In realtà ripenso spesso a quell’ultimo anno della mia esperienza istituzionale di lavoro in cui mi dissi: “Beh, sei finalmente arrivato, Giuseppe: sei arrivato al momento della tua pensione. Hai messo al sicuro, se Dio vuole, la tua anzianità dopo una vita francamente densissima di impegno, e ora diventi libero: non smetti di lavorare, ma lavorerai da persona libera. Goditi la conquista tanto agognata di tutta la tua vita e però non dimenticare mai nulla di quanto hai vissuto, e comunque ora, nel momento in cui formalmente ti congedi dai tuoi colleghi di ambiente lavorativo condiviso negli ultimi anni, non limitarti a un saluto burocratico e festoso come se il centro della faccenda fosse tutto intorno al brindisi scambiato per il congedo. Testimonia piuttosto loro quello che hai nel cuore in questo momento e che ti piacerebbe suggerire loro per il bene anche della loro vita”.
Così ho fatto. Così scrissi, quel mese di… ma che anno era? Forse già un decennio è trascorso, mamma mia! Lo scrissi e lo consegnai a tutti loro, quel mio saluto e quel mio pensiero, con affetto e attenzione personalizzata per ciascuno. Dopotutto, in quel momento ero ancora un loro dirigente: ed era anche, forse, doppiamente doveroso, da parte mia, un gesto simile. Ma era soprattutto una conferma di amicizia che vuole durare anche fuori dell’ambiente di lavoro, come è giusto che sia tutte le volte che ci è possibile.
Cari amici,
ho compiuto, non molti giorni orsono, gli ultimi atti formali di commiato dal nostro (affettivamente lo sento ancora così) sistema e dalle ultime responsabilità che in esso ricoprivo. Mi resta appena, ancora per un certo tempo tecnico, l’utilizzo del vecchio indirizzo istituzionale di posta elettronica: anch’esso mi richiama, piccolo segno, i molti anni di vita intensa trascorsi con voi.
Ma come potrei pensare di concludere effettivamente la mia presenza istituzionale fra voi, senza salutarvi? E vorrete scusarmi se, trattandosi del saluto conclusivo, lo troverete un po’ lungo: d’altronde… non ce ne saranno altri!
Con il 1° maggio del 2013 si è dunque conclusa sostanzialmente, grazie a Dio in piena serenità personale, la mia lunga attività di lavoratore dipendente, di dirigente e poi di collaboratore del nostro sistema.
Dico “grazie a Dio” non perché abbia desiderato di allontanarmi dai colleghi con i quali ho speso tanti anni della mia vita lavorativa, ma semplicemente perchè la quiescenza ha sempre rappresentato per me un grande traguardo di vita, perseguito per tanto tempo come meta di libertà e di serenità e non come obiettivo di disimpegno o di disinteresse.
La libertà è un bene immenso per chi lo sa assaporare come conquista di tanti anni di lavoro intenso, reso solido dalla propria onestà e non da una famiglia potente di appartenenza o da un clientelismo servile, che ti rendono facile e scontato il cammino e, a volte, veloce la carriera.
Nella vita ho provato la fatica della povertà delle origini, quella del cercare lavoro contando soltanto su me stesso, quella del timore di perderlo, quella del doverlo cambiare contro la mia volontà, quella della estorsione delle mie dimissioni (non riguarda l’Enasco!), quella della famiglia lontana per inseguire il lavoro… un po’ tutto ciò che può provare un uomo che deve affrontare la vita senza padrini e senza padroni.
Oggi, potendo dire Ce l’ho fatta, sento di essere stato molto fortunato e nello stesso tempo piuttosto coraggioso.
Sento di avere meritato tutto ma anche di essere stato aiutato tanto.
Sento di dover ringraziare la Provvidenza di Dio e me stesso, ma anche tanti colleghi, tanti amici e, semplicemente, tante persone positive.
Che mai dimentico.
Ora mi sembra giusto lasciare serenamente ogni mio ruolo di struttura, in quanto:
- è giusto che ciascuno di noi, giunto all’età matura, declini gradualmente, come ho fatto in questi anni, lasciando a chi viene dopo di lui il tempo e il modo di subentrargli con corretta gradualità per il bene della comunità lavorativa; ho potuto seguire questo metodo quasi sempre, nella mia vita, e ne sono particolarmente contento;
- ho molto ricevuto e ho dato tutto quel che potevo; e sono consapevole che viene inesorabilmente anche per me, come per ciascuno di noi, un tempo nel quale il nostro pensiero e le nostre modalità di lavoro tendono a irrigidirsi, a essere meno adeguate, per quanto impieghiamo tutta la nostra buona volontà e la nostra buona fede.
Ho curato, in questi anni di ruolo istituzionale e poi in questi mesi di collaborazione, la puntuale trasmissione delle mie capacità ed esperienze a chi mi è stato vicino, in quanto non ho mai ritenuto giusto tenere per me le cose che la società mi ha insegnato.
In effetti penso che le collaborazioni, specialmente dopo la quiescenza, debbano servire, più ancora dei ruoli istituzionali, soprattutto a trasmettere esperienza e sapere a chi resta, per arricchire la comunità lavorativa e il paese di tutto ciò che si è imparato. E a non sprecare nulla di quanto il paese possiede di capacità lavorativa.
Del resto, ove ciò dovesse ancora occorrere in futuro, personalmente sarò sempre disponibile a farlo di nuovo. Ma continuerò soprattutto a sentire con voi, e con questo nostro ambito “aziendale”, l’amicizia che resta, come di chi ha fatto un lungo tratto di strada insieme e non si è trovato male.
Penso in effetti che mai lo sciogliersi del rapporto di lavoro debba significare il declino dei rapporti umani, anche se meno frequentemente ci si vede. Personalmente non ho mai perduto i contatti con le persone positive con le quali sono stato legato nei diversi ambienti attraversati lungo la mia vita lavorativa: tutti hanno arricchito me ed i luoghi dove sono stato successivamente; in definitiva, hanno arricchito la società, l’unica nostra azienda vera.
Di quanto ho la coscienza di aver fatto bene sono ragionevolmente orgoglioso, di quanto sono stato insufficiente mi scuso sinceramente con tutti. Non è tuttavia mai mancata la buona fede.
Messaggi?
Innanzitutto le regole. Mi dispiace di non essere sempre riuscito a spiegare questo principio. Regola si scrive con la R maiuscola, come la scrisse San Benedetto e come la scrissero tutti i grandi fondatori. Nella società nulla vive senza regole e queste sole sono la protezione dei deboli e degli onesti, la garanzia della giustizia, la razionalità e trasparenza delle risorse che si spendono, e tanto altro. Non c’è rispetto reciproco che non passi attraverso le regole. “Le regole vanno osservate”, ci ha ricordato recentemente anche Nelson Mandela. Semplicemente.
Le regole non sono burocrazia ma uguaglianza di dignità fra persone. A patto che siano poche e semplici, e vincolino tutti senza eccezione alcuna, dalla base al vertice. Anche nel prendere il caffè e nel timbrare il cartellino. Ho visto in materia delle eccezioni: no, ragazzi: è una malattia grave, questa delle eccezioni. Finiscono in malesempio, corruzione, prevaricazione, differenze di razza e di casta. Distruggono i principi e i valori. Distruggono la solidarietà. Rendono più difficile capire il prossimo. Se una eccezione è motivata essa deve diventare una regola per i casi analoghi. Solo così c’è onestà e trasparenza che consentono di migliorare le cose. E di fare comunità.
Della buona fede non deve importarci molto, di per sè: l’azienda non è un problema di buona fede ma di efficienza. In buona fede si possono commettere le ingiustizie e gli errori più gravi. “Di buona fede è lastricata la via dei fallimenti”, come ho detto in qualche occasione passata.
Come di progetti è lastricata la via della provvisorietà.
Non sto dicendo che la buona fede non è essenziale: essa è essenzialissima, ma è valore distinto, presupposto in tutte le cose della vita. E non deve servire da stabile scusante per le inefficienze o per le mancate trasparenze.
L’Organizzazione è scienza grande e difficilissima, non ha a che vedere con la tronfia saccenza dei decisionisti, né in mala fede né in buona fede, né dell’alta gerarchia né di quella bassa.
L’organizzazione non ha a che vedere neanche con gli improvvisatori.
Non ha a che vedere con i cultori di slogans alla moda, neanche se imparati nelle eleganti scuole manageriali. Tanto meno se detti in inglese.
Né ha a che vedere con gli esibitori di brillanti masters postlaurea.
Ha invece a che vedere con chi mantiene orizzonti larghi e profondi, dialogo con tutti, e un cuore onesto.
L’organizzazione che funziona ha a che vedere con la garanzia che tutti abbiano le stesse opportunità di crescita, di incontro con il capo, di riconoscimento del proprio lavoro.
Ha a che vedere con la scoperta, la coltivazione e lo sfruttamento, a vantaggio di tutti, di tutti i talenti (spesso i talenti migliori sono quelli non utilizzati o non riconosciuti).
Ha a che vedere con la serenità di lavoro di padri e madri di famiglia che non possono permettersi il lusso (né lo vogliono) di giocare a essere belli o brillanti fra i colleghi ma semplicemente sono seri, onesti, affidabili, positivi.
Ha a che vedere, come ho accennato, con una legge che sia uguale per tutti, e su tutto: anche in materia di criteri per i premi, di cartellini da timbrare, di permessi per taxi, di orari…
E a proposito di orari, se potete, vi invito caldamente ad acquisire un intelligente sistema aperto al telelavoro: è il futuro della qualità della vita di lavoro. E anche della razionalità organizzativa dell’azienda. Che esige serietà grande da entrambe le parti.
Ci ho provato anch’io, a istituire il telelavoro, anni fa: non potè nascere per eccesso di rigidità dei casi specifici.
Ma ora il clima è più adatto, anche perché da diversi anni sono maturate molte esperienze esterne, contrattualmente ben regolate ed equilibrate, dalle quali si può imparare molto di utile.
L’organizzazione che funziona non ha a che vedere con la meritocrazia, parola troppo alla moda che rischia quasi sempre di contenere, e di nascondere senza volerlo, arbitrarietà del tutto personali di valutazione; bensì con l’onestà laboriosa.
Cosa è infatti la meritocrazia? Chi giudica il merito? E quali sono i criteri adeguati? Quanti fallimenti, quanti piccoli e grandi furti di lavoro altrui, trasformati abusivamente in “merito”…
Secondo messaggio: la formazione. Quella veloce fa male, quella continua fa bene.
Quella brillante fa male, quella profonda fa bene. Quella solo tecnica fa male, quella tecnica e umana fa bene.
Non ci si forma a essere grandi professionisti ma grandi persone: dal che deriva l’essere anche grandi professionisti. Il viceversa non è. C’è in giro troppa formazione tecnica e troppo poca formazione umana.
Ci sono in giro troppi professori e pochi maestri di vita. Diminuite i primi e cercate di più i secondi.
La formazione non corre, ma non si ferma mai: e incide in profondità.
La formazione non segue i masters postuniversitari o le specializzazioni all’estero o gli Stages negli States e non parla in lingua inglese e non rilascia attestati e non costa tanti soldi e non ha bisogno di consulenti famosi.
Piuttosto, ogni anno ognuno deve andare a fare un mese o almeno una settimana di servizio effettivo presso un’altra realtà e con un ruolo diverso e di diverso grado da quello che svolge abitualmente. Un’altra realtà che può essere Enasco ma anche del tutto diversa: un dirigente può andare utilmente a fare l’operatore di centralino, un quadro può utilmente fare per un mese il garzone di officina meccanica, un caposervizio farà bene a provare a fare il banconista al bar.
Il mio grande maestro di vita Vincenzo Saba, che è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della cultura lavorista del dopoguerra, in tarda età è andato per sei mesi a fare la piccola accoglienza quotidiana ai lavoratori in difficoltà, in pratico anonimato.
Il mio grande maestro di vita Ulderico Romani, che è stato per anni una delle più grandi personalità culturali occidentali nel mondo universitario giapponese, ha voluto, a conclusione della sua carriera, fare l’umile viceparroco avendo come capo un suo antico allievo e mio compagno di corso; e venivano ancora a chiedergli consiglio i ministri del governo giapponese...
Chi non integra la formazione di aula con queste esperienze non può costruire formazione vera. E non può capire neppure i libri che legge o studia. Non può andare in profondità.
Non stupisce che un direttore funzionale o un capoarea faccia per una settimana il centralinista. Stupisce che non senta il dovere di chiederlo.
Ma suggerisco innanzitutto a me stesso di riprendere a farlo. In passato l’ho fatto, in ambienti diversi, e altri lo hanno fatto con me, ed è stata la formazione più bella.
Suggerisco a tutti i presidenti ed a tutti i direttori del mondo di farlo.
La terza regola è lo scambio mentale, psicologico e morale, dei ruoli. Continuo. Guai a chi non ha qualcuno a cui rendere conto di quello che fa e di come si comporta. Quando ero in seminario questo metodo era la regola, dall’ultimo novizio al primo superiore. I ruoli si intercambiavano, a volte, addirittura per sorteggio. Non è un caso che simili organizzazioni siano le più longeve e le più produttive di uomini grandi.
Se accade la disgrazia di non avere qualcuno cui rendere conto anche morale del proprio operato, si diventa, anche in buona fede, ciechi e sordi al prossimo: la peggiore delle fini che si possa fare. La vita più inutile. Anzi, più dannosa per tutti: perché si riempirà la propria strada di vittime: vittime di piccole e grandi ingiustizie che non si sarà nemmeno in grado di riconoscere.
Quarto messaggio: la comunicazione. Non è scoop, la comunicazione. Non è scenografia. Non è manipolazione suggestiva. E neanche brillantezza. Né battute studiate o facili. E’ cuore che parla, ricerca di verità che si vede, senso del limite e dell’onestà che si dichiara: si condivide. Non è estetica ma amore. Abbiate una sana diffidenza dei puri esteti della comunicazione, pur volendo bene anche a loro.
La stessa diffidenza che dovete avere per la lingua inglese, pur studiandola. Diffidenza dei modelli culturali che essa veicola in modo nascosto, soprattutto. In economia e managerialità, soprattutto. E che avvelenano l’anima e intorpidiscono il cervello. E che sono uno dei tumori del mondo attuale.La comunicazione non è finzione che gonfia nè manipolazione che insinua: ma offerta di opportunità e finestre sul mondo.
E’ semplicità e verità. Crea libertà, non la incatena.
Non induce bisogni ma risponde a bisogni e una volta che li ha soddisfatti lavora per migliorare la qualità della vita.
E’ un’impresa che non finisce mai.
La nostra vera azienda non è l’Enasco, né la Confcommercio, ma il nostro paese. Che attraverso Enasco o Confcommercio ci paga, ci dà dignità e futuro.
E la missione del paese è un mondo un po’ migliore per tutti.
Non ci vuole, nel lavoro e nella vita, un grande cervello con un po’ di cuore dentro, ma il contrario: un grande cuore con un po’ di cervello dentro. L’ho detto tante volte, a tanti di voi. L’ho detto anche in tanti altri ambienti. Forse, chissà, io stesso non sono riuscito ad applicarlo del tutto, anche se ne ho piena convinzione. Ma ce l’ho messa tutta.
Attenzione ai premi: perché sono una cosa bellissima ma anche difficilissima da gestire. A volte hanno più diviso che unito, e in qualche caso più scoraggiato che motivato.
Perché valutare le persone è difficilissimo.
E si sbaglia molto.
E anche vedere quello che effettivamente i colleghi fanno e meritano è spesso difficilissimo.
Per i limiti di chi vede, per la diversissima abilità di chi sa “vendere” il proprio lavoro, per la presenza costante di piccoli e grandi ladri del lavoro altrui, diretti e indiretti, capi o colleghi.
Anche in buona fede.
Resta il fatto che i premi non sono una concessione dell’azienda: questa è una idea immorale. I premi sono la naturale (ed eticamente obbligatoria) partecipazione dei lavoratori ai frutti (positivi e anche negativi) del loro lavoro, attraverso il quale l’azienda esiste e dà beneficio alla sua proprietà ed alla comunità.
Proprietà che peraltro è solo giuridica, non è mai morale: il diritto naturale, e con esso la dottrina sociale della Chiesa, fa invece proprietari ed azionisti morali tutti quelli che lavorano nell’azienda.
Dà loro diritto di partecipare ai suoi risultati, e dovere di lavorare con impegno e serietà. Di non rubare. Nemmeno il tempo: di non lasciare che il nostro lavoro lo facciano gli altri.
Di non prendere giorni di malattia finta.
Di non dire mai “a me che mi frega? Per quello che mi danno…”
Perché questo è rubare.
Questo è disonesto.
Questo, sì, merita il licenziamento.
La malinconia di due licenziamenti di colleghi, che non sono riuscito a evitare, attenua la gioia per tante assunzioni che ho potuto aiutare.
Non dimenticherò né le une né le altre.
Le une mi servono per umiltà e meditazione, le altre per incoraggiamento.
Siamo sempre tutti piccola cosa, grandi soltanto di fronte a Dio se abbiamo un bel cuore.
Rischiamo di ripetere troppo che siamo tutti diversi. E che la diversità è una ricchezza.
E’ una ricchezza se contemporaneamente non dimentichiamo che siamo anche tutti uguali.
Uguali in dignità e diritti e doveri. E quindi non in astratto, ma in tutte le cose quotidiane e per sempre.
E allora: un po’ meno diversi e un po’ più uguali: negli stipendi nei premi nel tempo annuo di lavoro nel cartellino da timbrare nel dovere di lavorare con diligenza nella severità con la quale dobbiamo fermare anche con la forza i piccoli e grandi ladri (spesso ladri di idee e di lavoro) i piccoli e grandi parassiti i piccoli e grandi imboscati i piccoli e grandi “bugiardi per farsi belli” e la genia cancerogena di quelli delle eccezioni: tutti timbrano ma loro no, nessuno prende premi ma loro sì, tutti lavorano ma loro giocano al Solitario, tutti devono produrre risultati ma loro li presentano al capo…
E ci vuole anche il non dare troppa importanza al salotto, al si dice, al chiacchiericcio: ci vuole agire come se tutto dipendesse dal nostro personale comportamento. Questo è importantissimo per tutti ma ancor più per i capi.
Ognuno di noi è il capo di sestesso.
Ognuno di noi è il direttore di sestesso.
Ognuno di noi ha come segretario sestesso.
Ci vuole che si dicano le cose con chiarezza continuando però a costruire azioni buone.
Ricordo ancora la malinconica vicenda dei fogli anonimi che venivano firmati da Gordon.
Molti anni fa.
Ricordate anche voi?
Tutti noi ci saremo fatti una idea del volto di Gordon: anch’io me la sono fatta.
No, non ritengo che quello sia un modo dignitoso e costruttivo di comunicare.
E la finisco qui con il tema, perché è stato un tema triste.
La dignità della terza età? Non esiste: esiste la dignità morale delle persone; ci sono ottantenni corrotti e corruttori, viziati e viziosi, inaffidabili e bugiardi, egocentrici e avari, che in nome dell’età rivendicano il diritto di continuare le loro malefatte.
Nelle organizzazioni coincidono spesso con “quelli del gettone di presenza e della poltrona in prima fila”.
Evitateli.
O, se riuscite, ricordate loro che presto moriranno (il che è la sacrosanta verità, e l’unica cosa… da prendere sul serio nella vita, anche se fanno le corna quando gliela dite) e che è meglio che si preparino a rendere conto di tutto sapendo che le bugie, in quella circostanza, non funzioneranno più.
Ma ci sono anche ventenni e trentenni già vecchi nell’anima, sporchi e corrotti per troppi masters che servono a nascondere la povertà morale, per troppo inglese che serve a nascondere la mancanza di cultura, per troppa brillantezza che serve a nascondere la miseria del cuore, per troppa “competitività” che serve a nascondere il deserto dell’anima.
Come, al contrario, ci sono ventenni e trentenni già carichi di opere buone e di sogni onesti: fate loro spazio.
E ci sono anziani carichi di meriti e di sapienza: ascoltateli, fate loro spazio nella vostra vita. Fateli non solo presidenti ma vigilatori morali di tutte le vostre cose.
Istituite questo ruolo dei vigilatori morali: sapeste quanto valgono più dei colloqui di budget e della pianificazione strategica e degli incontri di valutazione!
Quanto valgono più dei marchi e dei loghi e dei brand e del marketing e di tutte le piccole e grandi “frasi fatte” benintenzionate attraverso cui continuano a dirci che si può promuovere il nostro lavoro!
Non è il nostro lavoro né il loro bene né il bene comune che viene promosso da queste cose, ma il perpetuarsi di un gigantesco autoinganno.
Ma non istituiteli, i vostri vigilatori morali, ritenendo di doverli nominare o eleggere.
Dovete soltanto riconoscerli con il vostro cuore, e indicarveli, dirvi apertamente fra di voi che quelli sono i vostri vigilatori morali, i capi che davvero vanno ubbiditi dal vostro cuore.
Agli altri va riservata una ubbidienza onesta e leale ma che è solo quella organizzativa e burocratica.
Se vi hanno detto che del vostro lavoro ci si può innamorare, che ci vuole passione, e simili stupidaggini, non credeteci: vi stanno inducendo in errore, senza saperlo e senza volerlo; simili melensaggini tendono, senza saperlo e senza volerlo, a fare di voi dei punti di vendita per risultati che sono soltanto profitti, soldi e carriera, non una comunità migliore per tutti e fraterna con la società di tutti.
Ci si può innamorare della vita, di una persona, di un ideale, di Dio, di uno scenario della natura che ci fa pensare alla grandezza della nostra vocazione umana, della nostra immortalità…
Ci si può innamorare anche della propria comunità di lavoro e della bellezza del farla sempre più efficiente e più giusta.
Ma mai ci si può innamorare di un 730 o di una scheda budget o di un cliente conquistato o di un orario di lavoro robusto… Perché queste cose sono soltanto uno strumento per essere concretamente innamorati del nostro prossimo, degli altri figli di Dio. Anch’io mi sento amato concretamente quando vado da Serena o da Salvatore e loro mi compilano bene il 730. O da Gianni o da Rosaria quando mi assistono per la pratica della mia pensione. Ma non è il 730, l’amore, né la pratica di pensione: è il rapporto con queste persone.
Non ci credete?
Chiedetelo alle mamme di famiglia che ogni giorno vengono al lavoro lasciando a casa i figli e portandosi dietro il pensiero di come accudirli e di come preparare la cena per la famiglia rientrando un po’ tardi e rischiando di trovare il supermercato chiuso.
Chiedetelo ai padri di famiglia che escono la mattina presto sorbendosi il traffico dei mezzi pubblici e rientrano la sera tardi inseguendo l’obiettivo di cinquanta euro di aumento o di mille euro di premio.
Che a volte non verranno neanche dopo anni.
Chiedetelo a chi ha in casa un familiare malato.
Chiedetelo a chi ha in famiglia un lutto.
Chiedetelo a chi deve finire di pagarsi la casa.
Chiedetelo a chi non ha ancora visto sistemati i suoi figli.
Se voi non rientrate in nessuna di queste categorie o di categorie simili, potete ridervene di questa riflessione.
O meglio, potete ringraziarne la provvidenza.
Ma siete sicuri di essere numerosi?
E se pensate a tutti i casi che conoscete, anche soltanto fra i vostri colleghi di lavoro, fatevi tentare da una riflessione approfondita, e dall’idea che anche voi in realtà siete coinvolti.
Vale piuttosto la pena di innamorarsi della grande avventura di una vita impegnata ed onesta e di quella cosa piccola piccola di cui a volte ci si vergogna, e che un tempo chiamavamo ideali.
L’azienda non è ciò che dice il codice civile e ciò che recitiamo al professore quando andiamo a sostenere l’esame di diritto privato all’università: l’organizzazione di mezzi e persone che ha lo scopo di raggiungere obiettivi…
L’azienda non è neppure una organizzazione di uomini e mezzi finalizzata a produrre profitti per gli azionisti, come ci predicano la sballata teoria economica calvinista e quei luoghi di perdizione culturale che sono la Bocconi o la Luiss o il Politecnico di Milano, e cosacce similari, che tanto piacciono in America e altrove, e che tanti guai hanno causato, compresa l’ultima crisi economica che ha messo sul lastrico milioni di famiglie in tutto il mondo.
L’azienda è invece una comunità di persone e di destino che si organizza per produrre ricchezza e benessere da ridistribuire fra tutti i suoi membri e mantiene attenzione etica e solidale a tutti i suoi componenti e a tutta la società.
Ma tutte queste riflessioni non sarebbero equilibrate e giuste se non fossero accompagnate contestualmente dalla consapevolezza della benedizione rappresentata comunque dal lavoro che pure avete, e che fa parte intrinseca della dignità della vostra vita, che sarebbe umiliata se tale lavoro non ci fosse. Questo merita un sentimento di riconoscenza verso la comunità cui apparteniamo. Il tanto spesso vituperato nostro “posto” di lavoro merita apprezzamento e impegno e lealtà e generosità grandi. Dunque lo merita l’Enasco.
Mentre svolgo tali pensieri con me stesso, ma avendo davanti alla mia mente tutti voi e ciascuno di voi, penso anche che nel corso della mia presenza fra voi sono stato valutato in tanti modi diversi, dei quali più volte mi sono accorto e che non sono stato in grado di approfondire con ciascuno di voi, come avrei voluto.
Sono stato definito “un bravo ragazzo”, “uno onesto”, “uno che fa quello che può”, “un dirigente in gamba”; ma anche “un figlio di puttana” (proprio così), “uno che si è fatto gli affari suoi”, “uno che ha detto cose che poi non ha fatto”, persino “un falso” (questo mi ha fatto male più di qualsiasi altra cosa)… E altre versioni.
Alcuni giudizi mi hanno generato un po’ di malinconia; posso assicurarvi che non sono mai stato “un figlio di puttana” e tanto meno un “falso”, neanche quando ho sostenuto idee o comportamenti che non piacevano a tutti i colleghi.
Posso assicurarvi che sono stato soltanto un uomo di buona volontà e senza disonestà, attento al mio prossimo e sollecito del suo bene per tutto ciò che è stato nelle mie capacità e forze.
Mi sento molto gratificato da quanti mi hanno capito (e in qualche caso me lo hanno detto).
Mi sento immalinconito dai giudizi negativi, che avverto ingiusti, ma non ne voglio male a nessuno.
Fanno parte delle cose che nella vita non riusciamo mai a correggere né a spiegare abbastanza.
Se devo cercare un pensiero conclusivo a questa riflessione di commiato verso tutti voi, mi sento di dirvi: Non è bene cercare il successo di breve periodo: conta ciò che si costruisce nel lungo.
Accettate di discutere di fatti, più che di problemi: i problemi tendono a dividere e a creare ideologie. Cioè rigidità che ci dominano.
In cuor mio, poi, ma ve lo dico come fra parentesi, come sottovoce, se ciascuno di voi venisse a chiedermi in confidenza quale è stato in fin dei conti il vero mio punto di forza nei momenti più difficili, quelli nei quali sei tentato di dire a te stesso ora non ce la faccio più, ho fatto tutto quello che potevo ma questo è più forte di me (e vi assicuro che ne ho vissuti: ho visto mio padre disoccupato, ho visto respingermi da certe opportunità perché povero, ho visto la calunnia prevalere su di me contro la verità ed ero ancora bambino per potermi difendere…) vi risponderei che dietro l’angolo buio ho sempre cercato di ragionarne con Dio.
Vi auguro di vivere tutti i giorni della vostra vita come altrettanti passi di crescita completa, per ciascuno di voi personalmente e per tutta la nostra comunità.
Giuseppe Ecca
Roma, mese di giugno del 2013.
(Beh, ve l’ho detta un po’ lunga: ma… è la sintesi di tanti anni di vita insieme!).
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