Storia e storie

COME HO CONSCIUTO DON LORENZO MILANI

Pubblichiamo questa testimonianza con la semplicità di stile e l’anonimato con cui era stata presentata, molti anni fa, nell’ambito del “Premio Prato Raccontiamoci”.

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Mai avrei immaginato che quel pomeriggio di un sabato come tanti altri avrebbe segnato tanto la mia esistenza.
Quando, insieme alla mia ragazza, avevamo scelto quel film intitolato “Un prete scomodo”, avevo solo qualche vago ricordo dei discorsi sentiti in famiglia riguardo a don Lorenzo Milani.
Sarà stato che a diciassette anni ci si nutre ancora di grandi ideali e si crede possibile cambiare il mondo, sarà stato per la grande interpretazione fattane da Enrico Maria Salerno, fatto sta che all’uscita dal cinema mi resi conto che quello che avevo visto era già dentro di me, e adesso lo sapevo.
Nei giorni seguenti continuammo a parlarne e decidemmo di visitare Barbiana appena possibile; fu di domenica e un Mugello vestito d’autunno fece da cornice a quella esperienza indimenticabile; abbandonata la strada statale, dopo alcuni chilometri di strada immersa nel verde ci apparve Barbiana, il “Paradiso” di don Milani, una chiesa di campagna a cui si stringe la canonica: ecco tutto il suo mondo, la prima scuola di emancipazione dei poveri, la realizzazione di un modello che ancora oggi anima e scuote le coscienze degli insegnanti migliori.
L’anno seguente, alla fine dei miei studi, affrontando la prova di italiano don Milani “segnò” ancora la mia strada: era il decennale della sua morte ed una delle tracce dateci per i temi chiedeva di parlare della sua vita.
Non so dire se fu il mio miglior compito di italiano, ma fu certamente il più sentito e appassionato che abbia mai scritto. Era il 1975 e negli anni seguenti approfondivo quanto possibile la mia passione con la lettura dei pochi libri che questo straordinario uomo ci ha lascito; poi nel 2006 ci fu la nostra prima  "marcia di Barbiana".
Avevo scoperto l’esistenza delle marce per via della passione per lo scrivere, partecipando al concorso “Rilettura di Lettera ad una Professoressa quarant’anni dopo”.
Quando poi, a fine febbraio 2008, ricevetti un nuovo invito a scrivere quello che don Milani mi aveva lasciato dentro l’anima, fui assalito dal dubbio che questa volta la cosa mi riguardasse, visto che si trattava di concorso indirizzato “a singoli cittadini adulti, in particolare insegnanti”.
Una frase però mi aveva colpito in particolar modo: “Fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze”; la leggevo e la rileggevo dentro di me, e infine trovai la risposta; a Barbiana la parola “insegnante” non era un titolo, ma l’accezione più semplice e genuina di chiunque trasferisce il proprio sapere ad un altro per aiutarlo a migliorarsi e si sente gratificato da questo; non è importante dove si insegna, è importante come lo si fa, lo spirito che ci anima; è importante insegnare quello che si sa, quello che abbiamo scoperto o che altri ci hanno insegnato: deve essere un modo di vita ed è questa la scossa di fratellanza che dall’epicentro di Barbiana fa crollare il muro della nostra indifferenza. In questo testamento pedagogico vi è tutto il significato dell’esempio di don Milani, tutta la sua modernità, il porre l’uomo al centro in una visione che lo avvicina al miglior Fromm.
Sotto questa luce così umana decisi di parlare della mia esperienza professionale senza timore di apparire un “maestro” ma felice di aver scelto un modo di vita ispirato alle nostre radici più profonde, dove il mutuo aiuto era la normalità e gli anziani ogni giorno insegnavano ai giovani, spesso senza necessità di parole, la loro esperienza nel lavoro della terra e nella cura dell’ambiente.
Nei primi anni Settanta, ancora studente appena quattordicenne, iniziai a lavorare di pomeriggio in una  officina e mi trovai abbastanza perplesso nel confrontare due mondi così diversi come quelli della scuola e della fabbrica: nel primo tutto era finalizzato, per definizione, all’insegnamento, mentre nel secondo, dove c’era veramente tutto da imparare, sembrava che tutti volessero insegnare il minimo.  
Mi accorsi subito che vigeva un sistema tipo “bottega medioevale”, cioè gli apprendisti, come me, ruotavano nell’orbita di operai anziani specializzati, veri maestri da cui attingere il mestiere ma chiedendo il meno possibile, perché, come nel Medioevo, l’allievo migliore veniva considerato quello che riusciva ad imparare “rubando con gli occhi”, mentre il chiedere spiegazioni era interpretato come indice di poco acume.
Nessuno lo ammetteva ma si avvertiva, più o meno forte a seconda del carattere del “maestro”, una forma di protezionismo del sapere, una paura di insegnare troppo, di perdere il primato, di essere superati dall’allievo.
Io, nonostante ancora non vedessi il mondo attraverso le lenti che poi mi ha regalato don Milani, avvertivo il disagio di questa situazione e soprattutto quanto fosse discriminante una selezione di quel genere in un ambiente dove si andava tutti per la necessità di guadagnarsi la giornata.
Inevitabilmente i meno dotati o i meno veloci nell’imparare venivano bocciati silenziosamente, destinati a compiti di sola produzione materiale o manovalanza, e finito il periodo di “apprendistato” simili compiti sarebbero rimasti appiccicati loro addosso come una condanna per tutta la vita senza altra possibilità se non quella di cambiare genere di lavoro.
Ebbi la fortuna di non essere fra questi, la natura mi aveva infatti regalato una grande passione per quel mestiere e una buona capacità di imparare, per cui con il passare degli anni divenni in grado di insegnare a mia volta quello che avevo imparato; nel frattempo avevo letto molto di Barbiana e le mie convinzioni avevano preso forza e adesso poggiavano su una base solida; scelsi allora di fare il capo officina nella convinzione che si potesse farlo meglio, diversamente da come vedevo intorno a me, puntando sul rispetto generato dalla capacità e non sull’autorità imposta, mirando alla crescita professionale dei ragazzi che sarebbero venuti a lavorare con me; non era un progetto speciale, era secondo me l’unico modo in cui si potesse lavorare umanamente, cercando per quanto possibile di sviluppare le capacità di ognuno, accettandone le diversità senza penalizzarle ma aiutando a far capire ad ognuno l’importanza del proprio compito all’interno  del gruppo di lavoro.  
Fu più precisamente al ritorno dal servizio di leva che iniziai a perseguire questo obiettivo; accettai l’incarico di formare l’officina interna di una piccola azienda di strumentazione elettronica; era quello che sognavo, partivo da zero, eravamo io ed il signor Dino, un pensionato tuttofare, un uomo di una semplicità unica nonostante fosse il padre del mio “principale”; poi arrivò mio padre, un tornitore eccezionale, a darmi una mano negli ultimi due anni che gli rimanevano prima della pensione.
Iniziai a far assumere giovani, uno alla volta, il gruppo cominciava a formarsi, ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie esperienze scolastiche o di lavoro, ed io cercavo di svilupparne le capacità insegnando tutto quello che sapevo e che imparavo ogni giorno dai nostri due “vecchi”.
Quando, dopo venti anni, decisi di concludere questa esperienza, insieme all’inevitabile malinconia per qualcosa di irripetibile che finiva c’era la grande soddisfazione di vedere che i ragazzi di un tempo erano cresciuti, insieme ci eravamo migliorati e adesso erano in grado di proseguire da soli e di insegnare a loro volta.
Oggi che, cinquantenne, lavoro in una realtà più grande, umanamente arida e molto diversa, ripenso spesso a quel percorso senza ricordare il peso degli anni lavorati duramente ma con soddisfazione, quella soddisfazione che dà il tempo speso bene; e continuo quando possibile ad insegnare quello che so perché sono convinto che quando non si ha più voglia di imparare ed energia per insegnare si è veramente vecchi ed inutili agli altri ma soprattutto a sestessi, una pianta che non dà più frutti e non si rigenera alla propria ombra.
                                                                           
                                                                                                   (Anonimo, in ricordo e per proseguire l’esempio di don Milani)

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MM


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