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ECONOMIA: ITALIA CHE RIPARTE

E’ del 3 agosto 2019, cioè di un anno fa, questa riflessione di Achille Colombo Clerici sulla situazione effettiva dell’Italia, e in particolare della sua economia, scremata dalle polemiche interpartitiche e divisive della opinione pubblica, e vista secondo la ottica, non priva di autorevolezza, di uno studio congiunto fra il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi e l’Istituto Bancario Intesa San Paolo. La riproponiamo, per segnalare che a quella data la solidità economica del nostro paese, sia pure con la tipica organizzazione amministrativo-burocratica pesante e confusa, era evidente agli osservatori attenti.  
 
Ebbene, contrariamente a quanto generalmente si dice, a un anno di distanza, cioè nell’attuale periodo di pandemia, la stessa situazione economica, pur fra le difficoltà gravi di congiuntura portate dalla stessa pandemia, è secondo noi del tutto lontana dall’entrare in crisi strutturale. Salve non impossibili follie della politica.
 
Rifletteva dunque Achille Colombo Clerici un anno fa:
 
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Giunge più di una sorpresa dall’indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani, svolta da Intesa SanPaolo in collaborazione con il Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi: resuscita il ceto medio, la casa rimane l’investimento preferito, la diseguaglianza economica si riduce.
 

Innanzitutto i dati: un milione e trecentomila famiglie sono rientrate a far parte del ceto medio o vi sono entrate per la prima volta, riallargandolo dopo il record storico negativo raggiunto nel 2013 quando solo il 39% delle persone riusciva a risparmiare. Ora i risparmiatori (52%) superano di nuovo i non risparmiatori (48%) e la percentuale di quanto si accantona tocca il 12,6%, massimo storico, delle entrate.
 
Gli italiani continuano a resistere alle sirene della finanza mantenendo la casa al primo posto quale destinazione del risparmio. E continuano a investire nel mattone nonostante il 63% del patrimonio sia già rappresentato da immobili: il 57% ha ristrutturato la casa o un altro immobile. Anche la disuguaglianza è meno accentuata che nel resto d'Europa: il 10% degli italiani più benestanti detiene il 42,8% della ricchezza netta complessiva, percentuale che in Germania sale al 59,8%, a prescindere dal record di disuguaglianza della Gran Bretagna.
 
E ancora: i redditi da attività professionale e da lavoro dipendente sono aumentati; negli ultimi tre anni i bilanci delle famiglie hanno riacquistato parte della prosperità perduta durante la lunga crisi.
La percentuale di coloro che ritengono sufficiente il reddito per sostenere il tenore di vita corrente sale nel 2019 al 69% degli intervistati, massimo storico del decennio.
 
Nonostante la base produttiva dell’economia stia rallentando, i bilanci familiari sono simili al colore roseo dell’alba (parliamo sempre di media statistica). I primi a notare come l’Italia sia ben lontana dal baratro, come profetizzano alcuni, sono stati i signori dello spread che hanno portato l’asticella sotto i 200 punti.
 
Ho sempre sostenuto, in buona compagnia d’altronde, che la ripartenza del Paese poggia sulla fiducia dei suoi cittadini e delle sue imprese. Se la politica riuscisse a convincerli ad utilizzare, per spese e investimenti, anche soltanto una parte dei 1.400 miliardi di euro di risparmi inattivi nei conti correnti, potremmo forse assistere ad un nuovo mini-miracolo economico italiano.
 
D’altronde, nelle emergenze riusciamo sempre a stupire positivamente i consoci  europei. E'questa la forza dello zoccolo duro socio-economico del Paese che poggia su una impalcatura di cultura, tradizioni, valori etici dei quali la famiglia e'stata il vero storico motore, come centro di vita sociale ed economica.
 
                                                                                                                        (Achille Colombo Clerici)
 
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MMM
 
 

Prospettive

CORONAVIRUS PRIMA STAGIONE: E POI?

Giuseppe Bianchi, con il suo Istituto per le Relazioni Industriali e di Lavoro, traccia un quadro della prospettiva del nostro paese in uscita dal coronavirus, che sottolinea la necessità di tornare a vitalizzare il meccanismo fondamentale della nostra democrazia  e della nostra tensione civile, per restituire all’Italia una speranza che non sia sempre e solo quella miseramente congiunturale. Proponiamo la riflessione.

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Con la pandemia, la dimensione del tragico è tornata nella realtà. I fantasmi della morte, della malattia, del dolore, oscurati dal vitalismo rampante delle nostre società, sono tornati. I camion militari carichi di bare, l’ansia per una malattia sconosciuta, il dolore in solitudine per la perdita di persone care, hanno creato una depressione labirintica senza via di uscita. Perché, nel contempo, l’aggressione totalizzante del virus ha reso impossibile la fuga verso rifugi sicuri, rendendoci prigionieri entro le mura di casa. Contrariamente alle guerre del passato, non è venuto a mancare il pane, ma le libertà che hanno arricchito la qualità del nostro benessere: libertà di viaggiare, di incontrare persone, di disporre delle proprietà.
 
Ed è difficile prevedere quanto durerà questa sorveglianza da parte dei tutori della salute pubblica in un mondo aperto, globalizzato, esposto al rischio di nuove epidemie e nello stesso tempo tanto avverso al rischio.
 
Ma non c’è solo la pandemia: ci sono altri fattori che si muovono nella stessa direzione, che vanno a destabilizzare i nostri modelli di vita. È in atto una rivoluzione tecnologica con i robot, con l’intelligenza artificiale, destinata a modificare il nostro modo di produrre, di lavorare e di consumare. Ci sono le applicazioni digitali, già sperimentate nel corso dell’epidemia, che consentono di tracciare i nostri movimenti, di disporre dei nostri dati più personali, configurando nuovi strumenti di controllo sociale che possono ingabbiare le nostre libertà. E come non evocare i nuovi bisogni di sicurezza che nascono dai mutamenti climatici in atto o dai progressi delle biotecnologie, che sono in grado di manipolare i due punti chiave del nostro percorso umano: la nascita e la morte?
 
In sintesi, siamo in presenza di forze dirompenti dei nostri equilibri economici e sociali, i cui poteri sono concentrati in mano di pochi: le privative che governano le nuove piattaforme digitali, i grandi centri di ricerca scientifica e tecnologica, i grandi gruppi finanziari e industriali, la politica di potenza di paesi illiberali (Cina, Russia).
 
Sorge a questo punto la domanda: di quali strumenti di governo dispongono le nostre società democratiche per affrontare l’onda lunga di questi cambiamenti imposti da istituzioni sottratte al controllo democratico? In altre parole, quale sarà la capacità dei nostri sistemi democratici di mantenere i loro tratti libertari nel futuro che si sta delineando?
 
Lo schema classico dei sistemi democratici è costituito da un insieme di procedure che legittimano, tramite il voto, la rappresentanza del popolo nel Parlamento, che delibera quanto il Governo deve realizzare. Questo schema si è già andato evolvendo sotto la pressione di nuove emergenze (sia sanitarie che economiche e sociali) spostando l’asse decisionale a favore del Governo e di organismi tecnici di vario tipo, in nome della governabilità. Si è ridotta la sovranità del popolo rappresentata nelle assemblee legislative. Una evoluzione, come già detto, trainata dalla domanda di protezione dei cittadini che, nelle situazioni di crisi, sono tentati di delegare alla politica la tutela della loro sicurezza e del loro benessere.
 
La pandemia in corso ha però reso evidente l’inadeguatezza dell’attuale politica nell’esercitare tale tutela. A due mesi e oltre di distanza dal nostro confinamento, test sierologici, tamponi ed app di tracciamento non sono ancora in grado di tenere sotto controllo la diffusione del virus, mentre le generose promesse fatte dal Governo sul fatto che nessuno rimarrà indietro rimangono ancora in gran parte inevase.
 
In questa Nota non interessa evocare, ancora una volta, la fragilità della nostra finanza pubblica o le inefficienze strutturali di un sistema debilitato nella sua capacità di crescita. C’è una specificità del nostro sistema politico nel contesto europeo da ricordare. La perdita di ruolo dei partiti e, sia pure in misura minore, delle altre organizzazioni di rappresentanza collettiva degli interessi (Confindustria, Sindacati e altre) che, nel passato, esercitavano una funzione di selezione e di contenimento delle domande sociali, svolgendo una funzione educativa e di selezione delle classi dirigenti. La condivisione dei cosiddetti vincoli macro-economici (in parte di origine europea) delimitavano il campo entro il quale regolare il conflitto politico e sociale.
 
L’epidemia del coronavirus ha creato una situazione inedita di un Governo assediato dai molteplici interessi che rivendicano risarcimenti (veri o presunti) senza che lo stesso Governo abbia una bussola che orienti i suoi interventi. Rimane aperta la questione se la capacità di indebitamento del nostro Paese, considerando anche gli apporti dell’Unione Europea (ancora da precisare) sarà tale da soddisfare tutte le richieste e soprattutto quanto spazio rimarrà per attivare gli investimenti pubblici e privati necessari per riattivare la crescita economica ed occupazionale.
 
Ma dietro la crisi dei partiti e delle rappresentanze sociali c’è un altro effetto non meno importante. La perdita di valori comunitari rappresentati nelle grandi ideologie partitiche del Novecento e nelle strategie delle parti sociali che presentavano una indissolubile mescolanza di interessi e di ideali.
 
I cittadini, pur nella difformità delle loro appartenenze sociali, riponevano nelle istituzioni democratiche le aspettative riguardanti i loro progetti di vita, partecipando ad un’etica della responsabilità.
 

Non è un caso se nel corso dell’attuale pandemia si sia tornati a parlare di speranza, di solidarietà, di cooperazione: la riprova che un sistema democratico vive non solo di risorse economiche, ma richiede anche una dotazione di energie morali, di virtù pubbliche. La pandemia in atto ha aggravato le disuguaglianze sociali, ha ridotto le nostre libertà, ha scoraggiato le speranze dei giovani, ha evidenziato la carenza di beni pubblici. La leva degli interessi appare inadeguata a sollevarci da una crisi sanitaria che è diventata sistemica nella misura in cui ha messo in crisi gli equilibri già precari del nostro sistema economico e sociale.
 
Nell’emergenza sanitaria sono prevalsi la tutela della salute e il sostegno alle strutture produttive. Uno stato di eccezione che ha legittimato il decisionismo del Governo al di fuori delle normali procedure. È però difficile pensare che la paura del contagio e l’assistenzialismo risarcitorio dello Stato possano costruire un futuro per il Paese, all’interno di uno scambio tra diritti dei cittadini e tutela della politica.
 
Occorre riannodare i fili che legano economia, liberà ed uguaglianza in un progetto di sviluppo che, all’interno di un orizzonte temporale utile, consenta di riattivare la normale dialettica politica e sociale. Un impegno di rinnovamento che chiama in causa la qualità della spesa pubblica, la riattivazione degli investimenti, le politiche per l’occupazione e così via.
 
Ritorna il quesito: il nostro sistema politico ha una dotazione di solidarietà e di virtù pubbliche per gestire una tale sfida? La politica si è sconnessa dalle culture presenti nella società civile: culture religiose, laiche, civiche che un tempo alimentavano il dibattito politico. Un pluralismo di valori incassato nello stato di cittadinanza dei cittadini che creavano legami sociali e sostenevano la partecipazione alla vita democratica. Un patrimonio di valori pre-politico che arricchiva la ragione pubblica alla base delle decisioni politiche.
 
È difficile pensare che la solidarietà manifestata nella paura epidemica regga di fronte al conflitto degli interessi della fase successiva di difficile ripresa economica. La divisione è un tratto antropologico della nostra popolazione.  Ma ora siamo in una fase di disincantamento. Si ritornerà a crescere ma l’alta marea prevista non sarà in grado di alzare tutte le barche. L’Italia – “nave senza nocchiere” rischia di infrangersi contro gli scogli.
 
Ritorna il vecchio dilemma storico: o le nostre istituzioni democratiche recupereranno la loro autorevolezza con un supplemento di virtù pubbliche in termini di solidarietà o di coesione, o ci sarà una deriva verso politiche illiberali, a dimostrazione che il potere non arriva a chi sa farne l’uso migliore bensì a chi è più abile a conquistarlo.
                                                                                                                   
                                                                                                                                    (Giuseppe Bianchi)
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Prospettive

ITALIANI, SU LA TESTA

Il titolo è di Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia Lombardia, che, pur critico spesso nei confronti delle vistose manchevolezze registrate soprattutto negli anni recenti dalla gestione del nostro paese, sottolinea il potenziale unico che, per aspetti diversi, l’Italia presenta nel mondo, pronto per il momento nel quale essa avrà una classe dirigente nuovamente degna di questo nome e del suo passato. Scrive dunque Colombo Clerici:
 
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Il nostro grande passato e’ il fondamento del nostro futuro. Su 125 Paesi, l’Italia, per l'Unesco, è primo Paese, insieme alla Cina, per patrimonio di beni culturali. E la difesa della lingua italiana è primo e fondamentale passo per salvaguardare e valorizzare tale identità culturale del nostro Paese. 
 
L'Italia e' l'unico Paese del mondo occidentale, fra quelli che vantano una ultramillenaria civiltà, che riesca ad influenzare ancora, a livello mondiale, la cultura contemporanea.
 

I campi nei quali si esplica la nostra sfera di influenza sono molteplici: letteratura, arti figurative, eleganza e stile (pensiamo all'automobilismo, alla sartoria e alla moda, alla gioielleria, all'architettura),  scienze naturali e mediche, tradizioni, cinema, musica, enogastronomia, sviluppo tecnologico.
 
Non trascuriamo il retaggio storico in campo monumentale, letterario, filosofico, musicale, artistico e le bellezze naturali e paesaggistiche. Dalla lista del patrimonio mondiale di 125 Paesi elaborata dall’Unesco risulta appunto che l’Italia è il Paese che detiene, a pari merito con la Cina, il maggiore patrimonio culturale del mondo, in termini di monumenti, musei, chiese, monasteri, palazzi e castelli, ma anche di beni paesaggistici. Seguono, ma a distanza,  Spagna, Francia, Germania.
 
In conclusione: la cultura italiana affonda le sue radici in un passato ultra bimillenario ed e' ancora vitale e determinante nel processo di formazione della cultura contemporanea. E studiando il passato riusciamo a comprendere e affrontare il futuro. Eravamo all'apice della presenza storica duemila e più anni fa e lo siamo tuttora.
 
Quella italiana peraltro e' la base della civilta' cristiana nel mondo occidentale. Per converso, la Chiesa ha sempre fortemente aiutato l' italianita' a  conservare la sua identita' al vertice storico mondiale.
 
Il più potente "collante" e "alveo" culturale che ha permesso questo prodigioso risultato e' stata la lingua, che ha mantenuto una linea di continuita', pur nella evoluzione delle diverse epoche, ed e' stata un determinante fattore di identità. Essa e' quindi un prezioso patrimonio da salvaguardare dalla minaccia di contaminazioni sbagliate che possano provocarne il declino.
 
Oggi, per la prima volta nella nostra storia, gli italiani, per parlare anche tra loro, usano a volte l'inglese: si comincia con gli anglicismi e gli americanismi  dell'aziendalese e si finisce con il cercar di  parlare nella lingua di Shakespeare, Faulkner ed Hemingway  e non piu' in quella di Dante, Petrarca e Manzoni, evoluzione, sintesi e  sublimazione, quest’ultima, delle diverse lingue popolari in cui si sono sempre espresse le nostre comunita' locali. Questo e' il vero segnale di una possibile rottura con il passato e una minaccia alla continuità ed alla rilevanza della nostra cultura.
 
Quanto all'Unione Europea
, essa ci offre oggi non un'area culturale comune nella quale possa trovare espressione significativa anche la nostra cultura, ma solo un mercato comune di ordine economico. E questo aspetto, se non corretto, puo' essere solo il preludio di un appiattimento culturale molto negativo. Non era così all’inizio della storia della Comunità Europea.
 
Sintetizziamo ancora i quasi incredibili numeri del nostro patrimonio ambientale, culturale e artistico, secondo la scheda elaborata dal Cescat (Centro studi casa ambiente e territorio, di Assoedilizia):
 
- 100.000 chiese, cappelle, pievi, basiliche, cattedrali,  templi; 
 
- 2.400 castelli iscritti al catasto;
 
- 90.000 palazzi di rilevenza storico-artistico-monumentale, di cui 42.000 vincolati; 
 
- 250.000 vedute, belvederi, luoghi-paesaggio di particolare pregio; 
 
- 540 borghi storici, di cui 193 con meno di 2.000 abitanti;
 
- 35.000 ville;
 
- 3.000 musei;
 
- patrimonio arboreo di 12 miliardi di alberi (200 ogni abitante; 40.000 per chilometro quadrato);
 
- 24 parchi nazionali che coprono oltre 1,5 milioni di ettari tra terra e mare, pari al 5% del territorio nazionale;
 
-  6 milioni di ettari (pari al 20% del territorio nazionale) di aree sotto il controllo pubblico, tra coste, cime, terre e aree marine;
 
- 8.000 chilometri di coste con 171 porti turistici (105.000 ormeggi);
 
- 4.000 teatri
 
In tale contesto, permettete che riserviamo un cenno particolare alla nostra Lombardia.
 
La Lombardia si pone, per numero di abitanti, per capacità imprenditoriale e culturale, sullo stesso piano di Paesi quali Svezia, Belgio, Austria e Svizzera. Conta 1.500 associazioni, ed è prima regione al mondo nel volontariato, fattore di sviluppo morale, civile, sociale ed economico. Conta dodici università, 2.200 biblioteche, 330 musei ed altrettanti teatri, e mostre e fiere di valenza mondiale.
 
Le università producono e trasmettono conoscenza puntando ad uno sviluppo non solo economico ma anche di miglioramento della qualità del vivere. Possiamo, grazie ad esse, attirare ingegni – come fece la Milano del Rinascimento con Leonardo da Vinci – per rinvigorire questo momento di particolare rinascimento che sta vivendo la regione Lombardia e fare di esso punto di forza per un analogo rinascimento di tutta l’Italia
 

                                                                                                          (Achille Colombo Clerici)

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