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Storia e storie

IL GERANIO DI MIO PADRE


Distraiamoci un poco dalla politica, non per deresponsabilizzarcene bensì… per ricordare sempre che essa deve avere come riferimento la persona, il suo servizio, la sua realizzazione compiuta, la solidarietà comunitaria. Per questo vi offro un’altra “storia vera”, una “storia di vita” fra le innumerevoli che altrimenti si consumerebbero in silenzio nella disattenzione di tutti: mentre invece sono cariche di insegnamenti e promemoria per la vita di ciascuno di noi, per il nostro impegno sociale e per la coerenza necessaria delle nostre istituzioni. Devo la storia, finora inedita, ancora una volta, agli indimenticabili amici del Premio Prato Raccontiamoci.

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Verso mezzogiorno la caposala si assentò dal reparto. Vi rientrò una mezzora più tardi, coi capelli sistemati e le labbra fresche di rossetto. Qualche minuto dopo, scortato dal solito drappello di assistenti, anche il primario fece la sua comparsa. Per cominciare, chiese alla caposala del paziente signor Caio. Una volta che la donna glielo ebbe indicato si avvicinò a lui e, presentatosi come il professor Taldeitali, lo invitò a passare nel suo studio di pomeriggio.
A qualsiasi altro paziente la cosa sarebbe suonata quantomeno strana, ma mio padre era un medico e tra colleghi, pensò, un minimo di riguardo sempre si conviene. Perciò, tranquillo, aspettò che si facesse ora  di andarsene. Alle tre del pomeriggio non gli restava altro da fare che mettere le sue cose nella borsa e recarsi dal professore. La porta dello studio era semichiusa. La spinse quanto bastava perché dall’interno qualcuno, accorgendosi di lui, gli facesse cenno di accomodarsi. Il professore sedeva comodamente dietro a una scrivania ingombra di carte e pacchetti di sigarette mezzo vuoti o accartocciati. Scusandosi per il disordine tirò fuori dal cassetto una cartella.
“Ho qui…”, esordì lasciando la frase sospesa.
“Allora?”, lo incalzò mio padre. A quel punto l’uomo tentennò il capo e iniziò a tamburellare con le dita sulla scrivania. Poi, rompendo gli indugi, con un tono didattico spiegò che per colpa di una malattia degenerativa, tecnicamente un “glaucoma ad angolo chiuso”, presto mio padre sarebbe diventato cieco.
“Come, cieco…?”, farfugliò il paziente.
Un silenzio di pietra riempì la stanza. Al culmine della tensione il professore fece: “Davvero mi spiace…ma tra colleghi è inutile girarci intorno…”.
“Cosa significa… cieco?”, chiese ancora mio padre, in preda all’angoscia. Caso volle che il telefono cominciasse a squillare, liberando l’uomo dalla spiacevole incombenza di dover fornire ulteriori dolorose spiegazioni. Si spicciò ad accompagnare il paziente alla porta e, dopo avergli messo tra le mani la cartella contenente gli esami, lo salutò con un colpetto consolatorio sulla spalla. Mio padre si credeva, e forse lo era, un medico d’altri tempi: di quelli che non hanno medaglie o lustrini da mostrare in pubblico e mai s’abituano all’umana sofferenza. Loro, i professori, hanno invece l’invidiabile dote di pronunciare terribili sentenze manco stessero facendo quattro chiacchiere sulle bizze del tempo. Mio padre, del resto, conosceva bene quel modo di fare sbrigativo e indifferente.
Per questo, prima di arrendersi all’evidenza sottopose il caso ad altri specialisti. Il verdetto, tuttavia, non cambiò di una virgola: pochi mesi, un anno a essere generosi, e sarebbe precipitato in una notte infinita. Si convinse che nessuno avrebbe potuto comprendere o mitigare la pena che gli pesava sul cuore. Per dovere ne diede notizia alla moglie e ai figli, certo com’era che se ne avesse parlato anche in giro un turbine di frasi stucchevoli e ipocrite sarebbe passato sopra di lui risucchiandolo anzitempo nella disperazione più nera. Si sforzò di vivere come se niente dovesse accadere. Ogni volta però che s’incantava davanti a un tramonto, la malinconia lo assaliva; una malinconia intima, dolorosa, che ora lo faceva sentire una pianta senza più radici, ora trasformava i suoi occhi in potenti obiettivi capaci di mettere a fuoco e fissare sul negativo della memoria il più piccolo dei particolari, la più sottile delle sfumature.
Nel periodo ch’ero mancato da casa, a parte naturalmente la malattia di mio padre, non vi erano stati grossi cambiamenti. Mia madre continuava a fare la vita di sempre: sbrigare le faccende domestiche, badare al menage familiare e giocare con le amiche a burraco il giovedì pomeriggio. Anche mio padre, sebbene avvertisse ormai il fiato del buio sul collo, perseverava nelle sue abitudini: compresa quella di svegliarsi ogni giorno alle sei e dieci precise. Continuò a farlo senza eccessiva fatica fino a un mattino quando, non sentendo provenire dal corridoio il consueto ciabattare, preoccupato mi buttai giù dal letto, uscii dalla stanza e lo vidi brancolare per la casa con le braccia protese in avanti.
“Scusa se ti ho svegliato… ma stanotte non riesco proprio a dormire…”, disse sentendomi arrivare.
“Ritorno in camera a aspetto che si faccia ora di alzarmi”, aggiunse non accorgendosi che il sole già rimbalzava dalle finestre al soffitto. A tentoni, sbattendo prima i ginocchi contro il comodino, riuscì ad arrivare al letto. Mia madre dormiva un sonno profondo e non s’accorse di nulla. Una volta nel letto egli tirò un lungo respiro e sussurrò: è finita… mentre due lacrime silenziose gli rigavano le guance. A vederlo mi si gelò il sangue. Quelli che seguirono furono mesi carichi di silenzio. Malgrado io e mia madre ci prodigassimo per calmarlo, mio padre se ne stava ore intere sprofondato in poltrona a frugare con la mente nel passato, a cercare di rimettere a posto quei tasselli della memoria che via via si andavano scollando.
Finchè, una sera, accadde qualcosa di nuovo. Forse destato dalla pioggia che batteva sulle persiane, fermò su di me i suoi occhi spalancati e all’improvviso prese a parlare della sua infanzia. Di quando, pur vivendo in un paese che pareva dimenticato da Dio, fantasticava di diventare un marinaio per girare il mondo. Con voce sognante raccontò del giorno in cui finalmente riuscì a vedere il mare da vicino: aveva diciannove anni ed era anche la prima volta che viaggiava sul treno. Stette tutto il tempo col naso schiacciato sul finestrino: calanchi d’argilla, boschi e fiumi si susseguivano veloci al di là del vetro, facendolo sobbalzare di meraviglia. Ma questo fu niente a confronto dell’emozione che provò non appena il treno s’affacciò sulla costa: il mare si svelò ai suoi occhi come per magia. Gli apparve immenso, meraviglioso, molto più di come lo aveva sempre immaginato.
“Così azzurro da confondersi col cielo…”. Accolse in viso un breve sorriso, quindi esausto s’abbandonò sullo schienale della poltrona. Mi sorpresi molto a sentire quel racconto. Sin da bambino ero stato indotto da mio padre alla passione della montagna: crescendo nella convinzione che solo il silenzio incantato dei boschi o la solitudine delle cime più aspre facessero stare l’uomo in armonia con l’universo. Eppure, adesso che ci riflettevo, non rammentavo una sola volta in cui avessi sentito mio padre fare un qualche discorso sul mare. Né per dirne bene né per dirne male. Tanto strideva questa considerazione con quello che avevo appena sentito dalla sua viva voce, che mi sedusse un’idea: e se avesse custodito in fondo al cuore un amore segreto per il mare? Talmente segreto da essere taciuto a tutti? Il giorno dopo quella rivelazione feci a mio padre una proposta.
“Ti andrebbe di andare al mare?”. Non rispose, ma dal movimento sorpreso delle ciglia fece capire che gli sarebbe piaciuto. L’occasione si presentò di sabato: era piovuto per l’intera settimana e con l’autunno alle porte quel mattino sembrava fatto apposta per starsene fuori all’aria aperta. Chissà come, lo convinsi a uscire dall’esilio in cui s’era ficcato.
“Dove si va?”, chiese pimpante.
“Si-va-al-ma-re!”, gridai quasi, sottolineando le sillabe.
“Al mare! Al mare!...”, ribadì mio padre sprizzando contentezza. Arrivati sulla spiaggia non trovammo che pochi ombrelloni sparsi qua e là, gruppetti di ragazzi intenti a prendere il sole, qualche viandante perso nei suoi pensieri. Egli mi prese sottobraccio e insieme ci incamminammo lungo la battigia, accompagnati da una leggere brezza.
“Senti che profumo…”, disse. “Lo sento, papà, lo sento!”.
Papà… Questa parola riecheggiò nella mia mente da lontano. Ebbi un sussulto nello scoprire che aggrappato a me si trascinava ora lo stesso uomo del quale un tempo avevo quasi venerazione. Mosso da un antico pudore ritrassi il braccio.
“Che c’è?”, fece mio padre. “Niente, mi si era slacciata una scarpa…”. Proseguimmo tenendoci a braccetto, mentre non lontano da noi gabbiani solitari perlustravano il mare. Mi ricordarono i falchi: capitava spesso in montagna che mi fermassi per seguirne il volo, ammirato dalla maestria con la quale, padroni delle correnti, dispiegavano le loro ali come vele nel vento. Questa similitudine tra falchi, dominatori del cielo, e gabbiani, sentinelle degli abissi marini, mi spinse a pensare che in fondo il mare altro non era che la cima di una enorme montagna capovolta le cui vette bucano profondità sconosciute e intangibili.
Passeggiando, giungemmo nei pressi di una pineta. Qui, su un campetto di fortuna, dei ragazzi giocavano a calcio. Sentendone le urla mio padre chiese quale fosse il motivo di tanto baccano.
“Ragazzi che giocano…”, risposi distrattamente senza fermarmi. Allora mi strattonò il braccio e tese l’orecchio. Rigore! Rigore! Un grido si levò sopra gli altri: i ragazzi si fronteggiavano dando l’impressione di doversele suonare da un momento all’altro. Poi gli animi sbollirono e dal gruppo uscì fuori uno col pallone tra le mani: sistemò la sfera sulla sabbia, quindi fece molti passi all’indietro. Informato da me su come stava mettendosi la faccenda, mio padre chiese lumi sul tipo di rincorsa che il ragazzo stava per prendere.
“Ha preso una lunga rincorsa!” gli dissi, “e dal piede d’appoggio credo che voglia battere col destro”. “Di sicuro sparerà in cielo!”, profetizzò mio padre. Un attimo dopo, calciata di punta, la palla s’impennò altissima sulla traversa. Stupito guardai mio padre, ma restai di stucco a una sua richiesta.
“Vuoi battere un rigore?!...”. “Sì, un rigore!”. “Ma andiamo, papà!...”. “Ti prego, chiedi ai ragazzi di farmi tirare un rigore!”. Usò un tono di voce tanto supplichevole da costringermi comunque a tentare. Individuai allora quello che tra tutti i ragazzi aveva maggiormente l’aria del capo e, presolo in disparte, tentai di ammorbidirne il cuore buttandola sul fatto che dopotutto non sarebbe costato loro nulla esaudire il desiderio di un anziano signore, per giunta cieco. Il ragazzo all’inizio pensò lo stessi canzonando, poi di fronte a tanta insistenza finì col cedere.
“Fermiamoci, che il vecchio vuol battere un rigore!”, urlò agli altri traboccando di sarcasmo. “Imbecille”, lo apostrofai tra i denti. Nell’attesa che tutto fosse pronto, i giocatori fecero capannello al centro del campo. Contai undici passi dalla linea della porta e con la mano spianai giusto un fazzoletto di sabbia per poggiarvi sopra il pallone. Un vociare divertito aumentava col passare dei secondi fino a scoppiare in una risata cattiva allorquando mio padre, nel tentativo di raggiungere da solo il punto di battuta, incespicò malamente su sestesso. In porta, con fare da spaccone, s’avviò il giovanotto che poco prima aveva fallito il rigore. Mentre camminava arrotolò a mo’ di benda la sua maglietta e con essa si coprì gli occhi, suscitando altra ilarità nei compagni.
“Piantala di fare il buffone!” Sbottò mio padre. “Dai nonno, sbrigati, che non ho tempo da perdere!”, replicò duro il ragazzo, che, liberati gli occhi dalla benda, si piazzò davanti alla porta ostentando impazienza. Mio padre sfiorò la palla col piede sinistro per verificarne l’esatta posizione, dopodichè arretrò di qualche centimetro rispetto a essa facendo così capire al suo avversario che avrebbe calciato nell’unico modo per lui possibile: senza rincorsa, da fermo. Questo rese il giovanotto in porta ancora più strafottente.
“Allora, vecchio…”. L’ultima vocale gli morì in gola. Con l’istinto e la rapidità di un falco quando piomba sulla sua preda, mio padre lasciò partire un rasoterra secco e angolato che il portiere neanche provò a respingere. Restai di sale. S’ammutolirono anche i ragazzi, eccezion fatta per il portiere che, rosso di collera, inveiva a più non  posso. Dalle sue imprecazioni mio padre capì ch’era riuscito nell’impresa: sollevò le braccia al cielo,  incurante di uno che ruminava “solo culo, vecchio, solo culo!...”.
Ebbi la strana percezione che quello appena visto in azione non fosse mio padre ma la sua controfigura. Dov’era l’uomo vinto e senza speranze che suscitava la compassione mia e quella degli altri? Addirittura mi balenò nella mente il sospetto che non fosse mai diventato cieco del tutto, che a un certo punto della sua vita avesse deciso di starsene separato dalla vita stessa, stanco di guardare il mondo dalle grate di giorni sempre uguali, ordinati e spogli come camere d’albergo, cosciente d’aver sgobbato una vita intera per pagarsi la casa e l’auto nuova, nient’altro. Pentito d’aver lasciato partire i suoi sogni senza aver fatto niente per trattenerli. Forse persino deluso della famiglia. Molto, molto meglio, fingersi malato, abbandonare la partita e rinchiudersi nel proprio mondo.
Per scacciare alla svelta tali assurdi pensieri, col pretesto che si stava facendo tardi misi fretta a mio padre. Nella luce del giorno che lentamente sbiadiva prendemmo la via del ritorno, lasciandoci dietro i ragazzi che ancora increduli commentavano tra di loro l’accaduto. Rimanemmo per un po’ senza parole. Poi di nuovo il tarlo che mi si era annidato nella mente prese a scavare il suo buco.
“Ma tu sul serio sei cieco?”: rivolsi al mio padre la domanda più stupida e cattiva che si possa fare a un cieco. “Sono cieco, figlio mio, com’è vero che a te in questo momento è dato di vedere la bellezza del mondo”, rispose. Sulle prime rimasi interdetto, poi volgendo lo sguardo all’incendio del sole sull’orizzonte…”eccola la bellezza del mondo!, esclamai tronfio dentro di me. Appena dopo però provai  pietà per chi, come mio padre, non poteva goderne alla stessa maniera.
“Sono stato davvero uno stupido…”, confessai ad alta voce mentre lo abbracciavo. Un senso di sconfitta mi travolse. In tutti quegli anni non era mai successo che fossimo stati così vicini da bagnarci all’unisono della stressa lacrima. Restammo abbracciati per un minuto, forse due. Un tempo infinitamente breve ma sufficiente a cancellare d’un colpo tutta la distanza che ci separava. Il mare appariva ora tenebroso e la spiaggia completamente nuda, abbandonata alla quiete della sera. Tornando verso casa, divorato dalla curiosità chiesi a mio padre come avesse fatto a indovinare quel tiro.
“Conosci Borges?”: eluse la domanda con un’altra domanda.
“Certo che conosco Borges…”, risposi non avendo ben chiaro dove volesse andare a parare. Al di là della circostanza che fosse cieco mi parve piuttosto un argomento buttato lì a caso, tanto per glissare a una domanda impertinente. Sbagliavo.
Mio padre abdicò alla vita trascorsi tre anni, due mesi e otto giorni da quel pomeriggio. E una domenica d’ottobre, mentre  stavo mettendo in ordine la libreria mi capitò davanti un piccolo volume dalla copertina quasi nuova. S’intitolava “La rosa profonda” e Jorge Luis Borges ne era l’autore. Leggendo quel nome mi si aprì la mente: col cuore in gola iniziati  a sfogliare il libro pagina dopo pagina. A un tratto l’occhio cadde su un verso sottolineato in rosso che recitava: Sono cieco e ignorante ma intuisco che sono molte le strade”. Sullo scontrino che a quelle pagine ancora faceva da segnalibro lessi una data: 20 marzo 1995. Ricorrendo a un semplice ragionamento dedussi con certezza che quello fosse stato l’ultimo libro letto da mio padre prima d’arrendersi all’oscurità. Come se, nell’atto di consegnarsi a essa, avesse voluto fissare dentro di sé tutta la forza e la bellezza che quei versi esprimevano. Più andavo avanti nella lettura, più coglievo la bellezza del mondo nella sua essenza. Prima pensavo bastasse solo guardarlo, il mondo, per farne parte: non capivo che non noi siamo nel mondo, ma è il mondo a stare dentro di noi. Mi sedetti sulla poltrona, la sua poltrona, e ripensando a lui mi lasciai andare alla nostalgia. Per meglio farmi cullare dai ricordi chiusi gli occhi. Quando li riaprii, tra le foglie del geranio che stava di fronte, sul davanzale della finestra, intravidi meravigliosi sprazzi di rosa. Per cogliere la “bellezza del mondo” questa volta non ebbi bisogno di spingere lo sguardo fin sull’orizzonte.
                                                                                                                 
                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)


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MM

Storia e storie

IL VIAGGIO DELLE MONTAGNE

Avete mai conosciuto davvero, visto davvero, avvicinato davvero, la povertà e la emarginazione? O avete soltanto letto qualche romanzo commovente o qualche cronaca sbrigativa? Vi offro la opportunità di pensarci un poco di più attraverso questo “racconto di vita”, vero e vissuto.

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Si chiamava Claudina e quando sorrideva mostrava due dentoni bianchi e lucenti a mo’ di paletta, che producevano, a mio parere, un gran bel sorriso. Vestiva male: un paio di calze smagliate ed una gonna verde, abbinata ad un maglione infeltrito color caffelatte, ricordo che le durarono per un’intera stagione.
Il pullmino ci scarrozzava per una buona mezzora ad ogni corsa, tra le stradine inghiaiate e polverose della pianura e, in quel frattempo, i ragazzini, un gruppo abbastanza numeroso di ragazzini rumorosi  e boriosi, dal piglio talvolta crudele,  si divertivano a prenderla in giro, canzonandola senza pietà. Talvolta infierivano anche sul fratello, un ragazzotto più giovane di lei di qualche anno, che la fantasia tutt’altro che dolce del gruppo aveva soprannominato poco simpaticamente “Mutando” per via di certi mutandoni di cotone a costa larga, talvolta crivellati di buchi, che i pantaloni smessi da un altro fratello, ed un po’ troppo larghi per lui, lasciavano intravedere ogni qualvolta calavano troppo in basso rispetto alla vita, già di per sé non troppo sottile, del ragazzo, fermandosi sul sedere.
Claudina non accettava passivamente quella sfilza di parole e gesti poco gentili; spesso si difendeva rispondendo agli attacchi e colpiva: talvolta volava qualche calcio ed il fisico, molto più alto e robusto del mio, per fortuna, la aiutava.
Qualche volta ricordo di aver preso le sue difese, a scapito del gruppo che, a seconda dei casi, la isolava oppure la attaccava: e fu così che, in qualche modo, io e Claudina ci avvicinammo, ma senza le confidenze un po’ romantiche e segrete che le ragazze, solitamente, a quell’età si scambiano.
Un giorno venne a trovarmi; la vidi arrivare dal fondo della stradina inghiaiata, con la sua gonna verde-acceso in un nugolo di polvere, inforcando, con poca grazia e tanta fatica, una bicicletta da uomo arrugginita. Restammo insieme un intero pomeriggio tra cortili assolati e fienili impagliati, dove ci esercitammo in una corsa a finti ostacoli e ci dilettammo in giochi più adatti a due ragazzacci che a due fanciulle adolescenti. Ma con Claudina era così: il divertimento era pura allegria, scherzo, risata da cui traspariva chiara una solarità dell’anima non rivelata o forse inesprimibile con linguaggio verbale.
Un pomeriggio, al termine di una scorribanda pazza sull’argine del fiume, verso sera, decisi di accompagnarla a casa; la sua abitazione non era lontana dalla mia e, non so perché, non avevo ancora pensato di ricambiarle la cortesia della visita. Ci avviammo lungo la stradina inghiaiata e, pedalando, restavamo alla pari; il sole moriva alle nostre spalle oltre l’argine del torrente dove poco prima avevamo scorrazzato senza ritegno. Eravamo stanche e l’animo rifletteva ora una serenità quieta, pacata, ma vera e percepibile. Arrivammo finalmente alla sua abitazione: una costruzione seminuova e molto piccola nel cui cortile regnava un silenzio poco reale. Senza proferire parola Claudina mi introdusse in casa; una stanzina al pian terreno dove, in ogni angolo, oggetti i più svariati e differenti affioravano da un disordine polveroso e trasandato. Persino le due figure che in quell’istante l’abitavano parevano parte di quel senso di desolazione, tanto che, ad una prima occhiata, neppure le avevo notate nel cupo colore della stanza. In un angolo accanto alla finestra una donna, vestita con un abito scuro punteggiato di minuscoli fiorellini grigi, si perdeva seduta su una sedia troppo bassa per la sua statura: l’acconciatura, per nulla curata, mostrava una massa di capelli grigi, raccolti in malo modo sulla nuca e pendenti in ciocche ribelli e disordinate sul volto. Cuciva un paio di calzini troppo bucati e, intenta nella sua attività, non distolse gli occhi quando feci il mio ingresso nella stanza. Sul divano, steso con le gambe accavallate, un uomo dall’aspetto più giovane della madre, ma con la stessa aria abbandonata e persa, guardava alcune scene di un vecchio film muto in bianco e nero. Salutai educatamente ed uno dei due genitori mi rispose sottovoce, senza però tralasciare quella immobilità in cui pareva calato. Imbarazzata scorsi velocemente con gli occhi gli oggetti e le cianfrusaglie che riempivano la stanza: una credenza a vetri anni Sessanta straripava di carte e cartacce frammiste a bicchieri, calici spaiati e vecchie tazzine scheggiate; in un angolo, sul pavimento, in una cassetta di legno, riconobbi i libri di scuola depositati in malo modo, gli stessi che a casa mia facevano bella vista nella libreria nuova che, proprio quell’anno, mio padre mi aveva regalato.
Poi lo sguardo si diresse verso l’unica fonte di luce della stanza, la grande finestra al centro della parete di fronte; era senza tende e proiettava, proprio come un grande schermo, l’orizzonte con il suo tramonto tinteggiato e lucente. Intravidi il verde della campagna filtrato dai vetri opachi e, lontano, la mia piccola casa là in fondo all’orizzonte, che oltre ancora, confusamente, si trasformava in una striscia indistinta di alberi, prati e cielo. Mi venne d’istinto il desiderio fortissimo di andarmene in fretta da quel luogo per riconquistare al più presto quel punticino perduto e lontano. Salutai di nuovo in fretta e Claudina mi riaccompagnò all’uscita; volai sulla bicicletta e pedalai fino a non avere più respiro, mentre il cuore batteva forte e quella piccola casa là in fondo al verde ritornava piano piano più grande.
Maggio era ormai terminato; giugno portò gli esami di terza media e poi giunse l’estate. Ogni tanto ripensavo a Claudina e alla sua casa; sapevo che da quella grande finestra avrebbe potuto in qualche modo vedermi da lontano, ma non cercai più la sua compagnia né feci nulla per non perdere la sua amicizia. Poi fu il tempo delle novità e dei cambiamenti; la scuola superiore non mi lasciava più tanto tempo per giocare e la caparbietà nello studio mi incollava ai libri; uscivo sempre meno.
Un giorno capitò all’improvviso a casa mia; me la trovai davanti alla porta col suo sorriso solare. La feci entrare, poi uscimmo verso la campagna a chiacchierare. Le sorridevo come un tempo, ma ormai ero cambiata e fremevo perché il giorno dopo avrei avuto un compito di latino e un’interrogazione di storia: non potevo permettermi di trascorrere l’intero pomeriggio in sua compagnia. Si accorse del mio distacco e mi salutò col suo consueto buonumore: Anche le montagne fanno il loro viaggio quando gli esseri umani non si spostano, disse. Capii solo allora la sua maturità e la profondità saggia e segreta del suo spirito.
La vidi allontanarsi lungo la stradina inghiaiata; le montagne, lontanissime all’orizzonte chiaro sembravano partire anch’esse, definitivamente, con lei.
                                                                                                       (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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MM

Storia e storie

LA CASA SULLA BURE

Ancora un “racconto di vita”, vero e anonimo. Il periodo di ambientamento è quello del dopoguerra, la terra è quella toscana. Quando l’Italia intera si alzò in piedi dalle sue macerie e ricostruì sestessa, superando monarchia e fascismo e realizzando la più bella costituzione repubblicana del mondo e diventando il quarto paese economicamente più forte del mondo. La ricostruzione fu durissima e mise in luce immense forze morali diffuse e operanti in tutto il paese. Erano soprattutto forze di gente comune. Nello stesso tempo, come in ogni tempo della storia umana, accanto agli innumerevoli eroi di ogni giorno c’erano qua e là le carogne di ogni giorno. Ogni persona che nasce, in ogni epoca, è infatti chiamata alla scelta fondamentale se appartenere alla famiglia di Abele o a quella di Caino. Fra molti fratelli di Abele, in questa storia, troviamo anche una figlia di Caino: che alla fine, per fortuna, è stata sconfitta.
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Nelle vecchie case alte sulla Bure, attaccate l’una all’altra in fila come a sorreggersi, la sera, seduti alla nostra tavola, facevamo grandi progetti per quel futuro che ci trovava riuniti. Era il tempo in cui i sogni davano la mano alle speranze, anche se la fame faceva ancora a picca con la miseria: era il tempo di pace, tanto bramato in quei lunghi anni in cui il mondo e le persone erano stati sconvolti dalla guerra e ancora ne portavano i segni.
Nessuno voleva più parlare del passato; la gente era pervasa da una frenesia di rinascita e la parola “futuro” riempiva il tempo e lo spazio. A volte il babbo provava a parlare del tempo passato nelle trincee o nel campo di prigionia, ma tutti gli davano sulla voce; nessuno gli dava la soddisfazione di ascoltarlo, mentre ricordava i compagni e quello che avevano sofferto in quei lunghi anni lontano da casa: così le sue care ombre restavano sospese nello spazio riservato alle cose che non hanno più importanza e che possono attendere.
L’obiettivo del babbo fu subito quello di costruire una casa nuova, pur avendo un po’ migliorato la situazione di quella sulla Bure: dal suo ritorno non pioveva più nelle camere durante i temporali, era stata ripulita la cappa del camino e quell’inverno potemmo accenderlo per cuocere le rape nel grande paiolo attaccato al gancio sopra la fiamma, senza affumicare le poche stanze. Ma era comunque troppo piccola per la nostra famiglia, e mancava dei più essenziali servizi. Ciò che ricordo con più piacere di quella casa sono le grandi travi di lego sotto i tetti delle camerette, travi alle quali erano stati piantati dei chiodi da cui, appesi, pendevano grappoli d’uva messa ad appassire per l’inverno. Solo i miei sogni di bambina potevano essere dolci come quell’uva, poiché in quel tempo anch’io pensavo che tutto sarebbe stato possibile, ora che il babbo era a casa.
Il lavoro che il babbo aveva lasciato quando era stato richiamato alle armi non c’era più: così ora dovette cercarne un altro, che trovò a Prato in una filatura, dove si recava in bicicletta. Faceva turni di otto ore giornaliere, oppure notturne, e quando era possibile lavorava anche la domenica per mettere da parte i soldi per il terreno che doveva comprare per costruire la casa nuova. In famiglia si risparmiava anche sulla miseria, e non ho mai saputo come la mamma facesse a dividere un fiammifero di legno in due o condire il pane con un mezzo “C” di olio.
Aveva ripreso vita l’orto, un fazzoletto di terra sotto il muro della strada, dove si trovava anche un piccolo prato sul quale si aprivano altri piccoli orti delle famiglie che abitavano la borgata. In quello scampolo di terra mio padre aveva piantato due file di pomodori e in luglio, subito dopo la mietitura del grano e la pulitura delle aie da parte dei contadini, c‘era il rito della raccolta dei pomodori per fare la conserva da rimettere per l’inverno.
Ricordo che si mettevano quei frutti maturi nel paiolo e, dopo averli cotti, si strizzavano fino a farne una crema rossa e densa che veniva spalmata su tavole rettangolari: per lo più erano imposte di legno tolte dalle finestre, e così riempite si mettevano a seccare sopra dei pilastri rialzati nel prato adiacente l’orto. Sotto il sole di luglio quella crema diventava densa come sangue raggrumato e rosso scuro. E quelle tavole,  viste dall’alto della strada, sembravano tante bandiere rosse, sospese come le nostre speranze.
In ottobre cominciai la prima elementare; la scuola era situata in una stanza sopra il Circolino di San Niccolò; c’erano solo una decina di banchi e una lavagna, e in un angolo una stufa di legna che non funzionava. Nei giorni più freddi, quando si provava ad accenderla, la stanza si riempiva di fumo proprio come succedeva prima del ritorno del babbo a casa.
Un giorno il babbo annunciò che aveva comprato un pezzo di terra nel centro del paese, e lo annunciò con il tono orgoglioso e trionfante di chi ha raggiunto una tappa importante della vita, e con tutta la determinazione necessaria ad andare avanti, anche se il percorso futuro si annunciava faticoso e irto di incognite. Oltre che alla volontà, la riuscita era infatti legata anche alla salute ed alla solidità del lavoro che egli aveva in fabbrica.
Passò qualche mese prima che ci fossero i soldi per comprare il cemento e infine, non appena la primavera si fece viva, l’acqua della Bure perse il colore giallognolo e il suo scorrere non fu più limaccioso e veloce: allora il babbo prese la pala e incominciò a tirare su dal greto del torrente pietre e rena, facendone due monti che crescevano di giorno in giorno. Io andavo a fargli compagnia mentre egli affondava un poco il letto del torrente togliendone piccole pietre che poi impastava con rena e cemento, e dopo aver messo in una forma rettangolare l’impasto ne faceva uscire grossi cantoni grigi che metteva a seccare in lunghe file ai piedi del muretto, sotto il canneto che costeggiava la strada e dal quale si scendeva sul greto.
La gente si affacciava incuriosita dal muro della Bure a guardare quello strano pescatore di pietre e rena. In quei pomeriggi trascorsi sul greto del torrente, mentre il babbo così lavorava e io gli ero vicina, mi lasciavo prendere dall’atmosfera di quei luoghi come da una magia. In quel tratto le libellule scendevano dall’argine già verde per salutare i pesci volando a fior d’acqua in grandi cerchi; io guardavo incantata quella danza più leggera della brezza che increspava la trasparenza verde dell’acqua, attraverso la quale si vedevano guizzare pesciolini appena nati, in gruppi ondeggianti come piccole schegge d’argento.
Le grosse pietre che servivano da lavatoio erano di nuovo allo scoperto e le donne venivano a lavare i panni con grossi secchi e pezzi di sapone, facendo impazzire l’acqua in mille bollicine bianche che si perdevano in una lunga scia soffice e spumeggiante come panna montata. Il babbo aveva fatto una passerella con grosse pietre per attraversare il torrente nel punto dove faceva una strettoia e l’acqua era bassa, di modo che io potevo finalmente andare sull’argine “soprabbure” e immergermi in quella campagna tanto agognata; mi arrampicavo lungo il muro di sostegno, poi correvo per un viottolo fra due siepi di rovi, e via per i fossi, alla ricerca delle viole a mammola e dei maggiolini che si mimetizzavano fra i pampini sopra i teneri talli delle viti.
Il paesaggio era fresco e rigoglioso, con i campi che già ondeggiavano dei primi ributti del grano come una marea verde; io stavo attenta a non calpestarlo e passavo fra i fossi, anche perché le viti che li recintavano mi avrebbero nascosta alla vista dei contadini, attenti a guardia delle loro proprietà. Quei silenzi, interrotti a tratti soltanto dal rumore del treno che passava sulla vicina ferrovia, e quel senso di infinita libertà , mi facevano sentire la voce della campagna in tutta la sua armonia; il frusciare dell’erba e delle piccole serpi arrotolate al primo sole e che al rumore dei miei passi sgusciavano via veloci, il tremito delle foglie sulle piante mosse dal vento, i ronzii dei primi calabroni e i primi voli delle farfalle… Al tramonto, quando sentivo il fischio del babbo che mi chiamava, scendevo di corsa portando delle viole e dei cesti di rapicelli.
Il babbo si riposava seduto all’ombra del canneto, vicino ai suoi cantoni, fumando una sigaretta e contemplando il suo lavoro come un artista che avesse terminato la sua opera. “Domani” mi disse una sera “cominceremo a portare i primi cantoni sul terreno dove già ho finito le fondamenta, e speriamo che il Brescio (un nostro vicino) ci presti la barroccina”. La barroccina era di legno rosso, con due ruote; sulla bandina, dove erano attaccati i manici, c’erta scritto con la vernice bianca “Lo presto domani”. Fortuna volle che il giorno dopo per noi fosse domani, così partimmo con la barroccina carica di cantoni, passando per via Serragliolo, giù giù fino al terreno. Così, con una mestola da muratore e una livella, ebbe inizio la costruzione della casa.
Per fare il cemento c’era bisogno d’acqua, che il babbo andava ad attingere ad una fontana posta all’inizio di via Travetta, una viuzza vicina al terreno; e sebbene la necessità dell’acqua non andasse oltre un paio di secchi al giorno, i vicini che abitavano le vecchie case della via non videro di buon occhio quell’uomo che, sudato e con la voce roca di fatica, andava ad attingere alla loro fonte; così un giorno il babbo ebbe l’amara sorpresa di vedere arrivare la guardia comunale che, con cipiglio risoluto, cappello in testa, divisa e tanto di libretto in mano, gli intimò di non prendere più acqua da quella fonte perché, pur essendo essa comunale, non serviva per murare e lui doveva interrompere subito ogni e qualsiasi ardire contrario.
La guardia, certo Cecchi, non seppe mai quanto dolore, oltre che umiliazione, questa cosa costò al babbo, che, da uomo tutto d’un pezzo come era, non superò mai l’onta del rimprovero, che sentì come una grossa ingiustizia, né mai perdonò a colei (immaginava anche chi fosse) che gli aveva fatto l’offesa di mandare una guardia a fermare il suo lavoro, come se fosse stato un bandito. Così si fermò il lavoro che con tanto entusiasmo era iniziato, e si dovette attendere di avere i soldi per impiantare un pozzo artesiano sul proprio terreno, dal quale attingere l’acqua necessaria. Passarono molti mesi prima che uno zampillo d’acqua sgorgasse dal pozzo, che era stato costruito da uno zio del babbo che lo faceva di mestiere; e questo permise di riprendere la costruzione di quelle mura, che crebbero a vista d’occhio.
Il lavoro nella fabbrica, quando il babbo faceva le nottate, gli permetteva di dedicarsi alla casa per tutto il giorno, anche se così facendo dormiva pochissimo; e una notte, mentre puliva la filanda, non si accorse di aver premuto il pulsante della messa in moto: e la grande macchina partì schiacciandolo dentro.
Fui svegliata la mattina alle sei da un compagno di lavoro del babbo, che dalla strada andava gridando che c’era stato un incidente in fabbrica e che il babbo era in ospedale a Prato. Vidi partire la mamma in Vespa con lo zio Guido, seguita dalla disperazione della nonna Morina e mia.
Si era fratturato il bacino – ci dissero – ma non era in pericolo di vita; però ci sarebbero voluti molti mesi e molte cure per farlo camminare di nuovo. Allora non esisteva la cassa mutua per gli operai: così, se uno non lavorava non riscuoteva la busta-paga; ci salvò, in quel tempo, la solidarietà dei compagni di lavoro del babbo, che ogni quindici giorni ci inviavano, tramite Alemanno, il suo più grande amico oltre che compagno di lavoro, il ricavato di una colletta che ci permise di sopravvivere.
Le gambe del babbo erano tenute alte e avevano dei pesi alle caviglie per farle stare in trazione, e io, ogni volta che lo andavo a trovare nel suo letto, pensavo che solo Gesù Cristo sulla croce poteva aver avuto il suo sguardo desolato. Ma, come avevo sentito dire dalle nonne mentre sedute nell’aia facevano la treccia, “nella vita sempre bene non può andare e sempre male non può durare”; così anche questa burrasca passò e un bel giorno sereno il babbo, con la costanza e la forza del bisogno, riprese a murare finchè non arrivò al tetto della costruzione.
Erano trascorsi alcuni anni ancora e io avevo finito le scuole elementari e avevo incominciato a lavorare, prima in uno stanzone dove facevo i cannelli per i telai, e poi ai telai stessi. Questo mi permise di aiutare il babbo nella finitura della casa, e fui contenta quando lo sentiti dire che con i miei soldi aveva comprato le serramenta. Erano trascorsi circa otto anni dall’inizio della costruzione, durante i quali era nato il mio primo fratello e un altro era in arrivo; ora che la casa era finita, io ero una ragazzina di circa tredici anni e mi apprestavo a tornare a vivere, con la mia famiglia, in quella casa nuova.
Era a un solo piano, a baiadera, la casa nuova, e anche se non era molto grande aveva due belle camere, un salotto e i servizi, una bella porta d’ingresso di legno massello,  le persiane verdi e anche un poco di terreno sul retro e una striscia di giardino davanti, con tre piante di rose rosse che spuntavano dalla ringhiera sopra il muretto che la recintava. La casa aveva quelle comodità alle quali non eravamo abituati e che resero molto piacevole abitarvi. Ero contenta della luce soddisfatta che illuminava lo sguardo del babbo, in contrasto a quella della mamma sempre scontenta di qualcosa.
Mi sentivo tuttavia, nello stesso tempo, sradicata dal mio torrente e privata delle mie amiche, e mi sembrava di dover vivere con mezzo cuore, poiché l’altro mezzo era rimasto sulla Bure, accanto alla nonna Morina e a tutte le cose e alle persone semplici che avevano riempito la mia infanzia e che mi portavo dentro: i colori trasparenti dell’acqua della Bure in primavera, i bagliori e i falò sul greto quando si bruciavano le foglie secche del canneto, le voci delle persone che si chiamavano per soprannome, o quelle di noi bambini quando le sere d’estate si correva nelle prode del grano maturo dietro alle lucciole cantilenando: “Lucciola lucciola vien da me, ti darò il pan del re, pan del re e della regina, lucciola lucciola vien vicina”
                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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Storia e storie

COME HO CONSCIUTO DON LORENZO MILANI

Pubblichiamo questa testimonianza con la semplicità di stile e l’anonimato con cui era stata presentata, molti anni fa, nell’ambito del “Premio Prato Raccontiamoci”.

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Mai avrei immaginato che quel pomeriggio di un sabato come tanti altri avrebbe segnato tanto la mia esistenza.
Quando, insieme alla mia ragazza, avevamo scelto quel film intitolato “Un prete scomodo”, avevo solo qualche vago ricordo dei discorsi sentiti in famiglia riguardo a don Lorenzo Milani.
Sarà stato che a diciassette anni ci si nutre ancora di grandi ideali e si crede possibile cambiare il mondo, sarà stato per la grande interpretazione fattane da Enrico Maria Salerno, fatto sta che all’uscita dal cinema mi resi conto che quello che avevo visto era già dentro di me, e adesso lo sapevo.
Nei giorni seguenti continuammo a parlarne e decidemmo di visitare Barbiana appena possibile; fu di domenica e un Mugello vestito d’autunno fece da cornice a quella esperienza indimenticabile; abbandonata la strada statale, dopo alcuni chilometri di strada immersa nel verde ci apparve Barbiana, il “Paradiso” di don Milani, una chiesa di campagna a cui si stringe la canonica: ecco tutto il suo mondo, la prima scuola di emancipazione dei poveri, la realizzazione di un modello che ancora oggi anima e scuote le coscienze degli insegnanti migliori.
L’anno seguente, alla fine dei miei studi, affrontando la prova di italiano don Milani “segnò” ancora la mia strada: era il decennale della sua morte ed una delle tracce dateci per i temi chiedeva di parlare della sua vita.
Non so dire se fu il mio miglior compito di italiano, ma fu certamente il più sentito e appassionato che abbia mai scritto. Era il 1975 e negli anni seguenti approfondivo quanto possibile la mia passione con la lettura dei pochi libri che questo straordinario uomo ci ha lascito; poi nel 2006 ci fu la nostra prima  "marcia di Barbiana".
Avevo scoperto l’esistenza delle marce per via della passione per lo scrivere, partecipando al concorso “Rilettura di Lettera ad una Professoressa quarant’anni dopo”.
Quando poi, a fine febbraio 2008, ricevetti un nuovo invito a scrivere quello che don Milani mi aveva lasciato dentro l’anima, fui assalito dal dubbio che questa volta la cosa mi riguardasse, visto che si trattava di concorso indirizzato “a singoli cittadini adulti, in particolare insegnanti”.
Una frase però mi aveva colpito in particolar modo: “Fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze”; la leggevo e la rileggevo dentro di me, e infine trovai la risposta; a Barbiana la parola “insegnante” non era un titolo, ma l’accezione più semplice e genuina di chiunque trasferisce il proprio sapere ad un altro per aiutarlo a migliorarsi e si sente gratificato da questo; non è importante dove si insegna, è importante come lo si fa, lo spirito che ci anima; è importante insegnare quello che si sa, quello che abbiamo scoperto o che altri ci hanno insegnato: deve essere un modo di vita ed è questa la scossa di fratellanza che dall’epicentro di Barbiana fa crollare il muro della nostra indifferenza. In questo testamento pedagogico vi è tutto il significato dell’esempio di don Milani, tutta la sua modernità, il porre l’uomo al centro in una visione che lo avvicina al miglior Fromm.
Sotto questa luce così umana decisi di parlare della mia esperienza professionale senza timore di apparire un “maestro” ma felice di aver scelto un modo di vita ispirato alle nostre radici più profonde, dove il mutuo aiuto era la normalità e gli anziani ogni giorno insegnavano ai giovani, spesso senza necessità di parole, la loro esperienza nel lavoro della terra e nella cura dell’ambiente.
Nei primi anni Settanta, ancora studente appena quattordicenne, iniziai a lavorare di pomeriggio in una  officina e mi trovai abbastanza perplesso nel confrontare due mondi così diversi come quelli della scuola e della fabbrica: nel primo tutto era finalizzato, per definizione, all’insegnamento, mentre nel secondo, dove c’era veramente tutto da imparare, sembrava che tutti volessero insegnare il minimo.  
Mi accorsi subito che vigeva un sistema tipo “bottega medioevale”, cioè gli apprendisti, come me, ruotavano nell’orbita di operai anziani specializzati, veri maestri da cui attingere il mestiere ma chiedendo il meno possibile, perché, come nel Medioevo, l’allievo migliore veniva considerato quello che riusciva ad imparare “rubando con gli occhi”, mentre il chiedere spiegazioni era interpretato come indice di poco acume.
Nessuno lo ammetteva ma si avvertiva, più o meno forte a seconda del carattere del “maestro”, una forma di protezionismo del sapere, una paura di insegnare troppo, di perdere il primato, di essere superati dall’allievo.
Io, nonostante ancora non vedessi il mondo attraverso le lenti che poi mi ha regalato don Milani, avvertivo il disagio di questa situazione e soprattutto quanto fosse discriminante una selezione di quel genere in un ambiente dove si andava tutti per la necessità di guadagnarsi la giornata.
Inevitabilmente i meno dotati o i meno veloci nell’imparare venivano bocciati silenziosamente, destinati a compiti di sola produzione materiale o manovalanza, e finito il periodo di “apprendistato” simili compiti sarebbero rimasti appiccicati loro addosso come una condanna per tutta la vita senza altra possibilità se non quella di cambiare genere di lavoro.
Ebbi la fortuna di non essere fra questi, la natura mi aveva infatti regalato una grande passione per quel mestiere e una buona capacità di imparare, per cui con il passare degli anni divenni in grado di insegnare a mia volta quello che avevo imparato; nel frattempo avevo letto molto di Barbiana e le mie convinzioni avevano preso forza e adesso poggiavano su una base solida; scelsi allora di fare il capo officina nella convinzione che si potesse farlo meglio, diversamente da come vedevo intorno a me, puntando sul rispetto generato dalla capacità e non sull’autorità imposta, mirando alla crescita professionale dei ragazzi che sarebbero venuti a lavorare con me; non era un progetto speciale, era secondo me l’unico modo in cui si potesse lavorare umanamente, cercando per quanto possibile di sviluppare le capacità di ognuno, accettandone le diversità senza penalizzarle ma aiutando a far capire ad ognuno l’importanza del proprio compito all’interno  del gruppo di lavoro.  
Fu più precisamente al ritorno dal servizio di leva che iniziai a perseguire questo obiettivo; accettai l’incarico di formare l’officina interna di una piccola azienda di strumentazione elettronica; era quello che sognavo, partivo da zero, eravamo io ed il signor Dino, un pensionato tuttofare, un uomo di una semplicità unica nonostante fosse il padre del mio “principale”; poi arrivò mio padre, un tornitore eccezionale, a darmi una mano negli ultimi due anni che gli rimanevano prima della pensione.
Iniziai a far assumere giovani, uno alla volta, il gruppo cominciava a formarsi, ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie esperienze scolastiche o di lavoro, ed io cercavo di svilupparne le capacità insegnando tutto quello che sapevo e che imparavo ogni giorno dai nostri due “vecchi”.
Quando, dopo venti anni, decisi di concludere questa esperienza, insieme all’inevitabile malinconia per qualcosa di irripetibile che finiva c’era la grande soddisfazione di vedere che i ragazzi di un tempo erano cresciuti, insieme ci eravamo migliorati e adesso erano in grado di proseguire da soli e di insegnare a loro volta.
Oggi che, cinquantenne, lavoro in una realtà più grande, umanamente arida e molto diversa, ripenso spesso a quel percorso senza ricordare il peso degli anni lavorati duramente ma con soddisfazione, quella soddisfazione che dà il tempo speso bene; e continuo quando possibile ad insegnare quello che so perché sono convinto che quando non si ha più voglia di imparare ed energia per insegnare si è veramente vecchi ed inutili agli altri ma soprattutto a sestessi, una pianta che non dà più frutti e non si rigenera alla propria ombra.
                                                                           
                                                                                                   (Anonimo, in ricordo e per proseguire l’esempio di don Milani)

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Storia e storie

IL RAPTUS DI GSEPP

Triste storia vera, come tante altre. Esiste la bellezza, nel mondo, esiste il bene, ed esiste il male. Diffuso da sempre negli anfratti più impensabili della nostra società. La stupidità e la violenza, fra l’altro, hanno sempre colpito ciecamente i deboli: donne, come in questo caso, bambini, malati, anziani indifesi, poveri. Cambiano i tempi e le forme ma non siamo sicuri che si indebolisca la sostanza di tanta stupidità e violenza. Il racconto di vita che qui pubblichiamo ci presenta un quadro sociale risalente nelle sue linee generali a molti decenni fa, ma tuttora presente in qualche anfratto delle nostre realtà sociali.
 
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Oggi dal mio Ipod, mentre ero in macchina, ho ascoltato un vecchio motivo dei Rolling Stones: Heart Stone (Cuore di Pietra). E’ stato il mio gruppo preferito, il gruppo che mi ha fatto sognare e vivere storie indimenticabili. Nella canzone, Mick Jagger racconta che lui ha conosciuto tante ragazze che ha fatto piangere e soffrire, e tutto a causa del suo cuore di pietra. Ed è così che, ascoltando la canzone, è riemersa nella mia memoria una strana storia, quella di un heart stone bonefrano. Il mio paese natale è infatti Bonefro.
Qualche giorno fa sono andato a fare un giro da mio fratello Nicola. Eravamo fuori sul balcone a prendere un caffelatte e a raccontarci storie del passato quando ho rivisto, dopo tanti anni, un nostro compaesano, Gsepp Colomb. Abita di fronte alla casa di mio fratello. E’ sempre solo, mi dice mio fratello. Era seduto sulle scale della sua casa, tutto assorto in sestesso. Gsepp emigrò in Canada nel 1957 in compagnia di sua moglie Evelina e di suo figlio. Gsepp è una persona di poche parole. La sola volta che gli ho parlato mi ha raccontato di quando lui e suo fratello non si scambiavano una parola nemmeno quando mangiavano. Era la sua maniera di farmi capire che sarebbe stata l’unica conversazione che avrebbe avuto con me. Questo spiega che tipo di uomo era: un tipo ferreo, taciturno, tutto di un pezzo.
Per conoscere tutta la forza del carattere di Gsepp Colomb bisogna tornare un po’ indietro col tempo. Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Evelina era una giovanissima ragazza e una delle poche fortunate: era andata a scuola. Aveva quasi terminato le elementari e abitava lungo il Corso Guglielmo Marconi, vicino al Pont Don Saverio. Era una bella ragazza, formosa. Negli anni ‘50 andavano di moda le donne formose: se volevano sposarsi, bisognava avere un fisico forte per lavorare la terra e crescere i figli; quelle troppo snelle restavano zitelle, a meno che accettassero di sposare un vedovo oppure… quello che passava il convento.
A diciotto anni Evelina aveva dei sogni come tutte le ragazze e i ragazzi della sua età. S’innamorava dei protagonisti dei fotoromanzi e leggeva ogni settimana Grand’Hotel. Si era innamorata del protagonista di Grand’Hotel Massimo Ciavarro. Un giorno, di nascosto, come tantissime ragazze, Evelina riempì il formulario per diventare attrice di fotoromanzi e lo spedì alla direzione di Grand’Hotel: ma per sicurezza aveva preso anche a seguire un corso di ricamo con telaio e uncinetto presso le suore, nel caso che il suo sogno non si realizzasse. Sperava di avere un ragazzo tutto per sé a cui pensare la sera, prima di addormentarsi. Finalmente si innamorò di Nicola Massa. Tutte le volte che la incontrava per strada lui le puntava gli occhi addosso. La sera si metteva vicino alla fontana aspettando che lei andasse a prendere l’acqua. Ogni domenica mattina si vedevano in chiesa. Lui cercava il suo sguardo. Lei sorrideva arrossendo. Questo era abbastanza per farla sognare.
Poi un giorno arrivò quello che Evelina non avrebbe mai immaginato. I suoi genitori avevano un progetto per lei: le dissero che la mamma di Gsepp Colomb era andata a casa loro per domandare se la ragazza voleva sposare suo figlio. Evelina non sapeva cosa fare né cosa dire. Era disperata ma non le lasciarono il tempo di pensare: “u’ ferr zi vatt quanne è call” (il ferro si batte quando è caldo) disse subito suo padre. Le spiegarono che Gsepp era un buon partito: aveva qualche pezzo di terra ed in più era uno dei fortunati che poteva emigrare in America, in particolare in Canada. Andare in America in quei tempi era come vincere l’Enalotto: tutta la famiglia avrebbe avuto la possibilità di emigrare.
Soprattutto la mamma di Evelina, la cui cugina lavorava e viveva da sola a Toronto, e le aveva scritto che in America le donne non sono schiave degli uomini e sono rispettate, insisteva. Quando Evelina cercò di dire che lei voleva bene a Nicola e che non se la sentiva di sposare Gsepp, suo padre la fece zittire subito dicendo che Nicola Massa veniva da una famiglia nullatenente e le ricordò che a decidere era lui, mentre sua madre le parlava dell’America. Accettarono l’offerta della mamma di Gsepp, e così si fece il matrimonio.
Nel frattempo, Nicola partì per il servizio militare. Fare il militare in quei periodi significava essere una persona normale, un vero uomo. Essere riformato invece era una disgrazia: chissà che malattia ha? Chissà se può avere figli? Per quelli che erano accettati nelle forze armate era come vincere al lotto: era l’occasione per andare fuori casa, andare in città, prendere il treno, imparare un mestiere, finire le elementari, ed in più si poteva andare a far visita alle donne “libertine”, quelle che operavano nei bordelli). Per molti era insomma l’occasione per vedere una donna come l’aveva fatta sua madre. A volte s’innamoravano di quelle donne. Nicola restò in varie caserme per 28 mesi: imparò a parlare italiano e finì le elementari. Ogni settimana comprava il suo fumetto preferito, Tex Willer. Alla fine del servizio militare tornò a casa e una sorpresa lo attendeva: la sua Evelina, che aveva immaginato accanto a sé nelle sue notti di solitudine in caserma, si era sposata con un altro.
Nessuno aveva previsto che al loro primo incontro accadesse quello che accadde. Un giorno di febbraio Gsepp ed Evelina erano a Santa Croce, paese vicino al loro, e aspettavano la corriera per tornare a Bonefro. Gsepp pensava di trasferirsi a Santa Croce, dove lavorava da qualche mese in una fabbrica di tegole. Il caso volle che anche Nicola aspettasse la corriera per far ritorno a Bonefro. Gsepp salì per primo per trovare due posti per lui e sua moglie: dopo entrò anche Nicola con l’altra gente, e infine entrò Evelina, che camminò verso il sedile dove era seduto Gsepp. Attraversando l’autobus lungo il corridoio incontrò Nicola che era rimasto in  piedi. Lui, dimenticandosi di essere a Bonefro e comportandosi come fosse in una città dove normalmente si saluta una persona che si conosce, la guardò e le disse buongiorno. Lei gli rispose abbassando gli occhi e andò verso il sedile dove era seduto Gsepp.
Ed è lì che successe il patatrac: Gsepp aveva visto la scena, Nicola aveva salutato sua moglie e lei gli aveva risposto. Le mani gli tremarono e il viso in fiamme. Appena il pullmann si mise in marcia, approfittando del rombo del motore, come preso da un raptus, ricordandosi che Nicola era stato lo sposo immaginario di Evelina sentì di colpo il suo cuore volergli uscire dal petto, tirò fuori di tasca un coltello (arma preferita dei bonefrani) e con un gesto fulmineo assestò una coltellata al fianco sinistro della moglie.
Evelina non gridò, non emise un gemito, e per un attimo il fiato le mancò. Nessuno si accorse del gesto fatto dal ferreo Gsepp; sorpresa, Evelina barcollò, ma non cadde. Con una mano si teneva il fianco ferito, e con l’altra afferrò il manico del sedile per sedersi. Si coprì con lo scialle lungo tutto il tragitto Santa Croce-Bonefro. Quando arrivò a Bonefro, scese per ultima. Suo marito uscì per primo, ancora sconvolto per quel comportamento di sua moglie.  Evelina scese dall’autobus lentamente, senza dare segno di debolezza, anche se pensava che era sul punto di morire, e andò a casa di sua madre. Entrò in casa e appena varcò la soglia cadde per terra. Sua madre, come se qualcuno l’avesse avvertita, capì tutto. La trascinò sul letto, la spogliò, lavò la ferita, la disinfettò con l’alcol e con molta pazienza la ricucì. Poi andò in casa del farmacista per chiedere dei medicinali per il dolore, per evitare che si creasse un’infezione. In quei periodo le donne bastonate, violentate, ferite, non si recavano dal dottore ma si recavano a casa del farmacista fingendo di essere cadute per le scale. Questo per evitare che il dottore facesse un rapporto sulla violenza subita dalla paziente.
Il giorno dopo, la mamma di Evelina uscì di casa per andare dai carabinieri e denunciare quel delinquente di suo genero; camminando sulla lunga strada ripida pensava al carcere, al disonore, alle donne di Bonefro e alla sua unica figlia. Confusa, si fermò per un po’ di tempo in chiesa. Disse il rosario, invocò la Madonna decine di volte. Infine decise di recarsi da quel farabutto di suo genero: andò per dirgli che aveva oltrepassato i limiti e per poco non gli ammazzava la sua unica figlia. Gsepp, ancora sotto l’effetto del raptus, appena la vide le disse: “Dove è quella puttana di tua figlia?”. La mamma provò a replicare ma lui subito aggiunse: “Questo è stato solo un avvertimento. Con il mio onore non si scherza. La prossima volta se si ripete la stessa cosa ti giuro che non rivedrai più quella zoccola di tua figlia viva”.
                                                                                                                     
                                                                                                                              (Anonimo, Premiopratoraccopntiamoci)
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Storia e storie

MIO PADRE

Piccolo e disadorno quadretto di esperienza personale e familiare, che non fu premiato allo storico Concorso pratese, ma che ci segnala un problema sociale vero, a volte drammatico, antico e non del tutto raro. Per la nostra consapevolezza e responsab ilità umana ed educativa.

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Quest’anno febbraio è arrivato con il suo consueto fardello di neve, creando il solito bellissimo paesaggio. Ma quella sera il vento gelido ululava per la valle, adagiando qua e là i suoi fiocchi di neve. Rincasando dal lavoro mi affrettai ad accendere il camino e dopo un po’ la legna scoppiettava, esalando i suoi fumi. Il mio gatto Fuffi, sdraiato accanto a me, faceva le fusa, beato di assaporare il tiepido calore, ed io, seduta alla scrivania, ero impegnata nella correzione del compito in classe dei miei alunni.
Pensai a questo mio secondo anno da insegnante, che aveva appagato tutti i miei sacrifici, dato che avevo impegnato tutto il mio tempo tra lo studio e l’osservazione dei bambini che creavano ogni giorno novità da scoprire e meditare.
Il tema che avevo dato da svolgere riguardava la famiglia: titolo “I tuoi genitori”; nei racconti i ragazzi esaltavano soprattutto la figura paterna con trasporto e amore, anche se adoravano non meno la mamma.
Mi addolorai però leggendo l’ultimo compito: la bimba parlava del legame tra lei e la madre, di una reciproca devozione che però veniva rattristata dalla mancata figura paterna, che la piccola non aveva mai conosciuto. Lentamente, copiose lacrime rigarono anche il mio viso: capivo l’amarezza del cuore di quella bambina per l’inferiorità di quel sentirsi senza padre.
E come la capivo! Lo avevo già fatto, quel percorso pieno di tristezza, e per mia sensibilità questo argomento mi era di un dolore particolarmente acuto.
Mia madre, una donna taciturna, difficile da capire, aveva in me una figlia con scarsa abilità a leggere la sua mente, e del resto lei non parlava quasi mai, alle mie domande si chiudeva in un silenzio assoluto mentre io aspettavo risposte che non arrivavano mai.
Da quella ragazzina introversa che ero non avevo avuto amicizie, mi allontanavo da tutti per paura che si scoprisse questo mio segreto dolore. A scuola mi arrabbiavo se le ragazze, parlando a bassa voce, mi additavano con occhiate di compassione come forse solo i bimbi sanno fare.
Convinta di aver seppellito tutto in fondo al cuore, ecco, leggendo il piccolo tema della mia alunna,  riaffacciarsi ora lui, quel padre al quale la mia mente aveva dato mille volti senza nome, e che le righe scritte da una bimba avevano reingigantito con amari ricordi.
Chiusi il quaderno perché invasa da emozioni troppo forti; la mia vista si era un po’ appannata e pensai di chiedere ancora una volta di mio padre per capire se ero una figlia indesiderata, ma erano tante le domande collegate con questa… “Ma a che scopo? – pensai; - Al cuore non si può comandare, forse, e ci si deve rassegnare…”.
Con questi pensieri mi avviai verso la mia cameretta, lasciando tutto al nuovo giorno che bene o male, tra problemi e gioie, avrebbe riempito quel vuoto creato a me da una vita di quesiti senza risposta. Tuttora presenti.

                                                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                    
                                                                                                  °°°°
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Storia e storie

SOLIDARIETA' PRATESE

Piccola storia vera di città, memoria da salvare nella sua semplicità affinchè le nuove generazioni continuino a imparare che c’è sempre qualcosa di buono che possiamo fare per noi e per la comunità in cui viviamo, e che in fondo è quasi sempre il cuore che fa i miracoli. La traiamo dagli “Inediti del Premio Prato Raccontiamoci.
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Questa è la storia di alcuni pratesi che nel gennaio del 1951 decisero di dotare l’Ospedale “Misericordia e Dolce” di Prato, del “Polmone d’Acciaio”. Si trattava di un macchinario all’avanguardia per quei tempi, usato con efficacia in tutti i casi in cui occorre la respirazione artificiale: e sono tante le patologie in cui può essere impiegato per salvare vite umane. La cittadinanza rispose con grande solidarietà all’appello, con donazioni piccole e grandi che in meno di due mesi raggiunsero la cifra record di due milioni delle vecchie lire. L’ospedale fiorentino di Careggi ne era già dotato e la stampa aveva riportato la notizia di questo macchinario che riscuoteva successo nel campo medico e salvava vite umane.
Per ritrovare questa storia pratese, rimasta viva dopo tanti anni nella mia memoria – io sono della classe 1927 e all’epoca del fatto che racconto ero milite della Pubblica Assistenza L’Avvenire – si deve tornare indietro più di mezzo secolo, quando Prato risorgeva dalle rovine della guerra e iniziava una nuova epoca che avrebbe cambiato la nostra città non solo nel tessuto sociale ma anche in quello lavorativo e generale, soprattutto con l’arrivo di tanti immigrati, e tutto il territorio avrebbe subito mutamenti grandi. Era l’anno 1951, appunto, avevo 24 anni ed ero appassionato di fotografia, ero impiegato alla fabbrica tessile Lenzi di Gabolana, a Vaiano. La sera quando tornavo dal lavoro mi fermavo volentieri allo studio fotografico dei coniugi Massai in via Ricasoli, a Prato, a fare quattro chiacchiere con la signora Nadina, che era una vecchia crocerossina e si occupava di volontariato.
Frequentava lo studio fotografico anche Giuseppe Giagnoni (detto Beppe) giornalista della Nazione, che ci informava soprattutto sulle ultime notizie. Il nostro argomento di conversazione una sera fu la novità del Polmone d’Acciaio già in funzione all’ospedale di Careggi. “Perché non attivarsi per acquistare anche per il nostro ospedale pratese quel macchinario così necessario?”. Decidemmo allora di costituire un comitato per raccogliere fondi e dotare appunto anche il nostro ospedale di questo prestigioso “polmone d’acciaio”.
In poco tempo aderirono al comitato il presidente della Pubblica Assistenza dottor Loengrin Payer, Giuseppe Giagnoni presidente del gruppo Stampa, Ferdinando Cetica, anche lui giornalista della Nazione, Nadina Massai crocerossina, Mario Baroni commerciante, il sottoscritto Renzo Tonfoni impiegato, Ivan Ventisette sottofilatore, Gloria Godi proprietaria del cinema Rosson, Manfredo Santini edicolante, Alimo Cocci industriale, Ferdinando Turreni rappresentante. Fu nominato presidente del “Comitato per il Polmone d’Acciaio” il dottor Marino Luchetti industriale. Spero di non aver dimenticato nessuno. E’ giusto ricordarli tutti.
Formato il comitato, per prima cosa interpellammo il ragionier Paris Masti, all’epoca direttore amministrativo dell’Ospedale, il quale accettò con gioia la nostra iniziativa. Essendo il ragionier Masti anche segretario amministrativo della Pubblica Assistenza offrì la sede per le nostre riunioni. All’inizio le offerte non furono molte e allora decidemmo di rivolgerci alla stampa per sollecitare i cittadini. La prima notizia dell’iniziativa venne pubblicata sul quotidiano “Il Mattino” del 21 gennaio. Spiegava l’utilità di questo apparecchio medico scrivendo: “L’iniziativa di dotare il nosocomio di Prato del Polmone d’Acciaio è sorta da alcuni militi della “Pubblica Assistenza L’Avvenire” e da alcuni cittadini che si sono uniti subito a loro. Ma l’apparecchio costa una cifra non indifferente, quindi il Comitato che ha preso questa bella e lodevole iniziativa ha sentito il bisogno di lanciare attraverso la stampa cittadina un appello ai pratesi, che in verità non sono mai rimasti insensibili di fronte a simili necessità. Ed ecco le prime offerte: C.C. lire 500; Calvano 150; Montemoni in memoria di Maria Poccianti 500. Ulteriori offerte possono essere versate all’edicola Santini in piazza del Comune sotto i loggiati, che ancora una volta si presta per uno scopo nobilissimo”.
Mentre sulla Nazione dell’11 febbraio 1951 si legge: “Molti consensi e interessanti iniziative per acquistare il Polmone d’Acciaio;  lo spettacolo Giramento del Mondo ritorna al Metastasio, all’Apollo si sta preparando una festa danzante. Si cammina a grandi passi verso il milione!”.
I pratesi risposero con generosità e velocità, e il 18 febbraio il giornale La Nazione pubblicò ancora: “La somma per l’acquisto del polmone d’acciaio è stata raggiunta ieri”, con nel sottotitolo “Le cospicue offerte di due industriali pratesi e l’attesa per la Rivista Goliardica al Metastasio (organizzata dagli studenti del Buzzi), nonché la festa danzante all’Apollo”. In seguito fu presa l’importante decisione ulteriore di acquistare anche il “Polmoncino d’Acciaio” (incubatrice). A sorpresa, due fratelli noti industriali pratesi, Agostino e Giuseppe Canovai, che avevano un lanificio in San Giorgio angolo via Cavallotti, consegnarono personalmente al comitato un assegno di lire 750.000.
Fu proprio questa ultima donazione che accelerò i tempi, oltre a quella della signora Godi che donò l’incasso di due serate del cinema Rosson, in Corso Mazzoni. Questo ci diede l’impulso a intensificare ancora di più l’attenzione della cittadinanza e finalmente la cifra fu raggiunta e anzi superata e fu deciso di acquistare perciò anche la “Culla Termica”, che ancora mancava in maternità; e addirittura avanzarono ancora dei soldi, che furono spesi per l’acquisto di biancheria, dato che l’ospedale ne era carente. Finalmente arrivò il fatidico giorno dell’inaugurazione, con nostra grande soddisfazione.
Il quotidiano Il Mattino del 27 febbraio 1951 riporta la notizia che “è stato inaugurato il nuovo reparto ortopedico ed è stato benedetto anche il “polmone d’acciaio” che la cittadinanza pratese, in pochi giorni, anche per il munifico contributo dato dai fratelli Agostino e Giuseppe Canovai, ha reso possibile realizzando l’iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese.  
L’inaugurazione avvenne dunque il 26 febbraio del 1951, insieme a quella del nuovo reparto ortopedico. Il giornale del 27 febbraio riporta: “La cerimonia svoltasi domenica mattina ha raccolto una gran massa di invitati e di popolo. Gli onori di casa sono stati fatti dal Commissario Prefettizio marchese Degli Albizi, dal segretario dell’Ospedale rag. Pari Masti, dal direttore dell’Ospedale e del corpo sanitario. Fra i numerosi presenti abbiamo notato: il comm. Avvocato Vanni in rappresentanza del Prefetto; l’on. Senatore Guido Bisori; il pretore avvocato Massimiliano Malenotti e Mario Luchetti presidente del comitato per il “Polmone d’Acciaio”; il sindaco ragionier Roberto Giovannini con gli assessori Adriano Pucetti, Pietro Zella, Ugo Cantini, Tarquinio Fini; il commissario capo di P.S. dott. Cesare Tarantelli; il maresciallo Luigi Nesti comandante interinale della tenenza dei carabinieri; i consiglieri comunali Leopoldo Pieragnoli segretario della locale sezione della Dc e Pietro Giusti; il prof. Alighiero Ceri presidente della Pro Prato; Giuseppe Giagnoni presidente del Gruppo Stampa Pratese; il presidente della società Corale “Guido Monaco” e presidente del Conservatorio “S.Caterina”; Michele Vinattieri; il presidente della società Corale  Giuseppe Verdi rag. Fernando D’Agiana; il presidente dell’Istituto “Rosa Giorgi” Giovanni Bacci; rappresentanti del Cif; rappresentanti dell’Udi; Lorenzo Ferroni rappresentante dell’Onmi anche in rappresentanza del presidente; il direttore della Cassa di Risparmio cav.Gastone Lenzi; l’ing. Tommaso Gatti; il cav. Alfonso Carlesi ufficiale sanitario; l’ing. Lorini; Angelo Pugi presidente della Casa di Riposo, con il segretario cav. Gracco Bruschi; il segretario della Casa Pia dei Ceppi dott. Arnaldo Gradi; la signora Nadina Massai che tanta parte ha avuto in tutta la preparazione; il prof. Vito Mori consigliere comunale; il prof. Sante Pisani direttore sanitario dell’ospedale; il prof. Aurelio Angeli chirurgo primario con l’intero corpo medico; Dante Lastrucci proposto della Misericordia; il dott. Payar presidente della Pubblica Assistenza “L’Avvenire”; il comm. Silvano Bini presidente della Croce d’Oro; l’intero comitato del Polmone d’Acciaio. Dopo la benedizione del nuovo reparto ortopedico il vescovo di Prato e Pistoia, monsignor Giuseppe De Bernardi, accompagnato dal vicario generale della diocesi mons. Eugenio Fantaccini, si è recato a benedire il polmone d’acciaio. Nel discorso del commissario prefettizio poi si legge: “Il nostro Ospedale deve assai alla collaborazione dei cittadini, che, ad iniziativa della Pubblica Assistenza L’Avvenire e del Gruppo Stampa Pratese, hanno offerto il Polmone d’Acciaio”.
Alcune delle prime notizie apparse sulla stampa circa l’utilità di questo macchinario: sul quotidiano La Nazione del 20 gennaio nella cronaca di Firenze si legge: Per un caso di congestione, un paziente è stato sottoposto alle cure opportune fra le quali il trattamento con il polmone d’acciaio”. Mentre sulla Nazione del 15 marzo del 1952, in quarta pagina, alla cronaca di Prato, si riporta quanto segue: “La culla incubatrice in funzione al nostro ospedale. Quando si trattò di acquistare tra gli apparecchi spitalieri anche la culla incubatrice in virtù di quella non ancora dimenticata sottoscrizione per il “polmone d’acciaio” rilevammo la piena soddisfazione della nostra cittadinanza nel dare in donazione al nostro ospedale anche questo necessario mezzo moderno per i neonati prematuri per i quali prima si doveva ricorrere a Firenze al Mayer. In questi giorni un caso notevolmente specifico si è presentato agli occhi dei nostri sanitari, perché tale culla potesse essere usata nella sua essenziale funzionalità. Si tratta di due gemelli dati prematuramente alla luce dalla signora Zita negli Innocenti. I neonati, Piero e Paolo, grazie alle amorevoli cure dei medici e del personale ospedaliero, disposti immediatamente nell’incubatrice sono ormai salvi e continuano a sopravvivere in un ambiente come quello naturale, che potrà condurli al normale periodo di gestazione”.
Personalmente sono stato felice di aver contribuito anche solo in minima parte all’acquisto dell’incubatrice. Quando nel 1966 è nata la mia secondogenita ed ha passato il suo primo mese di vita nell’incubatrice, essendo nata sottopeso, ho capito quanto sia stato importante quello che avevano fatto i cittadini di Prato con la loro generosità. Il reparto di maternità, diretto con grande professionalità dal prof. Ruindi, già a quel tempo era dotato di diverse incubatrici moderne e funzionali.
                                                                                                                                     (Renzo Tonfoni)

(Ricerche di archivio alla Emeroteca della Biblioteca Lazzeriniana in Via del Ceppo Vecchio a Prato).

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Storia e storie

PORTO IL NOME DEL MIO PAPA' E MI SENTO SEMPRE ITALIANA

Ancora storie di emigrazione, ancora esperienze forti di vita, in semplicità di stile e di sentimento. Storie vere. E ancora Australia.

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Mamma mi raccontava sempre che a mio papà piaceva una famiglia grande, essendo lui figlio unico: aveva sofferto tanta solitudine nella casa dei suoi genitori, prima di sposarsi. Per questo la nostra famiglia era numerosa: eravamo sette femmine e due maschi. Mio papà aveva un tantino di amore particolare per me, mi è sempre parso. Ero la quinta dei nove figli ed eravamo comunque, così numerosi, una famiglia felice. Quando papà decise di partire in guerra, per l’Africa Orientale, i figli erano ancora soltanto quattro, tutte femmine. Papà decise di partire perché chi partiva volontario veniva pagato bene e qualche volta poteva tornare a casa in licenza. Insomma, per la famiglia si trattava di un bell’aiuto.
Essendo sempre innamorati, i miei genitori pensavano ancora di aumentare la famiglia e così mia mamma si trovò incinta della quinta figlia: ma questa gravidanza era diversa dalle altre quattro; tutte le donne le dicevano che sarebbe arrivato un maschietto; ma la risposta della mamma era invariabilmente: “Non m’importa che sia maschio o femmina: basta che ritorni mio marito dalla guerra e che il bambino sia bello e sano”.
Quando fu l’ora del parto, questo si presentò difficile: il bambino infatti aveva il cordone ombelicale attorcigliato intorno al collo. La mamma pregava Dio che si salvasse, e tutto andò bene; finalmente nacque la bambina: ero io! Mia mamma era felice e poiché papà si chiamava Vincenzo, quando andò al municipio per registrare la mia nascita fui chiamata Emilia Vincenza: ecco perché porto il nome di mio papà.
Subito dopo che fu registrata la nascita, il Duce, Benito Mussolini, mandò alla mamma il premio di lire 5.000, che in quei tempi erano tanti soldi, e così divenni “la figlia del premio”. Ancora più forte si fece il ricordo continuo di mio papà lontano dalla famiglia a combattere in guerra con il rischio di morire, per aiutare tutti noi. Il duce dava il premio a tutte le famiglie con bambini quando i loro papà erano in guerra come volontari.
Più crescevo e più la somiglianza con papà era forte; ero in particolare di pelle scura come lui; e mia mamma ripeteva: “Questa figlia suo padre l’ha portata dall’Africa e perciò è scura come lui”. Dopo di me, lei ebbe altri quattro figli, due femmine e due maschi: dunque, nove figli in tutto. Finalmente, con la nascita dell’ultimo finì la sua missione di avere bambini: non poteva averne più; in tutto aveva avuto diciotto gravidanze! E’ stata una mamma fortissima: oltre a crescere nove figli era anche sarta di uomo e di donna, lavorava all’uncinetto, faceva coperte da letto e centrini, lavorava il pane due volte la settimana e i biscotti tradizionali per Pasqua e Natale.
Quando ebbi compiuto diciotto anni di età decisi di partire per l’Australia: lì c’erano già due mie sorelle maggiori, sposate per procura; perciò anche io partivo contenta. Loro mi scrivevano sempre chiedendomi se volevo partire dato che lì si lavorava bene e la paga era settimanale. In effetti tutto procedette bene e in un anno di tempo per prepararmi partii: era il 29 ottobre del 1960.
Contentissima quando decidevo di emigrare, mi sono trovata triste all’atto di partire. Il giorno della partenza è stato in effetti il più triste della mia vita. Arrivata l’ora di lasciare mia mamma, le due mie sorelle più giovani di me e i due fratellini più piccoli, mi resi conto di quello che mi accadeva: ma ormai dovevo proseguire, e  così in compagnia di mio papà presi la corriera dal mio paese, poi il treno fino a Reggio e il battello fino a Messina. Finalmente arrivammo al porto, dove una grande nave mi aspettava: portava il nome “Roma”.
Quanta gente attorno a quella nave! Fra viaggiatori e parenti non si riconosceva chi erano gli emigranti, cioè chi doveva partire. Ad un tratto aprirono i passaggi per gli imbarchi nel grande bastimento, che fu subito carico di passeggeri, piccoli e grandi, giovani e meno giovani, uomini e donne. Mio papà venne con me dentro la nave, ricordo come fosse oggi; dopo pochi istanti la nave cominciava a dare i segnali di partenza e mio papà mi abbracciò forte forte, mi baciò e con le lacrime agli occhi mi disse: “Figlia mia, devo lasciarti; tu lo sai che devo ritornare a casa, questa partenza è stata la tua decisione: se ti piace stai nel luogo che hai scelto ma altrimenti ritorna qui, con tutta la ricchezza della tua bella giovane età; buona fortuna e a presto!”.
E mi lasciò. Io rimasi triste e con le lacrime agli occhi uscii fuori, dove tutti salutavano, col fazzoletto in mano, i loro cari. Vidi anche mio papà, col fazzoletto in mano, che diceva: “Ciao, Emilia!”. Man  mano che la nave si allontanava dal porto, le parole di tutti noi erano: ”Arrivederci, Italia mia, resterai sempre la mia patria!”. La giornata era al declino, il sole si nascondeva e incominciava ad imbrunire. Ognuno di noi cominciava a sistemarsi in cabina, perché avevamo bisogno di riposo, stanchi e straziati dopo una lunga giornata di lacrime per il distacco dai nostri cari.
I giorni passavano e il viaggio continuava con un tempo sempre variabile: un giorno sole, un altro burrasca. Si facevano nuove conoscenze e ci si raccontava il motivo di quel viaggio: alcuni perché sposati con procura, altri per trovare i familiari, altri per lavoro temporaneo ma con l’intenzione che se si fossero trovati bene si sarebbero sistemati definitivamente nella nuova terra. Dopo un lungo viaggio, ventotto giorni, siamo arrivati a Melbourne: era il 26 novembre 1960. La gioia che provai quel giorno del mio arrivo fu immensa soprattutto per la grande emozione nel vedere le mie sorelle dopo quattro anni di lontananza, insieme ai loro mariti e ai bambini. Ci salutammo e contenti, abbracciati a lungo come avevamo fatto prima di lasciarci, salimmo infine in macchina per andare a casa. Loro abitavano al numero 42 di Clifton St. Richmond.
Pranzammo e subito dopo cominciai a parlare di lavoro, contenta e piena di entusiasmo, e dicevo: ”Lo sapete che questo è lo scopo per cui sono venuta in Australia: lavorare!”. Per una settimana rimasi a casa per riposarmi, poi trovai lavoro proprio vicino all’abitazione delle mie sorelle: era un maglificio con pochi operai, lì si lavorava e si mangiava, e si faceva il tè, di cui mi diedero l’incarico nominandomi “tè girl”; dovevo preparare il tè tre volta al giorno, andare a fare la spesa con le note di ciò che i lavoranti volevano, scritte sulla carta in lingua inglese.
La paga era solo di sette sterline la settimana, ma io ero contentissima. Però un giorno, portando il tè, come al solito, al padrone per il suo pranzo, egli mi disse che non lo voleva sul tavolo e andò su tutte le furie, non so per quale ragione, chiamò una ragazza italiana e le ordinò: “Dì a questa girl che io oggi vado fuori per il lunch, perciò il tè non lo voglio”. La ragazza me lo riferì e io in quel giorno, con l’umiliazione che sentivo per questa scenata e per il fatto che non potevo replicare in lingua inglese, dissi a me stessa: “Che pazzia che ho fatto a lasciarti, Italia mia!”. In realtà l’Italia mi è sempre mancata molto.
                                                                                                      (Anonimo, Premio “Prato Raccontiamoci”)
 
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Storia e storie

1956: PRIMI GIORNI IN AUSTRALIA

Ancora una volta un racconto di vita inedito, tratto dalla serie “Prato Raccontiamoci”. Pubblichiamo questa storia e quelle simili così come ci pervengono, scritte da mani semplici di persone che hanno vissuto una vita intensa, nella prima metà del secolo scorso, quando ancora dall’Italia si emigrava quasi in massa;  e, il più delle volte, non hanno certo potuto permettersi lunghi studi letterari per scrivere con raffinatezza formale: ci raccontano la vita, semplicemente. E questo ci interessa più di tutto.

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Aprile 1956, Melbourne, Australia. Cielo nuvoloso, con la brezza che muove le foglie degli alberi. Il traffico non è pesante come a Roma. La casa che mi aspetta è sopra un negozio di generi alimentari. Dalla finestra vedo la Sydney Road, la gente che si appresta a salire sul tram per andare a lavorare nei vari sobborghi. La città è estesa, lunga e larga. Ci sono parchi, campi sportivi, polmoni di verde ben evidenti. Gli uomini hanno pantaloni larghi, camicie larghe, scarpe grosse e di color marrone, capelli tagliati corti e senza basette. Con la mano destra reggono borse pesanti. Molti si coprono la testa con enormi cappelli
Io trovo il mio primo lavoro in una fabbrica di scarpe. Sono giovanissimo e la paga è piuttosto magra. La fabbrica è gestita da una famiglia ebrea. Marito e moglie danno le direttive e comandano le operazioni del giorno; hanno un figlio che fa le scuole superiori, ma dopo scuola lavora anche lui per tre ore: poi va a casa per studiare. Una famiglia piccola, però unita e serena. I miei compagni di lavoro sono tre australiani. Uno di loro mi dice quando devo lavorare veloce e quando devo lavorare più lentamente e pigliarmi tempo. A mezzogiorno mi mandano a comprare il pesce e le patatine fritte con la Coca Cola.
Il cibo non è come il nostro… contiene tanto grasso! La carne di pecora non è che piaccia a tutti. Usano il lardo e non l’olio  d’oliva. E, invece del vino, bevono birra a non finire. Siccome i bar chiudono alle 18, dopo il lavoro scappano in questi locali onde poter bere la birra prima di ritornare a casa. Spesso ritornano a casa  un po’ brilli e litigano con le mogli… 
Le donne, quelle di una certa età, coprono le rughe con la cipria, tanta cipria! Non si fanno mancare il rossetto ed il cappellino, grigio o verde. Quelle giovani portano la gonna corta e mostrano la bellezza delle gambe. Un popolo di sportivi, questi australiani! Corrono anche sotto la pioggia, fanno ginnastica e nuotano come pesci.  Io ho una vecchia bicicletta e nelle ore libere giro per le strade di Coburg. Amo il ciclismo ed il calcio. Sognavo di diventare un portiere di qualità come Moro, Casari, Viola e Bugatti: ma dopo il lavoro non me la sento di andare a fare gli allenamenti. E poi incontro una ragazza italiana, Caterina, figlia di calabresi, ed incomincio a farle la corte. E’ più alta di me, più matura nel calcolare le cose della vita. Capelli lunghi e neri, due occhi vivaci, un nasino affilato, la bocca minuscola e con un viso fatto di lineamenti regolari. Mentre nel cielo brilla il sole e gli uccelli volano felici, decidiamo di fare una passeggiata al vicino parco. Ci buttiamo sull’erba verde, asciutta; ci guardiamo negli occhi come se fossimo imbarazzati, poi la mia mano trova quella di Caterina ed iniziano piccole carezze. Gioco coi suoi capelli, le bacio la fronte e subito sento le sue labbra sulle mie! I passeri saltellano sull’erba cercando qualcosa da beccare. Una ragazzina ci passa vicino e noi la smettiamo con le carezze. Due farfalle bianche si posano sui fiori. Il sole si avvia al tramonto ed è ora di lasciare il parco. Caterina non vuole che i genitori scoprano la nostra storia e rientra a casa con la solita puntualità: dice che i suoi genitori sono all’antica e quindi molto severi!
Certo, un bel paese, questa Australia! C’è serenità, allegria, lavoro, sole, pioggia e vento! A me però manca la piazza, il posto dove andare la sera per vedere gli amici, e manca il caffè corto. Qui fanno un caffè all’americana, cioè lungo e senza sapore: è come bere l’acqua sporca. Ancora non mi sono abituato a bere il tè, mentre gli australiani bevono tè e birra. Mangiano assai dolci e sono golosi. Adesso, finalmente, è arrivata pure la televisione! Appaiono le prime trasmissioni in bianco e nero, perlopiù sono pellicole americane oppure inglesi. Gli americani invadono l’Australia coi film western: sullo schermo appaiono cavalli, indiani, frecce, morti e feriti. La sera la famiglia si unisce attorno a questa scatola e commenta, di tanto in tanto, il corso delle azioni. C’è subito meno comunicazione di prima. Prima, di fronte al fuoco, si parlava di più e si raccontavano avvenimenti del passato realmente vissuti. Ora la Tv ci fa conoscere storie inventate e distanti dalla vita quotidiana. Divertimento in casa, cinema in casa. Le cose cambiano anche in Australia.
Frequento le scuole serali per imparare la lingua inglese. Bisogna conoscere la lingua inglese per fare la spesa, per capire cosa fare sul lavoro, per chiedere il nome di una strada, per pagare le fatture. A CoIburg c’è la chiesa cattolica di San Paolo. Molte donne italiane, la domenica, vanno a messa e a messa finita si trovano fuori e si scambiano le notizie. Parlano del marito, dei figli, della comare rimasta incinta prima del matrimonio, della casa da pagare, della nonna in Italia che sta male. Io sono cattolico, entro in chiesa e mi raccomando al Signore. Però al mio paese nativo era tutta un’altra storia! Al mio paese conoscevo i fedeli, il parroco, i santi, le varie cappelle. Qui, invece, non conosco nessuno. Nemmeno i santi mi sembrano veri, non mi destano fiducia. Il parroco non parla italiano e quindi io non mi confesso. Fortuna che di peccati ne faccio pochi! Quelli più gravi sono i baci che do a Caterina quando ci incontriamo sull’erba del parco: roba di poco conto, sfogo di gioventù! L’amore esiste anche a Melbourne, in Australia: lo si trova ovunque, l’amore. E non importa se uno vive in Australia o in Italia: l’amore è necessario e ci dà la forza di vivere, di combattere le avversità. Amo l’Italia dove sono nato, ma amo pure l’Australia dove lavoro e vivo: due amori, ma una sola vita.
                                                                                                             
                                                                                                                     (Anonimo, raccolta “Prato Raccontiamoci”)
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Storia e storie

UN GIORNO CAMMINEREMO INSIEME

Da quella bella e ricca miniera che è stato, per molti anni, il “Premio Prato Raccontiamoci: Storie di Vita Vissuta”, della cui organizzazione ho avuto la fortuna di essere parte attiva, e che fu illustrato da personalità quali Pamela Villoresi, traggo un ulteriore “racconto di vita”: uno di quelli che non ebbero l’onore della vittoria finale, ma che concorse, come tantissimi altri, a una ricchezza umana e culturale che caratterizzò sempre il premio, come accade quasi sempre quando gli anziani raccontano le vicende della loro esperienza di vita, spesso senza neanche porsi il quesito di forme letterarie o intenzioni d’arte cui vincolarsi. Di questo racconto, in particolare, non sono neanche in grado di fornire il nome dell’autore (la organizzazione del Premio conserva peraltro tuttora nei suoi archivi ogni documentazione): esso esprime tuttavia una di quelle misteriose storie personali che segnano a volte per sempre l’esistenza di chi le vive. La riproduciamo non per compiacenze letterarie, dunque, ma, innanzitutto, perché invitano il prosieguo della nostra permanente riflessione sull’affascinante mistero della esistenza umana.
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Sono passati molti anni dall’inizio della storia che voglio raccontare. In realtà, neanche io ne ricordo perfettamente tutti i particolari: ma non scorderò mai quanto questa amicizia mi ha insegnato a crescere ed a vivere.
 
Anche se abitavamo nello stesso paese, conobbi Danilo solo a scuola: carnagione chiara, capelli “a funghetto”, occhi profondi, incisivi, grandi, risata facile, e una dichiarata passione: l’Associazione Sportiva Roma.
 
Danilo era un compagno come tutti gli altri: non aveva niente di più, niente di meno, nulla di diverso. La diversità entrò però nella sua vita qualche anno dopo, proprio alla scuola elementare. Le maestre dissero che si era ammalato. Io, però, non capivo perché dovesse venire a scuola sulla sedia a rotelle. L’influenza, che spesso ci visitava tutti, fa arrossare il naso come un pomodoro e costringe a portare sempre dei fazzoletti in tasca, ti irrita la gola o ti fa alzare la temperatura corporea, ma non impedisce alle tue gambe di camminare o alle tue braccia di simulare il volo di un uccello.
 
In classe, le curiosità di tutti sull’argomento aumentarono, così come le mie: ma le maestre e mia madre sapevano sempre trovare le risposte giuste, quelle semplici, che ti fanno sembrare il mondo un’eterna fiaba che ti cullerà per sempre. Però la vita non è semplice e, purtroppo, da bambini si possiede un’ingenuità che con il passare degli anni si perde. Infatti, più passava il tempo e più le promesse dei grandi svanivano, più la fiaba si incrinava. Danilo non si alzò più in piedi. Mai. Anche se mi sforzo, oggi non riesco a ricordarlo in piedi. La sua normalità divenne il troneggiare stancamente su quella carrozzella.
 
Solo con gli anni che passavano mi resi conto che in realtà non sarebbe mai guarito da quell’influenza speciale:  era la distrofia muscolare. Una malattia che invade il corpo pian piano, sa conquistarlo, dominarlo e non lasciare più spazio: non c’è più posto per decidere dei propri movimenti, della propria felicità, del proprio tempo.
 
Non so se sia peggio sentire l’eco della propria volontà che non riceverà più risposte dal proprio corpo, o accettare lo stato di eterna solitudine dell’anima, dentro di sé: perché esisti integralmente ma una parte di te è come se non ci fosse  o fosse fuori di sé, e gli altri non possono capire davvero.
 
Quasi odiavo la sua situazione, perchè mi faceva sentire in colpa. A me non mancava nulla: potevo giocare ad acchiapparella e nascondino, potevo saltare a corda, potevo prendere i soldi ed andare a mangiare un gelato, potevo rotolarmi sul prato, potevo fare i capricci per un giocattolo, potevo ridere, potevo piangere, potevo andare al bagno, potevo essere una bambina. Potevo fare qualsiasi cosa avessi voluto: bastava la voglia, la volontà, e tutto era possibile.
 
Si dice che volere è potere ma, oltre ad insegnare che questi verbi vengono definiti modali e che ognuno dovrebbe saperli coniugare correttamente, la scuola dovrebbe spiegare perchè non tutti li possiedono: non dovrebbe lasciare all’esperienza personale e al caso l’insegnamento più grande, quello della vita.
 
Forse, in realtà, spiegazioni non ci sono, o è meglio non cercarle. Ma questo non bastava ad azzittire le mie continue domande: perchè proprio Danilo era malato? Perché io stavo bene? Cosa aveva fatto di tanto male per essere destinato ad osservare il mondo senza viverlo pienamente? Perché era così? Ogni attività dei bambini implica movimento ma questa sua condizione lo escludeva perennemente. Ci guardava da un angolo, sempre. Io sentivo i suoi occhi, sentivo quella rabbia, quel disagio e quell’immensa impotenza che portano a tenersi a distanza da tutto. Infatti, anche quando trovavamo il modo di farlo partecipare, Danilo restava sulle sue o si tirava indietro, invitandoci a non preoccuparci per lui.
 
Come ci si sente a vedere gli altri insieme, che si divertono, e poi, ad un tratto, cercano altri giochi per farti partecipare, senza però divertirsi come prima? Senza essere capaci di capirti, di non farti sentire diverso, un peso?
 
Provare ad immaginare il suo dolore, e vederlo con quell’aria triste, mi faceva male. Non capivo come gli altri non si accorgessero del suo bisogno di affetto, di comprensione, di aiuto. Eppure quel bisogno urlava forte, era padrone del suo solito silenzio.
 
Non ho mai creduto di essere migliore degli altri, anzi pensavo di esagerare con tutti quei pensieri su di lui. Ma, pian piano, capii che l’unica differenza tra me e gli altri compagni era che loro non si ponevano il problema. Vivevano la loro vita, nel loro piccolo mondo, con i loro agi, pregi e difetti. Non era a loro che il Signore aveva rifilato quel destino, e questo bastava a giustificare la loro indifferenza. Non è questione di migliore o peggiore, basta decidere che persona vuoi essere: e io non volevo essere come gli altri, non volevo ignorarlo. Volevo essere sua amica.
 
Ci misi un po’ per capire che in realtà già lo ero. Sedevamo vicini al banco, ridevamo, parlavamo e facevo di tutto per farlo sentire a suo agio. Per me era un piacere stare insieme a lui. Gli volevo davvero molto bene. Gli ultimi anni di scuola elementare, precisamente tra la quarta e la quinta, iniziai ad andare a casa sua, il pomeriggio. Di solito andavo a casa delle mie amiche, dopo aver fatto i compiti, o uscivo con loro in giro per il paese. Mi resi conto che uscite del genere Danilo non poteva farle: lui dipendeva sempre da qualcuno, dalla mamma, dall’assistente, dalle maestre, da chiunque spingesse la carrozzella, visto che con il passare degli anni non riusciva più a muovere le braccia, figuriamoci spingere le ruote!
 
Andavo da lui, sempre, con qualche pensierino: un vassoio di dolcetti, qualche giocattolo, qualsiasi cosa avesse a che fare con la Roma. Mi faceva proprio piacere vedere un sorriso sincero nascere sulle sue labbra: mi faceva sperare che almeno in quei momenti era felice. In genere, dopo aver giocato un po’ alla playstation, uscivamo nel piazzaletto fuori casa sua: in realtà era un vialetto, sul quale si affacciavano tutti i pianerottoli delle case popolari. Era abbastanza largo, tanto che riuscivo a girare bene la carrozzella una volta arrivata alla fine, ma non era molto lungo. A volte eravamo costretti a fare su e giù all’infinito, fingendo di essere da un’altra parte: in riva al mare, su un prato fiorito, in sella alle nuvole, in cima ad una montagna. Mi divertivo a farlo sognare e a vedere quel sorriso ingenuo comparire con il distendersi delle sue labbra, prima di dirmi che ero matta. Altri giorni, invece, fingevamo che la sua malattia non fosse un problema e giocavamo a nascondino. Ero sempre io a nascondermi e a non dover trovare nascondigli troppo difficili o troppo lontani. Purtroppo il nostro unico spazio era quel viale: fuori di lì c’erano due nemiche: la discesa e la salita. E, da sola, non ce l’avrei mai fatta a spingerlo tenendo sotto controllo la situazione. Così inventai un altro gioco, simile ad acchiapparella. In verità, nessuno acchiappava nessuno: però si correva. Io mi posizionavo dietro la carrozzella come se fossi ai comandi di una macchina, e simulavo il rombo del motore. Subito dopo l’”1-2-3 via” iniziavo a correre con tutta la forza che avevo, come una pazza. Danilo rideva, urlava, si divertiva. Ed io ero felice.
 
Purtroppo c’erano giorni in cui non ci andava di giocare, in cui eravamo particolarmente tristi, perché sentivamo che le cose stavano per cambiare, che stavamo crescendo e che quel viale non sarebbe più bastato. Io non sarei più bastata. Danilo sapeva anche che c’era un mondo di persone oltre me, e una volta mi confidò proprio che non capiva il motivo per cui andassi a trovarlo o tenessi così tanto a lui: non facevo parte né della sua famiglia, né degli adulti che accoglievano di più la sua diversità rispetto ai nostri coetanei.
 
Non capiva perché fossi così diversa. Io risposi che essere così presente nella sua vita era la dimostrazione che non era solo. In realtà, speravo molto nella sua guarigione: volevo aiutarlo a sconfiggere questo male, e, come accade nei films, nei libri, nelle favole, pensavo che c’è sempre un lieto fine. Con l’amore, con l’amicizia, c’è la forza. Insieme si può tutto. Non riuscivo proprio  a farmi una ragione del fatto che non avrebbe più camminato: era assurdo credere a questa prospettiva. Eravamo così piccoli… nove anni. Ero convinta che avremmo avuto molto tempo per rimediare alla malattia e un giorno avremmo camminato insieme, come accadeva sempre nei miei sogni.
 
Un giorno, finalmente, ebbi un’altra idea: chiamare tutti i compagni per poter uscire dal viale e portare Danilo a fare una passeggiata altrove; sarebbe stato così felice… Tutti insieme ce l’avremmo fatta a spingerlo per le salite e a frenarlo lungo le discese. Ricordo che quella sera ero eccitatissima al pensiero di raccontare questa bella trovata anche agli altri compagni. Neanche per un attimo mi ero immaginata le smorfie, le risate, le scuse banali che mi aspettavano l’indomani. Nessuno era disponibile per quel pomeriggio: alcuni avevano gli allenamenti, altre ginnastica artistica, altri avevano impegni con i genitori, altre ancora si erano organizzate tra loro per uscire “normalmente”.
 
Così ci ritrovammo di nuovo, soltanto io e Danilo, nel vialetto. Lui non sapeva niente, ovviamente: ma io non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di quell’uscita collettiva e della gioia che essa gli avrebbe portato. Dovevo continuare fino a riuscire a convincere tutti. Riprovai, riprovai e riprovai. Niente. Era strabiliante constatare quanto fossero impegnati bambini di appena dieci anni!
 
Mi si intrufolava sempre più spesso nella testa l’idea che mentissero: ma solo quando una mia compagna mi rivelò come stavano le cose, ne ebbi la certezza. Non solo inventavano scuse ma, tutti i miei compagni, iniziarono a scocciarsi dei miei continui inviti per la tanto sperata uscita collettiva. Per di più, la mia compagna mi consigliava di smetterla perché stavo diventando antipatica ad alcuni di loro.
 
Ricordo la delusione, la tristezza, la malinconia che mi assalirono. Ma, più di ogni altra emozione, ricordo la rabbia e il rancore che incominciai a portarmi dentro verso quelle persone, e da cui non mi sarei mai liberata.
 
Uno degli ultimi giorni che passammo insieme lo ricordo particolarmente bene. Eravamo abbastanza taciturni. Io sedevo sulle scalette al lato opposto del suo pianerottolo, e lui stava davanti a me. Non avrei frequentato la scuola media con lui, nel nostro paese. Avevo bisogno di cambiare, di scappare dal duro processo di crescita che mi stava assalendo pian piano.
 
Gli spiegai quanto mi dispiaceva e quanto non avrei permesso che i rapporti tra noi cambiassero. Mi sorrise e con voce ferma mi ringraziò per essere sua amica. Poi, pronunciò una frase che non scorderò mai: “Gli altri non mi capiscono, tu sì. Ecco perché sei così diversa. Un po’ come me”.
 
Quella frase mi spezzò il cuore. Percepii il suo senso di solitudine, e insieme la sua gratitudine. Bisogna esser grati a qualcuno che ci vuole bene perché il mondo ci ignora? E il motivo era solo una sedia su cui dover stare perennemente. Mi vergognai di essere “normale” come gli altri e mi si strinse un nodo in gola. Ora, più che mai volevo scappare. Le persone non erano buone, la malattia di Danilo peggiorava e forse dovevo iniziare ad accettare che non avremmo mai camminato insieme. Ma non lo accettavo.
 
Come ogni partenza, il mio cambiare scuola, luoghi, amici, vita, mi allontanò da tutto quello che era stata la mia infanzia. Compreso Danilo. Spesso volevo andare a trovarlo, come ai vecchi tempi, ma rimandavo: rimandavo per non ammettere che non ce l’avrei fatta a sopportare di trovarlo solo. In più di un’occasione comunque ci incontrammo, e, ogni volta, mi sentivo male. Sentivo come una fitta intensa, che ti stringe dentro. Lui peggiorava, perdeva anche l’agilità delle mani. Non potevo vederlo così. Non potevo accettare che le cose volgessero sempre al peggio. Pensavo che forse stavo sbagliando, che dovevo essere forte e andare come sempre da lui. Ma non ero forte. Avevo paura di verificare che si avvicinasse la fine. A volte mi sono odiata, credendo di star diventando come tutti quelli che avevo sempre detestato: una stronza, cinica, egoista e menefreghista. Ma, dentro di me, sapevo che non era così e  volevo che lui non pensasse questo di me, volevo che sapesse che l’affetto per lui era sempre rimasto vivo nella mia vita. Eppure non riuscivo proprio a trovare il momento giusto per vederlo come avrei voluto.
 
Ma il destino è imprevedibile e, pochi mesi orsono, dopo molto tempo, dopo anni, mi ha donato questa occasione. I compagni delle elementari hanno organizzato una cena per “ritrovarsi”, e sia io che Danilo ci siamo andati. Tra l’antipasto e la pizza, quasi tutti uscirono per fumare. Io, invece, parlai con lui, come non mi capitava da troppo tempo. Mi raccontò che era sereno, che aveva avuto buoni voti a scuola, e che amava la Roma più che mai. Era l’amico che ricordavo: stesso sorriso, stessa bontà, stesso sguardo. Non era cambiato niente tra noi. Bastava un attimo per tornare indietro nel tempo, nel nostro viale. In fondo, avevamo solo qualche anno di più, ma eravamo sempre noi, i bambini del vialetto, dei giochi inventati, protagonisti di un legame vero.
 
Al termine della serata lo guardai negli occhi e gli promisi che, questa volta, davvero sarei tornata a trovarlo: non avrei aspettato tanto tempo. Le cose belle sono rare e mi odiai per aver perso tutto quel tempo dietro inutili paure. Gli schioccai un bacio sulla guancia e, dopo che il papà lo caricò sul loro pulmino, lo vidi andar via.
 
Quel giorno, non sapevo che sarebbe stato l’ultimo. Non avrei avuto più tempo. Il 23 giugno (siamo nel 2009) Danilo è morto. Non so spiegare il mio stato d’animo quel giorno. Mi sentivo persa. Era come se una parte della mia vita e del mio cuore fosse volata via per sempre. Eppure lui era ancora lì, dentro la bara, nell’ospedale, ricoperto di accessori sportivi della sua Roma, ricoperto di lacrime e di fiori. Era ancora nella chiesa, davanti all’altare, al cospetto di un Dio misterioso e davanti a una platea che lo piangeva senza conoscerlo davvero. 
 
Volevo gridare, volevo correre finchè le gambe non mi avessero fatto male, volevo sferrare pugni al muro, volevo cacciare via tutti, volevo piangere. Non riuscii a fare niente. Mi limitai a trascinarmi tra le persone, nel corteo funebre, e a riprendere la mia vita da dove l’avevo interrotta quello stesso pomeriggio, quando aveva squillato il telefono e avevo saputo.
 
Nei giorni seguenti pensai solo a lui, con un senso di vuoto, con rimorsi, e mille domande. Non accettavo la sua morte. Ero tormentata da quello che era accaduto e avevo paura che quel senso di angoscia mi avrebbe accompagnato per molto altro tempo.
 
Invece, circa una settimana dopo, rividi improvvisamente Danilo. Era in piedi, vicino a me. Corremmo in riva al mare, ci rotolammo sul prato fiorito, galoppammo in sella alle nuvole, urlammo dalla cima di una montagna, ed eravamo felici come quando giocavamo nel viale.  Ora, poteva farlo! Mi resi conto che era anche più alto di me: cosa che non potevo notare quando era sulla carrozzella. Era magnifico, il mio sogno si era avverato.
 
Eppure, come d’un tratto, si infilò violentemente nella mia testa il ricordo del funerale, della sua morte, e mi sentii frastornata. Non poteva essere qui, con me, se era morto. Mi domandò cosa avessi, e gli dissi i miei pensieri. Il suo viso si illuminò di un sorriso buono, sincero: disse che mi aveva portato con sé per avverare i nostri sogni di tanti anni fa, perché ora poteva fare tutto, molto più di tutti, e ne era particolarmente soddisfatto. Poteva anche volare.
 
Io continuavo a non capire cosa stesse accadendo. Mi disse che non dovevo preoccuparmi. Mi prese la mano, mi portò davanti a casa sua e disse: “Ora sarò qui, per sempre. Non posso abbandonare la mia famiglia, devo proteggerli ed amarli come hanno sempre fatto con me. Ma, se avrai bisogno di me, sai dove trovarmi. Io per te ci sarò sempre e ti vorrò sempre bene. Sei stata una grande amica, non mi perderai mai”.
 
Continuavo  a non capire.
 
“Capirai. Ti chiedo solo un’ultima cosa: vai a trovare mia madre, raccontale delle nostre avventure, di come sto bene, di come continuo ad amarla anche se sono morto, di come sarò sempre accanto a lei, a papà, e a mia sorella. E un giorno cammineremo insieme”.
 
Entrò in casa, alzò il braccio, agitò velocemente la mano da dietro il vetro della porta, con il solito sorriso, e sparì. Io mi sentii trascinata vorticosamente nel vuoto. Lentamente mi ritrovai ad aprire gli occhi e mi sorpresi di essere a casa, nel letto, e nella realtà. Eppure non mi colpì un senso di delusione o di tristezza: mi invase una profonda sensazione di pace.
 
Forse è stato solo un sogno, come la maggior parte della gente potrebbe pensare. Ma a me piace credere che sia accaduto realmente un miracolo. Il senso di angoscia mi è svanito. Ora, so che Danilo è felice e questo basta a calmare l’egoismo di volerlo ancora in questa vita. So che la nostra amicizia non è finita. Certi legami non si piegano sotto la forza del tempo e del cambiamento. Restano vivi dentro, donando la speranza di ritrovarli, prima o poi.
 
Accadrà. Lo so. Lo sento. E, un giorno, cammineremo insieme.
 
                                                                             (Fonte: PremioPrato, da autrice anonima)