sto dicendo che il vizio del rubare, diretto e indiretto, è diffuso e trasversale; ruba in tal senso, infatti, ad esempio, anche il direttore generale che usa il suo potere per attribuirsi lo stipendio che gli aggrada senza rapportarlo in alcun modo al quadro generale dei trattamenti economici  della sua azienda; ruba anche l’alto dirigente che approfitta della macchina aziendale per mandare in gita sua moglie a far compere, a volte persino accompagnata dall’autista; ruba il sindacalista che utilizza il suo permesso sindacale metà per assistere i lavoratori e metà per andare a pesca, ruba il vigile urbano (qui a Roma ne hanno arrestati un paio anche i giorni scorsi) che, mellifluo e sornione, entra ogni giorno proprio in quei bar a prendere cornetto e cappuccino e lancia messaggi ammiccanti e infastiditi al gestore che non ha ancora capito che quei cornetti e cappuccini lui non deve pagarli, ruba l’amministrazione comunale che fa truccare i segnali di traffico limitato per indurre in errore gli automobilisti e “fare cassa” …
 
Molto meglio avrebbe fatto Davigo a precisare il carattere davvero trasversale di questo scivolamento civile ed etico diffuso nel paese: chiarendo certo, come è giustissimo, che i politici hanno maggior colpa e maggior responsabilità in quanto hanno più potere; e chiarendo coraggiosamente anche, nello stesso tempo, che… rubano pure i magistrati! Come le cronache recenti ci fanno vedere con crescente chiarezza, e come anche a noi pare di capire dietro troppe cose che non funzionano e che non chiamano affatto in causa scarsità di mezzi o di organici: magistrati che chiedono sistemazioni per parenti in cambio di condiscendenza nelle sentenze, magistrati con tenori di vita poco facilmente compatibili con i pur dignitosi stipendi, magistrati con elenchi di consulenti tecnici un po’ troppo ricorrenti, magistrati le cui telefonate intercettate dichiarano sensibilità tutt’altro che indubitabili…;
 
  • Quella del metodo; nella sua nuova responsabilità di rappresentanza, Davigo ha un potere preziosissimo, che può usare con grande efficacia positiva, educativa e di giusta pressione culturale, professionale e morale, nei confronti della politica e della opinione pubblica, proprio per il passato forte e credibile da cui proviene: ma questo deve dettargli la saggezza di giocare la partita, nella guerra contro la corruzione, attraverso i suoi atti e comportamenti concreti di rappresentanza, che sono appunto, per loro natura, suscettibili di esercitare effetti pesantissimi di condizionamento benefico nella cultura istituzionale e giuridica del paese e nei conseguenti comportamenti; rispondendo caso mai con la consueta chiarezza alle domande che in relazione a tali suoi comportamenti gli vengano fatte dalla stampa: non deve invece servirsi di dichiarazioni o interviste polemiche rivolte alla pubblica opinione, scendendo nel campo della contesa miserabile fra fazioni (nel caso specifico, quella dei magistrati e quella dei politici, che tali diventano quando pongono il dibattito su questo piano), come è accaduto crescentemente negli anni a noi vicini.
 
Perché tale modalità gli fa correre il rischio altissimo e immediato di squalificare sestesso, le sue intenzioni e la sua credibilità, e di far perdere al paese la grande e preziosa occasione che il suo ruolo può rappresentare: quella della ripresa generale, appunto, di una speranza e di una coscienza civile alta e diffusa, capace di tornare a esprimersi anche attraverso rappresentanti ben visibili e credibili per esempio di vita e non per dichiarazioni televisive o interviste alla stampa.
 
 
Detto questo per rammaricata riflessione personale, mi pare però utile, nello stesso tempo, riproporre alla riflessione di tutti noi un altro pensiero fondativo di grande positività espresso dallo stesso Davigo lo scorso anno 2015:
 
“Mi è stato detto che è troppo difficile fare indagini sulla corruzione. Negli Usa, dopo le elezioni, mandano agenti sotto copertura a offrire denaro agli eletti: coloro che lo accettano vengono arrestati. A ogni elezione ripuliscono la classe politica.
E… quando qualcuno mi dice che rubano tutti, gli chiedo se ruba anche lui. Siccome mi dice di no, gli rispondo: “Neanche io. Come vede, non è vero che rubano tutti”. Occorre saper distinguere e prendere le distanze da chi ruba, anche se è della nostra parte politica”.
 
Questo sì, mi pare un pensiero e un approccio davvero giusto.
 
                                                    
                                                                                                                             Giuseppe Ecca
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MM
 
  
 

Racconti di vita

LE PALME SICILIANE

Con semplicità di stile e linguaggio, le emozioni di una coppia di siciliani che dopo tanti anni di vita in Australia riescono a rivedere la terra da cui, ancora giovani, dovettero emigrare. Emozioni semplici ma profondissime. E  l'intramontabile dualismo della Sicilia e di altre regioni d'Italia: bellezza a profusione, quanto in nessun'altra terra al mondo, ma disordine e negligenza organizzativa. Il racconto è semplicisismo, sincero come una testimonianza commossa: non ha velleità letterarie ma il sapore della vita vera ed intensa. Fu la caratteristica nobile del "Premio Prato Raccontiamoci"
 
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Le palme di Palermo si protendevano maestose contro il cielo di un azzurro terso, un azzurro così intenso che forse solo la Sicilia può vantare. Era un raggiante mattino di primavera e svettavano festose come per dare il benvenuto a quell’aereo che arrivava da molto lontano e che stava per atterrare all’aeroporto di Punta Raisi. Fu in questa atmosfera radiosa che giungemmo in Sicilia e dall’aeroporto ci accompagnarono al “Grand Hotel Villa Igiea”. Dopo avere sistemato i bagagli e fatto colazione, intraprendemmo la nostra indimenticabile gita per le vie di Palermo: prima tappa il Teatro Massimo, paradiso dell’Opera. Una sola parola mi viene in mente per definire Palermo:  “incanto”; perché è proprio un incanto per gli occhi e per l’animo poter ammirare e godere delle sue superbe e grandiose opere antiche che ti scaldano il cuore. Fonte inesauribile dove poter bere per placare la bramosia di chi è sempre in cerca della perfezione.
E cosa dire dei quartieri caratteristici che abbiamo visitato dopo pranzo, i Quattro Canti e Vucciria, dove batte particolarmente frenetico il cuore di Palermo e dei suoi abitanti? E’ proprio lì che abbiamo comprato i souvenir da portare ai nostri amici rimasti in Australia. Anche quel giorno la città di Palermo era stupenda. Un corteo brioso di palme ci accompagnava nella nostra passeggiata  per rallegrarla e accoglierci con calore nella nostra terra, la nostra amata Sicilia che un triste destino ci ha costretto a lasciare e dove il nostro cuore è però sempre rimasto. Se ci penso, un dolore immenso mi stringe e amare lacrime mi solcano il viso e non riesco a fermarle. Le palme di Palermo, con la discrezione di chi non vuole entrare prepotentemente nei sentimenti della gente, e con timidezza, si avvicinano a me, raccontando il dolore della nostra amata Sicilia alla quale sono stati strappati i figli; e il mio dolore, mescolato al dolore della mia terra, si cheta.
Le palme di Catania si rincorrono per le vie, in fila come soldati in marcia sotto l’occhio vigile dell’Elefante, che dall’alto del suo piedestallo le guida, le guarda con stupore  e meraviglia, mentre gode alla vista del vibrante paesaggio disegnato con maestria dal pennello del Creatore. Nel nostro cammino incontriamo il teatro Vincenzo Bellini, che ci saluta allegramente e con ansia ci attende per applaudire i nostri grandi artisti siciliani: e il loro spettacolo è un inno alle maestose bellezze cittadine, e un invito a visitarle.
E Catania ci sorride col suo Duomo e con Sant’Agata, e su tutto sovrasta maestosa e imponente l’Etna. E’ difficile sottrarsi al suo fascino, alla magia di un paesaggio che la lava ha reso quasi lunare con crateri profondi dappertutto. Il rantolo della montagna ci accompagna, non si ferma un attimo, essa è viva, brontola ed è presente col suo forte respiro su di noi, la sua naturale bellezza e maestosità rimane impressa nella mente e nel cuore di chi ha la fortuna di visitarla e bearsi della sua bellezza ammantata di neve bianca e pura.
Siamo in cima, oltre i 2.500 metri, e sotto di noi si dondola Catania, bella e splendente tra l’azzurro mare e le sue palme che fiancheggiano il litorale svettando gioiose: un caloroso saluto è rivolto a noi, e i rami delle palme mossi dal vento si tramutano in braccia che attendono il nostro ritorno per stringersi a noi nella confusione della città. Anche l’ombra delle palme dell’Etna sovrasta i nostri sogni: esse sono cadute nello sfacelo delle eruzioni e risorgeranno quando brillerà per sempre il sole e la tranquillità regnerà suprema.
Quella sera, al termine della passeggiata, come sempre corsi a letto per leggere un pesantissimo libro che avevo comprato in una delle librerie di Catania; il mio hobby preferito, leggere a letto, mi accompagna sempre: non posso dormire se non ho un libro tra le mani; ma questa volta la stanchezza mi fece addormentare di colpo e il libro volò pesantemente sul mio viso facendomi strillare dal dolore, le mie mani si tinsero di sangue e mio marito, che guardava la tv, mi raggiunse subito e alla vista del sangue sulla guancia si spaventò e corse a chiamare il direttore dell’hotel, il quale mandò un’infermiera a medicarmi;  ci vollero anche due punti. Mio marito mi disse accorato: “Spero che adesso ti passi il vizio di leggere a letto, visto che per giorni dovrai andare in giro col cerotto in faccia!”. Ma il vizio non posso toglierlo, è radicato in me da sempre e pazienza se ogni tanto un libro cade sul mio viso provocando anche fragorose risate successive quando qualcuno s’accorge che porto i segni del reato.
A Caltagirone, poi, la bellezza delle palme rigogliose si confonde con quella dei mosaici e delle ceramiche che si propongono superbi, nella maestà della loro arte, per ammaliare i visitatori; ma palme bellissime e tante, tutte in fila, fanno bella mostra anche nel moderno Centro dei Negozi dandogli un fascino esotico e un’attrazione speciale per il turista, che esulta di felicità.
Sicilia mia, ad ogni passo bellezze rare, immagini superbe che s’imprimono nell’anima e che ci portiamo dentro, nella fortezza inespugnabile del cuore, per illuminare, con la loro luce, i nostri giorni nel ricordo delle meraviglie che un lontano giorno abbiamo lasciato, inconsapevoli di quanto dolore avremmo dovuto sopportare.
Due settimane favolose in giro per la nostra Sicilia, e sempre le palme ci hanno abbracciato con amore e calore, fedeli, seguendoci come nostri compagni di viaggio ovunque! Le palme di Vizzini ci hanno stretto al cuore come il figliol prodigo al suo ritorno, baci e carezze con il sole caldo di giugno che profumava di oleandri e gelsomini, e il calore della nostra casa che ci aspettava con l’ansia dell’attesa più viva.
Poi la passeggiata in piazza Umberto I, nell’atmosfera tesa delle elezioni regionali e dei comizi, che come al solito ci hanno messo davanti a uno spettacolo diverso con ingiurie e parolacce, fra i diversi partiti, che volavano come mosche ronzanti nell’aria diventata pesante.
Vota per questo, vota per quello, vota per lui e la Sicilia brillerà di luce e sfolgorerà di benessere perché questo gran signore è carico di generosità verso i siciliani tutti, specialmente verso quelli che vivono all’estero come voi...”. Okay, voteremo per questo gran signore che porterà ulteriore paradiso in Sicilia…  
L’indomani, domenica, ci siamo incamminati, colmi di buona volontà, per il Viale Margherita, sotto la protezione delle palme cariche di gioia fra i raggi di sole di un brillante mattino. Cammina e cammina, non trovavamo la sede delle votazioni dove ce l’avevano indicata. Chilometri e chilometri ma non la trovavamo, non sapevamo dov’era ed eravamo  di nuovo stranieri nel nostro paese!
Non c’era nessuno per le strade, dato che si passeggia con le macchine; io e mio marito continuavamo a camminare non sapendo dove andare di preciso. “Ma chi ce l’ha fatto fare ad accettare di votare? Nessuno in realtà penserà a noi, non ci hanno mai dato niente, siamo noi che abbiamo dato tutto, anche il cuore che è rimasto impigliato qui nonostante tutto”.
Finalmente una macchina si è fermata: era un amico, che ci ha chiesto dove andavamo; ci ha indicato poi a gesti la direzione giusta ed è ripartito come un razzo. Noi allora, camminando ancora tra mille sospiri e qualche imprecazione, siamo arrivati ad un edificio nuovo dove però non c’era nessuno ad accogliere questi poveri votanti stanchi: tanto qui il voto non è obbligatorio, se non voti non t’appioppano una pesante multa come da noi in Australia, e quindi se ne fregano tutti: ecco l’Italia dei menefreghisti che salta fuori. Gira di qua e gira di là, finalmente un giovane ci ha indicato dove andare per votare e quindi abbiamo fatto il nostro dovere, anzi siamo forse stati gli unici a farlo, dato che tutto era immerso nel silenzio più assouto.
Stanchi e sudati siamo tornati per riposarci sotto le palme del Viale Margherita, con un bel gelato da gustare prima della passeggiata alla villa e in piazza Marconi, a due passi da casa nostra; ci siamo seduti aspettando i miei fratelli, che ci avrebbero portati a mangiare al meraviglioso ristorante delle grotte della Cunziria, dove Alfio e Turiddi hanno duellato nella Cavalleria Rusticana. Nessuno ci ha ringraziati per aver votato, dopo averci pregato di farlo, e perciò ci è sembrato giusto dire “grazie” al nostro amico deputato rilevando che ci aveva mandato a votare nella più lontana sede che c’era, a noi del tutto sconosciuta; vicina però almeno al cimitero, dove invece delle palme ci hanno salutato i cipressi, che cupi e solitari sfilano in lunga processione per proteggere i nostri morti.
Ora, finita la bellissima gita, ci rimane comunque il dolce ricordo delle tre settimane straordinarie che abbiamo trascorso nella nostra bella Sicilia, bella ad ogni passo, un tesoro inestimabile scolpito per sempre nel nostro cuore nonostante abbia sulla guancia anche il ricordo del bacio un po’ violento di un libro. Un ricordo del tutto speciale rimane nel nostro cuore per la splendida settimana trascorsa nella nostra bella Vizzini, dove le radici sono rimaste per sempre ben attecchite e rigogliose. E tuttora un fluido magnetico mi scorre nelle vene pensando a quei momenti di grande gioia ed euforia. Stare insieme ai miei fratelli, ai miei nipoti e alle mie simpaticissime cognate è un evento raro che rallegra i cuori di meravigliose rimembranze adesso che la lontananza ci separa di nuovo come un castigo.
Ammiro anche le palme di Melbourne, verdissime, vibranti di luce e di mille sfumature, e quando sfrecciano svettanti verso il sole io mi sento in Sicilia. La mia Sicilia, colma di spassosissimi ricordi giovanili che m’inebriano di emozioni i sensi e l’anima.
La mia Sicilia luminosa di storia millenaria che è racchiusa nelle chiese, nelle cattedrali, nei templi e nei teatri greci, nelle catacombe, negli edifici in genere e in ogni via, anche nell’aria che è sempre esultante di magia. La mia dolcissima Sicilia, per sempre, nel cuore!
                                                                 
                                                                                                                                 ("Premio Prato Raccontiamoci", autrice anonima)

 
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Religione

DIO MIO PADRE

Il cristianesimo chiede adultità di adesione senza accomodamenti, e offre risposte senza trucchi a tutto l’uomo su tutti gli interrogativi dell’uomo: anche quelli che, di primo acchito, ci sembrano più complessi da affrontare. Il Padre Nostro, ad esempio… Comincia a rifletterci, introduttivamente, Viscardo Lauro.
 
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Credo in Dio Padre Onnipotente… Sublime, spinoso, inquietante, il Dio Padre ha sempre affascinato e fatto discutere. Il problema di Dio che si complica coi mille incerti della figura del padre, pensa tu…I maestri della psicanalisi hanno pagine indimenticabili sul personaggio-padre nella religione. Su tutte, il rapporto Dio-Abramo: fede a mille e mille domande senza risposta. E la figura del Padre, fondamentale nelle religioni, resta decisiva all'interno della nostra coscienza. Padre nostro che sei nei cieli: che scossa stringere a messa un'altra mano tremante come la mia. Padre nostro che sei nei cieli: pochi secondi, un minuto al massimo, ed è un piccolo paradiso.
 
Eppure…
 
Eppure in tanti di noi (e quasi ci vergogniamo ad ammetterlo) quante volte è affiorata una
punta di dubbio o di incertezza e perfino, ahimè, di rifiuto. Da rileggere l'inquieto romanzo di
Albert Camus La peste. La città di Orano è isolata, la paura dilaga di strada in strada, il
gesuita padre Paneloux è sotto accusa da parte del suo amico medico: come spiega la
religione una sciagura così grande? Dov'è il Padre vostro in questi giorni? Resta forse nei
cieli e abbandona i suoi figli? Dov'è finita la Provvidenza che tanto aveva illuminato le
pagine della peste nei Promessi Sposi?
 
Dio mio Padre. Chi è il Padre a lettere maiuscole, chi è quel personaggio che mi porto
appresso dall'infanzia? Chi è Il Padre. Attenzione, ho detto Padre, non semplicemente Dio.
Il Dio Padre delle antiche religioni nasce sulla figura rassicurante e temuta del capoclan, il grande anziano a cui spetta l'ultima parola: lui dice e decide, lui benedice e condanna. Nozze, parentele, guerre, patrimoni, transumanze e alleanze: a tutto provvede il Padre. Tutti lo venerano e tutti gli obbediscono. Tutto può il Padre Patriarca perché tutto dipende da lui. Questo il modello mentale che costruisce l'antica religione del Padre Onnipotente e soprattutto questo il modello religioso di figliolanza. Il figlio dipende e china la testa; il figlio forse rivolge domande ma alla fine subisce; a occhi chiusi il figlio accetta e si fida. È il Padre che decide il suo bene e dalla sua mano qualsiasi cosa. Il Padre promette la terra, il Padre sceglie la moglie e il Padre garantisce il futuro, magari prospero come un firmamento di stelle o una sabbia del mare. Dio mio Padre, mio calice e mia eredità reciterà poi il salmo. Scorrono sotto i nostri occhi le storie indimenticabili di Abramo, di Isacco e Giacobbe nel libro di Genesi; scorrono le strabilianti vicende di Mose nel libro dell'Esodo: la colonna di fuoco, la nube, la manna dal cielo, l'acqua dalla roccia, il serpente di bronzo che guarisce le piaghe. Premuroso, amoroso, sempre presente, il Padre.
 
Tutto facile, tutto bello, tutto scontato? No, non tutto torna e non tutto convince. Vediamoli
più da vicino quei testi e facciamoci pure qualche domanda (che spesso ci resta sulla
punta della lingua).
 
Il Dio di Abramo. Un Dio migratore che fra mille incognite guida clan e famiglia verso la
terra promessa: acquisti, piccoli scontri, alleanze. Un Padre assoluto al quale non si fanno
tante domande e una figliolanza vissuta talvolta in un vuoto di stomaco. Già estatico sotto
il cielo stellato Abramo è ora tremante e incredulo di fronte al tragico destino di Sodoma e
perfino atterrito alla voce che gli chiede il sacrificio dell'unico figlio. Una figliolanza incerta
e sofferta, quella di Abramo
, altro che facile.
 
Il Dio di Mosè, un Dio nomade e guerriero che non si fa scrupolo a invadere distruggere e
conquistare. E una figliolanza ancora più traumatica aspetta il giovane condottiero che
aveva sfidato Faraone. Lanciato in un'avventura senza margini chiari, pressato da clan e
da famiglie sempre più insofferenti, Mosè ha un continuo bisogno di interrogare il Padre.
Una missione, la sua, sempre più intessuta da angosce. Lo stesso colloquio che ogni tanto
riesce a strappare al Dio Padre si rivela un evento faticoso, appartato, segreto,
interminabile, quasi uno straziato oracolo da sibilla. Non tanto un privilegiato, Mosè, quanto un solitario e tormentato arrampicatore delle creste del Sinai. O magari un taciturno frequentatore della famosa Tenda del Convegno, il cubo vuoto e muto dove il Padre
pastore gli parlerà senza mostrare il suo volto. Ogni volta sarà supplica, trattativa impari,
grido: un'autentica lotta per strappare una clemenza e per ottenere un perdono quasi
impossibile. E per chi? Per gente ingrata, incredula, inquieta, scontrosa, insopportabile. Da
quel colloquio col Padre Pastore, Mosè esce prostrato, esausto, intrattabile: profeta
sconfitto, mediatore senza gloria e (ultima grande amarezza) mai gli sarà concessa la
terra promessa. Figliolanza non facile e proprio non incontra i nostri desideri. Da rivedere il
Dvd Moses et Aaron di Arnold Schoemberg: mentre il popolo corre ormai appresso ad
Aronne, il nuovo accomodante profeta, Mosè si accascia perdente al centro della scena.
Un finale da brivido.
 
La paternità di Dio resterà per secoli il lato più fascinoso ma anche il fianco più esposto
delle religioni che da lì a poco tenteranno di svincolarsi dalla stretta. Difatti. Non appena le
scuole pitagoriche, stoiche o socratiche si lanceranno a vagliare e a discutere la realtà,
fiorirà anche la critica serrata alla vecchia religione. E gli ambienti giudaici della diaspora, i
più disposti alla discussione nelle piazze e nelle scuole greche, non si tireranno indietro e
raccoglieranno la sfida. Così si evolve, così si trasforma, così cambia, anche radicalmente,
la figura del Dio Padre all'interno stesso della Bibbia. Anche presso Israele nascerà la
grande letteratura di critica religiosa: Qohelet, Giona e soprattutto Giobbe, il poema degli interrogativi spietati.

 
Perché Giobbe sta soffrendo? Da chi è colpito Giobbe? Giobbe è un giusto, Giobbe non
ha fatto male a nessuno, Giobbe è un servo fedele. Perché Giobbe, perché Auschwitz,
perché i bambini passati per un camino?
Un seguito ossessivo di saggi, di films, di
romanzi. Un processo senza appelli: unico imputato Dio e, conseguenza inevitabile, il grande Padre pastore che non esiste più.
 
Ancora. Uno, forse due secoli, e siamo ai vangeli. Orto degli Ulivi: si apre uno dei capitoli chiave, un vero spaccato sull'anima della religione. Non solo preghiera, non solo confidenza, non solo invocazione: la voce di Gesù è una discussione accanita: perché a me questo calice. Spasimo, corpo a corpo, sudore di sangue. Cosa è accaduto? Dov'è il Padre di Abramo? E soprattutto dov'è quella figura di Padre che tanto aveva appassionato e travolto Gesù per interi capitoli del Quarto Vangelo? Pagine che trasudano emozioni, è il caso di dirlo. E anch'io ho bisogno di riprendere fiato. Dio mio Padre. Credo in Dio Padre Onnipotente.
 
                                                                                                            (Viscardo Lauro)

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Gestire il 2021

SEMPLICITA' E CHIAREZZA MA ANCHE PROFONDITA' E LUNGIMIRANZA

Responsabili e nello stesso tempo consapevoli. Attenti e nello stesso tempo sereni. Disciplinati e nello stesso tempo correttamente liberi... Insomma, il difficile avvio del 2021 ci richiede un atteggiamento e un comportamento maturo, equilibrato e integrato. Da "costruttori di bene", insomma.
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Il presidente della repubblica, Mattarella, ha rivolto il suo messaggio di fine anno agli italiani con la sua abituale pacatezza e positività di tono e di contenuti. Un messaggio per “costruttori” di bene comune, come li ha chiamati, e non per divisivi protestatari. E’ bene tenerne conto, ma nello stesso tempo ci sembra doveroso delineare con concretezza immediata anche alcuni necessari punti operativi che urgono, fin da questi primi giorni del nuovo anno, alla ripresa del nostro paese, se tale ripresa vuole essere duratura ed equa. Mi permetto di dirlo a titolo personale ma anche a nome del piccolo laboratorio di DemocraziaComunitaria. E per cominciare osservo che:
  1. Il carattere nuovo e straordinario, per origine e diffusione, della pandemia da coronavirus;
  2. i tempi eccezionalmente rapidi di realizzazione dei vaccini proposti per combatterlo;
  3. i tempi più specificamente problematici di sperimentazione per testarli;
  4. la dimensione pervasiva e non bloccabile, a livello planetario, delle relazioni economiche e finanziarie, particolarmente commerciali, e di quelle personali (lavorative, di studio, politiche, etc.) che fanno da veicolo al virus;
  5. l’accresciuto peso degli interessi organizzati, diretti e indiretti, di carattere politico, economico e di potere (multinazionali e multisettoriali) coinvolti nella sua gestione;
  6. l’inadeguato sviluppo degli studi inerenti ai possibili effetti collaterali di più lungo periodo dei citati vaccini:
 
sono le sei ragioni più essenziali che suggeriscono, allo stato attuale delle cose, criteri di tempestività ma accompagnata da intelligente gradualità e da non rigida obbligatorietà iniziale nella somministrazione dei vaccini stessi. L’obbligatorietà, in particolare, potrà essere raggiunta eventualmente dopo un ragionato e ragionevole periodo di attenta osservazione e studio dei progressivi effetti dei vaccini.
Per converso, il distanziamento fisico (mai sociale!), l’igiene attenta, l’utilizzo delle mascherine, o schermature trasparenti, restano i tre criteri essenziali per l’affrontamento della pandemia a livello di comportamenti personali, mentre il funzionamento più efficiente delle strutture sanitarie ordinarie e una politica severa dei controlli lo sono a livello collettivo; per questo ultimo criterio, in particolare, cioè il controllo, è giusto e maturo e responsabile che venga utilizzato ormai anche l’esercito in funzione di ordinaria polizia di prevenzione e sanzione: più che mai sono infatti maturati, e in verità da ben prima che scoppiasse il coronavirus,  i tempi per una concezione molto più integrata del concetto di sicurezza del paese.
In sintesi, la grande medicina per le emergenze, il grande rimedio per le condizioni eccezionali, ancora una volta, vanno cercati nella maggiore efficienza delle strutture ordinarie, non nella brillantezza inventiva delle formule emergenziali; nella cultura della gestione evolutiva, non nella schizofrenia maniacale delle riforme. Questo vale anche per la gestione del sistema sanitario pubblico, irresponsabilmente impoverito in questi ultimi anni a vantaggio di dubitabilissime privatizzazioni e aziendalizzazioni.
Per quanto poi riguarda la pandemia parallela a quella sanitaria, cioè la pandemia che fin dall’inizio abbiamo chiamato economica e sociale, e che si concretizza soprattutto nella drammatica precarizzazione lavorativa e reddituale di molti cittadini, e nel frequente infragilimento psicologico di tante persone, da cui vengono anche suicidi e violenze familiari e destabilizzazione genitoriale ed altri gravi e a volte permanenti malanni familiari e sociali, ribadiamo che il problema non va affrontato chiudendo e assistenzializzando le attività economiche bensì rallentandole e prolungandole contemporaneamente: cioè facendo esattamente il contrario di quanto si fa.
Ad esempio, un ufficio postale o una banca, ma anche un ristorante o un ufficio amministrativo aperto al pubblico, non soltanto non devono accorciare l’orario di apertura agli utenti, come purtroppo stanno facendo, ma, esattamente al contrario, devono prolungarlo per consentire di servire con maggiore distanziamento gli utenti stessi, rassicurandoli e facendo fronte all’impegno, esattamente, attraverso assunzioni e collaborazioni cui vanno finalizzate le risorse della “politica dei ristori”, oggi irrazionalmente, assistenzialisticamente e improduttivamente, cioè scioccamente,  destinate a una miserevole e umiliante politica di elemosina diffusa e neppure equamente distribuita. Va ristorata l’economia sostenendo il lavoro, incrementando i servizi e rallentandone i folli ritmi, non vietandoli o limitandone la durata e la fruibilità.
Infine, un dramma che rischia di lasciare un segno negativo grave di disinvestimento umano e sociale per il futuro, è anche quello che vede chiusa o altalenantemente aperta la scuola, punto di riferimento psicologico e formativo fondante – per quanto impoverito – dei nostri ragazzi e della società. La scuola deve essere, anch’essa, permanentemente aperta e non chiusa: aperta riducendo ad esempio gli orari dei singoli turni a due o tre ore, aperta riducendo il numero degli alunni per classe a cinque o a dieci invece dei soliti venti o venticinque, e dunque rendendo gestibile e controllabile il distanziamento fisico, aperta riducendo i docenti per classe a uno o due rispetto agli attuali cinque o dieci, e…  ma calma, ragazzi: non tornate a ripetermi la grande sciocchezza secondo la quale un insegnante di italiano non può fornire un accompagnamento di base al ragazzo che studia matematica, perché stiamo parlando di elementi-base della formazione e non di specialismi universitari: dobbiamo formare i ragazzi, non tecnicizzarli specialisticamente, compito che tocca appunto all’università. Che se poi un insegnante non è in grado di fare questo, cioè di svolgere il ruolo di formatore-accompagnatore del cammino dei ragazzi, significa che insegnante forse  lo è ma formatore certamente no, e che bisogna dunque tornare a indirizzarlo in senso corretto e urgente a questa primaria e basilare funzione: e lo si può e lo si deve fare lasciando aperta la scuola.
Insomma, per far funzionare servizi ed economia non bisogna abolirli ma… organizzarli ancora meglio!
La brutta pandemia potrebbe in sintesi trasformarsi, in realtà, in una costruttiva opportunità di crescita, se adottassimo una decorosa base di scienza e coscienza, che sembrano invece latitanti e sostituite da verbosità e appariscenza.
In questo spirito, buon 2021 a ogni buona volontà. Anzi, fraternamente, buon 2021 a tutti: anche a quelli che di buona volontà non ne hanno molta, o non hanno molta fiducia in essa, affinchè vengano a far parte della nostra famiglia di volonterosi. Che per definizione accoglie tutti. Coraggio, forza e luce per tutto il 2021, anzi per tutta la vita!
                                                                                                         
                                                                                                                                 (Giuseppe Ecca)
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