A volte, ma non così raramente come in genere si pensa, apprendiamo lezioni di vita da una casuale affermazione di vecchio saggio, ad esempio di un nonno, molto più che da dieci lezioni universitarie.
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Lo so bene perché il bunet (dolce tipico della cucina tradizionale piemontese, preparato con latte, uova, cacao e amaretti) mi piace tanto.
Avevo dodici anni, in quell’agosto, ed era giorno della Fiera di San Rocco. La fiera era sempre un bel giorno per noi bambini, ma anche per i grandi, che passavano la mattinata tra i banchi del mercato, al bar, a sentire il sindaco che teneva il discorso tra un brano musicale e l’altro della banda comunale; la fiera piaceva un po’ meno alle donne, che la mattinata finivano per passarla in cucina, perché il giorno della fiera qualche ospite in casa finiva per esserci sempre.
E quell’anno, il giorno della fiera, invitato di lusso era in casa nostra addirittura il dottor Luigi Porretti, luminare e massimo esperto ortopedico dell’università di Torino, nonché relatore della tesi di laurea di mia sorella.
Sì, perchè grazie agli aiuti anche economici del nostro medico condotto che aveva visto in mia sorella un futuro grande dottore, lei aveva potuto fare l’università, anche un po’ contro il volere dei miei genitori che pensavano di non poter permettersi questo lusso; comunque mia sorella era ormai arrivata alla fine degli studi, mancava solo la tesi, ed era sembrato logico a tutti invitare il grande professor Porretti alla festa patronale del nostro paesino.
Il dottor Porretti aveva pensato bene di portare con sé tre suoi giovani assistenti: il dottor Roberto Caldi, il dottor Franco Sereni e il dottor Mauro Pescatori. Inutile dire che mentre i quattro avevano girato in lungo e in largo per la fiera, comprando oggetti inutili e costosi fra continue soste al bar per bere aperitivi rigorosamente alcolici, mia mamma e mia nonna dalle sei del mattino avevano preparato tali e tanti piatti che a casa mia tutti insieme non si erano mai visti. Vitello tonnato, carne cruda, insalata russa, salame e prosciutto, agnolotti al plin, bollito, arrosto, fritto misto, con un’abbondanza di carote, spinaci, patate e altre verdure, che non riesco nemmeno a ricordare. E poi il bunet. A casa mia le donne sapevano fare tutto, ma il bunet no: il bunet lo faceva solo la nonna. Con quella pazienza che solo gli anziani sanno avere, mescolava i rossi d’uovo con lo zucchero fino a che non veniva un’amalgama di consistenza unica; poi faceva scendere il cacao a pioggia e senza smettere di mescolare aggiungeva i bianchi delle uova in un modo che sembrava di vedere quella neve che tutti gli anni scende, almeno dalle nostre parti, nella notte di Natale. Con il latte l’impasto diventava fluido, senza grumi, pronto a ricevere il bicchierino di liquore e gli amaretti, sbriciolati in pezzi così uguali che sembrava li avesse fatti una macchina. Poi rovesciava il tutto nello stampo dove aveva fatto caramellare lo zucchero, e quando iniziava la cottura a bagnomaria mia nonna non si muoveva da lì nemmeno per un attimo, come una sentinella di guardia a un carico di diamanti preziosi; restava a fissare pentola, acqua, stampo e coperchio fino a quando non spegneva il fuoco e levava questa perfezione della natura chiamata bunet.
Data l’occasione, per la prima volta mia nonna non aveva fatto il bunet nel solito stampo, così piccolo che sempre ne toccava soltanto un pezzettino per ognuno e io e tutti gli altri ci stavamo male perché, se avessimo potuto, ne avremmo mangiato uno intero a testa; quella volta, visti gli ospiti di riguardo, la nonna aveva preparato due enormi teglie rotonde di bunet. “E’ meglio che avanzi: basta che non manchi…” – aveva detto.
La tavolata era numerosa e rumorosa. A capotavola il grande dottor Porretti, alla sua destra e alla sua sinistra i suoi assistenti. Poi mia sorella, mio papà, l’altro mio fratello, mio nonno, zio, zia e due cuginetti; in fondo al tavolo mia mamma e mia nonna, che, poverine, facevano avanti e indietro in cucina e come al solito finivano per mangiare sempre poco di tutto.
Così per tutto il pranzo io non avevo che aspettato il momento del bunet. E mentre i dottori si ingozzavano con tutto quello che veniva portato in tavola, senza rifiutare il bis, senza far avanzare mai niente, senza dimenticare di bere un bicchiere di Barbera o di Grignolino tra un boccone e l’altro, io pensavo solo al bunet; pensavo che per la prima volta avrei potuto mangiare bunet fino a sazietà, fino a esserne così pieno da arrivare a dire “basta, non voglio più nemmeno un pezzetto di bunet”.
Finalmente arrivò il momento tanto atteso; come in processione, la mamma e la nonna arrivarono tenendo nelle mani due grandi teglie di bunet, tra lo sguardo ammirato di tutti. Il famoso bunet della nonna. “Dottor Porretti, ci terremmo che fosse lei a tagliarlo!”.
Mia sorella, che durante il pranzo aveva fatto un po’ da padrona di casa perché per tutto il giorno precedente ci aveva raccomandato di non farle fare brutta figura, aveva avvicinato una teglia al grande professore; lui con fare serio aveva mostrato di accettare e gradire la responsabilità dell’incarico: in un silenzio mai visto prima, il dottor Porretti prese il coltello dalla lunga lama e con un gesto lento ma sicuro tagliò in due il bunet; quindi girando di novanta gradi la teglia fece di nuovo correre la lama lungo tutto il diametro. Ne erano usciti quattro grandi spicchi uguali, senza la minima imperfezione; il professore posò il coltello e con la paletta cominciò a distribuire il primo quarto al dottor Caldi, il secondo al dottor Sereni e il terzo al dottor Pescatori. Quando i suoi assistenti furono tutti serviti prese l’ultimo quarto, lo sistemò nel suo piatto e insieme ai suoi illustri colleghi iniziò a mangiare, facendo con il capo ampi gesti di entusiasmo.
Tutti voltammo lo sguardo verso l’altra teglia rimasta e credo che ognuno mentalmente avesse iniziato a suddividerne le porzioni accorgendosi che anche stavolta per noi ci sarebbe stato il solito piccolo pezzo a testa. In un silenzio spezzato solo dal rumore dei cucchiai che i quattro medici impietosamente infilavano nella delizia di cacao, improvviso, inatteso, inimmaginabile, mio nonno sentenziò:
Per un momento tutti pensarono alle raccomandazioni di mia sorella a non fare brutte figure con ospiti così importanti, ma subito nessuno riuscì a resistere e uno dopo l’altro tutti scoppiarono a ridere. Anch’io, ancora deluso per il mio bunet, anche mia sorella che tanto la raffinata aveva fatto fino ad allora, e mio papà, gli zii, la mamma, la nonna, mentre i dottori guardavano senza capire perché ridevamo.
Come andò a finire quel pranzo non lo ricordo più molto bene, se non per quel pezzettino di bunet a testa che comunque abbiamo mangiato tutti; però adesso che sono passati degli anni, che il dottor Porretti credo non sia nemmeno più vivo e i suoi assistenti di allora saranno diventati dei luminari della medicina, sì, adesso il bunet lo ricordo sempre e molto bene. Non c’è più la nonna che lo prepara, anzi ormai in casa il bunet non si fa più: però ogni volta che vado in uno di quei ristoranti di cucina piemontese, alla fine del pranzo il bunet lo prendo sempre. Anche se forse non è nemmeno più il mio dolce preferito, anche se forse ormai mi piacciono di più la crostata o la torta di nocciole o la panna cotta; però finisce che il bunet lo prendo sempre perché a me fa un po’ l’effetto della madeleine di Proust, mi ricorda gli anni dell’infanzia, mi ricorda il dottor Porretti, i suoi giovani assistenti, l’agitazione di mia sorella, tutta la mia famiglia che si mette a ridere per la frase del nonno.
Già, la frase del nonno… Quella mi è servita, mi è servita per la vita da affrontare con quel distacco e quell’ironia che sono indispensabili. Perché poi la mia famiglia è riuscita a far studiare anche me e alla fine ho preso una laurea in ingegneria; però, anche se mi presento sempre come un serio professionista del lavoro, in realtà sono eternamente conscio di essere un perfetto dilettante della vita. E lo studio, le ambizioni, i successi, gli onori che si finisce per ricercare ogni giorno, saranno sì importanti, ma l’educazione e il buon senso… quelli davvero sono per me fondamentali.
Così tutte le volte che mi rendo conto di essermi lasciato andare ad atteggiamenti presuntuosi, tutte le volte che mi accorgo di quanto si può essere arroganti e quanto si diventa ridicoli nell’esserlo, tutte quelle volte io mi fermo un attimo, mi metto davanti allo specchio e mi dico a voce alta: Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei.
Poi ricomincio di nuovo, fino alla prossima volta. Ma almeno, quando sono davanti a un bunet, me ne ricordo. Sempre.
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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Lo so bene perché il bunet (dolce tipico della cucina tradizionale piemontese, preparato con latte, uova, cacao e amaretti) mi piace tanto.
Avevo dodici anni, in quell’agosto, ed era giorno della Fiera di San Rocco. La fiera era sempre un bel giorno per noi bambini, ma anche per i grandi, che passavano la mattinata tra i banchi del mercato, al bar, a sentire il sindaco che teneva il discorso tra un brano musicale e l’altro della banda comunale; la fiera piaceva un po’ meno alle donne, che la mattinata finivano per passarla in cucina, perché il giorno della fiera qualche ospite in casa finiva per esserci sempre.
E quell’anno, il giorno della fiera, invitato di lusso era in casa nostra addirittura il dottor Luigi Porretti, luminare e massimo esperto ortopedico dell’università di Torino, nonché relatore della tesi di laurea di mia sorella.
Sì, perchè grazie agli aiuti anche economici del nostro medico condotto che aveva visto in mia sorella un futuro grande dottore, lei aveva potuto fare l’università, anche un po’ contro il volere dei miei genitori che pensavano di non poter permettersi questo lusso; comunque mia sorella era ormai arrivata alla fine degli studi, mancava solo la tesi, ed era sembrato logico a tutti invitare il grande professor Porretti alla festa patronale del nostro paesino.
Il dottor Porretti aveva pensato bene di portare con sé tre suoi giovani assistenti: il dottor Roberto Caldi, il dottor Franco Sereni e il dottor Mauro Pescatori. Inutile dire che mentre i quattro avevano girato in lungo e in largo per la fiera, comprando oggetti inutili e costosi fra continue soste al bar per bere aperitivi rigorosamente alcolici, mia mamma e mia nonna dalle sei del mattino avevano preparato tali e tanti piatti che a casa mia tutti insieme non si erano mai visti. Vitello tonnato, carne cruda, insalata russa, salame e prosciutto, agnolotti al plin, bollito, arrosto, fritto misto, con un’abbondanza di carote, spinaci, patate e altre verdure, che non riesco nemmeno a ricordare. E poi il bunet. A casa mia le donne sapevano fare tutto, ma il bunet no: il bunet lo faceva solo la nonna. Con quella pazienza che solo gli anziani sanno avere, mescolava i rossi d’uovo con lo zucchero fino a che non veniva un’amalgama di consistenza unica; poi faceva scendere il cacao a pioggia e senza smettere di mescolare aggiungeva i bianchi delle uova in un modo che sembrava di vedere quella neve che tutti gli anni scende, almeno dalle nostre parti, nella notte di Natale. Con il latte l’impasto diventava fluido, senza grumi, pronto a ricevere il bicchierino di liquore e gli amaretti, sbriciolati in pezzi così uguali che sembrava li avesse fatti una macchina. Poi rovesciava il tutto nello stampo dove aveva fatto caramellare lo zucchero, e quando iniziava la cottura a bagnomaria mia nonna non si muoveva da lì nemmeno per un attimo, come una sentinella di guardia a un carico di diamanti preziosi; restava a fissare pentola, acqua, stampo e coperchio fino a quando non spegneva il fuoco e levava questa perfezione della natura chiamata bunet.
Data l’occasione, per la prima volta mia nonna non aveva fatto il bunet nel solito stampo, così piccolo che sempre ne toccava soltanto un pezzettino per ognuno e io e tutti gli altri ci stavamo male perché, se avessimo potuto, ne avremmo mangiato uno intero a testa; quella volta, visti gli ospiti di riguardo, la nonna aveva preparato due enormi teglie rotonde di bunet. “E’ meglio che avanzi: basta che non manchi…” – aveva detto.
La tavolata era numerosa e rumorosa. A capotavola il grande dottor Porretti, alla sua destra e alla sua sinistra i suoi assistenti. Poi mia sorella, mio papà, l’altro mio fratello, mio nonno, zio, zia e due cuginetti; in fondo al tavolo mia mamma e mia nonna, che, poverine, facevano avanti e indietro in cucina e come al solito finivano per mangiare sempre poco di tutto.
Così per tutto il pranzo io non avevo che aspettato il momento del bunet. E mentre i dottori si ingozzavano con tutto quello che veniva portato in tavola, senza rifiutare il bis, senza far avanzare mai niente, senza dimenticare di bere un bicchiere di Barbera o di Grignolino tra un boccone e l’altro, io pensavo solo al bunet; pensavo che per la prima volta avrei potuto mangiare bunet fino a sazietà, fino a esserne così pieno da arrivare a dire “basta, non voglio più nemmeno un pezzetto di bunet”.
Finalmente arrivò il momento tanto atteso; come in processione, la mamma e la nonna arrivarono tenendo nelle mani due grandi teglie di bunet, tra lo sguardo ammirato di tutti. Il famoso bunet della nonna. “Dottor Porretti, ci terremmo che fosse lei a tagliarlo!”.
Mia sorella, che durante il pranzo aveva fatto un po’ da padrona di casa perché per tutto il giorno precedente ci aveva raccomandato di non farle fare brutta figura, aveva avvicinato una teglia al grande professore; lui con fare serio aveva mostrato di accettare e gradire la responsabilità dell’incarico: in un silenzio mai visto prima, il dottor Porretti prese il coltello dalla lunga lama e con un gesto lento ma sicuro tagliò in due il bunet; quindi girando di novanta gradi la teglia fece di nuovo correre la lama lungo tutto il diametro. Ne erano usciti quattro grandi spicchi uguali, senza la minima imperfezione; il professore posò il coltello e con la paletta cominciò a distribuire il primo quarto al dottor Caldi, il secondo al dottor Sereni e il terzo al dottor Pescatori. Quando i suoi assistenti furono tutti serviti prese l’ultimo quarto, lo sistemò nel suo piatto e insieme ai suoi illustri colleghi iniziò a mangiare, facendo con il capo ampi gesti di entusiasmo.
Tutti voltammo lo sguardo verso l’altra teglia rimasta e credo che ognuno mentalmente avesse iniziato a suddividerne le porzioni accorgendosi che anche stavolta per noi ci sarebbe stato il solito piccolo pezzo a testa. In un silenzio spezzato solo dal rumore dei cucchiai che i quattro medici impietosamente infilavano nella delizia di cacao, improvviso, inatteso, inimmaginabile, mio nonno sentenziò:
- Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei… -: Non serve studiare tanto per fare una cosa del genere…
Per un momento tutti pensarono alle raccomandazioni di mia sorella a non fare brutte figure con ospiti così importanti, ma subito nessuno riuscì a resistere e uno dopo l’altro tutti scoppiarono a ridere. Anch’io, ancora deluso per il mio bunet, anche mia sorella che tanto la raffinata aveva fatto fino ad allora, e mio papà, gli zii, la mamma, la nonna, mentre i dottori guardavano senza capire perché ridevamo.
Come andò a finire quel pranzo non lo ricordo più molto bene, se non per quel pezzettino di bunet a testa che comunque abbiamo mangiato tutti; però adesso che sono passati degli anni, che il dottor Porretti credo non sia nemmeno più vivo e i suoi assistenti di allora saranno diventati dei luminari della medicina, sì, adesso il bunet lo ricordo sempre e molto bene. Non c’è più la nonna che lo prepara, anzi ormai in casa il bunet non si fa più: però ogni volta che vado in uno di quei ristoranti di cucina piemontese, alla fine del pranzo il bunet lo prendo sempre. Anche se forse non è nemmeno più il mio dolce preferito, anche se forse ormai mi piacciono di più la crostata o la torta di nocciole o la panna cotta; però finisce che il bunet lo prendo sempre perché a me fa un po’ l’effetto della madeleine di Proust, mi ricorda gli anni dell’infanzia, mi ricorda il dottor Porretti, i suoi giovani assistenti, l’agitazione di mia sorella, tutta la mia famiglia che si mette a ridere per la frase del nonno.
Già, la frase del nonno… Quella mi è servita, mi è servita per la vita da affrontare con quel distacco e quell’ironia che sono indispensabili. Perché poi la mia famiglia è riuscita a far studiare anche me e alla fine ho preso una laurea in ingegneria; però, anche se mi presento sempre come un serio professionista del lavoro, in realtà sono eternamente conscio di essere un perfetto dilettante della vita. E lo studio, le ambizioni, i successi, gli onori che si finisce per ricercare ogni giorno, saranno sì importanti, ma l’educazione e il buon senso… quelli davvero sono per me fondamentali.
Così tutte le volte che mi rendo conto di essermi lasciato andare ad atteggiamenti presuntuosi, tutte le volte che mi accorgo di quanto si può essere arroganti e quanto si diventa ridicoli nell’esserlo, tutte quelle volte io mi fermo un attimo, mi metto davanti allo specchio e mi dico a voce alta: Van ‘ta nen studiè tant per fè na roba parei.
Poi ricomincio di nuovo, fino alla prossima volta. Ma almeno, quando sono davanti a un bunet, me ne ricordo. Sempre.
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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