Cosa accade negli Stati Uniti? Una lunga serie di episodi di violenza razziale, ma non solo razziale (ricordiamo ad esempio le orribili stragi nelle scuole) sembra sottolineare crescentemente che nel paese di Kennedy e di Martin Luther King, della Nuova Frontiera e delle opportunità per tutti, il lungo processo di crescita di coscienza civile, umana, sociale, unita a sviluppo economico e a visione solidale del futuro del mondo, che ha alimentato aspettative e speranze di una immensa moltitudine di persone di ogni condizione nel mondo per decenni e decenni, si stia in questi ultimi anni come arrestando e inviluppando in sestesso fino forse anche a regredire.
Contemporaneamente, il grande paese americano pare dar cenni di tramonto anche nella lidership e nell’autorevolezza che ne hanno contraddistinto il ruolo politico e culturale lungo i settant’anni seguiti al secondo conflitto mondiale. La grossolanità di stile esteriore espressa dalla presidenza Trump ne è stata come un segnale simbolico; e propone un quesito generale gravido di incognite agli americani ma anche a tutti noi, dato che anche nei nostri paesi, Italia compresa, tendono a crescere gli episodi di violenza, intolleranza e superficialità, individuali e collettive, con autori e vittime in tutte le regioni e in tutte le condizioni sociali e di età.
Leonardo Guzzo ci ripropone, nella pagina che segue, quello che fu l’effetto del grande messaggio di conciliazione e fratellanza lanciato da Martin Luther King nel 1963 a tutto il popolo americano, quando l’impressione quasi universale fu che il processo di avanzamento dei valori di uguaglianza, tolleranza e fraternità non avrebbe più conosciuto ostacoli.
Come poter riprendere il cammino di un umanesimo più attivo e diffuso, anche se non miracolistico? In Usa come in Italia, in Cina come in Urss, in Africa come in India?
Cinquant’anni. Il sogno più celebre e celebrato del XX secolo compie cinquant’anni. Era il 28 agosto del 1963 quando il pastore battista Martin Luther King junior, leader del movimento per i diritti civili dei neri americani, pronunciò al Lincoln Memorial di Washington, di fronte a 250.000 persone assiepate sulla spianata, il suo più famoso discorso.
“I have a dream”, proclamava. "Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità. Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.[...] Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme."
A concepire il suo sogno Marti Luther King aveva cominciato negli anni ’50, quando, da reverendo nel profondo sud degli Stati Uniti, aveva sperimentato in prima persona le conseguenze brutali della segregazione razziale. Ancora nel 1955 a Montgomery, in Alabama, la negra Rosa Parks veniva processata e condannata al pagamento di una multa per essersi rifiutata di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco. La risposta di King, pastore della locale chiesa battista, alla follia della discriminazione fu la nascita della Southern Christian Leadership Conference, un movimento per il riconoscimento dei diritti civili agli afroamericani, la scelta della lotta non violenta, l’elaborazione di un codice di comportamento che prevedeva “acutezza di intelletto”, per smascherare i pregiudizi, le false certezze e le astute convenienze dei segregazionisti, “tenerezza di cuore”, per infondere una superiore dignità alla sofferenza, per insegnare e ispirare negli animi più duri compassione, e poi condanna inflessibile del sistema vessatorio e insieme amore fraterno verso quanti pure erano colpevoli di alimentarlo.
In questa rivoluzione culturale risiede l’essenza del sogno di Martin Luther King, il suo capolavoro di fascinazione ideale e abilità politica, il seme di rinnovamento gettato nei meandri oscuri e putridi dell’America. È un sogno, quello di MLK, profondamente radicato nel sogno americano, nell’esaltazione dell’uomo, delle sue doti, della sua libertà, della sua aspirazione alla felicità, al di là dei limiti storici, economici e sociali; è un sogno coltivato da un perfetto eroe americano. Un idealista, uomo di fede e di testimonianza, e allo stesso tempo un abile comunicatore, lucido e determinato, un nuovo e più moderno Gandhi, capace di sfruttare la ribalta mediatica e la forza simbolica dei gesti per la sua causa di emancipazione. Da eroe americano, cinque anni dopo il trionfo di Washington, Martin Luther King sarebbe morto, assassinato a Memphis dalla pallottola di un fucile di precisione, vittima di un disperato, inutile colpo di coda dell’intolleranza razzista. Non prima, però, di aver ritirato a Stoccolma, nel 1964, il premio Nobel per la pace; non prima di aver propiziato l’adozione di leggi federali che sancivano la fine della segregazione nelle scuole, nei trasporti e nei locali pubblici e, benché solo in teoria, la piena partecipazione dei neri alla vita politica, sia come eletti che come elettori.
Dopo cinquant’anni il discorso del Lincoln Memorial resta una lezione di oratoria; spande, ancora, un’eco vibrante, vigorosa, a tratti dà i brividi. All’America, negli anni ’60, indicò la strada della “grande società”, più equa e inclusiva, fedele finalmente ai proclami illuminati dei Padri Fondatori, al mondo lascia per sempre l’immagine splendente della “grande famiglia umana” e un’idea raffinata e colossale: che la nostra libertà – la vera, esatta misura della libertà di ognuno – si realizza attraverso la libertà di tutti.
(Leonardo Guzzo)
Contemporaneamente, il grande paese americano pare dar cenni di tramonto anche nella lidership e nell’autorevolezza che ne hanno contraddistinto il ruolo politico e culturale lungo i settant’anni seguiti al secondo conflitto mondiale. La grossolanità di stile esteriore espressa dalla presidenza Trump ne è stata come un segnale simbolico; e propone un quesito generale gravido di incognite agli americani ma anche a tutti noi, dato che anche nei nostri paesi, Italia compresa, tendono a crescere gli episodi di violenza, intolleranza e superficialità, individuali e collettive, con autori e vittime in tutte le regioni e in tutte le condizioni sociali e di età.
Leonardo Guzzo ci ripropone, nella pagina che segue, quello che fu l’effetto del grande messaggio di conciliazione e fratellanza lanciato da Martin Luther King nel 1963 a tutto il popolo americano, quando l’impressione quasi universale fu che il processo di avanzamento dei valori di uguaglianza, tolleranza e fraternità non avrebbe più conosciuto ostacoli.
Come poter riprendere il cammino di un umanesimo più attivo e diffuso, anche se non miracolistico? In Usa come in Italia, in Cina come in Urss, in Africa come in India?
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Cinquant’anni. Il sogno più celebre e celebrato del XX secolo compie cinquant’anni. Era il 28 agosto del 1963 quando il pastore battista Martin Luther King junior, leader del movimento per i diritti civili dei neri americani, pronunciò al Lincoln Memorial di Washington, di fronte a 250.000 persone assiepate sulla spianata, il suo più famoso discorso.
“I have a dream”, proclamava. "Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità. Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità.[...] Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme."
A concepire il suo sogno Marti Luther King aveva cominciato negli anni ’50, quando, da reverendo nel profondo sud degli Stati Uniti, aveva sperimentato in prima persona le conseguenze brutali della segregazione razziale. Ancora nel 1955 a Montgomery, in Alabama, la negra Rosa Parks veniva processata e condannata al pagamento di una multa per essersi rifiutata di cedere il suo posto sull’autobus a un bianco. La risposta di King, pastore della locale chiesa battista, alla follia della discriminazione fu la nascita della Southern Christian Leadership Conference, un movimento per il riconoscimento dei diritti civili agli afroamericani, la scelta della lotta non violenta, l’elaborazione di un codice di comportamento che prevedeva “acutezza di intelletto”, per smascherare i pregiudizi, le false certezze e le astute convenienze dei segregazionisti, “tenerezza di cuore”, per infondere una superiore dignità alla sofferenza, per insegnare e ispirare negli animi più duri compassione, e poi condanna inflessibile del sistema vessatorio e insieme amore fraterno verso quanti pure erano colpevoli di alimentarlo.
In questa rivoluzione culturale risiede l’essenza del sogno di Martin Luther King, il suo capolavoro di fascinazione ideale e abilità politica, il seme di rinnovamento gettato nei meandri oscuri e putridi dell’America. È un sogno, quello di MLK, profondamente radicato nel sogno americano, nell’esaltazione dell’uomo, delle sue doti, della sua libertà, della sua aspirazione alla felicità, al di là dei limiti storici, economici e sociali; è un sogno coltivato da un perfetto eroe americano. Un idealista, uomo di fede e di testimonianza, e allo stesso tempo un abile comunicatore, lucido e determinato, un nuovo e più moderno Gandhi, capace di sfruttare la ribalta mediatica e la forza simbolica dei gesti per la sua causa di emancipazione. Da eroe americano, cinque anni dopo il trionfo di Washington, Martin Luther King sarebbe morto, assassinato a Memphis dalla pallottola di un fucile di precisione, vittima di un disperato, inutile colpo di coda dell’intolleranza razzista. Non prima, però, di aver ritirato a Stoccolma, nel 1964, il premio Nobel per la pace; non prima di aver propiziato l’adozione di leggi federali che sancivano la fine della segregazione nelle scuole, nei trasporti e nei locali pubblici e, benché solo in teoria, la piena partecipazione dei neri alla vita politica, sia come eletti che come elettori.
Dopo cinquant’anni il discorso del Lincoln Memorial resta una lezione di oratoria; spande, ancora, un’eco vibrante, vigorosa, a tratti dà i brividi. All’America, negli anni ’60, indicò la strada della “grande società”, più equa e inclusiva, fedele finalmente ai proclami illuminati dei Padri Fondatori, al mondo lascia per sempre l’immagine splendente della “grande famiglia umana” e un’idea raffinata e colossale: che la nostra libertà – la vera, esatta misura della libertà di ognuno – si realizza attraverso la libertà di tutti.
(Leonardo Guzzo)
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