Racconti di vita

CAFFE' FELICITA'?

Vite perdute? Povera umanità che non ha trovato chi la illuminasse e riscaldasse nello spirito? Un filo di malinconia prende l'anima quando si segue un racconto dal vivo, come questo, che propone anche una riflessione di possibile nostra eccessiva “distrazione” quotidiana per tante situazioni di autoabbandono umano e sociale presenti intorno a noi, spesso non rumorose. Valutate voi. Il racconto è comunque vero, come al solito è per i nostri.
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Non è buona cosa passare molte ore al caffè a giocare a carte. Si beve per forza e quando mi rendo conto che ho esagerato è sempre troppo tardi; e capita quasi tutte le sere. Me lo diceva sempre Teresa, la mia povera moglie (pace alla sua anima brontolona!). Del resto non rimane che questo, dopo il tramonto, ed io il mio tramonto di vita l’ho passato da un pezzo: sarei già dovuto essere morto da tempo, oramai, ma non mi decido; e poi cos’è il tempo? Forse della sabbia che precipita da un vetro strozzato e qualcuno ad un certo punto capovolge l’attrezzo e tu hai chiuso, e qualcun altro prenderà il tuo posto al tavolo, comprese le tue carte, fino al compimento del suo turno. Per quello che ne so, potrei anzi essere già trapassato e non essermi accorto di niente, senza dolore, magari nel sonno, ed ora forse sto vivendo nello specchio di un cosmo parallelo, insieme con gli altri tre ubriaconi con i quali solitamente mi gioco una bottiglia o due fumando sigarette scadenti senza filtro.
Giacomo, il gestore del caffè, che tutti chiamano Giacomino, quello sì che è morto: o almeno pare. E’ piccolo, pallido, piegato, per la sua spina dorsale malata, in un umiliante perenne inchino. In bocca gli mancano parecchi denti e quando parla sputacchia dappertutto. Ma è buono come il pane e se fossimo davvero in paradiso certamente sarebbe un angelo. Chi ha mai detto che gli angeli sono accecanti di bellezza celeste? Giacomino è orribile come una macchia di vomito sul marciapiede, come quelle che ogni tanto lascio anch’io sulla via di casa; ma è buono, parla sempre a voce bassa e le bottiglie da litro le riempie sempre più del necessario.

Il suo locale per il vero è uno schifo, in via Gasparo da Salò (quello del violino). Sulla strada si apre una piccola vetrina con due ripiani d’alluminio; vi sono tre ceste di caramelle scartate, un poco di liquirizia in forma di omino od arrotolata come una stringa attorno ad una pallina di zucchero rosso, poi bustine di figurine sparpagliate a caso; e nient’altro. Accanto alla vetrina, una porta di vetro e di ferro scuro, che, aprendosi, fa tintinnare una campanella come quella dei chierichetti in chiesa: ma è inutile, la porta cigola da sempre sui cardini e, quando qualcuno entra, lo si sente inevitabilmente, anche per il freddo che penetra. Dalla porta si scendono quattro gradini di pietra e il caffè non è che uno stanzone: a destra il banco e in mezzo, sul pavimento di vecchie piastrelle di cotto, cinque o sei tavoli (non li ho mai contati). Tavoli di legno sudicio, impregnato di vino disegnato in cerchi spezzati. Sulle pareti gialle, due calendari di anni passati, dai quali ci guardano belle donne fetenti, felici di vederci bere da tanto lontano.

Giacomino spunta appena da dietro il bancone, con le spallucce rachitiche e la testa dai capelli corti e ricci color sale e pepe. Ha il viso segnato da rughe profonde sulla fronte e tutto intorno alla bocca: la vita deve averlo castigato, quel pover’uomo. Prende le ordinazioni con garbo, scoprendo i suoi denti disordinati, e in silenzio porta le bevande ai tavoli, su vassoi di latta. Non credo di averlo mai visto arrabbiato o semplicemente inquieto; la settimana scorsa mi ha fatto anche credito e devo ancora pagarlo. Con tutta la cagnara che facciamo dalla mattina fino a notte inoltrata, avrebbe potuto mandarci al diavolo almeno una volta, invece niente! C’è quel Lofaro, ad esempio, che gioca al tavolo vicino al nostro, con altri del suo paese, e urla come un maiale dalle giugulari recise quando perde anche pochi centesimi; o, se vince, canta canzonette in un dialetto che non mi sono mai preoccupato di capire. Giacomino lascia fare. Ogni tanto, se non è preso dalle sue faccende, afferra uno sgabello e vi sale sopra per aprire una finestrella, protetta da due sbarre incrociate, che dà sul retro, in un cortile umido: così esce dalla stanza un po’ di fumo e di quel fetore di caffè e vino appena infiascato che ristagna nel locale. Mi rendo conto che non è cosa da signori ma molti di questi rottami umani, me compreso, bestemmiano.  Certo il buon Dio mi chiederà, arcigno in volto, di riparare un giorno. Se avrò tempo e voglia lo confesserò al prete quando porterà l’olio santo vicino al mio letto di morte, quello bello, appartenuto al mio nonno garibaldino, una delle poche cose che non mi sono ancora venduto. Giacomino non approva che noi si maledica tutta la sacra famiglia e, quando ne sente una grossa, inarca le sopraciglia scuotendo la testa mentre continua ad asciugare bicchieri.

Talvolta, quando le sere invernali sono particolarmente fredde e piovose, Giacomino tollera che io ceni lì con lui. Dietro il bancone si apre una porticina che un tempo doveva essere stata dipinta di bianco: da lì si scende ad un altro buio stanzone dove l’omino conserva le damigiane pronte per essere infiascate, un fornello a gas e un tavolo. Si mangiano soltanto uova sode con il sale, qualche fetta di salame e, quando va bene, polenta abbrustolita. Per me è un lusso, perchè poi mi viene una sete tremenda e posso ricominciare a bere alla faccia della mia coscienza. E’ una delle rare occasioni che mi capitano di parlare con lui, anche se, in verità, lui parla poco dei fatti suoi.

Racconta episodi minimi, piccole tessere di un’esistenza che mi sforzo di collegare con le altre, ma sono ben lontano dall’avere anche una mezza idea di quello che è stata la sua vita. E’ abile, ma non certo con malizia, ad ottenere confidenze che peraltro non mi risulta faccia trapelare ad alcuno. Gli ho raccontato almeno tre volte le cose importanti della mia vita: la mia infanzia in campagna quando, come un cane sciolto, marinavo la scuola ma riconoscevo il proprietario di un nido a trenta metri, poi la guerra, i rastrellamenti, quindi, strano a dirsi, l’università a Padova e la fatica dello studio, gli anni di insegnamento di greco e di latino in un ginnasio di provincia, e poi Teresa e come l’ho perduta per una bastarda malattia polmonare. E infine la nausea, la voglia di lasciarsi vivere così come viene, fino ad ora, fino alle scodelle di minestrone che l’ente comunale di assistenza mi elargisce alle dodici di ogni giorno. Faccio la fila con altri poveracci che puzzano di letame, rosi dalle tarme dei ricordi, e sono convinto che non gliene importi niente se domani è giovedì o domenica. Quasi nessuno parla o saluta, beccano il dovuto e arrivederci. Fanno schifo anche loro e questa volta non frega niente a me.

Ho scoperto che anche Giacomino ha moglie, o l’ha avuta. Una donna alta, non bella ma con molte pretese. Credo che si sia vergognata di un marito mal riuscito che s’andava ogni giorno stropicciando di più. Qualcun altro mi ha detto che ha pure una figlia, alta come la madre e brutta come lui, certamente andata a vivere altrove. Non è una gran compagnia, Giacomino, ma non bestemmia, beve e fuma con moderazione e non sparla di clienti e di compaesani. Quanto alle donne mi sento di escludere che ce ne sia una, oltre alla fantasmatica moglie. Tuttavia con lui sto bene, ho cominciato a pensare che potrebbe essere un buon amico. L’ho creduto del vino e delle femmine sudaticce dei bordelli, ma sono tutte balle da mentecatti. Giacomino invece è proprio un angelo, se è di buon umore è capace anche di offrirti da bere.
Da qualche settimana capita che la domenica pomeriggio passi nella via un bambino, che avrà sette od otto anni. Si ferma davanti alla vetrina, guarda quel che c’è, sempre le stesse cose, poi si ficca le mani in tasca e se ne va di buon passo. Porta i pantaloni grigi fino al ginocchio, calzettoni candidi e giacca blu sempre a misura: deve per forza avere una nonna che fa la sarta, o una zia. Da queste parti infatti non abbiamo famiglie ricche. L’ho notato un giorno mentre stavo calando un re di bastoni (perdevo, come al solito). Il ragazzino si era fermato a guardare nella vetrina, ma non sembrava avere interesse per caramelle o liquirizie; piuttosto osservava le bustine di figurine e pareva almanaccare qualcosa tra sé. Non credo che gli altri disgraziati ci abbiano fatto caso ma, se l’avessero osservato, avrebbero notato i suoi occhi scuri e vivaci e i suoi capelli a spazzola rossicci.

Certo era gracilino, uno di quelli che, nel campetto dei preti, sta da solo a guardare gli altri che giocano al pallone o si scazzottano lordandosi i vestiti. Quanto alle figurine, ne sono sicuro, non le comprava perché non aveva un soldo. Mi sembra di vederlo, là nel prato vicino alla chiesa, con il libro del catechismo in tasca, uno di quei libri che rappresentano i peccati mortali come macchie d’inchiostro sul cuore e quelli veniali come puntolini. Non ho mai saputo come si chiamasse quel bambino ma, in cuor mio, spero si chiami Gianni, non perché mi ricordi qualcuno ma perché è un nome semplice, facile da appiccicare a chiunque. Anche Giacomino lo ha notato. La domenica, verso le due, pare lo aspetti. A quell’ora non siamo mai in molti nel locale, i più fortunati fra noi infatti hanno uno straccio di famiglia e fanno tardi a tavola, epicurei come sono. Talvolta siamo solo io e quel brutto angelo. Di solito leggo il giornale, quell’altro non so neppure se sappia scrivere. Gianni arriva puntuale alle due meno dieci, guarda oltre il vetro e si mangia con gli occhi qualche bustina odorosa di caolino. Poi se ne va, e mi pare sereno.
Domenica scorsa Giacomino ha aperto la porta e lo ha chiamato dentro. Gianni è sceso dalla scaletta soltanto per due gradini, aveva certo timore e doveva essere nauseato dal fetore del locale. I bambini vanno protetti, finchè si può, dalla vita; non gli si fa vedere quanto ci si può putrefare! Giacomino ha afferrato dalla vetrina un mazzetto di bustine e gliele ha regalate. Il bambino ha sorriso felice e anche noi eravamo felici. Si può per un attimo far felice qualcuno ed essere felici.
                                                                                                     
                                                                                                                   (Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)

 
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