Sono nato in un paese di mezza montagna della Sardegna e mio padre, contadino e pastore, mi ha fatto apprezzare la montagna con le sue foreste ed i suoi animali, il fascino di paesaggi incredibili, la salubrità di fonti d’acqua millenarie ed intatte, la solidarietà forte e poco ciarliera di chi nella montagna vive, e anche le fatiche che la montagna impone. Da grande ho conosciuto poi le Dolomiti, la superba bellezza delle loro altezze, lo stupore incredibile delle nevi a perdita d’occhio, l’essenzialità senza fronzoli delle comunità che ci vivono. Sono sensazioni forti ma a volte anche sfuggenti: per capirne il fascino nascosto e duraturo possiamo ascoltare chi della montagna ha fatto la sua casa stabile e, insieme, il suo lavoro e la sua passione. Come l’autore della testimonianza che segue.
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Da metà dicembre fin quasi a tutto gennaio il sole illumina il piazzale, a lato della diga, giusto per pochi minuti intorno a mezzogiorno. E questo grazie al colle che separa le due cime – la centrale e l’orientale – del Pizzo Tiranno; due cime angoscianti di ombre veloci anche nei pomeriggi estivi; e solo se il cielo invernale regala giornate serene: altrimenti, nella valle si susseguono lunghe ore di ombra o di neve e bufera, o vento da restare tappati in casa a studiare da dietro i vetri il profilo arcuato della diga e saperci al di sotto il lago, gelato come un immenso campo di pattinaggio.
Sarà solo da febbraio che, nell’indugiare ogni giorno qualche minuto in più sul candore sconfinato, la luce animerà improvvise emozioni. Intanto, secondo gli anni e secondo le nevicate, i versanti ripidi avranno “scaricato”, e coi tuoni delle valanghe saranno esplose nuvole di polvere bianca; da altri pendii, meno inclinati, scivoleranno masse compatte nei giorni a venire: ma sarà solitamente verso metà marzo che i guardiani saliti alla diga del Pizzo Tiranno cominceranno a sentire crocchiare meno dura la neve sotto i loro scarponi. Sul piazzale il mezzogiorno accenderà temperature tiepide, il sole raggiungendo la casa riscalderà le stanze di un calore buono; sopra il davanzale ben esposto il ciclamino occhieggerà gemme minute, giù dal tetto i ghiaccioli perderanno dimensione e profondità, nell’aria qualche insetto ancora stordito affannerà i primi voli. Da allora i giorni alla diga scorreranno nuovi, più vivi.
Tutto è cominciato il sabato dell’Epifania, quando, subito dopo pranzo, nel cielo lattiginoso hanno cominciato a ondeggiare i primi fiocchi morbidi. Per il cambio mi sarebbe toccato rientrare in paese il giorno successivo, ma la domenica l’elicottero non ha volato; durante la notte sul piazzale della diga era sceso circa un metro di neve: e non sembrava proprio voler smettere.
Cristalli candidi, ossessivi, dondolavano nell’aria gelatinosa, fitti come un disturbo sugli occhi. Non riconoscevo più il parapetto, distante pochi metri da casa. Un silenzio ovattato avvolgeva la conca del Pizzo Tiranno; dentro i canaloni la coltre bianca gonfiava minacciosa fino a raggiungere spessori notevoli e sembrava bastasse un soffio per staccare valanghe: magari anche solo qualche grado in più di temperatura. Immensa, la quiete rivestiva l’immobilità precaria sulle montagne.
In questa calma carica di tensione, e a volte anche il silenzio è tensione, si aspetta quello che sai che deve succedere. Seduto in cucina davanti a un the caldo – Nestino, se non ci sono lavori, sta in camera sua a leggere – seguivo le previsioni meteo e intanto pensavo al bivacco artigliato alle rocce sopra la morena del ghiacciaio. Forse era già scomparso, sepolto dalla neve. Quattro ragazzi, con sci, piccozza e ramponi, c’erano saliti il giorno dopo capodanno: batteva traccia Marco, aspirante guida alpina, un armadio alto due metri e conosciuto da tutti in valle. Erano scesi prima che nevicasse, sapevano di quella perturbazione spessa. Avevamo bevuto insieme un vinbrulè, poi li avevo salutati fermandomi sul parapetto a seguire le loro serpentine sugli sci.
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Per necessità, dopo le notizie del mezzogiorno e la chiamata del caposquadra, un’occhiata ai sistemi di sicurezza o un giro con binocolo nei rari squarci di visibilità, tutti i giorni si usciva a spalare neve; con Nestino faticavamo quel tanto da permetterci di raggiungere, senza sprofondare fino al ginocchio, il piazzale dove si posa l’elicottero. Ripetevamo questa ginnastica ogni pomeriggio ma la mattina successiva puntualmente la traccia era già scomparsa. Allora toccava cominciare daccapo: infilavo i guanti e uscivo per primo, con la pala, e ben presto sudavo sotto il cappello e la maglia di lana, e il sudore si gelava alla barba. Una volta aperto il passaggio, Nestino mi offriva da fumare. Era uno dei rari momenti, ad eccezione dei pasti, in cui riuscivamo a scambiare quattro parole. Dopo la sigaretta rientravo e mi rilassavo a lungo nella doccia bollente, piacevolissima. Finalmente la terza domenica di gennaio, una giornata molto fredda e limpida, qualcuno salì per darmi il cambio.
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Sono anni che faccio il guardiano alla diga – quasi sempre in coppia con Nestino – e so convivere con i silenzi e la solitudine: ma a volte, durante la breve luce invernale, certi pensieri danzano sopra equilibri smarriti. Ho imparato a seguirli con razionalità, li raggiungo e li intontisco in una boccata d’aria gelida o nel privilegio di trascorrere momenti unici fuori dal mondo, e li fisso in appunti sulla mia agenda segreta. Così tratteggio disegni, improvviso canzoni che stonano metriche e rime, abbozzo paesaggi estranei a tutto quel candore, addormento desideri su spiagge coralline. Mi allontano nel sogno, cullato dal sole che filtra tra le palme. Vivo fughe rapide, necessarie, fughe in cui lascio sfumare giornate eterne di nebbia, di vento e gelate, di confessioni profonde. La solitudine, accettata in una scelta, non è pazzia.
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Quando e dove la montagna lo permette, anche in pieno inverno c’è chi la sale calzando gli sci o le racchette da neve. Tuttavia è soprattutto in primavera che gli appassionati puntano al Pizzo Tiranno o ai colli aperti verso nord, terreni e passaggi che Nestino conosce come le sue tasche. I più preparati affrontano un percorso impegnativo che supera una seraccata, passa sotto il bivacco e s’impenna verso il passo di confine con la Svizzera; la scorsa primavera, solo a metà maggio le guide sono scese da lassù con i clienti. All’epoca la neve a copertura uniforme terminava cento metri sopra la diga; dopo, si camminava calpestando terra fin sotto il muraglione, e da lì, quelli abili, sfruttando la copiosa e puntuale colata della valanga nera saltavano e curvavano ancora con gli sci giù per il canale, incrociando al fondo il sentiero che porta in paese.
Per tutta la stagione della neve, però, quando il canale è pericoloso perché dai lati oltre la valanga nera staccano altre slavine, il collegamento da e verso il fondovalle avviene seguendo una via alternativa, che compie un dolce semicerchio. A fine settimana io la scelgo spesso: se ci sono buone condizioni significa una sciata lunga e piacevole. A inizio turno, invece, siccome non voglio perdere quel po’ di allenamento in salita, se il tempo è bello rifiuto il passaggio in elicottero e mi avvio con le pelli di foca sotto gli sci. Ho per me la mattina intera: studio le tracce degli uomini e degli animali, fotografo alberi in controluce e malghe abbandonate, fermo le nuvole che dissolvono sfilacciate. Con amore e gelosia penetro l’intimità della montagna, o almeno così credo. Ed è per questo che quei momenti, unitamente a quelli di altre gite, li voglio rivedere da solo, sfogliando le immagini nel mio egoismo silenzioso; a casa, in paese, ho tappezzato una parete con ingrandimenti di particolari o di paesaggi in cui io non compaio mai, e non compare mai nulla di mio, a eccezione del primo piano scattato ai miei sci piantati nella neve in cima al Pizzo Tiranno. Sotto tutte le foto ho indicato la data e il luogo, e tutte mi appagano con sensazioni di libertà.
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Anche quest’anno, come gli altri da quando lavoro alla diga, il tempo è passato lento fino ai giorni di carnevale. Ora è primavera inoltrata, una primavera splendida, con il termometro costantemente sopra la media stagionale. Ed è nuovamente il mio turno alla diga. I crocus ravvivano i pendii bassi esposti a sud, la strada che arriva al muraglione è quasi tutta senza neve. L’inverno si sta allontanando: guardo indietro e mi sembra impossibile aver superato la sua immensità con la mia presenza adattata. Già s’avvicina maggio e, a seguire, la sempre troppo rapida estate. Certe sere senza vento potrò uscire in maglietta sui camminamenti della diga a riscoprire la luna piena specchiata nel lago, come una pallida chiazza tremolante. Durante il giorno lo scoiattolo verrà di nuovo a saltare invisibile tra i rami del pino in fondo al piazzale e sui prati in fioritura sgargianti si ubriacheranno le api. Sarà bellissimo vivere quella stagione fuggevole. Rifiuto il pensiero che accenna all’autunno, anche se so che tornerà inesorabile con le nuvole basse e le bufere ostinate sopra il ghiacciaio.
Ora è primavera e la primavera è attesa, è un’esclusiva che m’illude. E’ primavera, la luce e i colori sono primavera. Otto giorni fa, giovedì della settimana santa, per la strada della diga è salita una famigliola: padre, madre e una bambina. Tutti e tre vestivano maglioni colorati e pedule nuove. Davanti a loro correva una cagna, una giovane lupa appena più grande di un cucciolo; l’ho seguita, balzava instancabilmente su e giù, drizzava le orecchie pronta a lanciarsi dietro al fischio d’una marmotta, o annusava eccitata la neve residua sotto i larici. Al sole, nella radura vicina al piazzale, l’uomo ha posato lo zaino e la donna ha disteso una coperta e preparato i panini. Dopo mangiato mi hanno chiesto una fotografia, li ho fissati che ridevano e la bambina inginocchiata abbracciava il cane.
Prima di scendere sono passai a salutarmi; sedevo davanti a casa e controllavo gli attacchi degli sci: l’uomo mi ha confessato di aver goduto ore serene e nelle sue parole ho colto la stessa forza che spinge l’erba fuori dal terreno. Mentre rientravano – e la bambina correva e chiamava la lupa – la donna ringraziava l’uomo per la giornata trascorsa insieme. Spero che conservino altri ricordi felici di questa primavera.
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Il fine settimana che viene – il tempo è previsto bello – certamente le guide svizzere caleranno dal passo con gli sci insieme ai loro clienti. Peccato che dalla diga in giù toccherà andare a piedi; il canale colmato dalla valanga nera comincia a bucarsi pericolosamente e l’acqua che corre sotto cresce ogni giorno più prepotente. Ma in alto, tra i seracchi, già m’immagino le curve pulite sulla neve assestata, già vedo il sole scintillare riflessi che illuminano vertiginose pareti di ghiaccio, già sento la montagna liberare il suo respiro nel mio respiro. Magari domenica, anziché tornare subito a casa per il turno di riposo, salgo al bivacco e il giorno dopo punto verso il colle. Sono sicuro: troverò la gita tracciata.
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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Da metà dicembre fin quasi a tutto gennaio il sole illumina il piazzale, a lato della diga, giusto per pochi minuti intorno a mezzogiorno. E questo grazie al colle che separa le due cime – la centrale e l’orientale – del Pizzo Tiranno; due cime angoscianti di ombre veloci anche nei pomeriggi estivi; e solo se il cielo invernale regala giornate serene: altrimenti, nella valle si susseguono lunghe ore di ombra o di neve e bufera, o vento da restare tappati in casa a studiare da dietro i vetri il profilo arcuato della diga e saperci al di sotto il lago, gelato come un immenso campo di pattinaggio.
Sarà solo da febbraio che, nell’indugiare ogni giorno qualche minuto in più sul candore sconfinato, la luce animerà improvvise emozioni. Intanto, secondo gli anni e secondo le nevicate, i versanti ripidi avranno “scaricato”, e coi tuoni delle valanghe saranno esplose nuvole di polvere bianca; da altri pendii, meno inclinati, scivoleranno masse compatte nei giorni a venire: ma sarà solitamente verso metà marzo che i guardiani saliti alla diga del Pizzo Tiranno cominceranno a sentire crocchiare meno dura la neve sotto i loro scarponi. Sul piazzale il mezzogiorno accenderà temperature tiepide, il sole raggiungendo la casa riscalderà le stanze di un calore buono; sopra il davanzale ben esposto il ciclamino occhieggerà gemme minute, giù dal tetto i ghiaccioli perderanno dimensione e profondità, nell’aria qualche insetto ancora stordito affannerà i primi voli. Da allora i giorni alla diga scorreranno nuovi, più vivi.
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E’ pur vero che nel periodo freddo il bacino viene riempito d’acqua per meno di un terzo della sua portata, ed è pur vero che la centralina segnala e regola tutto: ma l’uomo ci deve essere sempre, non fosse altro che per verificare sul posto eventuali malfunzionamenti degli strumenti. Quest’inverno, caso non così raro durante la stagione, sono stato io il guardiano rimasto bloccato alla diga per più di tre settimane filate; con me era di turno Nestino.Tutto è cominciato il sabato dell’Epifania, quando, subito dopo pranzo, nel cielo lattiginoso hanno cominciato a ondeggiare i primi fiocchi morbidi. Per il cambio mi sarebbe toccato rientrare in paese il giorno successivo, ma la domenica l’elicottero non ha volato; durante la notte sul piazzale della diga era sceso circa un metro di neve: e non sembrava proprio voler smettere.
Cristalli candidi, ossessivi, dondolavano nell’aria gelatinosa, fitti come un disturbo sugli occhi. Non riconoscevo più il parapetto, distante pochi metri da casa. Un silenzio ovattato avvolgeva la conca del Pizzo Tiranno; dentro i canaloni la coltre bianca gonfiava minacciosa fino a raggiungere spessori notevoli e sembrava bastasse un soffio per staccare valanghe: magari anche solo qualche grado in più di temperatura. Immensa, la quiete rivestiva l’immobilità precaria sulle montagne.
In questa calma carica di tensione, e a volte anche il silenzio è tensione, si aspetta quello che sai che deve succedere. Seduto in cucina davanti a un the caldo – Nestino, se non ci sono lavori, sta in camera sua a leggere – seguivo le previsioni meteo e intanto pensavo al bivacco artigliato alle rocce sopra la morena del ghiacciaio. Forse era già scomparso, sepolto dalla neve. Quattro ragazzi, con sci, piccozza e ramponi, c’erano saliti il giorno dopo capodanno: batteva traccia Marco, aspirante guida alpina, un armadio alto due metri e conosciuto da tutti in valle. Erano scesi prima che nevicasse, sapevano di quella perturbazione spessa. Avevamo bevuto insieme un vinbrulè, poi li avevo salutati fermandomi sul parapetto a seguire le loro serpentine sugli sci.
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In casa, alla diga, ci sono sempre scorte anche per una permanenza non prevista; così, quando dopo dieci giorni il caposquadra aveva urlato nella radio che il mio sostituto si era ferito a un piede spaccando legna, io gli avevo risposto che sarei rimasto su senza problemi: lui doveva solo ricordarsi di caricare le bottiglie di genepy – quello giusto – con il primo giro dell’elicottero. La domenica, in ogni caso, nessuno sarebbe potuto salire a causa di un’altra nevicata continuata copiosa fino a metà settimana.
Per Nestino, il mio socio, non era segnato il cambio: spesso lui rimane su anche tre turni di fila: in valle lo chiamano “lupo bianco” per via dei suoi trascorsi di bracconiere e per i capelli, velati d’argento da quando aveva trent’anni. Sono i suoi ultimi mesi di lavoro, vive solo, l’anno scorso ha perso il fratello in un brutto incidente che non è mai stato chiarito; al bar in piazza qualcuno, sottovoce, fa riferimento a parole forti e a minacce scambiate con la gente alla quale ha venduto la baita, pare costretto dai debiti. Beveva e giocava, il fratello, e la pensione era poca.
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Per tutta la stagione della neve, però, quando il canale è pericoloso perché dai lati oltre la valanga nera staccano altre slavine, il collegamento da e verso il fondovalle avviene seguendo una via alternativa, che compie un dolce semicerchio. A fine settimana io la scelgo spesso: se ci sono buone condizioni significa una sciata lunga e piacevole. A inizio turno, invece, siccome non voglio perdere quel po’ di allenamento in salita, se il tempo è bello rifiuto il passaggio in elicottero e mi avvio con le pelli di foca sotto gli sci. Ho per me la mattina intera: studio le tracce degli uomini e degli animali, fotografo alberi in controluce e malghe abbandonate, fermo le nuvole che dissolvono sfilacciate. Con amore e gelosia penetro l’intimità della montagna, o almeno così credo. Ed è per questo che quei momenti, unitamente a quelli di altre gite, li voglio rivedere da solo, sfogliando le immagini nel mio egoismo silenzioso; a casa, in paese, ho tappezzato una parete con ingrandimenti di particolari o di paesaggi in cui io non compaio mai, e non compare mai nulla di mio, a eccezione del primo piano scattato ai miei sci piantati nella neve in cima al Pizzo Tiranno. Sotto tutte le foto ho indicato la data e il luogo, e tutte mi appagano con sensazioni di libertà.
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Ora è primavera e la primavera è attesa, è un’esclusiva che m’illude. E’ primavera, la luce e i colori sono primavera. Otto giorni fa, giovedì della settimana santa, per la strada della diga è salita una famigliola: padre, madre e una bambina. Tutti e tre vestivano maglioni colorati e pedule nuove. Davanti a loro correva una cagna, una giovane lupa appena più grande di un cucciolo; l’ho seguita, balzava instancabilmente su e giù, drizzava le orecchie pronta a lanciarsi dietro al fischio d’una marmotta, o annusava eccitata la neve residua sotto i larici. Al sole, nella radura vicina al piazzale, l’uomo ha posato lo zaino e la donna ha disteso una coperta e preparato i panini. Dopo mangiato mi hanno chiesto una fotografia, li ho fissati che ridevano e la bambina inginocchiata abbracciava il cane.
Prima di scendere sono passai a salutarmi; sedevo davanti a casa e controllavo gli attacchi degli sci: l’uomo mi ha confessato di aver goduto ore serene e nelle sue parole ho colto la stessa forza che spinge l’erba fuori dal terreno. Mentre rientravano – e la bambina correva e chiamava la lupa – la donna ringraziava l’uomo per la giornata trascorsa insieme. Spero che conservino altri ricordi felici di questa primavera.
°°°°°
Il fine settimana che viene – il tempo è previsto bello – certamente le guide svizzere caleranno dal passo con gli sci insieme ai loro clienti. Peccato che dalla diga in giù toccherà andare a piedi; il canale colmato dalla valanga nera comincia a bucarsi pericolosamente e l’acqua che corre sotto cresce ogni giorno più prepotente. Ma in alto, tra i seracchi, già m’immagino le curve pulite sulla neve assestata, già vedo il sole scintillare riflessi che illuminano vertiginose pareti di ghiaccio, già sento la montagna liberare il suo respiro nel mio respiro. Magari domenica, anziché tornare subito a casa per il turno di riposo, salgo al bivacco e il giorno dopo punto verso il colle. Sono sicuro: troverò la gita tracciata.
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
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