Famiglie che potevano essere e non furono mai: a volte la guerra, soprattutto, a volte l’emigrazione, o altri drammi, sconvolgevano pensieri, disegni, sogni. In un mistero che su questa terra forse non si potrà mai chiarire.
*****
Lassù, sotto le falde del monte, si sentiva qualcuno cantare una canzone che diceva: “Questa notte laggiù nella valle…”. Era un canto che si confondeva col rumore di un rio gorgogliante fra i sassi, dentro il corso che s’era scelto da sempre fra abeti e larici, olmi e maggiociondoli.
Il canto era intermittente, una voce maschile cadenzata al ritmo di un passo montanaro. A volte diventava mormorio, soffio, o si mutava in fischio, come se il cantore si sentisse improvvisamente più leggero o la china del monte diventasse meno impervia. I rumori e le voci del bosco continuavano ad essere sottofondo di quella presenza canora: il tonfo di una pigna caduta dall’abete, lo scricchiolio causato da uno scoiattolo qua e là per i rami, il plaf-plaf di un ranocchio presso gli acquifoglio, lì alla “molinella”...
Sì, perché lassù l’uomo aveva costruito un leggero e semplice mulino di legno per lasciare un segno delle sue soste lungo l’acqua del rivo, un segno delle sue pause di riflessione in ogni passeggiata o scarpinada dentro quel bosco. Quelle pale, rozzamente abbozzate col coltello da tasca, giravano dentro il rivo e facevano saltare intorno zampilli e spruzzi d’acqua, e questi attiravano tanti passeri suoi amici, ai quali pure egli parlava o forse… confidava i suoi segreti. A quella polsa Luigi sostava spesso, e il cigolio ritmico della molinella, l’ombra dei noccioli, il sole che filtrava la mattina, creavano l’atmosfera adatta per pensare a Gianna. Luigi si sentiva parte dell’ambiente.
Solo lì era riuscito a dare ristoro alle sue urgenze, alle pene di giovane provato dalla guerra sul fronte delle Alpi Occidentali, verso Briga e Tenda, fra l’aggressione alla Francia e i bombardamenti notturni, la mancanza di notizie della sua famiglia e nessuno scritto della sua amata, e poi la cattura, l’internamento, le camminate di trasferimento obbligato in notturna, la ricostruzione delle casematte, la fame, i soprusi subiti dai prigionieri, poi gli inglesi, la fuga e l’avventuroso ritorno a casa, attraverso boscaglie interminabili per non essere rintracciati, i piedi che dolevano, la paura dei rastrellamenti, e infine… la morte di Gianna, lontana, in Argentina.
Quand’era nel bosco si trovava immerso in un’atmosfera panica, totalizzante, che gli incuteva rispetto per ogni cosa della natura. Lì conosceva quei grossi nidi che le formiche erigevano con cumuli di aghi di pino e piccoli stecchi, per un’intera stagione, con infaticabili andirivieni in file nere o rosse. Formiche che passavano fra sassi e sterpi, dritte alla fonte di risorse individuata quel giorno: per esse tutto procedeva senza alcuna distrazione o rottura di ritmo che non fosse un improvviso pericolo o la suola di un improvvido passante.
Il prato di primo mattino era come se fosse piumato per la guazza notturna: gli steli del fleon e delle graminacee erano chinati da una corona di perline trasparenti che, tutte assieme, formavano cuscini azzurrini sospesi sopra tutto quel verde. Luigi osservava e si soffermava rapito. Dentro sentiva un’urgenza sconosciuta tramutarsi in pensiero, parola, canto, grido. Si chinava a raccogliere dei fiori: erano a volte garofanini di monte, sfrangiati, posti lì su una balza, oppure entauree al bordo del sentiero, o borraggine azzurro-lapislazzulo. Doveva guardarsi però dai bombici che, già di buon mattino, stavano rumoreggiando in cerca di nettare.
Luigi voleva mettere quei fiori ad un capitello, sul sentiero verso le baite; lo faceva quasi tutte le domeniche. Un rito? No, piuttosto un sentimento d’abbandono, di fiducia in quel Sant’Antonio lì effigiato, stinto dal sole e dall’acqua piovana, protetto da due scorzi messi a capanna. Anche quel Toni lì conosceva la solitudine in cui Luigi si trovava nel corso della settimana; ma la domenica era un’altra cosa: nella sacca qualche frutto e un companatico, un filone di pane, e via in montagna, lungo la strada dei montanari dei legnaioli, dei malghesi che portavano le bestie all’alpeggio e le riportavano poi in valle alle loro stalle.
Giù in paese, al negozio, le sue clienti quando lo sentivano accennare ad un motivetto, o arrivava il suo canto dalla dispensa in cantina, gli dicevano: “Ma voi, Luigi, siete sempre contento! Cantate, cantate allegro! Beato voi! Chissà chi sarà la fortunata…” e qualcuna di mezza età, come ce n’erano tante nel dopoguerra, lanciava lì una proposta sospesa, sospesa in aria come un sentimento accennato ma puntuale, non dichiarato ma allusivo. “Cantate… Cantate… Cantate… Sempre allegro, voi, Luigi!”; ma non approfondivano i motivi di quel suo cantare e fischiettare preciso, di quel suo modo di scherzare, di quel suo rispondere evasivo. “Canto alla Lilly Marlene”, diceva a volte, ed indicava un grande quadro con la figura di una cantante o di un’attrice americana che sorrideva da un paesaggio West. Lei aveva il sorriso di Gianna, della sua Gianna che era andata lontana, in Argentina, con tutti i suoi fratelli, prima della guerra: la sua Gianna che doveva tornare, tornare per lui, proprio per lui…e poi gli avevano scritto che era morta, banalmente, per una polmonite.
La guerra con le sue mille facce, le sue tragedie, i suoi sconvolgimenti, aveva portato anche in lui, che era di forte tempra, confusione e tristezza senza fine. Riusciva in qualche modo a camuffare quelle momentanee prostrazioni reagendo con il canto o fischiettando proprio nei momenti “dei cupi abbandoni del cuore”. Tutti erano persuasi della sua allegria ed invece la sua pena a volte cresceva a dismisura e così si rifugiava a piangere nella cantina del suo negozio. Perciò la domenica, quando ancora tutta la parte alta del paese dormiva, fatto il sacco, infilava il sentiero ed era presto alle falde del bosco.
Poco dopo incominciava a sentirsi meglio: per tutto il giorno era un altro modo di essere. Nasceva dentro di lui una rassicurante certezza che fluiva nel canto e nel fischiettare modulato. Erano quelli i momenti nei quali comunicava con la sua Gianna e la sua Gianna di sicuro lo aiutava a trovare la strada per disfarsi di quel fardello che da tempo lo opprimeva. Il canto, che prima era affanno, sentimento angoscioso e inespresso, si faceva più disteso, armonioso, quasi un linguaggio gentile. E mutava: era adesso un fischio, ad esempio, che imprimeva alla canzone un’espressione precisa. Luigi era attento ai minimi scarti di note, a tutti i balzi e i rimbalzi della voce, ai passaggi del testo. Si serviva delle note per “comunicare oltre”, oltre le cime degli alberi, oltre i coni d’ombra che il sole proiettava sui viottoli del bosco, oltre l’affanno dei pensieri e dei ricordi, oltre oceano.
In quel breve paesaggio di vallette, di balze, d’ombrosi botri dirupati, arrivava infine al Ronco, sotto gli alberghi e le baite. Trovava quel riparo che placava, almeno per quel giorno, una spina dolorosa che gli si era conficcata in petto a quella tragica, improvvisa e maledetta notizia: “Giovanna è morta”.
Nel bosco tutto poteva estinguersi, almeno per ora, dolcemente, in quel mormorio d’acque e tonfi leggeri, nello zirlare di merli acquaioli, nel canto e nel fischiettare armonioso che egli rivolgeva, sempre con attenta misura alla sua Gianna.
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
*****
MM
*****
Il canto era intermittente, una voce maschile cadenzata al ritmo di un passo montanaro. A volte diventava mormorio, soffio, o si mutava in fischio, come se il cantore si sentisse improvvisamente più leggero o la china del monte diventasse meno impervia. I rumori e le voci del bosco continuavano ad essere sottofondo di quella presenza canora: il tonfo di una pigna caduta dall’abete, lo scricchiolio causato da uno scoiattolo qua e là per i rami, il plaf-plaf di un ranocchio presso gli acquifoglio, lì alla “molinella”...
Sì, perché lassù l’uomo aveva costruito un leggero e semplice mulino di legno per lasciare un segno delle sue soste lungo l’acqua del rivo, un segno delle sue pause di riflessione in ogni passeggiata o scarpinada dentro quel bosco. Quelle pale, rozzamente abbozzate col coltello da tasca, giravano dentro il rivo e facevano saltare intorno zampilli e spruzzi d’acqua, e questi attiravano tanti passeri suoi amici, ai quali pure egli parlava o forse… confidava i suoi segreti. A quella polsa Luigi sostava spesso, e il cigolio ritmico della molinella, l’ombra dei noccioli, il sole che filtrava la mattina, creavano l’atmosfera adatta per pensare a Gianna. Luigi si sentiva parte dell’ambiente.
Solo lì era riuscito a dare ristoro alle sue urgenze, alle pene di giovane provato dalla guerra sul fronte delle Alpi Occidentali, verso Briga e Tenda, fra l’aggressione alla Francia e i bombardamenti notturni, la mancanza di notizie della sua famiglia e nessuno scritto della sua amata, e poi la cattura, l’internamento, le camminate di trasferimento obbligato in notturna, la ricostruzione delle casematte, la fame, i soprusi subiti dai prigionieri, poi gli inglesi, la fuga e l’avventuroso ritorno a casa, attraverso boscaglie interminabili per non essere rintracciati, i piedi che dolevano, la paura dei rastrellamenti, e infine… la morte di Gianna, lontana, in Argentina.
Quand’era nel bosco si trovava immerso in un’atmosfera panica, totalizzante, che gli incuteva rispetto per ogni cosa della natura. Lì conosceva quei grossi nidi che le formiche erigevano con cumuli di aghi di pino e piccoli stecchi, per un’intera stagione, con infaticabili andirivieni in file nere o rosse. Formiche che passavano fra sassi e sterpi, dritte alla fonte di risorse individuata quel giorno: per esse tutto procedeva senza alcuna distrazione o rottura di ritmo che non fosse un improvviso pericolo o la suola di un improvvido passante.
Il prato di primo mattino era come se fosse piumato per la guazza notturna: gli steli del fleon e delle graminacee erano chinati da una corona di perline trasparenti che, tutte assieme, formavano cuscini azzurrini sospesi sopra tutto quel verde. Luigi osservava e si soffermava rapito. Dentro sentiva un’urgenza sconosciuta tramutarsi in pensiero, parola, canto, grido. Si chinava a raccogliere dei fiori: erano a volte garofanini di monte, sfrangiati, posti lì su una balza, oppure entauree al bordo del sentiero, o borraggine azzurro-lapislazzulo. Doveva guardarsi però dai bombici che, già di buon mattino, stavano rumoreggiando in cerca di nettare.
Luigi voleva mettere quei fiori ad un capitello, sul sentiero verso le baite; lo faceva quasi tutte le domeniche. Un rito? No, piuttosto un sentimento d’abbandono, di fiducia in quel Sant’Antonio lì effigiato, stinto dal sole e dall’acqua piovana, protetto da due scorzi messi a capanna. Anche quel Toni lì conosceva la solitudine in cui Luigi si trovava nel corso della settimana; ma la domenica era un’altra cosa: nella sacca qualche frutto e un companatico, un filone di pane, e via in montagna, lungo la strada dei montanari dei legnaioli, dei malghesi che portavano le bestie all’alpeggio e le riportavano poi in valle alle loro stalle.
Giù in paese, al negozio, le sue clienti quando lo sentivano accennare ad un motivetto, o arrivava il suo canto dalla dispensa in cantina, gli dicevano: “Ma voi, Luigi, siete sempre contento! Cantate, cantate allegro! Beato voi! Chissà chi sarà la fortunata…” e qualcuna di mezza età, come ce n’erano tante nel dopoguerra, lanciava lì una proposta sospesa, sospesa in aria come un sentimento accennato ma puntuale, non dichiarato ma allusivo. “Cantate… Cantate… Cantate… Sempre allegro, voi, Luigi!”; ma non approfondivano i motivi di quel suo cantare e fischiettare preciso, di quel suo modo di scherzare, di quel suo rispondere evasivo. “Canto alla Lilly Marlene”, diceva a volte, ed indicava un grande quadro con la figura di una cantante o di un’attrice americana che sorrideva da un paesaggio West. Lei aveva il sorriso di Gianna, della sua Gianna che era andata lontana, in Argentina, con tutti i suoi fratelli, prima della guerra: la sua Gianna che doveva tornare, tornare per lui, proprio per lui…e poi gli avevano scritto che era morta, banalmente, per una polmonite.
La guerra con le sue mille facce, le sue tragedie, i suoi sconvolgimenti, aveva portato anche in lui, che era di forte tempra, confusione e tristezza senza fine. Riusciva in qualche modo a camuffare quelle momentanee prostrazioni reagendo con il canto o fischiettando proprio nei momenti “dei cupi abbandoni del cuore”. Tutti erano persuasi della sua allegria ed invece la sua pena a volte cresceva a dismisura e così si rifugiava a piangere nella cantina del suo negozio. Perciò la domenica, quando ancora tutta la parte alta del paese dormiva, fatto il sacco, infilava il sentiero ed era presto alle falde del bosco.
Poco dopo incominciava a sentirsi meglio: per tutto il giorno era un altro modo di essere. Nasceva dentro di lui una rassicurante certezza che fluiva nel canto e nel fischiettare modulato. Erano quelli i momenti nei quali comunicava con la sua Gianna e la sua Gianna di sicuro lo aiutava a trovare la strada per disfarsi di quel fardello che da tempo lo opprimeva. Il canto, che prima era affanno, sentimento angoscioso e inespresso, si faceva più disteso, armonioso, quasi un linguaggio gentile. E mutava: era adesso un fischio, ad esempio, che imprimeva alla canzone un’espressione precisa. Luigi era attento ai minimi scarti di note, a tutti i balzi e i rimbalzi della voce, ai passaggi del testo. Si serviva delle note per “comunicare oltre”, oltre le cime degli alberi, oltre i coni d’ombra che il sole proiettava sui viottoli del bosco, oltre l’affanno dei pensieri e dei ricordi, oltre oceano.
In quel breve paesaggio di vallette, di balze, d’ombrosi botri dirupati, arrivava infine al Ronco, sotto gli alberghi e le baite. Trovava quel riparo che placava, almeno per quel giorno, una spina dolorosa che gli si era conficcata in petto a quella tragica, improvvisa e maledetta notizia: “Giovanna è morta”.
Nel bosco tutto poteva estinguersi, almeno per ora, dolcemente, in quel mormorio d’acque e tonfi leggeri, nello zirlare di merli acquaioli, nel canto e nel fischiettare armonioso che egli rivolgeva, sempre con attenta misura alla sua Gianna.
(Anonimo, PremioPratoRaccontiamoci)
*****
MM
Condividi questo articolo