Le nostre chiese sono vuote?
Lo sento ripetere spesso, da tanti e da tanto tempo: l’ho sentito ripetere anche a ridosso della Pasqua appena trascorsa, come se quel gran giorno, con le sue chiese piene, fosse stato poco più che una felice eccezione; ma ho l’impressione che si tratti di una lamentela reiterata con eccessiva criticità e con troppa indistinzione di tempi e di luoghi. Non ho la stessa impressione di vuoto, insomma, o non ce l’ho così uniforme.
Comunque non era certo vuota, nel corso della settimana santa da poco passata, la chiesa che frequento di solito. Per il vero, anzi, essa è piena proprio ogni domenica dell’anno, a entrambe le messe della mattina. Quest’anno, poi, per la domenica delle palme, in particolare, la folla dei fedeli traboccava addirittura un metro al di fuori di tutte e tre le porte d’ingresso, e tutte e tre le navate interne hanno continuato a riempire i loro banchi di fedeli lungo i giorni successivi, fino alla straripante domenica pasquale e dopo.
C’è ancora molta religiosità, fra noi: di diverse motivazioni e di diverse intensità e colorazioni, piuttosto; ed è su questo punto che, in realtà, mi pare si propongano alla nostra riflessione quesiti particolarmente impegnativi e talvolta eccessivamente trascurati.
Ad esempio, un piccolo episodio ricorrente continua a incuriosirmi ogni anno, da tanto tempo, proprio il giorno della domenica delle palme: un piccolo episodio che torna invariabilmente a ripetersi, regolare come la campana di mezzogiorno, nella mia e in tutte le chiese che in tanti anni mi è capitato di frequentare per questa festività; l’ho notato perciò anche quest’anno.
Si tratta della ressa disordinata ai banchi nei quali, subito prima e subito dopo la messa, si distribuiscono i rami di ulivo benedetti.
La ressa, la folla, l’accalcamento, la gara, l’ansia inconfessata, l’entusiastico desiderio, il gesto tradizionale, il segno scaramantico, l’attesa, la momentanea dimenticanza dell’essenziale, l’euforia generale dell’ambiente specifico, chissà…
Fatto sta che in questo piccolo episodio ricorrente trovo in effetti una piccola ma significativa “prova del nove” della effettiva sostanza della Pasqua, e della partecipazione alla chiesa, per tanti di noi, o per alcuni di noi: la ressa per accaparrarsi i rami più belli dell’ulivo benedetto, i più grandi, i più frondosi, e per accaparrarsene non uno per sé ma più di uno, uno anche per i figli, uno per i nipoti, uno per i vicini di casa, uno per l’amica, uno in sovrappiù perché non si sa mai…
Cosa che, di per sé, costituisce buono e lodevole pensiero, naturalmente.
Ma il lato che mi lascia sempre nuovamente perplesso, e malinconicamente curioso alla ricerca di qualche eventuale indizio di cambiamento, è che la ressa, nel suo malcelato tentar di essere pure educata e rispettosa, di palesarsi senza escandescenze, è proprio “ressa”, e in quanto tale finisce oggettivamente per non avere quasi mai compassione né rispetto del prossimo più debole, quello che al rametto di ulivo giunge in ritardo, per debolezza di passo o per buona educazione.
Nella ressa ognuno agguanta il suo piccolo malloppo come una conquista, lo rende il più corposo possibile, e scappa via; qualcuno lascia l’obolo, qualcuno un sorriso, qualcuno un augurio di Buona Pasqua, qualcuno persino si sforza di fare spazio a chi viene dopo di lui: ma relativamente pochi, alla fine, lasciano una traccia esplicita, chiara, testimoniata, di solidarietà e comprensione, di tenerezza e generosità, per chi resta senza ramo di ulivo o deve accontentarsi dei rimasugli semidefoliati, quelli che proprio, anche nell’aspetto esteriore, non hanno neanche più la sembianza di rami di ulivo.
Beh, c’è poca Pasqua, in questo piccolo, particolare gesto della festa; poca Pasqua cristiana, almeno. C’è poco Gesù Cristo, poco di quel Gesù che subito dopo confessiamo tanto solennemente alla messa come il nostro Dio e Signore insieme con i nostri fratelli. E per questo, a volte, invece che sentirmi “felice come una pasqua” in tanto tripudio di rami, mi sento un po’ malinconico.
E mi vien da pensare, più o meno, rivolgendomi mentalmente a ciascuno dei miei fratelli di fede, e scoprendomi anche ogni tanto a distrarmi per un momento dalla messa: “Caro fratello (e soprattutto cara sorella, dato che in questa Milano-Sanremo liturgica mi pare empiricamente che le donne, e non quelle giovani, prevalgano di gran lunga): forse dovremmo ricordare con più attenzione il significato di quel ramoscello d’ulivo che stiamo prendendo in mano, ricordarlo davvero alla luce di quel giorno di duemila anni fa raccontato dal vangelo; e sentire perciò l’impulso che, se ne prendiamo uno per noi e per la nostra famiglia, e magari uno anche per il vicino di casa, dobbiamo però aver cura di lasciarne uno all’altra donnina che avanza più educata o meno muscolosa di noi nella ressa, o al giovane che per rispetto dell’età altrui si lascia sopravanzare ma osserva il banco che si svuota rapidamente lasciando per lui e per gli altri soltanto tronchicini defoliati…”. Perché essere cristiani, in quel momento, mi pare anche questo…
Insomma, domenica delle palme, anche quest’anno, e per questo piccolo aspetto… poco liturgica e molto rituale, poco cristiana e un po’ folclorica. O almeno, così a me sembra. Ci penso su, uscendo dalla chiesa. Mi accontento dei miei ramoscelli non foltissimi. Anzi, ne ho potuto prendere uno anche per le mie figlie. Sono davvero contento. E’ il segno della mia Pasqua. Il segno profondo, anche se solo simbolico, di quel Gesù nel quale credo e che ho davvero incontrato nella messa. No, non ho fatto e non farò mai la gara per i ramoscelli più belli e più folti.
Ma, durante la messa, mi è restato il pensiero fisso anche su come doveva essere la folla che osannava Gesù nella Gerusalemme storica di quell’anno primo della Pasqua cristiana, o meglio di quel primo anno di “festa delle palme”: c’era la ressa, anche allora, ed era fatta di appassionati di fede in attesa del messia promesso dai profeti, di discepoli del Battista dal cuore grande, di umile gente sincera del popolo e sbalordita dai miracoli di Gesù, e anche di un nugolo di curiosi, di pettegoli, di indifferenti, di ritualisti del tempio in gara per catturare un ramo di palma o di ulivo da tenere per ricordo perché “questo Gesù di Nazareth sta facendo parlare tanto di sé che, chissà, passerà alla storia, magari caccerà i romani dalla nostra terra, magari ci farà rivivere le glorie di Davide e di Salomone… il grande Israele… magari farà arrabbiare tanto i nostri sacerdoti e scribi perché, dopotutto, si dimostra più coerente di loro… E insomma… è importante esserci, oggi, è importante dire ai nipoti: “Vedi questa palma? E’ proprio del giorno in cui il nuovo re passava in mezzo a noi: e io c’ero, e ne ho catturato una anche per te, per tuo ricordo, perché io facevo il tifo per lui…”.
Tutto il resto, che lui sia Dio o non lo sia, che occorra davvero amare il prossimo come lui dice, che poveri e umili valgano davvero, davanti a Dio, come quelli del sinedrio, come lui sostiene… Beh, che importa tutto ciò? Apparenze, convenienze, riti, tradizioni… belle, giuste, ma, diamine, con un po’ di giudizio, senza esagerare…”.
Sì, siamo proprio noi, siamo proprio quelli, siamo uguali, ancora dopo duemila anni; anche nelle piccole cose. Anche nella gara per i ramoscelli d’ulivo in questo giorno di festa. Chissà, forse è anche per questo che il regno dei cieli dura tanta fatica ad affermarsi, anche fra noi credenti… Ancora dopo duemila anni non ci riesce… e ancora continuiamo a pensare che sia questione di miracoli tonanti, non anche della piccola vita quotidiana affidataci…
Lo so, ora voi mi direte: “Beh, a cosa ti attacchi, tu… a simili quisquilie… la gente è così, si sa, ma che c’entra con la Pasqua? Ci sono ben altri problemi… I musulmani… le scuole cattoliche… le elezioni con una lista di ispirazione cristiana…”.
Avete ragione. Forse. Lo sapete, del resto, che io sono fatto così. Non riesco a levarmi dalla testa che le cose piccole siano segnacolo di cose più grandi, che le une e le altre siano legate fra loro, che tutto anzi cominci forse dalle piccole… Mah!... sono fatto così…
Eppure: che grande spettacolo sarebbe stato, che predica silenziosa per i non credenti, che profumo di amicizia ed affetto avrebbe pervaso la chiesa, la piazza, gli estranei passanti, che misericordia fra noi… “Guarda… gente che si vuole bene, che si dà la precedenza anche per un ramoscello di ulivo… qualcosa di serio e di bello deve pur esserci, fra questi... di diverso da ciò che si vede fra gli altri…”.
Che bella Pasqua sarebbe! Questa, sì, da contrapporre con giusto orgoglio alle bombe di Bruxelles.
(Giuseppe Ecca)
Lo sento ripetere spesso, da tanti e da tanto tempo: l’ho sentito ripetere anche a ridosso della Pasqua appena trascorsa, come se quel gran giorno, con le sue chiese piene, fosse stato poco più che una felice eccezione; ma ho l’impressione che si tratti di una lamentela reiterata con eccessiva criticità e con troppa indistinzione di tempi e di luoghi. Non ho la stessa impressione di vuoto, insomma, o non ce l’ho così uniforme.
Comunque non era certo vuota, nel corso della settimana santa da poco passata, la chiesa che frequento di solito. Per il vero, anzi, essa è piena proprio ogni domenica dell’anno, a entrambe le messe della mattina. Quest’anno, poi, per la domenica delle palme, in particolare, la folla dei fedeli traboccava addirittura un metro al di fuori di tutte e tre le porte d’ingresso, e tutte e tre le navate interne hanno continuato a riempire i loro banchi di fedeli lungo i giorni successivi, fino alla straripante domenica pasquale e dopo.
C’è ancora molta religiosità, fra noi: di diverse motivazioni e di diverse intensità e colorazioni, piuttosto; ed è su questo punto che, in realtà, mi pare si propongano alla nostra riflessione quesiti particolarmente impegnativi e talvolta eccessivamente trascurati.
Ad esempio, un piccolo episodio ricorrente continua a incuriosirmi ogni anno, da tanto tempo, proprio il giorno della domenica delle palme: un piccolo episodio che torna invariabilmente a ripetersi, regolare come la campana di mezzogiorno, nella mia e in tutte le chiese che in tanti anni mi è capitato di frequentare per questa festività; l’ho notato perciò anche quest’anno.
Si tratta della ressa disordinata ai banchi nei quali, subito prima e subito dopo la messa, si distribuiscono i rami di ulivo benedetti.
La ressa, la folla, l’accalcamento, la gara, l’ansia inconfessata, l’entusiastico desiderio, il gesto tradizionale, il segno scaramantico, l’attesa, la momentanea dimenticanza dell’essenziale, l’euforia generale dell’ambiente specifico, chissà…
Fatto sta che in questo piccolo episodio ricorrente trovo in effetti una piccola ma significativa “prova del nove” della effettiva sostanza della Pasqua, e della partecipazione alla chiesa, per tanti di noi, o per alcuni di noi: la ressa per accaparrarsi i rami più belli dell’ulivo benedetto, i più grandi, i più frondosi, e per accaparrarsene non uno per sé ma più di uno, uno anche per i figli, uno per i nipoti, uno per i vicini di casa, uno per l’amica, uno in sovrappiù perché non si sa mai…
Cosa che, di per sé, costituisce buono e lodevole pensiero, naturalmente.
Ma il lato che mi lascia sempre nuovamente perplesso, e malinconicamente curioso alla ricerca di qualche eventuale indizio di cambiamento, è che la ressa, nel suo malcelato tentar di essere pure educata e rispettosa, di palesarsi senza escandescenze, è proprio “ressa”, e in quanto tale finisce oggettivamente per non avere quasi mai compassione né rispetto del prossimo più debole, quello che al rametto di ulivo giunge in ritardo, per debolezza di passo o per buona educazione.
Nella ressa ognuno agguanta il suo piccolo malloppo come una conquista, lo rende il più corposo possibile, e scappa via; qualcuno lascia l’obolo, qualcuno un sorriso, qualcuno un augurio di Buona Pasqua, qualcuno persino si sforza di fare spazio a chi viene dopo di lui: ma relativamente pochi, alla fine, lasciano una traccia esplicita, chiara, testimoniata, di solidarietà e comprensione, di tenerezza e generosità, per chi resta senza ramo di ulivo o deve accontentarsi dei rimasugli semidefoliati, quelli che proprio, anche nell’aspetto esteriore, non hanno neanche più la sembianza di rami di ulivo.
Beh, c’è poca Pasqua, in questo piccolo, particolare gesto della festa; poca Pasqua cristiana, almeno. C’è poco Gesù Cristo, poco di quel Gesù che subito dopo confessiamo tanto solennemente alla messa come il nostro Dio e Signore insieme con i nostri fratelli. E per questo, a volte, invece che sentirmi “felice come una pasqua” in tanto tripudio di rami, mi sento un po’ malinconico.
E mi vien da pensare, più o meno, rivolgendomi mentalmente a ciascuno dei miei fratelli di fede, e scoprendomi anche ogni tanto a distrarmi per un momento dalla messa: “Caro fratello (e soprattutto cara sorella, dato che in questa Milano-Sanremo liturgica mi pare empiricamente che le donne, e non quelle giovani, prevalgano di gran lunga): forse dovremmo ricordare con più attenzione il significato di quel ramoscello d’ulivo che stiamo prendendo in mano, ricordarlo davvero alla luce di quel giorno di duemila anni fa raccontato dal vangelo; e sentire perciò l’impulso che, se ne prendiamo uno per noi e per la nostra famiglia, e magari uno anche per il vicino di casa, dobbiamo però aver cura di lasciarne uno all’altra donnina che avanza più educata o meno muscolosa di noi nella ressa, o al giovane che per rispetto dell’età altrui si lascia sopravanzare ma osserva il banco che si svuota rapidamente lasciando per lui e per gli altri soltanto tronchicini defoliati…”. Perché essere cristiani, in quel momento, mi pare anche questo…
Insomma, domenica delle palme, anche quest’anno, e per questo piccolo aspetto… poco liturgica e molto rituale, poco cristiana e un po’ folclorica. O almeno, così a me sembra. Ci penso su, uscendo dalla chiesa. Mi accontento dei miei ramoscelli non foltissimi. Anzi, ne ho potuto prendere uno anche per le mie figlie. Sono davvero contento. E’ il segno della mia Pasqua. Il segno profondo, anche se solo simbolico, di quel Gesù nel quale credo e che ho davvero incontrato nella messa. No, non ho fatto e non farò mai la gara per i ramoscelli più belli e più folti.
Ma, durante la messa, mi è restato il pensiero fisso anche su come doveva essere la folla che osannava Gesù nella Gerusalemme storica di quell’anno primo della Pasqua cristiana, o meglio di quel primo anno di “festa delle palme”: c’era la ressa, anche allora, ed era fatta di appassionati di fede in attesa del messia promesso dai profeti, di discepoli del Battista dal cuore grande, di umile gente sincera del popolo e sbalordita dai miracoli di Gesù, e anche di un nugolo di curiosi, di pettegoli, di indifferenti, di ritualisti del tempio in gara per catturare un ramo di palma o di ulivo da tenere per ricordo perché “questo Gesù di Nazareth sta facendo parlare tanto di sé che, chissà, passerà alla storia, magari caccerà i romani dalla nostra terra, magari ci farà rivivere le glorie di Davide e di Salomone… il grande Israele… magari farà arrabbiare tanto i nostri sacerdoti e scribi perché, dopotutto, si dimostra più coerente di loro… E insomma… è importante esserci, oggi, è importante dire ai nipoti: “Vedi questa palma? E’ proprio del giorno in cui il nuovo re passava in mezzo a noi: e io c’ero, e ne ho catturato una anche per te, per tuo ricordo, perché io facevo il tifo per lui…”.
Tutto il resto, che lui sia Dio o non lo sia, che occorra davvero amare il prossimo come lui dice, che poveri e umili valgano davvero, davanti a Dio, come quelli del sinedrio, come lui sostiene… Beh, che importa tutto ciò? Apparenze, convenienze, riti, tradizioni… belle, giuste, ma, diamine, con un po’ di giudizio, senza esagerare…”.
Sì, siamo proprio noi, siamo proprio quelli, siamo uguali, ancora dopo duemila anni; anche nelle piccole cose. Anche nella gara per i ramoscelli d’ulivo in questo giorno di festa. Chissà, forse è anche per questo che il regno dei cieli dura tanta fatica ad affermarsi, anche fra noi credenti… Ancora dopo duemila anni non ci riesce… e ancora continuiamo a pensare che sia questione di miracoli tonanti, non anche della piccola vita quotidiana affidataci…
Lo so, ora voi mi direte: “Beh, a cosa ti attacchi, tu… a simili quisquilie… la gente è così, si sa, ma che c’entra con la Pasqua? Ci sono ben altri problemi… I musulmani… le scuole cattoliche… le elezioni con una lista di ispirazione cristiana…”.
Avete ragione. Forse. Lo sapete, del resto, che io sono fatto così. Non riesco a levarmi dalla testa che le cose piccole siano segnacolo di cose più grandi, che le une e le altre siano legate fra loro, che tutto anzi cominci forse dalle piccole… Mah!... sono fatto così…
Eppure: che grande spettacolo sarebbe stato, che predica silenziosa per i non credenti, che profumo di amicizia ed affetto avrebbe pervaso la chiesa, la piazza, gli estranei passanti, che misericordia fra noi… “Guarda… gente che si vuole bene, che si dà la precedenza anche per un ramoscello di ulivo… qualcosa di serio e di bello deve pur esserci, fra questi... di diverso da ciò che si vede fra gli altri…”.
Che bella Pasqua sarebbe! Questa, sì, da contrapporre con giusto orgoglio alle bombe di Bruxelles.
(Giuseppe Ecca)
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