Storia e storie

UN GIORNO CAMMINEREMO INSIEME

Da quella bella e ricca miniera che è stato, per molti anni, il “Premio Prato Raccontiamoci: Storie di Vita Vissuta”, della cui organizzazione ho avuto la fortuna di essere parte attiva, e che fu illustrato da personalità quali Pamela Villoresi, traggo un ulteriore “racconto di vita”: uno di quelli che non ebbero l’onore della vittoria finale, ma che concorse, come tantissimi altri, a una ricchezza umana e culturale che caratterizzò sempre il premio, come accade quasi sempre quando gli anziani raccontano le vicende della loro esperienza di vita, spesso senza neanche porsi il quesito di forme letterarie o intenzioni d’arte cui vincolarsi. Di questo racconto, in particolare, non sono neanche in grado di fornire il nome dell’autore (la organizzazione del Premio conserva peraltro tuttora nei suoi archivi ogni documentazione): esso esprime tuttavia una di quelle misteriose storie personali che segnano a volte per sempre l’esistenza di chi le vive. La riproduciamo non per compiacenze letterarie, dunque, ma, innanzitutto, perché invitano il prosieguo della nostra permanente riflessione sull’affascinante mistero della esistenza umana.
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Sono passati molti anni dall’inizio della storia che voglio raccontare. In realtà, neanche io ne ricordo perfettamente tutti i particolari: ma non scorderò mai quanto questa amicizia mi ha insegnato a crescere ed a vivere.
 
Anche se abitavamo nello stesso paese, conobbi Danilo solo a scuola: carnagione chiara, capelli “a funghetto”, occhi profondi, incisivi, grandi, risata facile, e una dichiarata passione: l’Associazione Sportiva Roma.
 
Danilo era un compagno come tutti gli altri: non aveva niente di più, niente di meno, nulla di diverso. La diversità entrò però nella sua vita qualche anno dopo, proprio alla scuola elementare. Le maestre dissero che si era ammalato. Io, però, non capivo perché dovesse venire a scuola sulla sedia a rotelle. L’influenza, che spesso ci visitava tutti, fa arrossare il naso come un pomodoro e costringe a portare sempre dei fazzoletti in tasca, ti irrita la gola o ti fa alzare la temperatura corporea, ma non impedisce alle tue gambe di camminare o alle tue braccia di simulare il volo di un uccello.
 
In classe, le curiosità di tutti sull’argomento aumentarono, così come le mie: ma le maestre e mia madre sapevano sempre trovare le risposte giuste, quelle semplici, che ti fanno sembrare il mondo un’eterna fiaba che ti cullerà per sempre. Però la vita non è semplice e, purtroppo, da bambini si possiede un’ingenuità che con il passare degli anni si perde. Infatti, più passava il tempo e più le promesse dei grandi svanivano, più la fiaba si incrinava. Danilo non si alzò più in piedi. Mai. Anche se mi sforzo, oggi non riesco a ricordarlo in piedi. La sua normalità divenne il troneggiare stancamente su quella carrozzella.
 
Solo con gli anni che passavano mi resi conto che in realtà non sarebbe mai guarito da quell’influenza speciale:  era la distrofia muscolare. Una malattia che invade il corpo pian piano, sa conquistarlo, dominarlo e non lasciare più spazio: non c’è più posto per decidere dei propri movimenti, della propria felicità, del proprio tempo.
 
Non so se sia peggio sentire l’eco della propria volontà che non riceverà più risposte dal proprio corpo, o accettare lo stato di eterna solitudine dell’anima, dentro di sé: perché esisti integralmente ma una parte di te è come se non ci fosse  o fosse fuori di sé, e gli altri non possono capire davvero.
 
Quasi odiavo la sua situazione, perchè mi faceva sentire in colpa. A me non mancava nulla: potevo giocare ad acchiapparella e nascondino, potevo saltare a corda, potevo prendere i soldi ed andare a mangiare un gelato, potevo rotolarmi sul prato, potevo fare i capricci per un giocattolo, potevo ridere, potevo piangere, potevo andare al bagno, potevo essere una bambina. Potevo fare qualsiasi cosa avessi voluto: bastava la voglia, la volontà, e tutto era possibile.
 
Si dice che volere è potere ma, oltre ad insegnare che questi verbi vengono definiti modali e che ognuno dovrebbe saperli coniugare correttamente, la scuola dovrebbe spiegare perchè non tutti li possiedono: non dovrebbe lasciare all’esperienza personale e al caso l’insegnamento più grande, quello della vita.
 
Forse, in realtà, spiegazioni non ci sono, o è meglio non cercarle. Ma questo non bastava ad azzittire le mie continue domande: perchè proprio Danilo era malato? Perché io stavo bene? Cosa aveva fatto di tanto male per essere destinato ad osservare il mondo senza viverlo pienamente? Perché era così? Ogni attività dei bambini implica movimento ma questa sua condizione lo escludeva perennemente. Ci guardava da un angolo, sempre. Io sentivo i suoi occhi, sentivo quella rabbia, quel disagio e quell’immensa impotenza che portano a tenersi a distanza da tutto. Infatti, anche quando trovavamo il modo di farlo partecipare, Danilo restava sulle sue o si tirava indietro, invitandoci a non preoccuparci per lui.
 
Come ci si sente a vedere gli altri insieme, che si divertono, e poi, ad un tratto, cercano altri giochi per farti partecipare, senza però divertirsi come prima? Senza essere capaci di capirti, di non farti sentire diverso, un peso?
 
Provare ad immaginare il suo dolore, e vederlo con quell’aria triste, mi faceva male. Non capivo come gli altri non si accorgessero del suo bisogno di affetto, di comprensione, di aiuto. Eppure quel bisogno urlava forte, era padrone del suo solito silenzio.
 
Non ho mai creduto di essere migliore degli altri, anzi pensavo di esagerare con tutti quei pensieri su di lui. Ma, pian piano, capii che l’unica differenza tra me e gli altri compagni era che loro non si ponevano il problema. Vivevano la loro vita, nel loro piccolo mondo, con i loro agi, pregi e difetti. Non era a loro che il Signore aveva rifilato quel destino, e questo bastava a giustificare la loro indifferenza. Non è questione di migliore o peggiore, basta decidere che persona vuoi essere: e io non volevo essere come gli altri, non volevo ignorarlo. Volevo essere sua amica.
 
Ci misi un po’ per capire che in realtà già lo ero. Sedevamo vicini al banco, ridevamo, parlavamo e facevo di tutto per farlo sentire a suo agio. Per me era un piacere stare insieme a lui. Gli volevo davvero molto bene. Gli ultimi anni di scuola elementare, precisamente tra la quarta e la quinta, iniziai ad andare a casa sua, il pomeriggio. Di solito andavo a casa delle mie amiche, dopo aver fatto i compiti, o uscivo con loro in giro per il paese. Mi resi conto che uscite del genere Danilo non poteva farle: lui dipendeva sempre da qualcuno, dalla mamma, dall’assistente, dalle maestre, da chiunque spingesse la carrozzella, visto che con il passare degli anni non riusciva più a muovere le braccia, figuriamoci spingere le ruote!
 
Andavo da lui, sempre, con qualche pensierino: un vassoio di dolcetti, qualche giocattolo, qualsiasi cosa avesse a che fare con la Roma. Mi faceva proprio piacere vedere un sorriso sincero nascere sulle sue labbra: mi faceva sperare che almeno in quei momenti era felice. In genere, dopo aver giocato un po’ alla playstation, uscivamo nel piazzaletto fuori casa sua: in realtà era un vialetto, sul quale si affacciavano tutti i pianerottoli delle case popolari. Era abbastanza largo, tanto che riuscivo a girare bene la carrozzella una volta arrivata alla fine, ma non era molto lungo. A volte eravamo costretti a fare su e giù all’infinito, fingendo di essere da un’altra parte: in riva al mare, su un prato fiorito, in sella alle nuvole, in cima ad una montagna. Mi divertivo a farlo sognare e a vedere quel sorriso ingenuo comparire con il distendersi delle sue labbra, prima di dirmi che ero matta. Altri giorni, invece, fingevamo che la sua malattia non fosse un problema e giocavamo a nascondino. Ero sempre io a nascondermi e a non dover trovare nascondigli troppo difficili o troppo lontani. Purtroppo il nostro unico spazio era quel viale: fuori di lì c’erano due nemiche: la discesa e la salita. E, da sola, non ce l’avrei mai fatta a spingerlo tenendo sotto controllo la situazione. Così inventai un altro gioco, simile ad acchiapparella. In verità, nessuno acchiappava nessuno: però si correva. Io mi posizionavo dietro la carrozzella come se fossi ai comandi di una macchina, e simulavo il rombo del motore. Subito dopo l’”1-2-3 via” iniziavo a correre con tutta la forza che avevo, come una pazza. Danilo rideva, urlava, si divertiva. Ed io ero felice.
 
Purtroppo c’erano giorni in cui non ci andava di giocare, in cui eravamo particolarmente tristi, perché sentivamo che le cose stavano per cambiare, che stavamo crescendo e che quel viale non sarebbe più bastato. Io non sarei più bastata. Danilo sapeva anche che c’era un mondo di persone oltre me, e una volta mi confidò proprio che non capiva il motivo per cui andassi a trovarlo o tenessi così tanto a lui: non facevo parte né della sua famiglia, né degli adulti che accoglievano di più la sua diversità rispetto ai nostri coetanei.
 
Non capiva perché fossi così diversa. Io risposi che essere così presente nella sua vita era la dimostrazione che non era solo. In realtà, speravo molto nella sua guarigione: volevo aiutarlo a sconfiggere questo male, e, come accade nei films, nei libri, nelle favole, pensavo che c’è sempre un lieto fine. Con l’amore, con l’amicizia, c’è la forza. Insieme si può tutto. Non riuscivo proprio  a farmi una ragione del fatto che non avrebbe più camminato: era assurdo credere a questa prospettiva. Eravamo così piccoli… nove anni. Ero convinta che avremmo avuto molto tempo per rimediare alla malattia e un giorno avremmo camminato insieme, come accadeva sempre nei miei sogni.
 
Un giorno, finalmente, ebbi un’altra idea: chiamare tutti i compagni per poter uscire dal viale e portare Danilo a fare una passeggiata altrove; sarebbe stato così felice… Tutti insieme ce l’avremmo fatta a spingerlo per le salite e a frenarlo lungo le discese. Ricordo che quella sera ero eccitatissima al pensiero di raccontare questa bella trovata anche agli altri compagni. Neanche per un attimo mi ero immaginata le smorfie, le risate, le scuse banali che mi aspettavano l’indomani. Nessuno era disponibile per quel pomeriggio: alcuni avevano gli allenamenti, altre ginnastica artistica, altri avevano impegni con i genitori, altre ancora si erano organizzate tra loro per uscire “normalmente”.
 
Così ci ritrovammo di nuovo, soltanto io e Danilo, nel vialetto. Lui non sapeva niente, ovviamente: ma io non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di quell’uscita collettiva e della gioia che essa gli avrebbe portato. Dovevo continuare fino a riuscire a convincere tutti. Riprovai, riprovai e riprovai. Niente. Era strabiliante constatare quanto fossero impegnati bambini di appena dieci anni!
 
Mi si intrufolava sempre più spesso nella testa l’idea che mentissero: ma solo quando una mia compagna mi rivelò come stavano le cose, ne ebbi la certezza. Non solo inventavano scuse ma, tutti i miei compagni, iniziarono a scocciarsi dei miei continui inviti per la tanto sperata uscita collettiva. Per di più, la mia compagna mi consigliava di smetterla perché stavo diventando antipatica ad alcuni di loro.
 
Ricordo la delusione, la tristezza, la malinconia che mi assalirono. Ma, più di ogni altra emozione, ricordo la rabbia e il rancore che incominciai a portarmi dentro verso quelle persone, e da cui non mi sarei mai liberata.
 
Uno degli ultimi giorni che passammo insieme lo ricordo particolarmente bene. Eravamo abbastanza taciturni. Io sedevo sulle scalette al lato opposto del suo pianerottolo, e lui stava davanti a me. Non avrei frequentato la scuola media con lui, nel nostro paese. Avevo bisogno di cambiare, di scappare dal duro processo di crescita che mi stava assalendo pian piano.
 
Gli spiegai quanto mi dispiaceva e quanto non avrei permesso che i rapporti tra noi cambiassero. Mi sorrise e con voce ferma mi ringraziò per essere sua amica. Poi, pronunciò una frase che non scorderò mai: “Gli altri non mi capiscono, tu sì. Ecco perché sei così diversa. Un po’ come me”.
 
Quella frase mi spezzò il cuore. Percepii il suo senso di solitudine, e insieme la sua gratitudine. Bisogna esser grati a qualcuno che ci vuole bene perché il mondo ci ignora? E il motivo era solo una sedia su cui dover stare perennemente. Mi vergognai di essere “normale” come gli altri e mi si strinse un nodo in gola. Ora, più che mai volevo scappare. Le persone non erano buone, la malattia di Danilo peggiorava e forse dovevo iniziare ad accettare che non avremmo mai camminato insieme. Ma non lo accettavo.
 
Come ogni partenza, il mio cambiare scuola, luoghi, amici, vita, mi allontanò da tutto quello che era stata la mia infanzia. Compreso Danilo. Spesso volevo andare a trovarlo, come ai vecchi tempi, ma rimandavo: rimandavo per non ammettere che non ce l’avrei fatta a sopportare di trovarlo solo. In più di un’occasione comunque ci incontrammo, e, ogni volta, mi sentivo male. Sentivo come una fitta intensa, che ti stringe dentro. Lui peggiorava, perdeva anche l’agilità delle mani. Non potevo vederlo così. Non potevo accettare che le cose volgessero sempre al peggio. Pensavo che forse stavo sbagliando, che dovevo essere forte e andare come sempre da lui. Ma non ero forte. Avevo paura di verificare che si avvicinasse la fine. A volte mi sono odiata, credendo di star diventando come tutti quelli che avevo sempre detestato: una stronza, cinica, egoista e menefreghista. Ma, dentro di me, sapevo che non era così e  volevo che lui non pensasse questo di me, volevo che sapesse che l’affetto per lui era sempre rimasto vivo nella mia vita. Eppure non riuscivo proprio a trovare il momento giusto per vederlo come avrei voluto.
 
Ma il destino è imprevedibile e, pochi mesi orsono, dopo molto tempo, dopo anni, mi ha donato questa occasione. I compagni delle elementari hanno organizzato una cena per “ritrovarsi”, e sia io che Danilo ci siamo andati. Tra l’antipasto e la pizza, quasi tutti uscirono per fumare. Io, invece, parlai con lui, come non mi capitava da troppo tempo. Mi raccontò che era sereno, che aveva avuto buoni voti a scuola, e che amava la Roma più che mai. Era l’amico che ricordavo: stesso sorriso, stessa bontà, stesso sguardo. Non era cambiato niente tra noi. Bastava un attimo per tornare indietro nel tempo, nel nostro viale. In fondo, avevamo solo qualche anno di più, ma eravamo sempre noi, i bambini del vialetto, dei giochi inventati, protagonisti di un legame vero.
 
Al termine della serata lo guardai negli occhi e gli promisi che, questa volta, davvero sarei tornata a trovarlo: non avrei aspettato tanto tempo. Le cose belle sono rare e mi odiai per aver perso tutto quel tempo dietro inutili paure. Gli schioccai un bacio sulla guancia e, dopo che il papà lo caricò sul loro pulmino, lo vidi andar via.
 
Quel giorno, non sapevo che sarebbe stato l’ultimo. Non avrei avuto più tempo. Il 23 giugno (siamo nel 2009) Danilo è morto. Non so spiegare il mio stato d’animo quel giorno. Mi sentivo persa. Era come se una parte della mia vita e del mio cuore fosse volata via per sempre. Eppure lui era ancora lì, dentro la bara, nell’ospedale, ricoperto di accessori sportivi della sua Roma, ricoperto di lacrime e di fiori. Era ancora nella chiesa, davanti all’altare, al cospetto di un Dio misterioso e davanti a una platea che lo piangeva senza conoscerlo davvero. 
 
Volevo gridare, volevo correre finchè le gambe non mi avessero fatto male, volevo sferrare pugni al muro, volevo cacciare via tutti, volevo piangere. Non riuscii a fare niente. Mi limitai a trascinarmi tra le persone, nel corteo funebre, e a riprendere la mia vita da dove l’avevo interrotta quello stesso pomeriggio, quando aveva squillato il telefono e avevo saputo.
 
Nei giorni seguenti pensai solo a lui, con un senso di vuoto, con rimorsi, e mille domande. Non accettavo la sua morte. Ero tormentata da quello che era accaduto e avevo paura che quel senso di angoscia mi avrebbe accompagnato per molto altro tempo.
 
Invece, circa una settimana dopo, rividi improvvisamente Danilo. Era in piedi, vicino a me. Corremmo in riva al mare, ci rotolammo sul prato fiorito, galoppammo in sella alle nuvole, urlammo dalla cima di una montagna, ed eravamo felici come quando giocavamo nel viale.  Ora, poteva farlo! Mi resi conto che era anche più alto di me: cosa che non potevo notare quando era sulla carrozzella. Era magnifico, il mio sogno si era avverato.
 
Eppure, come d’un tratto, si infilò violentemente nella mia testa il ricordo del funerale, della sua morte, e mi sentii frastornata. Non poteva essere qui, con me, se era morto. Mi domandò cosa avessi, e gli dissi i miei pensieri. Il suo viso si illuminò di un sorriso buono, sincero: disse che mi aveva portato con sé per avverare i nostri sogni di tanti anni fa, perché ora poteva fare tutto, molto più di tutti, e ne era particolarmente soddisfatto. Poteva anche volare.
 
Io continuavo a non capire cosa stesse accadendo. Mi disse che non dovevo preoccuparmi. Mi prese la mano, mi portò davanti a casa sua e disse: “Ora sarò qui, per sempre. Non posso abbandonare la mia famiglia, devo proteggerli ed amarli come hanno sempre fatto con me. Ma, se avrai bisogno di me, sai dove trovarmi. Io per te ci sarò sempre e ti vorrò sempre bene. Sei stata una grande amica, non mi perderai mai”.
 
Continuavo  a non capire.
 
“Capirai. Ti chiedo solo un’ultima cosa: vai a trovare mia madre, raccontale delle nostre avventure, di come sto bene, di come continuo ad amarla anche se sono morto, di come sarò sempre accanto a lei, a papà, e a mia sorella. E un giorno cammineremo insieme”.
 
Entrò in casa, alzò il braccio, agitò velocemente la mano da dietro il vetro della porta, con il solito sorriso, e sparì. Io mi sentii trascinata vorticosamente nel vuoto. Lentamente mi ritrovai ad aprire gli occhi e mi sorpresi di essere a casa, nel letto, e nella realtà. Eppure non mi colpì un senso di delusione o di tristezza: mi invase una profonda sensazione di pace.
 
Forse è stato solo un sogno, come la maggior parte della gente potrebbe pensare. Ma a me piace credere che sia accaduto realmente un miracolo. Il senso di angoscia mi è svanito. Ora, so che Danilo è felice e questo basta a calmare l’egoismo di volerlo ancora in questa vita. So che la nostra amicizia non è finita. Certi legami non si piegano sotto la forza del tempo e del cambiamento. Restano vivi dentro, donando la speranza di ritrovarli, prima o poi.
 
Accadrà. Lo so. Lo sento. E, un giorno, cammineremo insieme.
 
                                                                             (Fonte: PremioPrato, da autrice anonima)
 


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