Storia e storie

LA CASA SULLA BURE

Ancora un “racconto di vita”, vero e anonimo. Il periodo di ambientamento è quello del dopoguerra, la terra è quella toscana. Quando l’Italia intera si alzò in piedi dalle sue macerie e ricostruì sestessa, superando monarchia e fascismo e realizzando la più bella costituzione repubblicana del mondo e diventando il quarto paese economicamente più forte del mondo. La ricostruzione fu durissima e mise in luce immense forze morali diffuse e operanti in tutto il paese. Erano soprattutto forze di gente comune. Nello stesso tempo, come in ogni tempo della storia umana, accanto agli innumerevoli eroi di ogni giorno c’erano qua e là le carogne di ogni giorno. Ogni persona che nasce, in ogni epoca, è infatti chiamata alla scelta fondamentale se appartenere alla famiglia di Abele o a quella di Caino. Fra molti fratelli di Abele, in questa storia, troviamo anche una figlia di Caino: che alla fine, per fortuna, è stata sconfitta.
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Nelle vecchie case alte sulla Bure, attaccate l’una all’altra in fila come a sorreggersi, la sera, seduti alla nostra tavola, facevamo grandi progetti per quel futuro che ci trovava riuniti. Era il tempo in cui i sogni davano la mano alle speranze, anche se la fame faceva ancora a picca con la miseria: era il tempo di pace, tanto bramato in quei lunghi anni in cui il mondo e le persone erano stati sconvolti dalla guerra e ancora ne portavano i segni.
Nessuno voleva più parlare del passato; la gente era pervasa da una frenesia di rinascita e la parola “futuro” riempiva il tempo e lo spazio. A volte il babbo provava a parlare del tempo passato nelle trincee o nel campo di prigionia, ma tutti gli davano sulla voce; nessuno gli dava la soddisfazione di ascoltarlo, mentre ricordava i compagni e quello che avevano sofferto in quei lunghi anni lontano da casa: così le sue care ombre restavano sospese nello spazio riservato alle cose che non hanno più importanza e che possono attendere.
L’obiettivo del babbo fu subito quello di costruire una casa nuova, pur avendo un po’ migliorato la situazione di quella sulla Bure: dal suo ritorno non pioveva più nelle camere durante i temporali, era stata ripulita la cappa del camino e quell’inverno potemmo accenderlo per cuocere le rape nel grande paiolo attaccato al gancio sopra la fiamma, senza affumicare le poche stanze. Ma era comunque troppo piccola per la nostra famiglia, e mancava dei più essenziali servizi. Ciò che ricordo con più piacere di quella casa sono le grandi travi di lego sotto i tetti delle camerette, travi alle quali erano stati piantati dei chiodi da cui, appesi, pendevano grappoli d’uva messa ad appassire per l’inverno. Solo i miei sogni di bambina potevano essere dolci come quell’uva, poiché in quel tempo anch’io pensavo che tutto sarebbe stato possibile, ora che il babbo era a casa.
Il lavoro che il babbo aveva lasciato quando era stato richiamato alle armi non c’era più: così ora dovette cercarne un altro, che trovò a Prato in una filatura, dove si recava in bicicletta. Faceva turni di otto ore giornaliere, oppure notturne, e quando era possibile lavorava anche la domenica per mettere da parte i soldi per il terreno che doveva comprare per costruire la casa nuova. In famiglia si risparmiava anche sulla miseria, e non ho mai saputo come la mamma facesse a dividere un fiammifero di legno in due o condire il pane con un mezzo “C” di olio.
Aveva ripreso vita l’orto, un fazzoletto di terra sotto il muro della strada, dove si trovava anche un piccolo prato sul quale si aprivano altri piccoli orti delle famiglie che abitavano la borgata. In quello scampolo di terra mio padre aveva piantato due file di pomodori e in luglio, subito dopo la mietitura del grano e la pulitura delle aie da parte dei contadini, c‘era il rito della raccolta dei pomodori per fare la conserva da rimettere per l’inverno.
Ricordo che si mettevano quei frutti maturi nel paiolo e, dopo averli cotti, si strizzavano fino a farne una crema rossa e densa che veniva spalmata su tavole rettangolari: per lo più erano imposte di legno tolte dalle finestre, e così riempite si mettevano a seccare sopra dei pilastri rialzati nel prato adiacente l’orto. Sotto il sole di luglio quella crema diventava densa come sangue raggrumato e rosso scuro. E quelle tavole,  viste dall’alto della strada, sembravano tante bandiere rosse, sospese come le nostre speranze.
In ottobre cominciai la prima elementare; la scuola era situata in una stanza sopra il Circolino di San Niccolò; c’erano solo una decina di banchi e una lavagna, e in un angolo una stufa di legna che non funzionava. Nei giorni più freddi, quando si provava ad accenderla, la stanza si riempiva di fumo proprio come succedeva prima del ritorno del babbo a casa.
Un giorno il babbo annunciò che aveva comprato un pezzo di terra nel centro del paese, e lo annunciò con il tono orgoglioso e trionfante di chi ha raggiunto una tappa importante della vita, e con tutta la determinazione necessaria ad andare avanti, anche se il percorso futuro si annunciava faticoso e irto di incognite. Oltre che alla volontà, la riuscita era infatti legata anche alla salute ed alla solidità del lavoro che egli aveva in fabbrica.
Passò qualche mese prima che ci fossero i soldi per comprare il cemento e infine, non appena la primavera si fece viva, l’acqua della Bure perse il colore giallognolo e il suo scorrere non fu più limaccioso e veloce: allora il babbo prese la pala e incominciò a tirare su dal greto del torrente pietre e rena, facendone due monti che crescevano di giorno in giorno. Io andavo a fargli compagnia mentre egli affondava un poco il letto del torrente togliendone piccole pietre che poi impastava con rena e cemento, e dopo aver messo in una forma rettangolare l’impasto ne faceva uscire grossi cantoni grigi che metteva a seccare in lunghe file ai piedi del muretto, sotto il canneto che costeggiava la strada e dal quale si scendeva sul greto.
La gente si affacciava incuriosita dal muro della Bure a guardare quello strano pescatore di pietre e rena. In quei pomeriggi trascorsi sul greto del torrente, mentre il babbo così lavorava e io gli ero vicina, mi lasciavo prendere dall’atmosfera di quei luoghi come da una magia. In quel tratto le libellule scendevano dall’argine già verde per salutare i pesci volando a fior d’acqua in grandi cerchi; io guardavo incantata quella danza più leggera della brezza che increspava la trasparenza verde dell’acqua, attraverso la quale si vedevano guizzare pesciolini appena nati, in gruppi ondeggianti come piccole schegge d’argento.
Le grosse pietre che servivano da lavatoio erano di nuovo allo scoperto e le donne venivano a lavare i panni con grossi secchi e pezzi di sapone, facendo impazzire l’acqua in mille bollicine bianche che si perdevano in una lunga scia soffice e spumeggiante come panna montata. Il babbo aveva fatto una passerella con grosse pietre per attraversare il torrente nel punto dove faceva una strettoia e l’acqua era bassa, di modo che io potevo finalmente andare sull’argine “soprabbure” e immergermi in quella campagna tanto agognata; mi arrampicavo lungo il muro di sostegno, poi correvo per un viottolo fra due siepi di rovi, e via per i fossi, alla ricerca delle viole a mammola e dei maggiolini che si mimetizzavano fra i pampini sopra i teneri talli delle viti.
Il paesaggio era fresco e rigoglioso, con i campi che già ondeggiavano dei primi ributti del grano come una marea verde; io stavo attenta a non calpestarlo e passavo fra i fossi, anche perché le viti che li recintavano mi avrebbero nascosta alla vista dei contadini, attenti a guardia delle loro proprietà. Quei silenzi, interrotti a tratti soltanto dal rumore del treno che passava sulla vicina ferrovia, e quel senso di infinita libertà , mi facevano sentire la voce della campagna in tutta la sua armonia; il frusciare dell’erba e delle piccole serpi arrotolate al primo sole e che al rumore dei miei passi sgusciavano via veloci, il tremito delle foglie sulle piante mosse dal vento, i ronzii dei primi calabroni e i primi voli delle farfalle… Al tramonto, quando sentivo il fischio del babbo che mi chiamava, scendevo di corsa portando delle viole e dei cesti di rapicelli.
Il babbo si riposava seduto all’ombra del canneto, vicino ai suoi cantoni, fumando una sigaretta e contemplando il suo lavoro come un artista che avesse terminato la sua opera. “Domani” mi disse una sera “cominceremo a portare i primi cantoni sul terreno dove già ho finito le fondamenta, e speriamo che il Brescio (un nostro vicino) ci presti la barroccina”. La barroccina era di legno rosso, con due ruote; sulla bandina, dove erano attaccati i manici, c’erta scritto con la vernice bianca “Lo presto domani”. Fortuna volle che il giorno dopo per noi fosse domani, così partimmo con la barroccina carica di cantoni, passando per via Serragliolo, giù giù fino al terreno. Così, con una mestola da muratore e una livella, ebbe inizio la costruzione della casa.
Per fare il cemento c’era bisogno d’acqua, che il babbo andava ad attingere ad una fontana posta all’inizio di via Travetta, una viuzza vicina al terreno; e sebbene la necessità dell’acqua non andasse oltre un paio di secchi al giorno, i vicini che abitavano le vecchie case della via non videro di buon occhio quell’uomo che, sudato e con la voce roca di fatica, andava ad attingere alla loro fonte; così un giorno il babbo ebbe l’amara sorpresa di vedere arrivare la guardia comunale che, con cipiglio risoluto, cappello in testa, divisa e tanto di libretto in mano, gli intimò di non prendere più acqua da quella fonte perché, pur essendo essa comunale, non serviva per murare e lui doveva interrompere subito ogni e qualsiasi ardire contrario.
La guardia, certo Cecchi, non seppe mai quanto dolore, oltre che umiliazione, questa cosa costò al babbo, che, da uomo tutto d’un pezzo come era, non superò mai l’onta del rimprovero, che sentì come una grossa ingiustizia, né mai perdonò a colei (immaginava anche chi fosse) che gli aveva fatto l’offesa di mandare una guardia a fermare il suo lavoro, come se fosse stato un bandito. Così si fermò il lavoro che con tanto entusiasmo era iniziato, e si dovette attendere di avere i soldi per impiantare un pozzo artesiano sul proprio terreno, dal quale attingere l’acqua necessaria. Passarono molti mesi prima che uno zampillo d’acqua sgorgasse dal pozzo, che era stato costruito da uno zio del babbo che lo faceva di mestiere; e questo permise di riprendere la costruzione di quelle mura, che crebbero a vista d’occhio.
Il lavoro nella fabbrica, quando il babbo faceva le nottate, gli permetteva di dedicarsi alla casa per tutto il giorno, anche se così facendo dormiva pochissimo; e una notte, mentre puliva la filanda, non si accorse di aver premuto il pulsante della messa in moto: e la grande macchina partì schiacciandolo dentro.
Fui svegliata la mattina alle sei da un compagno di lavoro del babbo, che dalla strada andava gridando che c’era stato un incidente in fabbrica e che il babbo era in ospedale a Prato. Vidi partire la mamma in Vespa con lo zio Guido, seguita dalla disperazione della nonna Morina e mia.
Si era fratturato il bacino – ci dissero – ma non era in pericolo di vita; però ci sarebbero voluti molti mesi e molte cure per farlo camminare di nuovo. Allora non esisteva la cassa mutua per gli operai: così, se uno non lavorava non riscuoteva la busta-paga; ci salvò, in quel tempo, la solidarietà dei compagni di lavoro del babbo, che ogni quindici giorni ci inviavano, tramite Alemanno, il suo più grande amico oltre che compagno di lavoro, il ricavato di una colletta che ci permise di sopravvivere.
Le gambe del babbo erano tenute alte e avevano dei pesi alle caviglie per farle stare in trazione, e io, ogni volta che lo andavo a trovare nel suo letto, pensavo che solo Gesù Cristo sulla croce poteva aver avuto il suo sguardo desolato. Ma, come avevo sentito dire dalle nonne mentre sedute nell’aia facevano la treccia, “nella vita sempre bene non può andare e sempre male non può durare”; così anche questa burrasca passò e un bel giorno sereno il babbo, con la costanza e la forza del bisogno, riprese a murare finchè non arrivò al tetto della costruzione.
Erano trascorsi alcuni anni ancora e io avevo finito le scuole elementari e avevo incominciato a lavorare, prima in uno stanzone dove facevo i cannelli per i telai, e poi ai telai stessi. Questo mi permise di aiutare il babbo nella finitura della casa, e fui contenta quando lo sentiti dire che con i miei soldi aveva comprato le serramenta. Erano trascorsi circa otto anni dall’inizio della costruzione, durante i quali era nato il mio primo fratello e un altro era in arrivo; ora che la casa era finita, io ero una ragazzina di circa tredici anni e mi apprestavo a tornare a vivere, con la mia famiglia, in quella casa nuova.
Era a un solo piano, a baiadera, la casa nuova, e anche se non era molto grande aveva due belle camere, un salotto e i servizi, una bella porta d’ingresso di legno massello,  le persiane verdi e anche un poco di terreno sul retro e una striscia di giardino davanti, con tre piante di rose rosse che spuntavano dalla ringhiera sopra il muretto che la recintava. La casa aveva quelle comodità alle quali non eravamo abituati e che resero molto piacevole abitarvi. Ero contenta della luce soddisfatta che illuminava lo sguardo del babbo, in contrasto a quella della mamma sempre scontenta di qualcosa.
Mi sentivo tuttavia, nello stesso tempo, sradicata dal mio torrente e privata delle mie amiche, e mi sembrava di dover vivere con mezzo cuore, poiché l’altro mezzo era rimasto sulla Bure, accanto alla nonna Morina e a tutte le cose e alle persone semplici che avevano riempito la mia infanzia e che mi portavo dentro: i colori trasparenti dell’acqua della Bure in primavera, i bagliori e i falò sul greto quando si bruciavano le foglie secche del canneto, le voci delle persone che si chiamavano per soprannome, o quelle di noi bambini quando le sere d’estate si correva nelle prode del grano maturo dietro alle lucciole cantilenando: “Lucciola lucciola vien da me, ti darò il pan del re, pan del re e della regina, lucciola lucciola vien vicina”
                                                                                                    (Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
 
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