Racconti di vita

IL DESERTO FIORITO

Come ci sembra di avervi già altra volta segnalato, abbiamo fatto la scelta di lasciare intatti questi “racconti di vita”, così come i loro autori ce li hanno trasmessi. Sono testimonianze, e il loro valore non è nella struttura letteraria ma semplicemente, e spesso profondamente, nella umanità che esprimono. Così è del racconto di oggi. Quando la forza insopprimibile di un affetto fa prendere la decisione di non rassegnarsi a lasciar morire un proprio caro in un’anonima “casa di riposo”...

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Odio il bianco: ospedali, cliniche, case di cura… hanno tutti muri bianchi. Percorro il labirinto dei loro corridoi a testa bassa. Una metafora agra del percorso obbligato della vita che, in fondo, ci porta tutti al medesimo punto. La differenza non è la meta, ma il cammino: è questo che ci distingue e qualifica, che può riempirsi di significato oppure sgonfiarsi nel nulla.
Il percorso di mio nonno è stato silenzioso, senza mai staccarsi da quella terra che egli ha coltivato per tutta la vita e che forse è stata il suo unico vero amore. Giungo alla sua camera con lo stato d’animo confuso; mi ero fermamente ripromesso di pensare prima a cosa dirgli per “tirarlo un po’ su di morale”, ma la mente ha vagato per conto suo nei meandri dei ricordi, tra fragole e albicocche e le mani callose di mio nonno che mi accarezzavano i capelli.  Entrando nella struttura mi aspettavo di vederlo seduto a leggere il giornale, come al solito,  e invece lo trovo sdraiato in una posizione nuova, con le braccia abbandonate lungo i fianchi.
  • Ciao, nonno! Come ti senti oggi? – alzo la voce perché è un po’ sordo.
Solleva leggermente il capo, mi fissa stringendo gli occhi:
  • Chi sei?
Due sillabe che mi giungono come stilettate alle costole. Mi ero illuso di poter rimandare questo giorno a un tempo futuro e indefinito; egoisticamente speravo che quando fosse accaduto (perché comunque era inevitabile che accadesse) mi sarei trovato magari in viaggio di lavoro e avrei quindi avuto una buona scusa per scaricare il peso della notizia su qualcun altro. Invece no: accade proprio oggi, in questo momento, e tocca a me.
  • Sono Paolo – gli ripeto cercando di abbozzare un sorriso e ricacciando giù il magone che mi attanaglia la gola.
Mi lancia uno sguardo smarrito, aggrotta la fronte, sembra impegnato in uno sforzo disperato per ricordare. Non mi ha riconosciuto: proprio me, il suo unico nipote, io che gli ho vissuto accanto per trent’anni e poi ogni giorno in questi ultimi due mesi…Non mi ha riconosciuto. E’ l’ultimo stadio di una malattia che porta via l’uomo un po’ per volta: lo disgrega, lo scompone, come in un quadro di Picasso, finchè l’uomo non riconosce più gli altri né sestesso. Mi siedo accanto al letto, gli parlo scandendo bene le parole: “Ti ho portato il giornale, nonno; non vuoi leggere?”
Una volta andai in Marocco con una comitiva turistica. Le guide ci condussero nel deserto. Niente sabbia. Colline rocciose scolpite dal vento e vallate cosparse di sassi e massi spigolosi. Un paesaggio desolato dove il nulla è protagonista e il pensiero vaga sconcertato alla ricerca vana di un appiglio. Le guide avevano piantato le tende sulla cima piatta di una collinetta per evitare il pericolo dei torrenti impetuosi che si formano quando piove. Non c’erano nuvole all’orizzonte e in quella regione la siccità durava da dieci anni. Quella notte però fui svegliato dal ticchettio della pioggia sulla tenda. I miei compagni dormivano e così gustai in solitudine quel momento particolare. Udivo in lontananza i rombi del tuono. Il temporale si stava scaricando con violenza. Rimasi sveglio a lungo e la mattina seguente fui l’ultimo ad alzarmi. Fuori, mi aspettava una sorpresa: tutt’intorno, sotto di noi, una marea di fiori gialli si era impossessata del terreno: un tappeto denso e uniforme che riverberava al sole. Ciottoli e pietre erano fioriti, la materia inerte aveva generato la vita, un’esplosione improvvisa aveva trasformato il deserto in un paradiso. Scesi dalla collinetta per toccare con mano il miracolo. Erano fiorellini simili a quelli che da bambino trovavo in campagna, nel podere del nonno, e di cui non ricordavo il nome. Piccoli fiori su steli esili, senza pretese né orpelli, ma di un giallo così intenso da abbacinare la vista. Ero stato privilegiato ad assistere a quello spettacolo così raro. Mentre i miei compagni consumavano rullini di foto, io rimasi immobile ad ammirare. Un uomo minuscolo nel deserto fiorito. Un brivido felice nell’animo.
Ora osservo il volto di mio nonno e vi ritrovo il paesaggio aspro del deserto: un’arida landa con solchi profondi, la fronte; radi cespugli quasi secchi, le sopracciglia; una collina smunta dal vento e dagli anni, il naso; e rughe profonde che dalle guance s’irradiano come canyons in una pianura secca eppure ancora vitale, non arresa al potere superiore della natura. Gli occhi, invece, gli occhi verdi di mio nonno, gli stessi miei occhi, sono laghi di vita risorta, pianure ubertose, un piccolo miracolo che ancora sfida il tempo.
Paolo! – esclamò all’improvviso-: sono contento di vederti!
Mi ha improvvisamente riconosciuto e, con le parole, un sorriso sboccia prepotente nel deserto, rompe gli schemi che sembravano ormai fatali, ricopre i canyons, spiana le colline, fa vibrare i cespugli di una brezza nuova. Su quel volto sorridente ritrovo lo stesso smarrimento beato che provai nel mezzo del deserto fiorito, un attimo di felicità che riempie il mondo ma che non possiamo portarci appresso. Un attimo che fa fiorire il mio nome sulle sue labbra, mentre il sorriso si spande agli occhi e all’anima.
  • Che hai da guardarmi così? – mi fa in tono burbero.
  • Niente. Pensavo… Sei mai stato nel deserto?
  • Lo sai bene che non mi sono mai mosso dalla mia terra.
  • Allora ti ci porto io, nel deserto.
Mi scruta come fossi un marziano e sbotta:
  • Che ti prende, oggi?
  • Dai, alzati – lo afferro per le spalle e lo costringo a sollevarsi.
  • Ma che diamine… - protesta a denti stretti.
  • Mettiti la vestaglia, ti porto via con la sedia a rotelle, non voglio che rimanga a marcire qui dentro.
Si mette a ridacchiare:
  • Vedrai come s’incazza la caposala!
Lo spingo fuori sulla sedia a rotelle. Percorriamo i corridoi quasi di corsa, prima che scoprano la nostra evasione. Il nonno ride come un bambino felice:
  • Sei proprio matto. Si può sapere dove andiamo?
  • Te l’ho detto: all’aeroporto, e poi nel deserto.
  • E cosa c’è nel deserto?
  • Non te lo posso spiegare, devi fidarti di me.
  • Andiamo nel deserto, allora! – E ride a crepapelle, agitando il bastone da passeggio come un cavaliere la sua lancia. Non lo vedevo così contento da anni. Prego il Signore che ci conceda almeno il tempo necessario a questa pazza impresa. Ci dirigiamo a tutta velocità verso il parcheggio dei taxi e intanto lui continua a gridare:
  • Più forte! Più forte!
                                                                                                     (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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MM


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