Famiglia
I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE
Ancora una storia di vita: affinchè impariamo sempre meglio a dare alla vita un valore profondo anche nei suoi aspetti più umili e intimi.
°°°°°
L’estate era trascorsa e le prime foglie ingiallite cominciavano a cadere dagli alberi, addormentati dal sonno dell’autunno. Da due mesi mia nonna si era adagiata sul letto matrimoniale della sua camera, e coperta da una trapunta attendeva pazientemente che il velo del riposo eterno si posasse sul viso sereno. In alto, sopra la spalliera del letto, il Bambinello in braccio alla Madonna la guardava languidamente, quasi per rassicurarla che presto li avrebbe raggiunti in cielo. Il cancro accompagnato dalla senilità aveva assorbito tutte le sue energie vitali, lasciandola in una quiete apparente mentre interiormente compiva il suo sviluppo. In quel periodo avevo ricevuto una proposta di lavoro importante, da uno studio legale. Laureatomi in giurisprudenza a primavera, ero impaziente di avviare la professione d’avvocato ma sapendo che la nonna stava molto male decisi di prendermi cura di lei. Una nonna è troppo preziosa per essere sostituita con un impiego lavorativo.
Il comò appesantito dai tanti medicinali sembrava una farmacia ambulante, e dove un tempo lei si specchiava vanitosamente pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia, presente nella stanza, della sua giovinezza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato, immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.
Il nonno amava moltissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto – diceva – è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando all’oblio i momenti più belli, e non invecchiare mai”. Fotografava tutto ciò che lo affascinava, dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno era insomma una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.
Nonna lo amava anche per questo suo talento, per questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che, viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono materialmente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita ed il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia sono il mondo e l’esistenza, con le loro forme.
Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.”Nonna, mi hai sentit…”: non feci in tempo a terminare la frase che lei scoppiò a piangere. “Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa. In vita sua solo due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno, e una sera dopo avere litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione. L’abbracciai trattenendo la forza per paura di stringerla troppo; il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvare la sua. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare e il suo sguardo penetrava dentro il mio, riuscendo a cogliere ogni mia preoccupazione. Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero quasi distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso non facendole mancare mai nulla.
Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi. “Michele, devi andare via!”, esclamò con un’espressione seria. “Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo; ho realizzato le mie scelte, ora devi compiere le tue”. La guardai per un istante, poi uscii senza dire nulla. Mia nonna è stata per me come una seconda madre: fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, e così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, e insieme al nonno vedevamo la tv; prima di metterci a letto pregavamo e delle volte, quando non avevo sonno, mi raccontava una favola. Standomi vicino nei momenti difficili m’infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava per me contraccambiare l’amore che mi aveva donato. Le nonne sono delle sante, perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.
L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia e il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata, rendendo ovattate le ore passate insieme. Come di consueto doveva prendere le medicine: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla. “Nonna… nonna, svegliati… devi prendere la medicina”. Nessun movimento né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce: “Nonna, sono Michele…la medicina… ti prego, apri gli occhi…”. Respirava a fatica. Il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo. Iniziai a sudare; un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.
Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo ma già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena, le lacrime no riuscivano a smettere di inondare le palpebre e, scivolando fino alle labbra, con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal tichettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo tra realtà e irrealtà. La vita continuava il suo corso, impassibile, e intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco, se non fosse stato per loro, e forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce, capii che non l’avrei mai più rivista.
Il giorno dopo, uscendo dalla casa in cui ero stato per molti giorni, andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco. Respirando profondamente chiusi le palpebre addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole splendeva lontano e un arcobaleno di colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello delle nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna: per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto preparato la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e morbido della sua carnagione.
Non so perché, ma da quel giorno ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto, poi quando muoiono, dopo tanto amore donato, si accontentano di un semplice fiore lasciato sulla loro tomba. La vita è proprio strana, non c’è quasi mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.
Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme e subito svanisce. Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo e il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento, mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
(Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
I NONNI: UNA PRESENZA PER SEMPRE
Ancora una storia di vita: affinchè impariamo sempre meglio a dare alla vita un valore profondo anche nei suoi aspetti più umili e intimi.
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Il comò appesantito dai tanti medicinali sembrava una farmacia ambulante, e dove un tempo lei si specchiava vanitosamente pettinandosi i lunghi capelli castani, la polvere si era posata lasciando un sottile strato. La sola traccia, presente nella stanza, della sua giovinezza, era una foto fatta insieme al nonno, prima di sposarsi. Spesso la guardava sospirando, come fosse una finestra che si affacciava sul passato, immortalando la bellezza di una volta, ormai perduta.
Il nonno amava moltissimo la fotografia, fin da giovane, e aveva coltivato per l’immagine in bianco e nero un profondo senso artistico. “Nelle foto – diceva – è possibile compiere un miracolo: fermare il tempo, strappando all’oblio i momenti più belli, e non invecchiare mai”. Fotografava tutto ciò che lo affascinava, dalle persone alla natura ogni soggetto era buono per essere immortalato. La sua cantina era un vero laboratorio fotografico, l’ordine e la cura con cui usava il materiale fotosensibile erano assoluti. Ricordo ancora le volte che mi prendeva in braccio e mi spiegava come avveniva il processo di sviluppo del negativo; mio nonno era insomma una vera risorsa, un concentrato di creatività e conoscenze, e grazie a lui ho scelto di andare all’università. “La sapienza – diceva – è la sola cosa in grado di rendere liberi, ma soprattutto consapevoli di chi siamo e cosa vogliamo essere”.
Nonna lo amava anche per questo suo talento, per questa capacità di vedere e percepire la bellezza nelle cose che, viste di sfuggita, ad occhio nudo, spesso non esprimono nulla se non ciò che sono materialmente, ma, se le si osserva con maggiore attenzione, in esse è possibile vedere la vita ed il tutto perfetto. Solo allora si capisce che meraviglia sono il mondo e l’esistenza, con le loro forme.
Una mattina mi avvicinai al letto per misurarle la pressione e le chiesi come si sentiva. Lo sguardo era immobile verso il soffitto, freddo come quello di una statua, e sembrava non aver ascoltato le mie parole.”Nonna, mi hai sentit…”: non feci in tempo a terminare la frase che lei scoppiò a piangere. “Voglio andarmene”, mi disse con voce commossa. In vita sua solo due volte l’avevo vista piangere: il giorno del funerale del nonno, e una sera dopo avere litigato con mia madre al telefono. E’ stata sempre molto orgogliosa e il pianto per lei era autocommiserazione. L’abbracciai trattenendo la forza per paura di stringerla troppo; il dolore l’aveva affranta. Sentivo le ossa fragili del suo corpo delicato e magro, rivestito da un pigiama di cotone, e in quel momento avrei dato la mia vita per salvare la sua. Si asciugò le lacrime con il lenzuolo e mi porse lentamente il braccio. Le inserii lo sfigmanometro elettronico: la pressione sanguigna e le pulsazioni erano regolari. L’aiutai a sollevarsi dal letto e sistemandole i cuscini dietro la schiena le feci appoggiare la testa accuratamente, accarezzandole la fronte. Tra le pieghe delle rughe era ancora possibile scorgere il fascino celato di una donna stupenda. Gli occhi azzurri e luminosi lasciavano trasparire una forza interiore particolare e il suo sguardo penetrava dentro il mio, riuscendo a cogliere ogni mia preoccupazione. Alzando il mento mi disse: “Sei stanco, dovresti riposarti”. Sorridendo le risposi: “Non ti preoccupare, sto bene”. In realtà ero quasi distrutto e assisterla significava dedicarle tutto me stesso non facendole mancare mai nulla.
Un giorno mi chiamò, dicendomi che doveva parlarmi. “Michele, devi andare via!”, esclamò con un’espressione seria. “Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io sono vecchia e tra breve lascerò questo mondo; ho realizzato le mie scelte, ora devi compiere le tue”. La guardai per un istante, poi uscii senza dire nulla. Mia nonna è stata per me come una seconda madre: fin da bambino sono cresciuto con il timore che i miei genitori divorziassero, in famiglia i litigi erano all’ordine del giorno, e così più di una volta sono fuggito di casa andando a stare da lei. Dopo cena ci sedevamo sul divano, in salotto, e insieme al nonno vedevamo la tv; prima di metterci a letto pregavamo e delle volte, quando non avevo sonno, mi raccontava una favola. Standomi vicino nei momenti difficili m’infondeva quel senso di coraggio necessario per andare avanti: la nonna aveva tutto quello che mancava a mia madre. Con affetto mi ha cresciuto amorevolmente, e accompagnarla nell’ultimo periodo della sua esistenza significava per me contraccambiare l’amore che mi aveva donato. Le nonne sono delle sante, perché compiono un doppio miracolo: prima mettono al mondo i loro figli, poi crescono i nipoti, con maggiore affetto.
L’assistetti per un mese; morì un tardo pomeriggio di novembre, quando gli ultimi raggi del sole stavano svanendo nel crepuscolo della sera e nel giardino la natura ormai spenta si lasciava bagnare dalla pioggia e il suo leggero e dolce suono aveva accompagnato ogni istante della giornata, rendendo ovattate le ore passate insieme. Come di consueto doveva prendere le medicine: aprii la porta della camera, accesi l’abatjour sopra il comodino e delicatamente provai a svegliarla. “Nonna… nonna, svegliati… devi prendere la medicina”. Nessun movimento né risposta seguì la mia incitazione. Alzai il tono della voce: “Nonna, sono Michele…la medicina… ti prego, apri gli occhi…”. Respirava a fatica. Il cuore batteva fiaccamente e le labbra avevano assunto un colorito violaceo. Iniziai a sudare; un nervoso improvviso mi fece tremare le gambe salendo fino alle mani. Provai a rianimarla, ma i miei sforzi furono inutili. Precipitandomi nel corridoio alzai la cornetta del telefono e chiamai il pronto soccorso. Rispose un’operatrice dalla voce squillante e metallica dicendomi: “Si calmi, mi dica dove abita e cosa le è successo”.
Non riuscivo a frenare la mia agitazione, sapevo che era troppo tardi e che stavo compiendo una corsa contro il tempo ma già persa in principio. Balbettando le lasciai l’indirizzo dell’abitazione, riattaccai il telefono e tornai nella camera. Inginocchiandomi accanto al suo letto e stringendole le mani pregai come quando ero bambino, come una povera anima in pena che dopo tanti anni ritorna alle sue origini cristiane, abbandonate dall’indifferenza dell’età adulta. Come un fiume in piena, le lacrime no riuscivano a smettere di inondare le palpebre e, scivolando fino alle labbra, con il loro sapore salato spegnevano l’amaro che avevo in bocca. Il silenzio glaciale che avvolgeva la stanza era rotto dal tichettio costante della sveglia, la sola a ricordarmi che il tempo non si era fermato. Davanti all’impossibilità di agire mi sentivo debole, bloccato in un limbo tra realtà e irrealtà. La vita continuava il suo corso, impassibile, e intanto in lontananza sentivo la sirena dei soccorsi che stavano arrivando. Sarei rimasto immobile al suo fianco, se non fosse stato per loro, e forse mi sarei lasciato morire, avrei condiviso anche quel momento della sua esistenza. Fino all’ultimo sperai che potesse farcela, ma quando il medico le coprì il viso con il lenzuolo e si fece il segno della croce, capii che non l’avrei mai più rivista.
Il giorno dopo, uscendo dalla casa in cui ero stato per molti giorni, andai in giardino e sedendomi ai piedi della grande quercia appoggiai la testa al tronco. Respirando profondamente chiusi le palpebre addormentandomi in quella pace naturale. Al risveglio ebbi l’impressione che fosse passata un’eternità, nel cielo plumbeo uno spiraglio di sole splendeva lontano e un arcobaleno di colori vivaci nasceva trafiggendo il mantello delle nuvole. Osservandolo mi tornarono in mente tante cose della nonna: per ogni colore un ricordo, un’emozione preziosa. Il rosso porpora del roseto che amava curare con tanta passione, l’arancione del suo grembiule da cucina, il giallo del buonissimo biscotto preparato la domenica per colazione, il verde smeraldo dell’anello regalatole dal nonno per i cinquant’anni di matrimonio, il celeste della sua vestaglia da notte vellutata, il viola del fermaglio tra i suoi capelli, il blu del maglione che ricamò a mano per il mio compleanno, l’azzurro intenso dei suoi occhi ed il rosa delicato e morbido della sua carnagione.
Non so perché, ma da quel giorno ogni volta che mi capita di osservare l’arcobaleno ripenso a lei e alla sua infinita bontà di nonna. Credo che tutte le nonne ne abbiano una particolare, rara e unica. Come delle madri ci crescono, ci sono vicine, fanno sacrifici per noi, donandoci tanto affetto, poi quando muoiono, dopo tanto amore donato, si accontentano di un semplice fiore lasciato sulla loro tomba. La vita è proprio strana, non c’è quasi mai la giusta proporzione tra il dare e il ricevere, anche se, in cuor mio, sento di averle dato tutto me stesso per aiutarla e per vederla ancora una volta sorridere.
Oggi, dopo un anno dalla sua morte, i miei sentimenti sono rimasti immutati. Delle volte la nostalgia viene a trovarmi, ma è sufficiente che ripensi ai momenti belli trascorsi insieme e subito svanisce. Una persona cara che si spegne è come una stella cadente che smette di brillare in cielo e il desiderio più grande è che possa esserti vicina in ogni momento, mantenendo quel rapporto d’amore che va oltre la vita.
(Anonimo, Premio Prato Raccontiamoci)
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