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I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE

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I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE
 
Ancora una storia di vita: affinchè impariamo sempre meglio a dare alla vita un valore profondo anche nei suoi aspetti più umili e intimi.

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L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite cominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera, e coperta da una trapunta attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro accompagnato dalla senilità aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante, da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione d’avvocato ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei. Una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
Il comò appesantito dai tanti medicinali sembrava una farmacia ambulante, e dove un tempo lei si specchiava vanitosamente pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia, presente nella stanza, della sua giovinezza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato, immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.

Il nonno amava moltissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto – diceva – è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando all’oblio i momenti più belli, e non invecchiare mai”. Fotografava tutto ciò che lo affascinava, dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno era insomma una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.

Nonna lo amava anche per questo suo talento, per questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che, viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono materialmente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita ed il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia sono il mondo e l’esistenza, con le loro forme.

Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.”Nonna, mi hai sentit…”: non feci in tempo a terminare la frase che lei scoppiò a piangere. “Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa. In vita sua solo due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno, e una sera dopo avere litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione. L’abbracciai trattenendo la forza per paura di stringerla troppo; il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvare la sua. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare e il suo sguardo penetrava dentro il mio, riuscendo a cogliere ogni mia preoccupazione. Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero quasi distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso non facendole mancare mai nulla.

Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi. “Michele, devi andare via!”, esclamò con un’espressione seria. Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo; ho realizzato le mie scelte, ora devi compiere le tue”. La guardai per un istante, poi uscii senza dire nulla. Mia nonna è stata per me come una seconda madre: fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, e così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, e insieme al nonno vedevamo la tv; prima di metterci a letto pregavamo e delle volte, quando non avevo sonno, mi raccontava una favola. Standomi vicino nei momenti difficili m’infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava per me contraccambiare l’amore che mi aveva donato. Le nonne sono delle sante, perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.

L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia e il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata, rendendo ovattate le ore passate insieme. Come di consueto doveva prendere le medicine: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla. “Nonna… nonna, svegliati… devi prendere la medicina”. Nessun movimento né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce: “Nonna, sono Michele…la medicina… ti prego, apri gli occhi…”. Respirava a fatica. Il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo. Iniziai a sudare; un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.

Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo ma già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena, le lacrime no riuscivano a smettere di inondare le palpebre e, scivolando fino alle labbra, con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal tichettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo tra realtà e irrealtà. La vita continuava il suo corso, impassibile, e intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco, se non fosse stato per loro, e forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce, capii che non l’avrei mai più rivista.

Il giorno dopo, uscendo dalla casa in cui ero stato per molti giorni, andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco. Respirando profondamente chiusi le palpebre addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole splendeva lontano e un arcobaleno di colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello delle nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna: per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto preparato la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e  morbido della sua carnagione.

Non so perché, ma da quel giorno ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto, poi quando muoiono, dopo tanto amore donato, si accontentano di un semplice fiore lasciato sulla loro tomba. La vita è proprio strana, non c’è quasi mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.

Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme e subito svanisce. Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo e il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento, mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
                                                                                                       
                                                                                                                        (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
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MM

Storie di vita

L'ALBA DI UN SOGNO



Questa memoria della sua vita Cinzia la dedica alle figlie, quelle di cui nel racconto parla diffusamente, e che all'epoca dello svolgimenot dei fatti erano ancora bimbe piccolissime. Ora sono donne. E' una vicenda di cui Cinzia, che mi è amica, mi ha parlato più volte perchè più volte ho con mestesso cercato di immaginare che le coincidenze che la lasciano tuttora stupita e riconoscente siano state frutto di pura casualità: ma io stesso trovo in realtà in esse molta più traccia di possibile presenza di Dio che di banale casualità.
 
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Una notte in cui non riesci a dormire… la giornata non è stata delle più simpatiche e prendere sonno, vuoi per la tensione accumulata, vuoi per questa sensazione strana che ho dentro e alla quale non so dare una motivazione, beh… è difficile… il sonno non vuole proprio arrivare.
 
Improvvisamente un forte dolore al seno entra nel cervello; tocco il punto: è proprio sotto il seno, sembra un cordoncino lungo e contorto. E’ proprio nel punto in cui c’è il ferretto del reggiseno e penso sia quello il motivo del dolore. Io non sono molto brava a sopportare il dolore, non lo sono mai stata e poi nella mia vita ne ho avuto già molto: non è stata una strada spianata, la mia vita, anzi quasi sempre in salita. Prendo un sonnifero, tanto le bimbe sono con il padre… Io sono sola e posso permettermi il lusso di dormire anche pesantemente.
 
 Mi alzo: “Gesù, è tardi… farò di nuovo tardi al lavoro”. Il telefono squilla, è mio padre che, come tutte le mattine, mi sveglia, mi passa mia madre; le racconto del dolore e della sensazione strana provata, poi riattacco e corro a vestirmi.
 
Ore 10,00: ufficio; il cellulare squilla: è mia madre. “Cinzia, ho parlato con la mia amica del Policlinico, il professore è in sala operatoria e finisce tra circa un’ora, perché non vai lì? Gli ho parlato al telefono prima che entrasse in sala operatoria e mi ha detto che ti dà un’occhiata subito, se vuoi; sai, sono rimasta un po’ preoccupata dal fatto di vederti così agitata, perché tu non ti curi della tua salute ed è strano vederti tesa”.
 
“D’accordo, mamma, chiedo un permesso e vado”.
 
Ore 12,50, Policlinico: “Buon giorno, come va? Cosa è successo? Vediamo…”. Mentre il professore mi visita, vedo i suoi occhi cambiare espressione, la bocca fare una smorfia di tensione. Cosa succede? Perché quel cambio di espressione?”.
 
“Non ti sfugge niente, eh! Devi andare subito a fare una mammografia, qui non te la farebbero prima di un mese ed anche se la chiedessi con urgenza perderemmo comunque del tempo, quindi devi farla a pagamento, non importa dove ma trova un posto dove te le facciano subito, e domani mattina riportamela qui perché se è come credo (ma spero di sbagliarmi) dobbiamo ricoverarti immediatamente e operarti”.
 

“E’ maligno?” (Che strano pronunciare questa parola… mette paura solo il pronunciarla, ci vuole coraggio anche solo a dirla). “Credo di sì, ma devo averne conferma dalla mammografia e da altri esami, soprattutto da quello istologico, se dovremo operare; ma spero di sbagliarmi”.
 
“Ok, ci vediamo domani mattina”. “Tutto a posto? Ti senti bene? Sei venuta sola?” “Sì, e comunque vada non voglio che nessuno sappia nulla se non sono io ad autorizzarti. Se mamma dovesse chiederti qualcosa dille che sono dei noduli che vanno tolti, ok?”. “D’accordo, ma stai tranquilla, magari mi sono sbagliato”.
 
Una carezza sui capelli…Uno sguardo troppo dolce per una situazione normale… Esco dallo studio, percorro quei lunghi corridoi… Non lo so cosa penso, non riesco a descriverlo, non è una cosa sola, è una cascata di emozioni e di pensieri… il sole fuori… dovrei andare al lavoro, in fondo ho fatto presto, una mammografia: mmmm… dove potrei andare a farla? Da Luciano? Forse da lui: ma mamma scoprirebbe tutto… Sì, ma sarebbe la via più veloce e sicura… Potrei dirle che si tratta di noduli… Sì, ecco, questa è la risposta giusta…No, al lavoro non torno, vado in banca… no, meglio dal mio avvocato, voglio fare un testamento nel quale tutelo le bimbeLe bimbe… devo parlare loro… E che dico loro? Quella psicologa diceva di non mentire loro… E come si fa? Che dico loro? Forse mamma muore? Che strano, mi viene da ridere… se non fosse tragico sarebbe comico: ma non è affatto comico. Ok, ora vado in banca, ritiro, metto i soldi in cassaforte, così se… se… le bimbe non avranno problemi, i primi tempi, anche per il funerale… Poi dovrò preparare anche i miei e parlare con Massimo; e sì, devo parlargliene, è giusto per le bambine, dai, non sono mai crollata; come diceva mio nonno? La grandezza di un uomo non sta nel non cadere ma nel trovare la forza di risollevarsi con dignità.
 
Il cellulare squilla di nuovo: “Ciao, mamma: come stai? Ok, senti: ho pensato che vorrei fare una mammografia, ti ricordi quella sensazione strana? Il professore dice che potrebbero essere delle semplici cistine, ma, sai, vorrei fare una mammografia: oggi è già il 9 luglio e tra un po’ vanno tutti in ferie; sai, ho sentito Paola e ha insistito perché la facessi subito: mi ha detto che sono una pessima paziente, che non mi vede mai, che mi curo da sola, che prima o poi la farò radiare dall’albo perché non seguo mai le sue direttive… Insomma, lo sai, rompe sempre ma ogni tanto bisogna accontentarla; dai, mamma: così non si rompe”.
“D’accordo, ora ti do il suo numero: fissa l’appuntamento e poi fammelo sapere, che ti accompagno”.   “Ok, ciao: stai tranquilla, non preoccuparti anche per le stupidaggini, io sto bene”.
 
Ore 15,00: centro studi e analisi, sala d’attesa. Ci sono una miriade di quadri… non sono belli… quelli dei miei amici invece sono vere opere d’arte… ufffff, ancora non mi chiama…
“Signora, prego, tocca a lei…”.
Entro e davanti a me c’è un signore un po’ grassoccio, tutto sulle sue; Luciano invece non c’è: meglio, così non riporta immediatamente a casa...
“Si tolga la maglietta e il reggiseno e mi aspetti lì davanti”.
E’ sempre imbarazzante fare questo tipo di visite, e poi io odio farmi visitare… diciamo che ho un’avversione per il camice bianco… Intanto lui continua a dare ordini: “Si metta così… ora ferma… Respiri…”; ufffffff, ma quando finisce?
“Ecco, abbiamo finito: può accomodarsi di là, cinque minuti, le do la risposta e può andare”.
 
Di nuovo qui, in questa sala d’aspetto. Forse se leggo un giornale passa prima; la signora vuole parlare ma io non ne ho voglia, ho la macchina messa male, meglio affacciarmi; ufffff…questo non si sbriga…
“Signora… mi scusi…Il dottore dovrebbe rifare di nuovo la mammografia”… L’infermiera è un po’ imbarazzata.
“Signorina, lasci stare, ci penso io”, interviene il medico. “Signora, si accomodi, mi dispiace ma a volte, sa’… basta un niente…il macchinario poi… insomma mi dispiace ma dobbiamo ripeterla perché non è venuta bene…”.
“Dottore, cosa ha visto? E’ un tumore maligno, vero? Guardi, non servono tutte queste storie: sono qui per questo; il professore che mi ha visitata ha richiesto questo esame perché già se n‘era accorto ma voleva una conferma”.
 
E’ strano… è diventato diverso, sembra un’altra persona, gli occhi abbassati, la voce flebile, indica un punto e mi dice: “Vede, è qui… questo… ma ne parlerà con il Suo medico, è meglio…ma non è nulla, tranquilla… oggi queste cose si risolvono…”, e sforna un sorriso forzato.
Continua a farfugliare imbarazzato: so che è poco gentile da parte mia ma voglio andare via e tronco la conversazione, ho bisogno di aria e di silenzio, o forse… ho solo bisogno di me stessa.
 
Scendendo le scale comincio a ridere. Ma tu guarda se oltre le tasse che pago e lo schifo di stipendio che prendo devo anche andarmi a pagare 120 euro per farmi dire che ho un tumore. Torno a casa. Mi sembra di vedere la vita di un’altra persona, gioco con le mie bimbe, guardiamo la tv… un cartone animato…nelle fiabe c’è sempre un lieto fine… Che bello vederle così serene e sentirle ridere… sono tutta la mia vita e non posso morire: vorrei vederle crescere e… ho troppe cose ancora da fare, Dio non può volere questo…
La mattina seguente il professore, dopo aver visto la mammografia, mi fissa il ricovero per il giorno  dopo e l’operazione per dopo due giorni. E ora devo affrontare il momento peggiore, quello che non avrei mai voluto vivere: vado a prendere le mie figlie a scuola ma in questi giorni mi sembro un automa e continuo a chiedermi perché non piango… Ecco, è questo il momento più difficile ma devo farlo…
“Principessa, Cucciola, la mamma deve parlarvi di una cosa importante: posso avere la vostra attenzione?
Annuiscono, sorridono…come è bello il loro sorriso, c’è l’universo dentro…
“Quante ne abbiamo passate insieme, tantissime, vero amori miei? Ma insieme riusciamo sempre a superare tutto… il potere del Trio… giusto, Cucciola? Mamma è andata a fare una visita e il dottore ha detto che ho un problema… beh, non trovo il modo né le parole esatte o giuste per dirvelo… non credo ci siano, non credo che esistano… Hanno detto che ho un tumore. Domani mi ricoverano in ospedale e tra due giorni mi operano”.
“Mamma, ma tu muori?”.
“Non lo so, Cucciola… io non voglio morire e non so a che punto sia ma due mesi fa quando feci un’ecografia mi dissero che non avevo nulla: quindi forse il male è solo all’inizio perché se anche si sono sbagliati e non l’hanno visto devo dedurre che fosse piccolo, altrimenti non avrebbero potuto non notarlo”.
“Promettimi che non muori… io ho bisogno di te, mamma”.
“Principessa, non posso promettertelo ma posso giurarti che ce la metterò tutta e che farò tutto ciò che è nelle mie possibilità perché non accada, perché anche io ho bisogno di voi”.
“Sara, quando mamma dice che ce la metterà tutta ci riesce sempre”.
L’abbraccio che è seguito credo sia stato quello più intenso della nostra vita dalla loro nascita ad oggi. Non hanno pianto, sembrano più mature di quanto mi aspettassi.
 
La sera prima dell’operazione è stata la peggiore. Non ero mai crollata fino a quel momento, ma quella sera mi succede qualcosa che ha dell’inverosimile. E’ tardi, sono stata per delle ore al cellulare con Luisa, una collega, ma principalmente una vera amica che magari non vedo né sento per molto tempo ma che c’è sempre quando ho bisogno di lei e stranamente mi fa sorridere dandomi un po’ di forza e una parvenza di serenità. Ma quando attacco mi sento di nuovo sola e per la prima volta avverto la paura dentro che mi fa impazzire, comincio a piangere e scendo dal letto. E’ buio ed io sono sola in stanza… forse troppo sola… Metto la tuta ed esco fuori per le vie del Policlinico. Quest’ospedale sembra una città…è enorme… di notte poi sembra ancora più grande ed è deserto… Cammino non so quanto e non so dove, continuo a girare per i viottoli di questa strana “città”… continuo a piangere, vorrei avere qualcuno vicino che mi stringa forte… che asciughi le mie lacrime…che mi sorrida e mi dica che supererò anche questa… qualcuno che mi stringa forte fino a far sparire questa paura… ma non c’è nessuno…
 
Mi ritrovo seduta su un muretto tipo marciapiede, ma forse un po’ più alto. Non credo di aver mai pianto tanto. Continuo a chiedermi: “Perché proprio a me? Se esisti, Dio, perché proprio a me? Cosa ti ho fatto? Perché non smetti mai di prendertela con me? E pensare che continuano a dire che sei buono… Mi chiedo: e se fossi stato cattivo cosa avresti avuto in riserva per me? Che cavolo ti ho fatto? Non basta tutto quello che ho passato? Che le mie figlie hanno passato? No, tu non puoi esistere, non può esistere un Dio che permetta questo, se non altro per le mie bambine…”.
 
“Sei sicura che non esista?”.
“E tu chi sei? Di cosa parli?”
“Mi riferivo alle tue domande…”.
“E tu come fai a saperlo? Non stavo parlando… Ero assorta tra i miei pensieri tanto che non ti ho sentito neanche arrivare… Pensavo di essere sola….
“Lo so”. Il vecchio sorride: “ Me ne sono accorto…eri troppo assorta nei tuoi pensieri, e poi con tutte quelle lacrime come facevi a vedermi?”.
Mi asciuga le lacrime… che buon profumo che ha…
“Sai, so cosa stavi pensando perché pensavi a voce alta”.
“Non me ne sono accorta… mi spiace”.
“Beh, capita quando si è disperati e… capita anche di prendersela con Dio, ma lui lo sa che è perché siamo disperati e non se la prende…ora asciuga gli occhi, dammi la mano e stai tranquilla, è solo un brutto sogno…Lo supererai e sarai ancora più forte di prima. Ci vorrà del tempo, molto tempo, dovrai superare molte prove, ma ce la farai. Sei una bella persona, non è ancora il tuo momento…”.
“E come fai a saperlo?”.
“Sono un vecchio – sorride – e con la vecchiaia arriva la saggezza, tuo nonno deve avertelo detto, ne son sicuro…”.
“Io ho paura, mi sento sola, ho talmente tanta paura…”.
“Non sei sola, a volte siamo ciechi e non vediamo tutta la gente che ci vuole bene e che è lì con noi. Chiudi gli occhi e senti quanto amore hai intorno…Dammi la mano, voglio darti una cosa… Questa medaglietta tienila sempre con te, non lasciarla mai, mi raccomando”.
Abbasso la testa, mi sembra tanto pesante e sono tanto stanca.
Riapro gli occhi e… non c’è più, quel vecchietto non c’è più…Io cerco ma è tutto deserto, qui, e io comincio anche ad avere freddo. Apro la mano e guardo la medaglietta che mi ha lasciato… Se non fosse per questa penserei di aver sognato. Che strano, è la medaglietta argentata di Madre Teresa d Calcutta… Cosa vuol dire tutto questo? Chi era quel signore? Mi addormento con questo pensiero, con la medaglietta stretta in mano e con un po’ più di serenità.
 
La mattina mi sveglio ed ho ancora quella medaglietta, ma non ne parlo con nessuno: mi prenderebbero per pazza. Mi preparo, vado in bagno, mi pettino, mi guardo allo specchio…i capelli non mi piacciono e poi vorrei truccarmi, sono così bianca, mi vedo bruttissima… Prendo il profumo automaticamente, poi lo guardo, rido e penso dentro di me: “Ma che profumo… che trucco vuoi mettere?”. Sto bluffando con me stessa, faccio la donna forte, dura, e… vorrei piangere. Esco dal bagno; che strano: ho l’impressione di sentire il profumo di mio padre ma mi guardo intorno e non c’è… Io e lui siamo troppo simili… non verrà mai qui, ne morirebbe, non accetterebbe mai di vedere andar via la sua bambina e non sapere che destino avrà. Siamo troppo simili in questo: tanto forti nell’aiutare gli altri ma se accade qualcosa ai nostri figli la disperazione ci distrugge e subentra il nascondere la testa sotto la sabbia, lo sperare che così scompaia tutto… E’ assurdo, lo so, ma io in questo momento, pur avendo bisogno di lui, lo capisco e so con certezza che lui è qui…non so dove si sia nascosto ma so con certezza che sta piangendo e mi sta osservando, disperato per la sua bimba…
 
L’operazione va bene anche se era uno dei peggiori tumori al seno, un carcinoma infiltrante: ma era all’inizio e i linfonodi erano a posto e poi “non era esploso”, così mi ha detto un medico. Credo che neanche il professore sperasse tanto. Mi hanno detto che, finita l’operazione, mentre gli altri sanitari mi preparavano per riportarmi in stanza, lui si è tolto il camice e la mascherina ed è andato ad aspettarmi nella mia stanza; e in molti mi hanno raccontato che aveva le lacrime agli occhi. Un medico di tanta esperienza e di tanta professionalità e bravura che si commuove ancora… E’ bello scoprire che esistono ancora persone così. Ha lottato con me contro tutti e quando ho detto che non volevo la chemio mi ha appoggiata e mi ha prescritto solo la radioterapia contro il parere di tutti, e poi ha seguitato ad appoggiarmi anche quando non ho voluto la terapia del Novaldex e ho accettato solo l’Enantone. Lui non si ferma alla diagnosi medica ma va oltre… per dare una cura non sottovaluta l’aspetto psicologico ma fa un quadro completo della persona che ha davanti… Io per lui non ero un carcinoma infiltrante numero x, ma ero un essere umano, con molte paure e una soglia di sopportazione al dolore sia fisico che psicologico ormai provata e ridotta al minimo, e su questa base, oltre che sul carcinoma, lui ha deciso la terapia. Questo è un vero medico, uno che valuta sia i danni psicologici che quelli fisici, e le conseguenze di ogni terapia data sia a livello fisico che psicologico; lui aveva capito che su di me gli effetti della chemio e del Novaldex sarebbero stati più negativi che positivi. Sono stata fortunata ad averlo incontrato: ho una stima incondizionata di quell’uomo e non sono la sola. E mio padre? Mio padre mi dissero che comparve mentre la barella sulla quale mi riportavano in stanza usciva dalla sala operatoria; dicono che l’abbia fermata con il volto tumefatto dal pianto, che mi abbia riempito di baci… in silenzio, e che poi sia andato via di corsa. Il mio povero papà, quanto deve aver sofferto!
 
Per assurdo il primo periodo dopo l’operazione è stato il più bello dell’ultima parte della mia vita. Le mie giornate, ricordo, si svolgevano così: mi svegliavo, svegliavo le bimbe, facevamo colazione, arrivava mio padre, portava la piccola a scuola mentre la grande l’accompagnavo io con la macchina lasciandola davanti al cancello.
Alle 9,00 ero all’ospedale San Giovanni per la radioterapia: mai visto un reparto tanto bello, sia pur nella desolazione del luogo; chi ci lavora infatti è di una solarità unica. Un giorno mi chiamò il medico responsabile del reparto (tra l’altro giovane e carino) per il colloquio settimanale di rito, e mi disse: “Allora come si trova qui, signora? Come si sente? Ha qualche cosa di cui vorrebbe parlarmi?”.
Non so perché, ma gli risposi ridendo: “Beh, sì, devo dire che il servizio è scadente…perché non c’è musica e…la mattina ci vorrebbe del caffè… un cornetto… dei dolcetti…”.
“Ha ragione, ma non si preoccupi: provvederemo”.
Pensai: “Stavolta l’ho combinata grossa… Mi sa che si è arrabbiato, ho esagerato, ma non mi andava di parlare sempre di malattie e tumori e di come mi sento quando esco dalla radioterapia e vedo gli altri pazienti che hanno sempre qualcuno che li aspetta e io sempre sola e quella ragazza che quando esce ha il suo uomo che l’aspetta e l’abbraccia forte e la bacia; non ho mai invidiato nessuno, eppure l’ho invidiata… Quanto mi mancava in quei momenti un uomo che mi stringesse forte e che mi desse la forza di continuare a lottare… Ma… perché continuo a pensarci? Che gliene frega alla gente di quello che provo? Anzi se ti sentono lamentarti o dire sempre di star male si straniscono pure e ti evitano come avessi la lebbra… Meglio sorridere”.
 
Il giorno dopo, quando arrivai cominciai a ridere e giocare come facevamo sempre con le altre pazienti in sala d’attesa (che a volte era il corridoio); a volte ballavamo anche…mimando della musica, ma… quel giorno… sorpresa delle sorprese…tutti gli infermieri e i radiologi, quando toccò a me, mi guardarono e cominciarono a ridere, mi fecero entrare e… c’era la musica!...E mentre mi sdraiavo per prepararmi entrò lui, Raffaele, e disse: “Allora il caffè glielo avete dato? (Ehi, c’era anche il caffè!). Per i cornetti, signora, ci deve scusare ma oggi non abbiamo fatto in tempo”. Abbiamo riso tanto… Era davvero meraviglioso, so che sicuramente non mi credete o comunque non riuscirete a capire totalmente l’importanza ed il significato che aveva avuto quello che loro avevano fatto sia per me che per gli altri pazienti perché… nella disgrazia, trovare persone così… è davvero un dono di Dio…
 
Beh, ora continuo nella descrizione delle mie giornate, sperando che vogliate scusare il mio divagare ogni tanto in dettagli che tuttora mi rallegrano ricordandomi che esistono al mondo persone meravigliose delle quali non si parla mai e che non hanno mai ricevuto e mai riceveranno un grazie dalla nostra società.
 
Finita la terapia partivo per Rieti dove dovevo organizzare una manifestazione per il mio capo. Lì ero affiancata da una persona eccezionale, con la quale siamo poi diventati anche amici; c’è molto rispetto tra noi, ma non mi ha mai commiserata pur coccolandomi. E poi c’era un ragazzo, Alessandro, che mi faceva da assistente perché era di lì e quindi conosceva il luogo, me lo avevano affiancato dal comune e dal comando dei carabinieri. Era un ragazzo giovane ma molto maturo. E’ stato il periodo più duro ma anche uno dei più belli della mia vita. Non ho mai riso tanto… Con loro e con la mia amica Angela ho imparato anche a ridere di me stessa. C’era complicità, stima, rispetto…
 
Tuttora con quelle persone è rimasto un legame di amicizia e complicità molto intenso, poi Angela ha condiviso purtroppo con me anche la malattia. Alessandro invece, anche per la sua età, l’ho sempre considerato il mio cucciolo, lui si diverte con me ed è un po’ come “Cimabue” o “Pierino la peste” ma questo gli deriva dalla sua giovinezza, gli dico sempre che tutte queste donne lo porteranno alla rovina perché è sempre pieno di ragazze che gli girano intorno anche quando sta lavorando con me. Ma in realtà… quello che non gli ho mai detto è… che è in gamba, riesce a portare a termine ogni incarico che gli si dà, sa sempre trovare la strada giusta. Insomma, passavo tutta la giornata a lavorare a Rieti e poi la sera (tranne rare volte in cui avevo cene di lavoro lì) tornavo a casa dalle mie bimbe ed ogni sera era una festa. Un Pigiama Party (con tanto di libro di incantesimi e sortilegi) e infine a letto per essere poi pronti per il nuovo giorno. A pensarci ho ancora nostalgia di quel periodo, sembra assurdo ma è così.
 
Passa il tempo tra alti e bassi come per tutte le persone di questa terra. Un paio d’anni fa, durante uno dei controlli trimestrali ai quali mi sottopongono, si accorgono di qualcosa che non va ai polmoni: pensano siano partite delle metastasi… Di corsa vado a fare la tac. Ed anche qui mi accade qualcosa di strano… inverosimile… Sto seduta nella sala di aspetto di una clinica, a testa bassa, e continuano a passarmi per la mente duemila pensieri che, vi sembrerà strano, non ricordo o forse li ho cancellati… Ad un certo punto sento una voce, una donna giovane, scialba, che con la mano mi solleva il mento e mi dice:
  • Preoccupata?
  • Chi non lo sarebbe? Sai, tempo fa ho avuto un tumore e per fartela corta ora devo fare una tac ai polmoni per vedere se è partita una metastasi e… beh, chi non avrebbe paura?
  • No, tranquilla… non devi aver paura… non hai nulla… non è ancora venuto il momento per te… Ma se non ti offendi e permetti, io vorrei regalarti queste quattro medagliette, tienile con te e prega, non smettere mai di pregare… devi credere e pregare… devi aver fede in Dio”. Che strano, sono medagliette di Madre Teresa… Madre Teresa compare sempre nei momenti peggiori della mia vita… Sai, mamma ha tanto lavorato con lei per i bimbi, preparava triangoli per cambiarli, Madre Teresa glieli portava. Sai, è la seconda volta che mi regalano delle sue medagliette, mi successe la notte prima dell’operazione e fu una cosa strana… Ora tu ma… perché quattro, e perché tre argentate e una dorata?
Sorrideva: “Lo so, madre Teresa prega sempre per noi, tienile sempre tutte e quattro con te. Ti serviranno nei momenti peggiori per superarli”.
  • Ah, grazie, bell’augurio! Non basta tutto quello che ho passato finora? Quanto devo ancora subire e quanta forza ancora mi rimane? E se non riuscissi a essere così forte? Se crollassi?
Una voce al microfono: “Il numero 25 per la tac può entrare”.
  • E’ il mio numero: vado, grazie di tutto. Lei deve ancora aspettare molto?!
“Il tempo necessario”, sorride.
Entro e la tac non rileva nulla di maligno né preoccupante. Esco contenta e cerco quella donna per dividere la mia gioia con quella sconosciuta che aveva cercato di rasserenarmi, ma non c’era più e nessuno ha saputo dirmi nulla, anzi nessuno l’ha notata.
 
Io non credo di aver incontrato due angeli ma sono certa che quelle due persone esistano realmente e che madre Teresa, alla quale mia madre si raccomandava spesso per noi confidandole le sue preoccupazioni anche tramite le sue consorelle di Roma, credo abbia fatto in modo che quelle due persone fossero lì al momento giusto e con quelle medagliette per darmi forza attraverso un segno tangibile, materiale; d’altra parte lei quando le dicevano che era una santa sorrideva e ripeteva sempre di essere uno strumento nelle mani di Dio…Chissà… forse i santi sono semplicemente questo, e nel mio caso anche per ricordarmi quanto sia bella ed importante la vita e quanto fossi stata fortunata a scoprire in tempo il carcinoma, ad avere due figlie meravigliose e pochi ma buoni amici che mi vogliono un mondo di bene.
 
Ricordo spesso le parole dei miei nonni, con i quali sono cresciuta e che mi ripetevano sempre che bisogna dare e aiutare gli altri e solo per il piacere di farlo e non aspettarsi mai nulla indietro se non un semplice sorriso… semplice ma che riscalda il cuore ed è il dono più bello. Mio padre ogni suo compleanno ripeteva: “Vuoi farmi un regalo meraviglioso? Regalami un tuo sorriso: è il dono più bello che tu possa farmi”.
Io conservo ancora quelle medaglie; in realtà una l’ho data a mio nipote che ha avuto un problema di cuore pur essendo giovanissimo e sentivo di doverlo fare, ed un’altra ad una vicina di casa per il figlio in coma per un incidente e al quale avevano dato quasi inesistenti speranze, e che invece ora sta bene e nessuno si spiega il motivo della sua guarigione così veloce e totale mentre i presupposti erano tutt’altri; anche a lei sentivo di doverla dare… Ora continuo a chiedermi: le altre per quali motivi mi sono state concesse? Quali altre prove dovrò superare?...
Ma intanto ho imparato a vivere giorno per giorno e a non accontentarmi di sopravvivere ma a godere di ogni emozione, di ogni attimo di serenità e felicità che mi sia concessa; e non smetterò mai di credere che un giorno anche per me arriverà… l’alba di un sogno. Dopo la notte arriva sempre il giorno…
                                                                                                                                     
                                                                                                                                      (Cinzia Cammarere)
                                                                                               
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Storie di vita

STORIE DI VITA

Vite forti. Piene di una sapienza umile ma compiuta. Esistevano: io ne ho conosciute. Probabilmente ne esistono anche oggi. Da cercare forse in ambienti sociali meno sofisticati, adulterati e viziati di quelli prevalenti nella nostra società attuale. Anche quella che vi raccontiamo oggi è vera.
 
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Mi aveva insegnato ad amare la montagna, a dire le preghiere, a credere nei santi del paradiso, ad apprezzare certi profili delle cose, a comunicare con le persone, a saper chiacchierare; mi aveva insegnato che non siamo soli, neppure in uno stralcio lontano e dimenticato di mondo.
 
Era magrissima, non tanto alta di statura; una persona sottile, dal ventre concavo e dalle gambe muscolose come chi aveva davvero fatto tanta strada; aveva un naso un po’ aquilino, leggermente pronunciato e i suoi occhi castani, attenti e vivaci, sapevano guardare lontano.
 
Conosceva un’infinità di rimedi naturali o particolari, veramente singolari e inusitati, contro i mali fisici, di qualunque natura essi fossero, contro le malattie delle galline, la moria dei conigli, la scarsa lievitazione del pane, il freddo acuto ai piedi o le scottature alle mani. Sapeva fare benissimo un’infinità di cose e, anche se non eccelleva – devo dire – nell’arte della cucina, non ho più incontrato nessuno, nel percorso della vita, che sapesse sfornare un pane delizioso e fragrante come il suo. Lo conservava nella madia, anche per settimane… E manteneva intatto il suo inconfondibile sapore, a volte lo preparava anche nella versione dolce: lo mangiavamo ancora caldo, pizzicandolo con le dita e ce lo passavamo di mano in mano finchè, in un tempo incredibilmente breve, non era terminato.
 
Amava moltissimo le castagne, i funghi, la polenta, il pane, forse perchè sono doni diretti della terra che non hanno bisogno di grandi elaborazioni per essere gustati, forse perché erano stati parte integrante della sua vita e delle sue origini. Mi parlava sempre dei posti dove aveva vissuto e mi colpiva il fatto che di tutti i personaggi, protagonisti delle innumerevoli vicende che ricordava, citava ogni volta il nome, tanto che potrei dire anch’io, ora, di averli incontrati davvero sulla strada della mia vita. Aveva trascorso la sua esistenza in un paese di alta collina, che amava definire montagna, posto su un elevato pendio da cui si può ammirare la bellezza della valle, aveva avuto otto figli allevati a polenta, latte, verdura, rosari e preghiere. Aveva visto e vissuto due guerre, sospirato e pregato per un fratello alpino e un figlio partigiano; il primo caduto senza un saluto su altri monti, sconosciuti e lontani, il secondo allegramente ritornato all’ovile dopo che una raffica nemica di mitra gli aveva sbriciolato d’un colpo le suole delle scarpe lasciando miracolosamente intatti i piedi, oltre naturalmente al resto del copro, giovane fiorente e robusto, nonostante la dose giornaliera mai abbondante di pane, polenta e verdura. Da quel giorno la dose di un ingrediente soltanto era raddoppiata alla parca mensa familiare: quella dei rosari e delle preghiere.
 
La sua devozione e la sua fede erano rimaste incrollabili, anche davanti ad altri momenti di grande dolore; diceva che era stato suo padre ad insegnargliela, e a dargliene dimostrazione dopo che aveva venduto la mucca ed offerto tutti i proventi a beneficio della chiesa e dei poveri, quando gli era giunta la notizia della morte, in battaglia, del figlio. E per tutta la vita aveva conservato un oggetto da cui non si staccava mai: era un librettino di piccolo formato dalla copertina di finta pelle nera che definiva “il libro della messa”, scritto a caratteri rossi e neri, parecchio consunto in certe parti per la frequenza e l’assiduità della lettura, della quale avrebbe potuto fare benissimo a meno perché sono convinta ne conoscesse a memoria il contenuto, anche delle parti in lingua latina.
 
Anche successivamente, quando non viveva più nelle ristrettezze del passato, aveva mantenuto una sana repulsione per lo spreco o la spesa inutile; non buttava mai alcunché potesse, nella sua logica, essere riutilizzato, anzi riponeva gli oggetti in disuso in posti ben nascosti, in modo da poterli poi recuperare al momento adeguato. Una volta scucendo una camicia ormai rovinatissima aveva conservato i bottoni, riponendoli con cura nel suo cestino da lavoro; essendone rimasto uno alla fine dell’opera, lo aveva inserito in un bicchierino piccolo di liquore nella credenza a vetri: giunto subito dopo un ospite inatteso e volendo offrirgli qualcosa da bere, afferrò il bicchierino e lo riempì di grappa…Sulla sua superficie galleggiava allegramente il bottoncino colorato. L’ospite, come nulla fosse, bevve il contenuto lasciando sul fondo il corpo estraneo che, con una risata, una volta lavato il bicchiere fu collocato al suo posto, questa volta quello adeguato, il cestino da lavoro.
 
Così aveva mantenuto per tutta la vita un suo equilibrio interiore ed una serenità vera dell’anima, anche molti anni dopo quando, nelle sere d’inverno, attorniata da uno stuolo di nipoti, saliva piano le scale per raggiungere la camera da letto e, per rispondere scherzosamente alle risate e ai giochi rumorosi dei bambini, gridava dall’alto del pianerottolo con tono gioioso: “Seccamelica!”. Nessuno conosceva il senso della parola strana, ma pareva una formula magica, una specie di portafortuna, e dal buio del sottoscale tornava un’eco divertita, tra cori di risate, con questo misterioso “Seccamelica!”.
                                                                                                                                     
                                                                                                         (Maria Francesca Giovelli)
 
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Storia e storie

IL GERANIO DI MIO PADRE


Distraiamoci un poco dalla politica, non per deresponsabilizzarcene bensì… per ricordare sempre che essa deve avere come riferimento la persona, il suo servizio, la sua realizzazione compiuta, la solidarietà comunitaria. Per questo vi offro un’altra “storia vera”, una “storia di vita” fra le innumerevoli che altrimenti si consumerebbero in silenzio nella disattenzione di tutti: mentre invece sono cariche di insegnamenti e promemoria per la vita di ciascuno di noi, per il nostro impegno sociale e per la coerenza necessaria delle nostre istituzioni. Devo la storia, finora inedita, ancora una volta, agli indimenticabili amici del Premio Prato Raccontiamoci.

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Verso mezzogiorno la caposala si assentò dal reparto. Vi rientrò una mezzora più tardi, coi capelli sistemati e le labbra fresche di rossetto. Qualche minuto dopo, scortato dal solito drappello di assistenti, anche il primario fece la sua comparsa. Per cominciare, chiese alla caposala del paziente signor Caio. Una volta che la donna glielo ebbe indicato si avvicinò a lui e, presentatosi come il professor Taldeitali, lo invitò a passare nel suo studio di pomeriggio.
A qualsiasi altro paziente la cosa sarebbe suonata quantomeno strana, ma mio padre era un medico e tra colleghi, pensò, un minimo di riguardo sempre si conviene. Perciò, tranquillo, aspettò che si facesse ora  di andarsene. Alle tre del pomeriggio non gli restava altro da fare che mettere le sue cose nella borsa e recarsi dal professore. La porta dello studio era semichiusa. La spinse quanto bastava perché dall’interno qualcuno, accorgendosi di lui, gli facesse cenno di accomodarsi. Il professore sedeva comodamente dietro a una scrivania ingombra di carte e pacchetti di sigarette mezzo vuoti o accartocciati. Scusandosi per il disordine tirò fuori dal cassetto una cartella.
“Ho qui…”, esordì lasciando la frase sospesa.
“Allora?”, lo incalzò mio padre. A quel punto l’uomo tentennò il capo e iniziò a tamburellare con le dita sulla scrivania. Poi, rompendo gli indugi, con un tono didattico spiegò che per colpa di una malattia degenerativa, tecnicamente un “glaucoma ad angolo chiuso”, presto mio padre sarebbe diventato cieco.
“Come, cieco…?”, farfugliò il paziente.
Un silenzio di pietra riempì la stanza. Al culmine della tensione il professore fece: “Davvero mi spiace…ma tra colleghi è inutile girarci intorno…”.
“Cosa significa… cieco?”, chiese ancora mio padre, in preda all’angoscia. Caso volle che il telefono cominciasse a squillare, liberando l’uomo dalla spiacevole incombenza di dover fornire ulteriori dolorose spiegazioni. Si spicciò ad accompagnare il paziente alla porta e, dopo avergli messo tra le mani la cartella contenente gli esami, lo salutò con un colpetto consolatorio sulla spalla. Mio padre si credeva, e forse lo era, un medico d’altri tempi: di quelli che non hanno medaglie o lustrini da mostrare in pubblico e mai s’abituano all’umana sofferenza. Loro, i professori, hanno invece l’invidiabile dote di pronunciare terribili sentenze manco stessero facendo quattro chiacchiere sulle bizze del tempo. Mio padre, del resto, conosceva bene quel modo di fare sbrigativo e indifferente.
Per questo, prima di arrendersi all’evidenza sottopose il caso ad altri specialisti. Il verdetto, tuttavia, non cambiò di una virgola: pochi mesi, un anno a essere generosi, e sarebbe precipitato in una notte infinita. Si convinse che nessuno avrebbe potuto comprendere o mitigare la pena che gli pesava sul cuore. Per dovere ne diede notizia alla moglie e ai figli, certo com’era che se ne avesse parlato anche in giro un turbine di frasi stucchevoli e ipocrite sarebbe passato sopra di lui risucchiandolo anzitempo nella disperazione più nera. Si sforzò di vivere come se niente dovesse accadere. Ogni volta però che s’incantava davanti a un tramonto, la malinconia lo assaliva; una malinconia intima, dolorosa, che ora lo faceva sentire una pianta senza più radici, ora trasformava i suoi occhi in potenti obiettivi capaci di mettere a fuoco e fissare sul negativo della memoria il più piccolo dei particolari, la più sottile delle sfumature.
Nel periodo ch’ero mancato da casa, a parte naturalmente la malattia di mio padre, non vi erano stati grossi cambiamenti. Mia madre continuava a fare la vita di sempre: sbrigare le faccende domestiche, badare al menage familiare e giocare con le amiche a burraco il giovedì pomeriggio. Anche mio padre, sebbene avvertisse ormai il fiato del buio sul collo, perseverava nelle sue abitudini: compresa quella di svegliarsi ogni giorno alle sei e dieci precise. Continuò a farlo senza eccessiva fatica fino a un mattino quando, non sentendo provenire dal corridoio il consueto ciabattare, preoccupato mi buttai giù dal letto, uscii dalla stanza e lo vidi brancolare per la casa con le braccia protese in avanti.
“Scusa se ti ho svegliato… ma stanotte non riesco proprio a dormire…”, disse sentendomi arrivare.
“Ritorno in camera a aspetto che si faccia ora di alzarmi”, aggiunse non accorgendosi che il sole già rimbalzava dalle finestre al soffitto. A tentoni, sbattendo prima i ginocchi contro il comodino, riuscì ad arrivare al letto. Mia madre dormiva un sonno profondo e non s’accorse di nulla. Una volta nel letto egli tirò un lungo respiro e sussurrò: è finita… mentre due lacrime silenziose gli rigavano le guance. A vederlo mi si gelò il sangue. Quelli che seguirono furono mesi carichi di silenzio. Malgrado io e mia madre ci prodigassimo per calmarlo, mio padre se ne stava ore intere sprofondato in poltrona a frugare con la mente nel passato, a cercare di rimettere a posto quei tasselli della memoria che via via si andavano scollando.
Finchè, una sera, accadde qualcosa di nuovo. Forse destato dalla pioggia che batteva sulle persiane, fermò su di me i suoi occhi spalancati e all’improvviso prese a parlare della sua infanzia. Di quando, pur vivendo in un paese che pareva dimenticato da Dio, fantasticava di diventare un marinaio per girare il mondo. Con voce sognante raccontò del giorno in cui finalmente riuscì a vedere il mare da vicino: aveva diciannove anni ed era anche la prima volta che viaggiava sul treno. Stette tutto il tempo col naso schiacciato sul finestrino: calanchi d’argilla, boschi e fiumi si susseguivano veloci al di là del vetro, facendolo sobbalzare di meraviglia. Ma questo fu niente a confronto dell’emozione che provò non appena il treno s’affacciò sulla costa: il mare si svelò ai suoi occhi come per magia. Gli apparve immenso, meraviglioso, molto più di come lo aveva sempre immaginato.
“Così azzurro da confondersi col cielo…”. Accolse in viso un breve sorriso, quindi esausto s’abbandonò sullo schienale della poltrona. Mi sorpresi molto a sentire quel racconto. Sin da bambino ero stato indotto da mio padre alla passione della montagna: crescendo nella convinzione che solo il silenzio incantato dei boschi o la solitudine delle cime più aspre facessero stare l’uomo in armonia con l’universo. Eppure, adesso che ci riflettevo, non rammentavo una sola volta in cui avessi sentito mio padre fare un qualche discorso sul mare. Né per dirne bene né per dirne male. Tanto strideva questa considerazione con quello che avevo appena sentito dalla sua viva voce, che mi sedusse un’idea: e se avesse custodito in fondo al cuore un amore segreto per il mare? Talmente segreto da essere taciuto a tutti? Il giorno dopo quella rivelazione feci a mio padre una proposta.
“Ti andrebbe di andare al mare?”. Non rispose, ma dal movimento sorpreso delle ciglia fece capire che gli sarebbe piaciuto. L’occasione si presentò di sabato: era piovuto per l’intera settimana e con l’autunno alle porte quel mattino sembrava fatto apposta per starsene fuori all’aria aperta. Chissà come, lo convinsi a uscire dall’esilio in cui s’era ficcato.
“Dove si va?”, chiese pimpante.
“Si-va-al-ma-re!”, gridai quasi, sottolineando le sillabe.
“Al mare! Al mare!...”, ribadì mio padre sprizzando contentezza. Arrivati sulla spiaggia non trovammo che pochi ombrelloni sparsi qua e là, gruppetti di ragazzi intenti a prendere il sole, qualche viandante perso nei suoi pensieri. Egli mi prese sottobraccio e insieme ci incamminammo lungo la battigia, accompagnati da una leggere brezza.
“Senti che profumo…”, disse. “Lo sento, papà, lo sento!”.
Papà… Questa parola riecheggiò nella mia mente da lontano. Ebbi un sussulto nello scoprire che aggrappato a me si trascinava ora lo stesso uomo del quale un tempo avevo quasi venerazione. Mosso da un antico pudore ritrassi il braccio.
“Che c’è?”, fece mio padre. “Niente, mi si era slacciata una scarpa…”. Proseguimmo tenendoci a braccetto, mentre non lontano da noi gabbiani solitari perlustravano il mare. Mi ricordarono i falchi: capitava spesso in montagna che mi fermassi per seguirne il volo, ammirato dalla maestria con la quale, padroni delle correnti, dispiegavano le loro ali come vele nel vento. Questa similitudine tra falchi, dominatori del cielo, e gabbiani, sentinelle degli abissi marini, mi spinse a pensare che in fondo il mare altro non era che la cima di una enorme montagna capovolta le cui vette bucano profondità sconosciute e intangibili.
Passeggiando, giungemmo nei pressi di una pineta. Qui, su un campetto di fortuna, dei ragazzi giocavano a calcio. Sentendone le urla mio padre chiese quale fosse il motivo di tanto baccano.
“Ragazzi che giocano…”, risposi distrattamente senza fermarmi. Allora mi strattonò il braccio e tese l’orecchio. Rigore! Rigore! Un grido si levò sopra gli altri: i ragazzi si fronteggiavano dando l’impressione di doversele suonare da un momento all’altro. Poi gli animi sbollirono e dal gruppo uscì fuori uno col pallone tra le mani: sistemò la sfera sulla sabbia, quindi fece molti passi all’indietro. Informato da me su come stava mettendosi la faccenda, mio padre chiese lumi sul tipo di rincorsa che il ragazzo stava per prendere.
“Ha preso una lunga rincorsa!” gli dissi, “e dal piede d’appoggio credo che voglia battere col destro”. “Di sicuro sparerà in cielo!”, profetizzò mio padre. Un attimo dopo, calciata di punta, la palla s’impennò altissima sulla traversa. Stupito guardai mio padre, ma restai di stucco a una sua richiesta.
“Vuoi battere un rigore?!...”. “Sì, un rigore!”. “Ma andiamo, papà!...”. “Ti prego, chiedi ai ragazzi di farmi tirare un rigore!”. Usò un tono di voce tanto supplichevole da costringermi comunque a tentare. Individuai allora quello che tra tutti i ragazzi aveva maggiormente l’aria del capo e, presolo in disparte, tentai di ammorbidirne il cuore buttandola sul fatto che dopotutto non sarebbe costato loro nulla esaudire il desiderio di un anziano signore, per giunta cieco. Il ragazzo all’inizio pensò lo stessi canzonando, poi di fronte a tanta insistenza finì col cedere.
“Fermiamoci, che il vecchio vuol battere un rigore!”, urlò agli altri traboccando di sarcasmo. “Imbecille”, lo apostrofai tra i denti. Nell’attesa che tutto fosse pronto, i giocatori fecero capannello al centro del campo. Contai undici passi dalla linea della porta e con la mano spianai giusto un fazzoletto di sabbia per poggiarvi sopra il pallone. Un vociare divertito aumentava col passare dei secondi fino a scoppiare in una risata cattiva allorquando mio padre, nel tentativo di raggiungere da solo il punto di battuta, incespicò malamente su sestesso. In porta, con fare da spaccone, s’avviò il giovanotto che poco prima aveva fallito il rigore. Mentre camminava arrotolò a mo’ di benda la sua maglietta e con essa si coprì gli occhi, suscitando altra ilarità nei compagni.
“Piantala di fare il buffone!” Sbottò mio padre. “Dai nonno, sbrigati, che non ho tempo da perdere!”, replicò duro il ragazzo, che, liberati gli occhi dalla benda, si piazzò davanti alla porta ostentando impazienza. Mio padre sfiorò la palla col piede sinistro per verificarne l’esatta posizione, dopodichè arretrò di qualche centimetro rispetto a essa facendo così capire al suo avversario che avrebbe calciato nell’unico modo per lui possibile: senza rincorsa, da fermo. Questo rese il giovanotto in porta ancora più strafottente.
“Allora, vecchio…”. L’ultima vocale gli morì in gola. Con l’istinto e la rapidità di un falco quando piomba sulla sua preda, mio padre lasciò partire un rasoterra secco e angolato che il portiere neanche provò a respingere. Restai di sale. S’ammutolirono anche i ragazzi, eccezion fatta per il portiere che, rosso di collera, inveiva a più non  posso. Dalle sue imprecazioni mio padre capì ch’era riuscito nell’impresa: sollevò le braccia al cielo,  incurante di uno che ruminava “solo culo, vecchio, solo culo!...”.
Ebbi la strana percezione che quello appena visto in azione non fosse mio padre ma la sua controfigura. Dov’era l’uomo vinto e senza speranze che suscitava la compassione mia e quella degli altri? Addirittura mi balenò nella mente il sospetto che non fosse mai diventato cieco del tutto, che a un certo punto della sua vita avesse deciso di starsene separato dalla vita stessa, stanco di guardare il mondo dalle grate di giorni sempre uguali, ordinati e spogli come camere d’albergo, cosciente d’aver sgobbato una vita intera per pagarsi la casa e l’auto nuova, nient’altro. Pentito d’aver lasciato partire i suoi sogni senza aver fatto niente per trattenerli. Forse persino deluso della famiglia. Molto, molto meglio, fingersi malato, abbandonare la partita e rinchiudersi nel proprio mondo.
Per scacciare alla svelta tali assurdi pensieri, col pretesto che si stava facendo tardi misi fretta a mio padre. Nella luce del giorno che lentamente sbiadiva prendemmo la via del ritorno, lasciandoci dietro i ragazzi che ancora increduli commentavano tra di loro l’accaduto. Rimanemmo per un po’ senza parole. Poi di nuovo il tarlo che mi si era annidato nella mente prese a scavare il suo buco.
“Ma tu sul serio sei cieco?”: rivolsi al mio padre la domanda più stupida e cattiva che si possa fare a un cieco. “Sono cieco, figlio mio, com’è vero che a te in questo momento è dato di vedere la bellezza del mondo”, rispose. Sulle prime rimasi interdetto, poi volgendo lo sguardo all’incendio del sole sull’orizzonte…”eccola la bellezza del mondo!, esclamai tronfio dentro di me. Appena dopo però provai  pietà per chi, come mio padre, non poteva goderne alla stessa maniera.
“Sono stato davvero uno stupido…”, confessai ad alta voce mentre lo abbracciavo. Un senso di sconfitta mi travolse. In tutti quegli anni non era mai successo che fossimo stati così vicini da bagnarci all’unisono della stressa lacrima. Restammo abbracciati per un minuto, forse due. Un tempo infinitamente breve ma sufficiente a cancellare d’un colpo tutta la distanza che ci separava. Il mare appariva ora tenebroso e la spiaggia completamente nuda, abbandonata alla quiete della sera. Tornando verso casa, divorato dalla curiosità chiesi a mio padre come avesse fatto a indovinare quel tiro.
“Conosci Borges?”: eluse la domanda con un’altra domanda.
“Certo che conosco Borges…”, risposi non avendo ben chiaro dove volesse andare a parare. Al di là della circostanza che fosse cieco mi parve piuttosto un argomento buttato lì a caso, tanto per glissare a una domanda impertinente. Sbagliavo.
Mio padre abdicò alla vita trascorsi tre anni, due mesi e otto giorni da quel pomeriggio. E una domenica d’ottobre, mentre  stavo mettendo in ordine la libreria mi capitò davanti un piccolo volume dalla copertina quasi nuova. S’intitolava “La rosa profonda” e Jorge Luis Borges ne era l’autore. Leggendo quel nome mi si aprì la mente: col cuore in gola iniziati  a sfogliare il libro pagina dopo pagina. A un tratto l’occhio cadde su un verso sottolineato in rosso che recitava: Sono cieco e ignorante ma intuisco che sono molte le strade”. Sullo scontrino che a quelle pagine ancora faceva da segnalibro lessi una data: 20 marzo 1995. Ricorrendo a un semplice ragionamento dedussi con certezza che quello fosse stato l’ultimo libro letto da mio padre prima d’arrendersi all’oscurità. Come se, nell’atto di consegnarsi a essa, avesse voluto fissare dentro di sé tutta la forza e la bellezza che quei versi esprimevano. Più andavo avanti nella lettura, più coglievo la bellezza del mondo nella sua essenza. Prima pensavo bastasse solo guardarlo, il mondo, per farne parte: non capivo che non noi siamo nel mondo, ma è il mondo a stare dentro di noi. Mi sedetti sulla poltrona, la sua poltrona, e ripensando a lui mi lasciai andare alla nostalgia. Per meglio farmi cullare dai ricordi chiusi gli occhi. Quando li riaprii, tra le foglie del geranio che stava di fronte, sul davanzale della finestra, intravidi meravigliosi sprazzi di rosa. Per cogliere la “bellezza del mondo” questa volta non ebbi bisogno di spingere lo sguardo fin sull’orizzonte.
                                                                                                                 
                                                                                               (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)


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Anzianità

I MIEI NONNI: TRA RICORDI E SPERANZE

Semplicemente, preferiamo ascoltare con gioia meditativa questa memoria inviataci, ma anche raccontataci a voce, da Flavia, piuttosto che fermarci su qualche nota di stampa che in questi giorni ha riportato la proposta di una povera persona che vorrebbe togliere il diritto di voto agli anziani perché… “a che servono? Sono il passato”. 

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Ricordo sempre i miei nonni, con grande affetto e nostalgia, custodendo gelosamente tutto l'immenso tesoro che mi hanno donato!!!Tesoro rappresentato da esperienza, consigli, proverbi, da una cultura contadina oramai in via d'estinzione che dovrebbe essere preservata e tutelata come patrimonio mondiale Unesco...

Vivo costantemente con il ricordo dei proverbi di mia nonna, con il ricordo dei suoi profumi che inondavano la casa e dei suoi gesti quotidiani, frutto di grande manualità ed esperienza. Ricordo quel viso consumato dal lavoro, con quel fazzoletto che le copriva i capelli grigi, quelle rughe che le solcavano le guance fin giù al collo e le sue mani smagrite con l'immancabile fede matrimoniale, unico monile d'oro che si concedeva. Quel suo modo di vestire, serioso, con pochi fronzoli come a rispecchiare la sua austerità di donna forte e matriarcale.

Ricordo le mani di mio nonno, uomo dalle poche parole, basso in statura ma con le mani forti e callose di chi la zappa la usava molto nonostante esistessero già i mezzi meccanici, perché diceva sempre: " il trattore non arriva dove scava la zappa". Nonni che hanno vissuto ben due guerre e che conoscevano il valore del denaro, del sacrificio e della onestà. Valori e principi, questi, che nessuno mai ci ridarà e che ogni tanto riaffiorano alla mente come quel pesce che scorgi in superficie per esplorare cosa non si sa bene ma quando lo intravedi ti rendi conto che c’è sempre qualcosa oltre la superficie, oltre l'apparenza, oltre quello che vediamo. 
Grazie a voi, nonni, per quel patrimonio inestimabile che ci avete inconsapevolmente donato e che nessuno potrà mai cancellare.
                                                                                                                                                            
                                                                                                                                                   (Flavia Ciracì)
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Storia e storie

IL VIAGGIO DELLE MONTAGNE

Avete mai conosciuto davvero, visto davvero, avvicinato davvero, la povertà e la emarginazione? O avete soltanto letto qualche romanzo commovente o qualche cronaca sbrigativa? Vi offro la opportunità di pensarci un poco di più attraverso questo “racconto di vita”, vero e vissuto.

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Si chiamava Claudina e quando sorrideva mostrava due dentoni bianchi e lucenti a mo’ di paletta, che producevano, a mio parere, un gran bel sorriso. Vestiva male: un paio di calze smagliate ed una gonna verde, abbinata ad un maglione infeltrito color caffelatte, ricordo che le durarono per un’intera stagione.
Il pullmino ci scarrozzava per una buona mezzora ad ogni corsa, tra le stradine inghiaiate e polverose della pianura e, in quel frattempo, i ragazzini, un gruppo abbastanza numeroso di ragazzini rumorosi  e boriosi, dal piglio talvolta crudele,  si divertivano a prenderla in giro, canzonandola senza pietà. Talvolta infierivano anche sul fratello, un ragazzotto più giovane di lei di qualche anno, che la fantasia tutt’altro che dolce del gruppo aveva soprannominato poco simpaticamente “Mutando” per via di certi mutandoni di cotone a costa larga, talvolta crivellati di buchi, che i pantaloni smessi da un altro fratello, ed un po’ troppo larghi per lui, lasciavano intravedere ogni qualvolta calavano troppo in basso rispetto alla vita, già di per sé non troppo sottile, del ragazzo, fermandosi sul sedere.
Claudina non accettava passivamente quella sfilza di parole e gesti poco gentili; spesso si difendeva rispondendo agli attacchi e colpiva: talvolta volava qualche calcio ed il fisico, molto più alto e robusto del mio, per fortuna, la aiutava.
Qualche volta ricordo di aver preso le sue difese, a scapito del gruppo che, a seconda dei casi, la isolava oppure la attaccava: e fu così che, in qualche modo, io e Claudina ci avvicinammo, ma senza le confidenze un po’ romantiche e segrete che le ragazze, solitamente, a quell’età si scambiano.
Un giorno venne a trovarmi; la vidi arrivare dal fondo della stradina inghiaiata, con la sua gonna verde-acceso in un nugolo di polvere, inforcando, con poca grazia e tanta fatica, una bicicletta da uomo arrugginita. Restammo insieme un intero pomeriggio tra cortili assolati e fienili impagliati, dove ci esercitammo in una corsa a finti ostacoli e ci dilettammo in giochi più adatti a due ragazzacci che a due fanciulle adolescenti. Ma con Claudina era così: il divertimento era pura allegria, scherzo, risata da cui traspariva chiara una solarità dell’anima non rivelata o forse inesprimibile con linguaggio verbale.
Un pomeriggio, al termine di una scorribanda pazza sull’argine del fiume, verso sera, decisi di accompagnarla a casa; la sua abitazione non era lontana dalla mia e, non so perché, non avevo ancora pensato di ricambiarle la cortesia della visita. Ci avviammo lungo la stradina inghiaiata e, pedalando, restavamo alla pari; il sole moriva alle nostre spalle oltre l’argine del torrente dove poco prima avevamo scorrazzato senza ritegno. Eravamo stanche e l’animo rifletteva ora una serenità quieta, pacata, ma vera e percepibile. Arrivammo finalmente alla sua abitazione: una costruzione seminuova e molto piccola nel cui cortile regnava un silenzio poco reale. Senza proferire parola Claudina mi introdusse in casa; una stanzina al pian terreno dove, in ogni angolo, oggetti i più svariati e differenti affioravano da un disordine polveroso e trasandato. Persino le due figure che in quell’istante l’abitavano parevano parte di quel senso di desolazione, tanto che, ad una prima occhiata, neppure le avevo notate nel cupo colore della stanza. In un angolo accanto alla finestra una donna, vestita con un abito scuro punteggiato di minuscoli fiorellini grigi, si perdeva seduta su una sedia troppo bassa per la sua statura: l’acconciatura, per nulla curata, mostrava una massa di capelli grigi, raccolti in malo modo sulla nuca e pendenti in ciocche ribelli e disordinate sul volto. Cuciva un paio di calzini troppo bucati e, intenta nella sua attività, non distolse gli occhi quando feci il mio ingresso nella stanza. Sul divano, steso con le gambe accavallate, un uomo dall’aspetto più giovane della madre, ma con la stessa aria abbandonata e persa, guardava alcune scene di un vecchio film muto in bianco e nero. Salutai educatamente ed uno dei due genitori mi rispose sottovoce, senza però tralasciare quella immobilità in cui pareva calato. Imbarazzata scorsi velocemente con gli occhi gli oggetti e le cianfrusaglie che riempivano la stanza: una credenza a vetri anni Sessanta straripava di carte e cartacce frammiste a bicchieri, calici spaiati e vecchie tazzine scheggiate; in un angolo, sul pavimento, in una cassetta di legno, riconobbi i libri di scuola depositati in malo modo, gli stessi che a casa mia facevano bella vista nella libreria nuova che, proprio quell’anno, mio padre mi aveva regalato.
Poi lo sguardo si diresse verso l’unica fonte di luce della stanza, la grande finestra al centro della parete di fronte; era senza tende e proiettava, proprio come un grande schermo, l’orizzonte con il suo tramonto tinteggiato e lucente. Intravidi il verde della campagna filtrato dai vetri opachi e, lontano, la mia piccola casa là in fondo all’orizzonte, che oltre ancora, confusamente, si trasformava in una striscia indistinta di alberi, prati e cielo. Mi venne d’istinto il desiderio fortissimo di andarmene in fretta da quel luogo per riconquistare al più presto quel punticino perduto e lontano. Salutai di nuovo in fretta e Claudina mi riaccompagnò all’uscita; volai sulla bicicletta e pedalai fino a non avere più respiro, mentre il cuore batteva forte e quella piccola casa là in fondo al verde ritornava piano piano più grande.
Maggio era ormai terminato; giugno portò gli esami di terza media e poi giunse l’estate. Ogni tanto ripensavo a Claudina e alla sua casa; sapevo che da quella grande finestra avrebbe potuto in qualche modo vedermi da lontano, ma non cercai più la sua compagnia né feci nulla per non perdere la sua amicizia. Poi fu il tempo delle novità e dei cambiamenti; la scuola superiore non mi lasciava più tanto tempo per giocare e la caparbietà nello studio mi incollava ai libri; uscivo sempre meno.
Un giorno capitò all’improvviso a casa mia; me la trovai davanti alla porta col suo sorriso solare. La feci entrare, poi uscimmo verso la campagna a chiacchierare. Le sorridevo come un tempo, ma ormai ero cambiata e fremevo perché il giorno dopo avrei avuto un compito di latino e un’interrogazione di storia: non potevo permettermi di trascorrere l’intero pomeriggio in sua compagnia. Si accorse del mio distacco e mi salutò col suo consueto buonumore: Anche le montagne fanno il loro viaggio quando gli esseri umani non si spostano, disse. Capii solo allora la sua maturità e la profondità saggia e segreta del suo spirito.
La vidi allontanarsi lungo la stradina inghiaiata; le montagne, lontanissime all’orizzonte chiaro sembravano partire anch’esse, definitivamente, con lei.
                                                                                                       (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
 
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Umanità

UOMINI-MACCHINE DA LAVORO?

E’ una storia vera. Appena sintetizzata, ma vera. Del resto, tanti di noi ne avranno conosciute di simili, o almeno sentite raccontare da testimoni diretti, dato che la società umana è ben lontana ancora dal raggiungere una concezione di fraternità nei rapporti sociali  e di lavoro. La nostra civiltà, per alcuni aspetti così avanzata, resta per altri incredibilmente barbara.
 
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Uscimmo dall’ufficio. Il grigiore del cielo di dicembre era sintonizzato sull’umore di Monia, il freddo e l’umidità pesanti erano presagio delle sue imminenti lacrime. Nell’osservarla provavo compassione. Il suo sguardo profondo tradiva la tristezza e delusione provata, e la rabbia che in lei stava per esplodere. I suoi begli occhi castani, così intonati con i biondi riccioli che ballavano al vento, le davano un’aria gioviale ma non mimetizzavano il suo scoramento.

“Non si preoccupi, il Suo inserimento nella lista della cassa integrazione è solo un proforma – le aveva detto il titolare – abbiamo dovuto aggiungere qualcuno dell’ufficio tecnico per giustificare lo stato di crisi”.

Lei lo aveva preso alla lettera, seppur dubitando: “Perché proprio l’unica disabile dell’impresa? C’è altra gente che ha molto meno da fare di me, qui; mentre io potrei sostituire altri, altri che non sono in grado di sostituire me; perché allora non ha inserito qualcun altro al mio posto?!”.

Lei lavorava quasi quotidianamente fianco a fianco con il titolare. Lui indirizzava e lei disegnava, e progettavano assieme case, ospedali, residenze assistenziali, alberghi. Si era sempre dimostrata all’altezza di ogni richiesta. Quel giorno però, lui non si era fatto vivo. E lei aveva ricevuto una lettera dall’ufficio del personale, con la quale l’azienda la informava che sarebbe stata in cassa integrazione per i successivi sei mesi. Lui non aveva avuto il coraggio di dirglielo, di parlarle a quattrocchi. Un affronto, un insulto, un atto che mancava del minimo rispetto.

Non parlavo perché non sapevo che dire. Lì fuori, davanti al parcheggio dell’azienda, sembravamo indifferenti al freddo, tanto gelato era il sangue nelle vene.

Marco, un nostro collega dirigente, parcheggiò e scese da un fuoristrada gigante. Portava uno spolverino in pelle nera in perfetto stile Gestapo, dal quale spuntava una testa ossuta di cinquantenne coperta da un berretto a calotta in lana nera; il suo passo rigido era sottolineato dai tacchi degli stivaletti, anch’essi in pelle nera; il suo sguardo annoiato e spento vagava intorno come foglia sospinta dal vento, evitando con accuratezza di incrociare quello di chicchessia.

“Però, Marco, che gran macchina! Nuova?”, dissi con finto fare interessato.

“Eh, sì! Proprio nuova; aziendale, però. Un affare! 47.000 euro di questo modello “full option”; e 16.000 ci è stata valutata quella macchina di tre anni”.

Pensavo alla mia auto 1.200 cc a benzina di undici anni con 240.000 km, e all’illusorietà del sogno di Monia, di trovar casa per stare con il suo compagno.

Marco ci guardava senza vederci. Continuando a vantare le caratteristiche di quell’auto, si diresse all’ingresso dell’ufficio davanti al quale si fermò, sorrise, e a mo’ di battuta ci salutò dicendo: “Il lavoro rende liberi!”.

Poi scomparve oltre, come inghiottito dalla bocca di un drago.

Faceva ancor più freddo, ora, perché il sole si rifiutava di recitare in quel dramma.

Monia mi guardò. Con un filo di voce affermò: “E’ costata 31.000 euro, il mio stipendio di due anni e mezzo!”.

Il tono glaciale e la plumbea pesantezza di quell’affermazione facevano intuire la verità recondita in quelle parole, mostrando quell’efficiente ambiente di lavoro per ciò che era: una fossa comune di cadaveri dai cuori espiantati.

Le mie corde vocali erano paralizzate. Monia si avviò con lenti passi, e in silenzio sparì dietro l’angolo similmente a un fantasma.

Mi guardai attorno. Il vento, la strada deserta, le case ingrigite dal tempo. Ed ancor più tetra mi sembrava l’umanità, capace di sacrificare una donna per una macchina, una persona per un capriccio. Con i primi fiocchi di neve a frustarmi il viso, rammentavo gelidamente l’ufficio, e il doverci ritornare mi parve come l’affrontare un rischioso viaggio verso il mondo disumano dell’Antartide.

                                                                                                  (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
                                                                                            
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Internazionale

UN SOGNO LUNGO PIU' DI MEZZO SECOLO

Cosa accade negli Stati Uniti? Una lunga serie di episodi di violenza razziale, ma non solo razziale (ricordiamo ad esempio le orribili stragi nelle scuole) sembra sottolineare crescentemente che nel paese di Kennedy e di Martin Luther King, della Nuova Frontiera e delle opportunità per tutti, il lungo processo di crescita di coscienza civile, umana, sociale, unita a sviluppo economico e a visione solidale del futuro del mondo, che ha alimentato aspettative e speranze di una immensa moltitudine di persone di ogni condizione nel mondo per decenni e decenni, si stia in questi ultimi anni come arrestando e inviluppando in sestesso fino forse anche a regredire.

Contemporaneamente, il grande paese americano pare dar cenni di tramonto anche nella lidership e nell’autorevolezza che ne hanno contraddistinto il ruolo politico e culturale lungo i settant’anni seguiti al secondo conflitto mondiale. La grossolanità di stile esteriore espressa dalla presidenza Trump ne è stata come un segnale simbolico; e propone un quesito generale gravido di incognite agli americani ma anche a tutti noi, dato che anche nei nostri paesi, Italia compresa, tendono a crescere gli episodi di violenza, intolleranza e superficialità, individuali e collettive, con autori e vittime in tutte le regioni e in tutte le condizioni sociali e di età.

Leonardo Guzzo ci ripropone, nella pagina che segue, quello che fu l’effetto del grande messaggio di conciliazione e fratellanza lanciato da Martin Luther King nel 1963 a tutto il popolo americano, quando l’impressione quasi universale fu che il processo di avanzamento dei valori di uguaglianza, tolleranza e fraternità non avrebbe più conosciuto ostacoli.  

Come poter riprendere il cammino di un umanesimo più attivo e diffuso, anche se non miracolistico? In Usa come in Italia, in Cina come in Urss, in Africa come in India?
 
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Cinquant’anni. Il sogno più celebre e celebrato del XX secolo compie cinquant’anni. Era il 28 agosto del 1963 quando il pastore battista Martin Luther King junior, leader del movimento per i diritti civili dei neri americani, pronunciò al Lincoln Memorial di Washington, di fronte a 250.000 persone assiepate sulla spianata, il suo più famoso discorso.

“I have a dream”, proclamava. "Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità. Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.[...] Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme."

A concepire il suo sogno Marti Luther King aveva cominciato negli anni ’50, quando, da reverendo nel profondo sud degli Stati Uniti, aveva sperimentato in prima persona le conseguenze brutali della segregazione razziale. Ancora nel 1955 a Montgomery, in Alabama, la negra Rosa Parks veniva processata e condannata al pagamento di una multa per essersi rifiutata di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco. La risposta di King, pastore della locale chiesa battista, alla follia della discriminazione fu la nascita della Southern Christian Leadership Conference, un movimento per il riconoscimento dei diritti civili agli afroamericani, la scelta della lotta non violenta, l’elaborazione di un codice di comportamento che prevedeva “acutezza di intelletto”, per smascherare i pregiudizi, le false certezze e le astute convenienze dei segregazionisti, “tenerezza di cuore”, per infondere una superiore dignità alla sofferenza, per insegnare e ispirare negli animi più duri compassione, e poi condanna inflessibile del sistema vessatorio e insieme amore fraterno verso quanti pure erano colpevoli di alimentarlo.

In questa rivoluzione culturale risiede l’essenza del sogno di Martin Luther King, il suo capolavoro di fascinazione ideale e abilità politica, il seme di rinnovamento gettato nei meandri oscuri e putridi dell’America. È un sogno, quello di MLK, profondamente radicato nel sogno americano, nell’esaltazione dell’uomo, delle sue doti, della sua libertà, della sua aspirazione alla felicità, al di là dei limiti storici, economici e sociali; è un sogno coltivato da un perfetto eroe americano. Un idealista, uomo di fede e di testimonianza, e allo stesso tempo un abile comunicatore, lucido e determinato, un nuovo e più moderno Gandhi, capace di sfruttare la ribalta mediatica e la forza simbolica dei gesti per la sua causa di emancipazione. Da eroe americano, cinque anni dopo il trionfo di Washington, Martin Luther King sarebbe morto, assassinato a Memphis dalla pallottola di un fucile di precisione, vittima di un disperato, inutile colpo di coda dell’intolleranza razzista. Non prima, però, di aver ritirato a Stoccolma, nel 1964, il premio Nobel per la pace; non prima di aver propiziato l’adozione di leggi federali che sancivano la fine della segregazione nelle scuole, nei trasporti e nei locali pubblici e, benché solo in teoria, la piena partecipazione dei neri alla vita politica, sia come eletti che come elettori.

Dopo cinquant’anni il discorso del Lincoln Memorial resta una lezione di oratoria; spande, ancora, un’eco vibrante, vigorosa, a tratti dà i brividi. All’America, negli anni ’60, indicò la strada della “grande società”, più equa e inclusiva, fedele finalmente ai proclami illuminati dei Padri Fondatori, al mondo lascia per sempre l’immagine splendente della “grande famiglia umana” e un’idea raffinata e colossale: che la nostra libertà – la vera, esatta misura della libertà di ognuno – si realizza attraverso la libertà di tutti.
 
                                                                                                                                              (Leonardo Guzzo)
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Storia e storie

LA CASA SULLA BURE

Ancora un “racconto di vita”, vero e anonimo. Il periodo di ambientamento è quello del dopoguerra, la terra è quella toscana. Quando l’Italia intera si alzò in piedi dalle sue macerie e ricostruì sestessa, superando monarchia e fascismo e realizzando la più bella costituzione repubblicana del mondo e diventando il quarto paese economicamente più forte del mondo. La ricostruzione fu durissima e mise in luce immense forze morali diffuse e operanti in tutto il paese. Erano soprattutto forze di gente comune. Nello stesso tempo, come in ogni tempo della storia umana, accanto agli innumerevoli eroi di ogni giorno c’erano qua e là le carogne di ogni giorno. Ogni persona che nasce, in ogni epoca, è infatti chiamata alla scelta fondamentale se appartenere alla famiglia di Abele o a quella di Caino. Fra molti fratelli di Abele, in questa storia, troviamo anche una figlia di Caino: che alla fine, per fortuna, è stata sconfitta.
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Nelle vecchie case alte sulla Bure, attaccate l’una all’altra in fila come a sorreggersi, la sera, seduti alla nostra tavola, facevamo grandi progetti per quel futuro che ci trovava riuniti. Era il tempo in cui i sogni davano la mano alle speranze, anche se la fame faceva ancora a picca con la miseria: era il tempo di pace, tanto bramato in quei lunghi anni in cui il mondo e le persone erano stati sconvolti dalla guerra e ancora ne portavano i segni.
Nessuno voleva più parlare del passato; la gente era pervasa da una frenesia di rinascita e la parola “futuro” riempiva il tempo e lo spazio. A volte il babbo provava a parlare del tempo passato nelle trincee o nel campo di prigionia, ma tutti gli davano sulla voce; nessuno gli dava la soddisfazione di ascoltarlo, mentre ricordava i compagni e quello che avevano sofferto in quei lunghi anni lontano da casa: così le sue care ombre restavano sospese nello spazio riservato alle cose che non hanno più importanza e che possono attendere.
L’obiettivo del babbo fu subito quello di costruire una casa nuova, pur avendo un po’ migliorato la situazione di quella sulla Bure: dal suo ritorno non pioveva più nelle camere durante i temporali, era stata ripulita la cappa del camino e quell’inverno potemmo accenderlo per cuocere le rape nel grande paiolo attaccato al gancio sopra la fiamma, senza affumicare le poche stanze. Ma era comunque troppo piccola per la nostra famiglia, e mancava dei più essenziali servizi. Ciò che ricordo con più piacere di quella casa sono le grandi travi di lego sotto i tetti delle camerette, travi alle quali erano stati piantati dei chiodi da cui, appesi, pendevano grappoli d’uva messa ad appassire per l’inverno. Solo i miei sogni di bambina potevano essere dolci come quell’uva, poiché in quel tempo anch’io pensavo che tutto sarebbe stato possibile, ora che il babbo era a casa.
Il lavoro che il babbo aveva lasciato quando era stato richiamato alle armi non c’era più: così ora dovette cercarne un altro, che trovò a Prato in una filatura, dove si recava in bicicletta. Faceva turni di otto ore giornaliere, oppure notturne, e quando era possibile lavorava anche la domenica per mettere da parte i soldi per il terreno che doveva comprare per costruire la casa nuova. In famiglia si risparmiava anche sulla miseria, e non ho mai saputo come la mamma facesse a dividere un fiammifero di legno in due o condire il pane con un mezzo “C” di olio.
Aveva ripreso vita l’orto, un fazzoletto di terra sotto il muro della strada, dove si trovava anche un piccolo prato sul quale si aprivano altri piccoli orti delle famiglie che abitavano la borgata. In quello scampolo di terra mio padre aveva piantato due file di pomodori e in luglio, subito dopo la mietitura del grano e la pulitura delle aie da parte dei contadini, c‘era il rito della raccolta dei pomodori per fare la conserva da rimettere per l’inverno.
Ricordo che si mettevano quei frutti maturi nel paiolo e, dopo averli cotti, si strizzavano fino a farne una crema rossa e densa che veniva spalmata su tavole rettangolari: per lo più erano imposte di legno tolte dalle finestre, e così riempite si mettevano a seccare sopra dei pilastri rialzati nel prato adiacente l’orto. Sotto il sole di luglio quella crema diventava densa come sangue raggrumato e rosso scuro. E quelle tavole,  viste dall’alto della strada, sembravano tante bandiere rosse, sospese come le nostre speranze.
In ottobre cominciai la prima elementare; la scuola era situata in una stanza sopra il Circolino di San Niccolò; c’erano solo una decina di banchi e una lavagna, e in un angolo una stufa di legna che non funzionava. Nei giorni più freddi, quando si provava ad accenderla, la stanza si riempiva di fumo proprio come succedeva prima del ritorno del babbo a casa.
Un giorno il babbo annunciò che aveva comprato un pezzo di terra nel centro del paese, e lo annunciò con il tono orgoglioso e trionfante di chi ha raggiunto una tappa importante della vita, e con tutta la determinazione necessaria ad andare avanti, anche se il percorso futuro si annunciava faticoso e irto di incognite. Oltre che alla volontà, la riuscita era infatti legata anche alla salute ed alla solidità del lavoro che egli aveva in fabbrica.
Passò qualche mese prima che ci fossero i soldi per comprare il cemento e infine, non appena la primavera si fece viva, l’acqua della Bure perse il colore giallognolo e il suo scorrere non fu più limaccioso e veloce: allora il babbo prese la pala e incominciò a tirare su dal greto del torrente pietre e rena, facendone due monti che crescevano di giorno in giorno. Io andavo a fargli compagnia mentre egli affondava un poco il letto del torrente togliendone piccole pietre che poi impastava con rena e cemento, e dopo aver messo in una forma rettangolare l’impasto ne faceva uscire grossi cantoni grigi che metteva a seccare in lunghe file ai piedi del muretto, sotto il canneto che costeggiava la strada e dal quale si scendeva sul greto.
La gente si affacciava incuriosita dal muro della Bure a guardare quello strano pescatore di pietre e rena. In quei pomeriggi trascorsi sul greto del torrente, mentre il babbo così lavorava e io gli ero vicina, mi lasciavo prendere dall’atmosfera di quei luoghi come da una magia. In quel tratto le libellule scendevano dall’argine già verde per salutare i pesci volando a fior d’acqua in grandi cerchi; io guardavo incantata quella danza più leggera della brezza che increspava la trasparenza verde dell’acqua, attraverso la quale si vedevano guizzare pesciolini appena nati, in gruppi ondeggianti come piccole schegge d’argento.
Le grosse pietre che servivano da lavatoio erano di nuovo allo scoperto e le donne venivano a lavare i panni con grossi secchi e pezzi di sapone, facendo impazzire l’acqua in mille bollicine bianche che si perdevano in una lunga scia soffice e spumeggiante come panna montata. Il babbo aveva fatto una passerella con grosse pietre per attraversare il torrente nel punto dove faceva una strettoia e l’acqua era bassa, di modo che io potevo finalmente andare sull’argine “soprabbure” e immergermi in quella campagna tanto agognata; mi arrampicavo lungo il muro di sostegno, poi correvo per un viottolo fra due siepi di rovi, e via per i fossi, alla ricerca delle viole a mammola e dei maggiolini che si mimetizzavano fra i pampini sopra i teneri talli delle viti.
Il paesaggio era fresco e rigoglioso, con i campi che già ondeggiavano dei primi ributti del grano come una marea verde; io stavo attenta a non calpestarlo e passavo fra i fossi, anche perché le viti che li recintavano mi avrebbero nascosta alla vista dei contadini, attenti a guardia delle loro proprietà. Quei silenzi, interrotti a tratti soltanto dal rumore del treno che passava sulla vicina ferrovia, e quel senso di infinita libertà , mi facevano sentire la voce della campagna in tutta la sua armonia; il frusciare dell’erba e delle piccole serpi arrotolate al primo sole e che al rumore dei miei passi sgusciavano via veloci, il tremito delle foglie sulle piante mosse dal vento, i ronzii dei primi calabroni e i primi voli delle farfalle… Al tramonto, quando sentivo il fischio del babbo che mi chiamava, scendevo di corsa portando delle viole e dei cesti di rapicelli.
Il babbo si riposava seduto all’ombra del canneto, vicino ai suoi cantoni, fumando una sigaretta e contemplando il suo lavoro come un artista che avesse terminato la sua opera. “Domani” mi disse una sera “cominceremo a portare i primi cantoni sul terreno dove già ho finito le fondamenta, e speriamo che il Brescio (un nostro vicino) ci presti la barroccina”. La barroccina era di legno rosso, con due ruote; sulla bandina, dove erano attaccati i manici, c’erta scritto con la vernice bianca “Lo presto domani”. Fortuna volle che il giorno dopo per noi fosse domani, così partimmo con la barroccina carica di cantoni, passando per via Serragliolo, giù giù fino al terreno. Così, con una mestola da muratore e una livella, ebbe inizio la costruzione della casa.
Per fare il cemento c’era bisogno d’acqua, che il babbo andava ad attingere ad una fontana posta all’inizio di via Travetta, una viuzza vicina al terreno; e sebbene la necessità dell’acqua non andasse oltre un paio di secchi al giorno, i vicini che abitavano le vecchie case della via non videro di buon occhio quell’uomo che, sudato e con la voce roca di fatica, andava ad attingere alla loro fonte; così un giorno il babbo ebbe l’amara sorpresa di vedere arrivare la guardia comunale che, con cipiglio risoluto, cappello in testa, divisa e tanto di libretto in mano, gli intimò di non prendere più acqua da quella fonte perché, pur essendo essa comunale, non serviva per murare e lui doveva interrompere subito ogni e qualsiasi ardire contrario.
La guardia, certo Cecchi, non seppe mai quanto dolore, oltre che umiliazione, questa cosa costò al babbo, che, da uomo tutto d’un pezzo come era, non superò mai l’onta del rimprovero, che sentì come una grossa ingiustizia, né mai perdonò a colei (immaginava anche chi fosse) che gli aveva fatto l’offesa di mandare una guardia a fermare il suo lavoro, come se fosse stato un bandito. Così si fermò il lavoro che con tanto entusiasmo era iniziato, e si dovette attendere di avere i soldi per impiantare un pozzo artesiano sul proprio terreno, dal quale attingere l’acqua necessaria. Passarono molti mesi prima che uno zampillo d’acqua sgorgasse dal pozzo, che era stato costruito da uno zio del babbo che lo faceva di mestiere; e questo permise di riprendere la costruzione di quelle mura, che crebbero a vista d’occhio.
Il lavoro nella fabbrica, quando il babbo faceva le nottate, gli permetteva di dedicarsi alla casa per tutto il giorno, anche se così facendo dormiva pochissimo; e una notte, mentre puliva la filanda, non si accorse di aver premuto il pulsante della messa in moto: e la grande macchina partì schiacciandolo dentro.
Fui svegliata la mattina alle sei da un compagno di lavoro del babbo, che dalla strada andava gridando che c’era stato un incidente in fabbrica e che il babbo era in ospedale a Prato. Vidi partire la mamma in Vespa con lo zio Guido, seguita dalla disperazione della nonna Morina e mia.
Si era fratturato il bacino – ci dissero – ma non era in pericolo di vita; però ci sarebbero voluti molti mesi e molte cure per farlo camminare di nuovo. Allora non esisteva la cassa mutua per gli operai: così, se uno non lavorava non riscuoteva la busta-paga; ci salvò, in quel tempo, la solidarietà dei compagni di lavoro del babbo, che ogni quindici giorni ci inviavano, tramite Alemanno, il suo più grande amico oltre che compagno di lavoro, il ricavato di una colletta che ci permise di sopravvivere.
Le gambe del babbo erano tenute alte e avevano dei pesi alle caviglie per farle stare in trazione, e io, ogni volta che lo andavo a trovare nel suo letto, pensavo che solo Gesù Cristo sulla croce poteva aver avuto il suo sguardo desolato. Ma, come avevo sentito dire dalle nonne mentre sedute nell’aia facevano la treccia, “nella vita sempre bene non può andare e sempre male non può durare”; così anche questa burrasca passò e un bel giorno sereno il babbo, con la costanza e la forza del bisogno, riprese a murare finchè non arrivò al tetto della costruzione.
Erano trascorsi alcuni anni ancora e io avevo finito le scuole elementari e avevo incominciato a lavorare, prima in uno stanzone dove facevo i cannelli per i telai, e poi ai telai stessi. Questo mi permise di aiutare il babbo nella finitura della casa, e fui contenta quando lo sentiti dire che con i miei soldi aveva comprato le serramenta. Erano trascorsi circa otto anni dall’inizio della costruzione, durante i quali era nato il mio primo fratello e un altro era in arrivo; ora che la casa era finita, io ero una ragazzina di circa tredici anni e mi apprestavo a tornare a vivere, con la mia famiglia, in quella casa nuova.
Era a un solo piano, a baiadera, la casa nuova, e anche se non era molto grande aveva due belle camere, un salotto e i servizi, una bella porta d’ingresso di legno massello,  le persiane verdi e anche un poco di terreno sul retro e una striscia di giardino davanti, con tre piante di rose rosse che spuntavano dalla ringhiera sopra il muretto che la recintava. La casa aveva quelle comodità alle quali non eravamo abituati e che resero molto piacevole abitarvi. Ero contenta della luce soddisfatta che illuminava lo sguardo del babbo, in contrasto a quella della mamma sempre scontenta di qualcosa.
Mi sentivo tuttavia, nello stesso tempo, sradicata dal mio torrente e privata delle mie amiche, e mi sembrava di dover vivere con mezzo cuore, poiché l’altro mezzo era rimasto sulla Bure, accanto alla nonna Morina e a tutte le cose e alle persone semplici che avevano riempito la mia infanzia e che mi portavo dentro: i colori trasparenti dell’acqua della Bure in primavera, i bagliori e i falò sul greto quando si bruciavano le foglie secche del canneto, le voci delle persone che si chiamavano per soprannome, o quelle di noi bambini quando le sere d’estate si correva nelle prode del grano maturo dietro alle lucciole cantilenando: “Lucciola lucciola vien da me, ti darò il pan del re, pan del re e della regina, lucciola lucciola vien vicina”
                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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Storia e storie

COME HO CONSCIUTO DON LORENZO MILANI

Pubblichiamo questa testimonianza con la semplicità di stile e l’anonimato con cui era stata presentata, molti anni fa, nell’ambito del “Premio Prato Raccontiamoci”.

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Mai avrei immaginato che quel pomeriggio di un sabato come tanti altri avrebbe segnato tanto la mia esistenza.
Quando, insieme alla mia ragazza, avevamo scelto quel film intitolato “Un prete scomodo”, avevo solo qualche vago ricordo dei discorsi sentiti in famiglia riguardo a don Lorenzo Milani.
Sarà stato che a diciassette anni ci si nutre ancora di grandi ideali e si crede possibile cambiare il mondo, sarà stato per la grande interpretazione fattane da Enrico Maria Salerno, fatto sta che all’uscita dal cinema mi resi conto che quello che avevo visto era già dentro di me, e adesso lo sapevo.
Nei giorni seguenti continuammo a parlarne e decidemmo di visitare Barbiana appena possibile; fu di domenica e un Mugello vestito d’autunno fece da cornice a quella esperienza indimenticabile; abbandonata la strada statale, dopo alcuni chilometri di strada immersa nel verde ci apparve Barbiana, il “Paradiso” di don Milani, una chiesa di campagna a cui si stringe la canonica: ecco tutto il suo mondo, la prima scuola di emancipazione dei poveri, la realizzazione di un modello che ancora oggi anima e scuote le coscienze degli insegnanti migliori.
L’anno seguente, alla fine dei miei studi, affrontando la prova di italiano don Milani “segnò” ancora la mia strada: era il decennale della sua morte ed una delle tracce dateci per i temi chiedeva di parlare della sua vita.
Non so dire se fu il mio miglior compito di italiano, ma fu certamente il più sentito e appassionato che abbia mai scritto. Era il 1975 e negli anni seguenti approfondivo quanto possibile la mia passione con la lettura dei pochi libri che questo straordinario uomo ci ha lascito; poi nel 2006 ci fu la nostra prima  "marcia di Barbiana".
Avevo scoperto l’esistenza delle marce per via della passione per lo scrivere, partecipando al concorso “Rilettura di Lettera ad una Professoressa quarant’anni dopo”.
Quando poi, a fine febbraio 2008, ricevetti un nuovo invito a scrivere quello che don Milani mi aveva lasciato dentro l’anima, fui assalito dal dubbio che questa volta la cosa mi riguardasse, visto che si trattava di concorso indirizzato “a singoli cittadini adulti, in particolare insegnanti”.
Una frase però mi aveva colpito in particolar modo: “Fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze”; la leggevo e la rileggevo dentro di me, e infine trovai la risposta; a Barbiana la parola “insegnante” non era un titolo, ma l’accezione più semplice e genuina di chiunque trasferisce il proprio sapere ad un altro per aiutarlo a migliorarsi e si sente gratificato da questo; non è importante dove si insegna, è importante come lo si fa, lo spirito che ci anima; è importante insegnare quello che si sa, quello che abbiamo scoperto o che altri ci hanno insegnato: deve essere un modo di vita ed è questa la scossa di fratellanza che dall’epicentro di Barbiana fa crollare il muro della nostra indifferenza. In questo testamento pedagogico vi è tutto il significato dell’esempio di don Milani, tutta la sua modernità, il porre l’uomo al centro in una visione che lo avvicina al miglior Fromm.
Sotto questa luce così umana decisi di parlare della mia esperienza professionale senza timore di apparire un “maestro” ma felice di aver scelto un modo di vita ispirato alle nostre radici più profonde, dove il mutuo aiuto era la normalità e gli anziani ogni giorno insegnavano ai giovani, spesso senza necessità di parole, la loro esperienza nel lavoro della terra e nella cura dell’ambiente.
Nei primi anni Settanta, ancora studente appena quattordicenne, iniziai a lavorare di pomeriggio in una  officina e mi trovai abbastanza perplesso nel confrontare due mondi così diversi come quelli della scuola e della fabbrica: nel primo tutto era finalizzato, per definizione, all’insegnamento, mentre nel secondo, dove c’era veramente tutto da imparare, sembrava che tutti volessero insegnare il minimo.  
Mi accorsi subito che vigeva un sistema tipo “bottega medioevale”, cioè gli apprendisti, come me, ruotavano nell’orbita di operai anziani specializzati, veri maestri da cui attingere il mestiere ma chiedendo il meno possibile, perché, come nel Medioevo, l’allievo migliore veniva considerato quello che riusciva ad imparare “rubando con gli occhi”, mentre il chiedere spiegazioni era interpretato come indice di poco acume.
Nessuno lo ammetteva ma si avvertiva, più o meno forte a seconda del carattere del “maestro”, una forma di protezionismo del sapere, una paura di insegnare troppo, di perdere il primato, di essere superati dall’allievo.
Io, nonostante ancora non vedessi il mondo attraverso le lenti che poi mi ha regalato don Milani, avvertivo il disagio di questa situazione e soprattutto quanto fosse discriminante una selezione di quel genere in un ambiente dove si andava tutti per la necessità di guadagnarsi la giornata.
Inevitabilmente i meno dotati o i meno veloci nell’imparare venivano bocciati silenziosamente, destinati a compiti di sola produzione materiale o manovalanza, e finito il periodo di “apprendistato” simili compiti sarebbero rimasti appiccicati loro addosso come una condanna per tutta la vita senza altra possibilità se non quella di cambiare genere di lavoro.
Ebbi la fortuna di non essere fra questi, la natura mi aveva infatti regalato una grande passione per quel mestiere e una buona capacità di imparare, per cui con il passare degli anni divenni in grado di insegnare a mia volta quello che avevo imparato; nel frattempo avevo letto molto di Barbiana e le mie convinzioni avevano preso forza e adesso poggiavano su una base solida; scelsi allora di fare il capo officina nella convinzione che si potesse farlo meglio, diversamente da come vedevo intorno a me, puntando sul rispetto generato dalla capacità e non sull’autorità imposta, mirando alla crescita professionale dei ragazzi che sarebbero venuti a lavorare con me; non era un progetto speciale, era secondo me l’unico modo in cui si potesse lavorare umanamente, cercando per quanto possibile di sviluppare le capacità di ognuno, accettandone le diversità senza penalizzarle ma aiutando a far capire ad ognuno l’importanza del proprio compito all’interno  del gruppo di lavoro.  
Fu più precisamente al ritorno dal servizio di leva che iniziai a perseguire questo obiettivo; accettai l’incarico di formare l’officina interna di una piccola azienda di strumentazione elettronica; era quello che sognavo, partivo da zero, eravamo io ed il signor Dino, un pensionato tuttofare, un uomo di una semplicità unica nonostante fosse il padre del mio “principale”; poi arrivò mio padre, un tornitore eccezionale, a darmi una mano negli ultimi due anni che gli rimanevano prima della pensione.
Iniziai a far assumere giovani, uno alla volta, il gruppo cominciava a formarsi, ognuno con le proprie caratteristiche, le proprie esperienze scolastiche o di lavoro, ed io cercavo di svilupparne le capacità insegnando tutto quello che sapevo e che imparavo ogni giorno dai nostri due “vecchi”.
Quando, dopo venti anni, decisi di concludere questa esperienza, insieme all’inevitabile malinconia per qualcosa di irripetibile che finiva c’era la grande soddisfazione di vedere che i ragazzi di un tempo erano cresciuti, insieme ci eravamo migliorati e adesso erano in grado di proseguire da soli e di insegnare a loro volta.
Oggi che, cinquantenne, lavoro in una realtà più grande, umanamente arida e molto diversa, ripenso spesso a quel percorso senza ricordare il peso degli anni lavorati duramente ma con soddisfazione, quella soddisfazione che dà il tempo speso bene; e continuo quando possibile ad insegnare quello che so perché sono convinto che quando non si ha più voglia di imparare ed energia per insegnare si è veramente vecchi ed inutili agli altri ma soprattutto a sestessi, una pianta che non dà più frutti e non si rigenera alla propria ombra.
                                                                           
                                                                                                   (Anonimo, in ricordo e per proseguire l’esempio di don Milani)

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Esperienze

STORIA DI CLAUDIO

Lo conosciamo da tanto ed in tanti, don Viscardo, in questa nostra realtà romana. Prete per convinzione e vocazione profonde, ogni tanto ci racconta qualcosa di ciò che gli accade. Volutamente il suo linguaggio è sempre quello poco aulico e molto popolare della comunità nella quale vive e della quale condivide i problemi.
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Gesù disse anche questa parabola: "Un tale aveva un albero di fico piantato nella vigna e venne a cogliervi frutti, ma non ne trovò. 
Allora disse al vignaiolo: Sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico e non ne trovo mai. Taglialo. Perché sfruttare così il terreno? 
Ma quello rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai (Vangelo secondo Luca, capitolo 13).
  • Te la senti?
  • Che vuol dire “te la senti”? Non mi conosci?
  • Beh, andare venerdì non solo al processo, ma pure a trovarlo al carcere di Civitavecchia, non è proprio il meglio per te. Fai il parroco, mica sei in pensione.
  • Che discorso mi fai? È oppure non è importante che io vada là? L’avvocato sei tu; dimmelo chiaro: vuoi che vada, sì o no?
  • Scherzi? Per un affare del genere la testimonianza di un prete, per di più parroco e sulla breccia, conta il doppio, te l’assicuro.
  • E allora vado e stop. A che ora? Anzi, no no; aspetta: fammi appuntare le cose importanti che dovrei dire in udienza.
Michele è un giovane avvocato, non proprio alle prime armi ma, insomma… insomma a lui gliene danno parecchie di grane da “avvocato d’ufficio”. Certe volte senza beccare una lira.
 
  • Ecco, sì: prendi una penna che ti detto i passi più importanti.
È per un povero diavolo. Claudio. Claudio fa su e giù da Rebibbia a Viterbo a Regina Coeli e appunto a Civitavecchia. Piccole cose, un balordo. E pure sfigato. Quasi sempre lo beccano.
Quella volta l’avevano preso che guidava un’Ape, ovviamente rubata, mentre usciva da un vivaio dell’Aurelia Antica. Dodici vasi di ciclamini, aveva fregato. Pensa tu che reato... Lì vicino c’era stata in passato una rapina col morto… e allora avevano fatto due per due e ci avevano infilato pure il fascicolo di quello scemo di Claudio.
 
Udienza:
  • Reverendo, come lo conosce, che ci dice di Claudio?
 
Era entrato tutto incatenato a una ragazzina. Pensa tu: una zingarella che al Verano faceva razzia di borse alle donne che cambiavano l’acqua ai fiori. Incatenati come due schiavi del film Quo Vadis. Da morire dal ridere (si fa per dire).
 
  • Beh, presidente, Claudio…. Claudio è un ragazzo… che vuole… un po’ disturbato, incostante, nervoso. Praticamente randagio. Con un’infanzia non facile da raccontare. Qualche volta càpita in parrocchia da noi. Mangia e dorme da noi e poi… poi per un po’ sparisce.
  • Fa il sagrestano?.
 
 
- Ma no, presidente, che sagrestano, non so neanche se crede… A noi… non ci piace chiedere troppo. Se possiamo diamo una mano: un piatto, un letto,stop. Ora per Claudio abbiamo iniziato un progetto di lavoro. Farà l’arrotino, signor presidente. A giorni dovrebbe arrivarci una bicicletta attrezzata. Un ragazzo ingenuo, Claudio, in fondo un bravo ragazzo, stupido sì ma non cattivo. Presidente, rispondo io....
  • Lo affido a lei, reverendo… Guardi che è l’ultima volta. Lei lo sa che Claudio ha una fedina lunga come I Promessi Sposi?
 
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  • Perché non mi dici mai niente di te, Claudio? Sei nato a Roma?… Uhm non parli tanto bene il romanesco spinto… mi sa di no… I tuoi genitori?
  • Ma che me stai a chiede, ma che me voi prenne pel….a Viscà? Ma quali genitori. Io nun so manco dove so’ nato. Certo a Roma no, un po’ de romanesco lo mastico, sennò  sarebbero guai peggio. No, io so’ Claudio e basta. E nun so  gniente, nun conto gniente e nun ci ho niente. E soprattutto nun me ne frega gniente, vabbè?
  • Neanche, che so, una casa-famiglia?
  • Uuhhh, ancora. Peggio me sento. So’ scappato da tutte, Viscà, scappo sempre io, lo voi capì? Le quattro mura me soffocano e le regole…oh Dio le regole, e fai questo e non fare quest’altro e lo psicologo e l’assistente sociale e il mezzo giudice. No guarda, nun è… ste cose nun so’  proprio pe’ me. Te dirò: sto’ mejo in galera. Almeno ci ho un letto, tre pasti caldi, sigarette che nun mancano mai e di tanto in tanto sì, di tanto in tanto pure un po’ de roba. Quella vera però. Quella speciale quella costosa, ma pe’ noi lì dentro aggratis. Perché nun te crede, Viscà, il carcere, te lo dico in perfetto italiano, per chi ci sa vivere, è un mondo. Fai amicizie, gente sincera, di parola. A me m’avevano praticamente adottato. Che se fai il carogna te massacrano ma se fai il bravo vivi bene. Certo comandano i capi, mica le guardie. Che nun te se filano proprio. Mejo così.
    Che voi sapé? Dicono che m’hanno raccorto da un cassonetto ma nun è      vero, so’  tutte stron…io so n’artra storia. Viscà: sarà che mì madre, da poraccia che era, non ce l’avrebbe fatta a tenemme. Ecco. Che colpa je do? Che t’ho da dì, càpita no? Càpita a un sacco de gente, e lì dentro a quer mucchio ce sto pure io, Claudio. È andata così. Volontà di Dio: non dite così, voi preti?
 
La bicicletta arriva.
 
  • Claudio, beh come va, come ti trovi, va bene? Ti danno lavoro? La bici?
  • Ah, sí, la bici… la bici… la bici purtroppo s’è rotta, Viscà. L’ho portata dal meccanico. Me la ridà dopodomani.
 
Capisco subito che se l’è bella e venduta! Claudio era quello che era e, a suo modo, ci era grato, riconoscente. Serviva a tavola. Gliene fossero rimaste due sole di sigarette, una era per Franco, che a quel tempo ancora fumava.
 
Citofono.
  • Chi è?
  • - Sono Marco. Viscardo, vengo su?
 
È Marco, il maresciallo di polizia che lavora al Commissariato di via Cavallotti.
  • Vieni, Marco. Mangi con noi?
  • No, scappo: m’aspettano a casa. Per …
 
E ride. “Pure voi eh, pure voi avete messo su un piccolo business? Eh, reverendi?”.
  • Ma che dici? Marco…
  • E che ci ho, qui nel pacco? Ci ho un tesoro, Viscardo. Ma pensa te. Io a Porta Portese non mi ci allungo praticamente mai, la domenica mattina. Stamattina mi dico quasi quasi m’affaccio…. No, non è possibile. Che ti vedo? Di sguincio, oh Signore, mi pare lui, ma sì, è proprio lui, quel ragazzo che ogni tanto ospitate. Come si chiama… Eccola qua. Non è… come la chiamate?…”.
  • Sì è ‘una pianeta’ da messa, quelle ovali, noi le chiamiamo scherzando ‘le pianete a mandolino’. Si usavano prima del Concilio. Caspita, ma è di valore. Ma sì, credo un fine-Settecento. La regalò  Pio XI nel ‘35 quando inaugurò  la parrocchia qui al Gianicolense. Portata di peso dalla sagrestia di San Pietro. Arrivò insieme alla bella pala d’altare della scuola di Raffaello che vedi nell’abside.
  • E insomma, ti dicevo, stava già contrattando… che io comincio a strillare” Ferma, ferma, fermaaaa!”. E il bancarellaro che trema come una foglia, e lui…lui sparito in un lampo. Ma, dico io, li tenete così a portata di mano questi tesori, Viscardo?
Due-tre giorni e tornava. Feci finta di niente. Sarebbe servito solo a umiliarlo e io a passare da pappa e ciccia con gli sbirri.
  • Viscardo, stasera, ecco qua, pe’ cena v’ho portato una bella torta… come si chiama? Mimosa, ecco, sì, una bella mimosa. Oggi non è la festa di Franco? La prima fetta a Franco. Auguri.
La pasticceria Desideri a via Carini ancora la piange, la bella mimosa. Insomma, Claudio ladruncolo, sì, ma di cuore...

Così una bella mattina vado per dire la messa e in punta di piedi allungo il braccio per prendere il mio piccolo calice. Un regalo della mia ordinazione sacerdotale. Quando nel ‘61 feci l’ultima notte per lei al Policlinico, a mamma la fede gliela sfilai dal dito appena spirata: prima che gliela fregassero giù in sala settoria. La feci poi incastonare sotto la coppa del mio calice per tenerla sempre con me.
 
  • Dov’è? Franco, Andrea, sapete dov’è finito il mio calice?…
Mi guardano sconsolati.
  • No. Stavolta però glielo dico, ci tengo troppo alla fede di mamma.
  • Ma che, era d’oro? - mi fa lui con quel sorrisetto malandrino - . Perché non me l’hai detto? L’avrei venduta meglio, no?
 
Mi mette la mano sulla spalla.
  • Giuro, Viscardo, che stavolta avrai tutto e pure di più. Te la riporto, promesso, mano sul cuore e se non è quella, una che le somiglia.
  • Ma no, Claudio, no. Credo che non fosse… sì, la fede d’oro credo l’avesse regalata al duce nel ‘36 al tempo delle sanzioni. L’oro alla patria. Lascia perdere, per favore. Hai capito? Te lo ripeto, lascia perdere, Claudio.
Non mi sbagliavo. Lo fregarono per sempre in una rapina (a mano armata ma con pistoloni giocattolo) a una gioielleria di viale Marconi. Erano in tre. A lui, nel palmo della mano sinistra, gli trovarono una fedina d’oro.
                                                           
                                                                                                                         (Lauro Viscardo)
 
                                                                                      °°°°°
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Persona e lavoro

CASSAZIONE: ILLEGITTIMO IL LICENZIAMENTO IN GRAVIDANZA

Risale al 2017 (fu scritta allora in seguito a una freschissima sentenza della Corte di Cassazione) ma la pubblichiamo ugualmente ora in estratto per il suo interesse sostanziale, questa nota della giuslavorista Manuela Lupi, specializzata di lungo corso nella delicata materia. Non sappiamo se nel frattempo la Corte di Cassazione abbia emanato sul tema altra sentenza: ma l’autorevolezza del ragionamento che questo tribunale supremo esprime resta comunque punto di riferimento per la chiarezza delle dinamiche generali in atto nel nostro mondo del lavoro, in relazione ai diritti e doveri fondamentali della persona.
 
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La Corte di Cassazione ha affermato la illegittimità del licenziamento adottato da un datore di lavoro durante il periodo di gravidanza della lavoratrice: licenziamento deciso per chiusura di reparto.
Nella sentenza la Suprema Corte motiva tale nullità in quanto l’art. 54 del D.Lgs n. 151/2001, nel prevedere una tutela delle donne in stato di gravidanza, vieta sia il licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino ad un anno di età del bambino sia il licenziamento del padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità in alternativa alla moglie.
E’ da notare che il divieto di licenziamento non si applica peraltro nei casi di colpa grave da parte della lavoratrice, tale da costituire giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro.
Nel caso che ha dato origine al pronunciamento della Corte di Cassazione di cui parliamo, il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento di una lavoratrice addetta ad un centralino (call-center), motivandolo con la chiusura del reparto nel quale operava: il tutto nel quadro di una procedura collettiva di riduzione di personale.
La Cassazione ha affermato appunto che le eccezioni rispetto ai principi generali che vietano il licenziamento vanno interpretate in senso rigoroso, atteso che la tutela specifica predisposta dal legislatore tende ad assicurare un bene, quello della maternità, garantito dalla nostra Carta Costituzionale.
Con tale decisione viene confutato un precedente indirizzo espresso in una sentenza della stessa Cassazione emanata nel 2004, con la quale si era sostenuto che la cessazione dell’attività aziendale, che poteva giustificare il licenziamento, fosse applicabile anche alla chiusura di un reparto dotato di autonomia funzionale.
                                                                                             
                                                                                                                                       (Manuela Lupi)

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Storia e storie

IL RAPTUS DI GSEPP

Triste storia vera, come tante altre. Esiste la bellezza, nel mondo, esiste il bene, ed esiste il male. Diffuso da sempre negli anfratti più impensabili della nostra società. La stupidità e la violenza, fra l’altro, hanno sempre colpito ciecamente i deboli: donne, come in questo caso, bambini, malati, anziani indifesi, poveri. Cambiano i tempi e le forme ma non siamo sicuri che si indebolisca la sostanza di tanta stupidità e violenza. Il racconto di vita che qui pubblichiamo ci presenta un quadro sociale risalente nelle sue linee generali a molti decenni fa, ma tuttora presente in qualche anfratto delle nostre realtà sociali.
 
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Oggi dal mio Ipod, mentre ero in macchina, ho ascoltato un vecchio motivo dei Rolling Stones: Heart Stone (Cuore di Pietra). E’ stato il mio gruppo preferito, il gruppo che mi ha fatto sognare e vivere storie indimenticabili. Nella canzone, Mick Jagger racconta che lui ha conosciuto tante ragazze che ha fatto piangere e soffrire, e tutto a causa del suo cuore di pietra. Ed è così che, ascoltando la canzone, è riemersa nella mia memoria una strana storia, quella di un heart stone bonefrano. Il mio paese natale è infatti Bonefro.
Qualche giorno fa sono andato a fare un giro da mio fratello Nicola. Eravamo fuori sul balcone a prendere un caffelatte e a raccontarci storie del passato quando ho rivisto, dopo tanti anni, un nostro compaesano, Gsepp Colomb. Abita di fronte alla casa di mio fratello. E’ sempre solo, mi dice mio fratello. Era seduto sulle scale della sua casa, tutto assorto in sestesso. Gsepp emigrò in Canada nel 1957 in compagnia di sua moglie Evelina e di suo figlio. Gsepp è una persona di poche parole. La sola volta che gli ho parlato mi ha raccontato di quando lui e suo fratello non si scambiavano una parola nemmeno quando mangiavano. Era la sua maniera di farmi capire che sarebbe stata l’unica conversazione che avrebbe avuto con me. Questo spiega che tipo di uomo era: un tipo ferreo, taciturno, tutto di un pezzo.
Per conoscere tutta la forza del carattere di Gsepp Colomb bisogna tornare un po’ indietro col tempo. Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Evelina era una giovanissima ragazza e una delle poche fortunate: era andata a scuola. Aveva quasi terminato le elementari e abitava lungo il Corso Guglielmo Marconi, vicino al Pont Don Saverio. Era una bella ragazza, formosa. Negli anni ‘50 andavano di moda le donne formose: se volevano sposarsi, bisognava avere un fisico forte per lavorare la terra e crescere i figli; quelle troppo snelle restavano zitelle, a meno che accettassero di sposare un vedovo oppure… quello che passava il convento.
A diciotto anni Evelina aveva dei sogni come tutte le ragazze e i ragazzi della sua età. S’innamorava dei protagonisti dei fotoromanzi e leggeva ogni settimana Grand’Hotel. Si era innamorata del protagonista di Grand’Hotel Massimo Ciavarro. Un giorno, di nascosto, come tantissime ragazze, Evelina riempì il formulario per diventare attrice di fotoromanzi e lo spedì alla direzione di Grand’Hotel: ma per sicurezza aveva preso anche a seguire un corso di ricamo con telaio e uncinetto presso le suore, nel caso che il suo sogno non si realizzasse. Sperava di avere un ragazzo tutto per sé a cui pensare la sera, prima di addormentarsi. Finalmente si innamorò di Nicola Massa. Tutte le volte che la incontrava per strada lui le puntava gli occhi addosso. La sera si metteva vicino alla fontana aspettando che lei andasse a prendere l’acqua. Ogni domenica mattina si vedevano in chiesa. Lui cercava il suo sguardo. Lei sorrideva arrossendo. Questo era abbastanza per farla sognare.
Poi un giorno arrivò quello che Evelina non avrebbe mai immaginato. I suoi genitori avevano un progetto per lei: le dissero che la mamma di Gsepp Colomb era andata a casa loro per domandare se la ragazza voleva sposare suo figlio. Evelina non sapeva cosa fare né cosa dire. Era disperata ma non le lasciarono il tempo di pensare: “u’ ferr zi vatt quanne è call” (il ferro si batte quando è caldo) disse subito suo padre. Le spiegarono che Gsepp era un buon partito: aveva qualche pezzo di terra ed in più era uno dei fortunati che poteva emigrare in America, in particolare in Canada. Andare in America in quei tempi era come vincere l’Enalotto: tutta la famiglia avrebbe avuto la possibilità di emigrare.
Soprattutto la mamma di Evelina, la cui cugina lavorava e viveva da sola a Toronto, e le aveva scritto che in America le donne non sono schiave degli uomini e sono rispettate, insisteva. Quando Evelina cercò di dire che lei voleva bene a Nicola e che non se la sentiva di sposare Gsepp, suo padre la fece zittire subito dicendo che Nicola Massa veniva da una famiglia nullatenente e le ricordò che a decidere era lui, mentre sua madre le parlava dell’America. Accettarono l’offerta della mamma di Gsepp, e così si fece il matrimonio.
Nel frattempo, Nicola partì per il servizio militare. Fare il militare in quei periodi significava essere una persona normale, un vero uomo. Essere riformato invece era una disgrazia: chissà che malattia ha? Chissà se può avere figli? Per quelli che erano accettati nelle forze armate era come vincere al lotto: era l’occasione per andare fuori casa, andare in città, prendere il treno, imparare un mestiere, finire le elementari, ed in più si poteva andare a far visita alle donne “libertine”, quelle che operavano nei bordelli). Per molti era insomma l’occasione per vedere una donna come l’aveva fatta sua madre. A volte s’innamoravano di quelle donne. Nicola restò in varie caserme per 28 mesi: imparò a parlare italiano e finì le elementari. Ogni settimana comprava il suo fumetto preferito, Tex Willer. Alla fine del servizio militare tornò a casa e una sorpresa lo attendeva: la sua Evelina, che aveva immaginato accanto a sé nelle sue notti di solitudine in caserma, si era sposata con un altro.
Nessuno aveva previsto che al loro primo incontro accadesse quello che accadde. Un giorno di febbraio Gsepp ed Evelina erano a Santa Croce, paese vicino al loro, e aspettavano la corriera per tornare a Bonefro. Gsepp pensava di trasferirsi a Santa Croce, dove lavorava da qualche mese in una fabbrica di tegole. Il caso volle che anche Nicola aspettasse la corriera per far ritorno a Bonefro. Gsepp salì per primo per trovare due posti per lui e sua moglie: dopo entrò anche Nicola con l’altra gente, e infine entrò Evelina, che camminò verso il sedile dove era seduto Gsepp. Attraversando l’autobus lungo il corridoio incontrò Nicola che era rimasto in  piedi. Lui, dimenticandosi di essere a Bonefro e comportandosi come fosse in una città dove normalmente si saluta una persona che si conosce, la guardò e le disse buongiorno. Lei gli rispose abbassando gli occhi e andò verso il sedile dove era seduto Gsepp.
Ed è lì che successe il patatrac: Gsepp aveva visto la scena, Nicola aveva salutato sua moglie e lei gli aveva risposto. Le mani gli tremarono e il viso in fiamme. Appena il pullmann si mise in marcia, approfittando del rombo del motore, come preso da un raptus, ricordandosi che Nicola era stato lo sposo immaginario di Evelina sentì di colpo il suo cuore volergli uscire dal petto, tirò fuori di tasca un coltello (arma preferita dei bonefrani) e con un gesto fulmineo assestò una coltellata al fianco sinistro della moglie.
Evelina non gridò, non emise un gemito, e per un attimo il fiato le mancò. Nessuno si accorse del gesto fatto dal ferreo Gsepp; sorpresa, Evelina barcollò, ma non cadde. Con una mano si teneva il fianco ferito, e con l’altra afferrò il manico del sedile per sedersi. Si coprì con lo scialle lungo tutto il tragitto Santa Croce-Bonefro. Quando arrivò a Bonefro, scese per ultima. Suo marito uscì per primo, ancora sconvolto per quel comportamento di sua moglie.  Evelina scese dall’autobus lentamente, senza dare segno di debolezza, anche se pensava che era sul punto di morire, e andò a casa di sua madre. Entrò in casa e appena varcò la soglia cadde per terra. Sua madre, come se qualcuno l’avesse avvertita, capì tutto. La trascinò sul letto, la spogliò, lavò la ferita, la disinfettò con l’alcol e con molta pazienza la ricucì. Poi andò in casa del farmacista per chiedere dei medicinali per il dolore, per evitare che si creasse un’infezione. In quei periodo le donne bastonate, violentate, ferite, non si recavano dal dottore ma si recavano a casa del farmacista fingendo di essere cadute per le scale. Questo per evitare che il dottore facesse un rapporto sulla violenza subita dalla paziente.
Il giorno dopo, la mamma di Evelina uscì di casa per andare dai carabinieri e denunciare quel delinquente di suo genero; camminando sulla lunga strada ripida pensava al carcere, al disonore, alle donne di Bonefro e alla sua unica figlia. Confusa, si fermò per un po’ di tempo in chiesa. Disse il rosario, invocò la Madonna decine di volte. Infine decise di recarsi da quel farabutto di suo genero: andò per dirgli che aveva oltrepassato i limiti e per poco non gli ammazzava la sua unica figlia. Gsepp, ancora sotto l’effetto del raptus, appena la vide le disse: “Dove è quella puttana di tua figlia?”. La mamma provò a replicare ma lui subito aggiunse: “Questo è stato solo un avvertimento. Con il mio onore non si scherza. La prossima volta se si ripete la stessa cosa ti giuro che non rivedrai più quella zoccola di tua figlia viva”.
                                                                                                                     
                                                                                                                              (Anonimo, Premiopratoraccopntiamoci)
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