“Contrattare, contrattare, contrattare”, ha insistito, anche in un comunicato recente, con entusiasmo comprensibile, un mio amico sindacalista, responsabile di una importante federazione nazionale di categoria.
Comprensibile, il suo entusiasmo, perché la filosofia della contrattazione collettiva è, in effetti, il tessuto solido di fondo delle relazioni sindacali positive e dei loro risultati di crescita, in un paese libero e democratico, pluralista e con ampia e sviluppata economia di mercato: come è appunto l’Italia. Se poi il sindacalista è di scuola Cisl, come nel nostro caso, la sensibilità contrattualista è anche, in particolare, il valore metodologico portante dell’azione sindacale.
Senonché, in un numero crescente di casi degli anni recenti, appare anche legittimo e doveroso chiedersi: “Sì, ma… contrattare che cosa? Contrattare con quale strategia di fondo? E con quali verifiche di lungo periodo? ”. E’ ricorrente infatti la impressione che il sindacalismo italiano sia venuto attestandosi in questi ultimi anni su una linea di contrattazione che, mentre sottolinea e difende il metodo, finisce spesso per impoverirlo di fatto in una sostanza di contenuti che per i lavoratori si riducono a miglioramenti salariali – a volte anche significativi se considerati insieme con gli elementi di salario in natura, o indiretto, o di benessere (di welfare aziendale, come dicono gli analfabeti) – e aggiustamenti degli inquadramenti, che lasciano però ben salda la briglia del cavallo aziendale in mano dell’imprenditore, al quale, in fondo, conviene essere anche generoso, spesso, sul piano salariale, purchè non si intacchi la struttura sostanziale del rapporto di lavoro e la sua subordinazione strutturale alla dominanza di un profitto d’impresa concepito in chiave quasi esclusivamente finanziaria.
Tant’è che si assiste altrettanto spesso, anche, al malinconico rituale della contrattazione sui “premi di risultato per l’anno concluso, su cassa dell’anno corrente”. Sono i cosiddetti “premi di produzione”, o “di risultato”. I lavoratori in genere gradiscono, naturalmente, ma non si rendono pienamente conto – né sembra rendersene pienamente conto il sindacato – che nel corso dell’anno han dovuto il più delle volte ingoiare tagli dei posti di lavoro o ristrutturazioni quasi unilaterali, che impoveriscono il patrimonio immateriale dell’azienda: ad esempio, l’efficienza dei servizi resi ai clienti nei casi di aziende in oligopolio.
Il che non significa che la contrattazione di questi anni sia negativa o priva di risultati: significa, semplicemente ma significativamente, che essa rischia, alla lunga, di assestarsi in una situazione strategica di galleggiamento da sopravvivenza piuttosto che di avanzamento graduale verso gli obiettivi di cointeressenza e corresponsabilità piena dei lavoratori nell’impresa.
Il riscontro di questa lunga partita è quel capitalismo finanziario ulteriormente forte, e quel peso del fattore lavoro ulteriormente debole, che constatiamo: cioè, nessun passo sostanziale in avanti in quella semplice civiltà del lavoro che esige appunto la trasparente condivisione dei profitti, delle perdite e delle decisioni.
Bene ha fatto, in questo senso, Giuseppe Bianchi – attraverso il suo sempre autorevole Istituto per le Relazioni Industriali – a ospitare la recente riflessione lucida di Giovanni Graziani, il quale analizza a fondo una delle realtà portanti della contrattazione sindacale europea che non arretra, cioè quella tedesca, per ricavarne qualche suggerimento utile. Orientato alla Mitbestimmung, cioè alla cogestione, il modello tedesco ha saputo mantenere molto forte la barra della sua cultura e della politica sindacale su una negoziazione che non si è lasciata addomesticare: si tratta di essere sostanzialmente corresponsabili delle dinamiche e del destino aziendale – e questo valore è da sempre anche nella cultura del sindacalismo democratico italiano – ma non rinunciatari rispetto all’obiettivo più strutturale del sindacalismo, cioè la piena partecipazione dei lavoratori nell’impresa. La quale non è affatto questione di premi di risultato né di riduzione dei tagli occupazionali. Giovanni Graziani prende ottimo spunto, in particolare, dall’autorevolissimo ultimo rinnovo contrattuale del settore metalmeccanico tedesco per proporre ai lavoratori ed ai sindacalisti italiani una lettura corretta del “modello tedesco”, a volte mal compreso o addirittura inconsapevolmente travisato, ai fini di una riflessione profonda e strutturale sulla ri-evoluzione auspicabile delle relazioni sindacali in Italia, che hanno alle spalle una tradizione ricca anche di periodi di grande forza ed efficacia.(Giuseppe Ecca).
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Capita così che l'esempio tedesco venga indicato sia da chi chiede salari più alti come da chi insiste per la moderazione salariale, da chi rivendica "le riforme" e la "flessibilità" del mercato del lavoro come da chi le teme o le rifiuta, da chi insiste sui temi della collaborazione e della partecipazione e da chi invece rilancia il tema del conflitto. Il che è sufficiente a far sospettare che nei nostro discorsi sulla Germania ci sia qualche difficoltà di traduzione, per cui ognuno parla di una "sua" Germania, di un'immagine che si è fatto per confermare delle proprie idee. E l'effetto è di fare dell'esempio tedesco nei discorsi italiani qualcosa di molto simile alla proverbiale notte in cui tutti i gatti sono egualmente bigi.
L'ultimo contratto dei metalmeccanici tedeschi però non si presta a equivoci: perché è chiaramente un contratto di aumento delle retribuzioni, e che contemporaneamente permette al lavoratore che lo desideri di accedere ad una significativa riduzione d'orario. Più salario per tutti, e (eventualmente) meno orario per qualcuno, con conseguenze inevitabili di aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Un contratto costoso per le imprese e vantaggioso per i lavoratori, che i sindacati hanno ottenuto con la minaccia dello sciopero ad oltranza e che le imprese hanno cercato di contrastare in tutti i modi, comprese le minacce di ricorso in Tribunale per chiedere risarcimento dei danni, salvo arrivare alla conclusione (visto che l'impresa capitalista è calcolo razionale a scopo di profitto) che uno sciopero in un momento in cui gli ordinativi sono tanti e le casse di resistenza dei sindacati sono piene, avrebbe avuto costi maggiori della firma di questo contratto, pur così oneroso.
Solo che a questo punto i tedeschi cominciano a fare un po' di paura all'Italia sindacale. Non a tutti, ma a quanti in Italia predicano da anni, e continuano a predicare in questi giorni, la moderazione salariale come paradigma senza alternativa sia quando le cose vanno male, perché allora non si possono caricare le imprese di costi non sopportabili, sia quando le cose vanno bene, perché il fatto che vanno bene è visto come la prova che la moderazione salariale funziona. Col risultato di rinviare il giorno in cui i lavoratori vedranno rafforzati i loro redditi al giorno di san nessuno.
Questa moderazione salariale in Italia è strutturale, a differenza che altrove, perché viene realizzata attraverso contratti nazionali pluriennali vincolati al rispetto di criteri decisi a livello interconfederale e rinnovati in base all'andamento reale o previsto dell'inflazione (in anni in cui l'inflazione tende a zero!) e rinviando gli aumenti legati alla produttività ad un livello aziendale dove sia le Rsu che le organizzazioni sindacali locali non hanno mostrato grande capacità di ottenere aumenti significativi (molti accordi aziendali si fanno in presenza di situazioni di crisi, quindi per definizione sono concessivi e non acquisitivi).
A quanti sta bene questo modello, e che approfittando del grigiore notturno sostengono falsamente che "anche in Germania si fa così", l'accordo conquistato dall'Ig Metall fa paura perché esprime invece una concezione forte del ruolo salariale del contratto di categoria che va in senso opposto al cammino percorso da noi, sia come tutela del lavoro, sia come incentivo al miglioramento della produttività (perché se il lavoro ti costa, cerchi di farlo rendere al massimo). E perché smentisce l'idea di una presunta tendenza su scala mondiale al decentramento spinto e incontrollato della contrattazione che, abbinato alla complessiva moderazione delle politiche salariali, sarebbe la chiave di ogni esperienza di successo e quindi anche della Germania (ma non è vero), condannando invece all'insuccesso tendenze opposte o anche solo non conformi al paradigma della moderazione salariale.
Qui però c'è un equivoco: leggere la politica contrattuale tedesca come una forma di decentramento spinto non corrisponde all'immagine di decentramento "organizzato" o "controllato" di cui ci parlano, invece, i tedeschi. La (prudente) flessibilizzazione del sistema tedesco di contrattazione non ha infatti mai preso le caratteristiche di una rinuncia alla funzione ordinante esercitata dal contratto di categoria attraverso la fissazione delle retribuzioni. E il coinvolgimento dei consigli d'azienda nella politica contrattuale non ha mai preso la forma di una rinuncia a quel primato dell'autonomia contrattuale collettiva che, per legge e per costume, compete alle organizzazioni sindacali e non agli organismi aziendali elettivi. Infatti, la regola tedesca è, e rimane, il salario fissato nel contratto di categoria, mentre le concessioni a livello aziendale sono un'eccezione, temporaneamente ammessa, soprattutto in funzione difensiva in situazioni di crisi. Il che rappresenta un sistema molto meno decentrato di quello che c'è da noi.
Si può fare a questo proposito l'osservazione che Peter Bofinger, uno dei "cinque saggi" consulenti del governo tedesco, ha fatto a proposito delle leggi Hartz di riforma del mercato del lavoro di Schröder: se fosse la limitazione nel tempo del sostegno finanziario ai disoccupati di lunga durata la ragione della crescita dell'occupazione tedesca, allora Italia e Grecia dovrebbe essere ancora più avanti sulla strada della piena occupazione; e se fosse la flessibilizzazione della tutela per il licenziamento senza giusta causa a favorire le assunzioni, non si capisce perché paesi che hanno tutele inferiori alla Germania non hanno gli stessi risultati.
Ed è così anche per la contrattazione: se in Italia dal 1993 abbiamo un sistema che prevede un livello aziendale di contrattazione competente a regolare le retribuzioni nell'ottica della crescita della produttività, ma poi la produttività tedesca in questi anni si è rafforzata mentre invece in Italia sono fermi la produttività e le retribuzioni, allora il decentramento di per sé non basta (e gli incentivi pubblici alle imprese per migliorare la produttività rischiano di creare dipendenza invece di risolvere il problema).
Solo che a questo sistema di moderazione salariale strutturale ci siamo abituati fino a considerarla come un destino ineluttabile, fino a non riconoscere l'esistenza di alternative. I sindacalisti di oggi rappresentano una generazione di contrattualisti più abituati ad applicare formule aritmetiche che a fare rivendicazioni di politica salariale, a strizzare il limone di un'inflazione che non c'è per rinnovare i contratti di categoria con i quali si finisce per consumare anche lo spazio che dovrebbe restare ai contratti aziendali; le confederazioni, comprese quelle datoriali, lavorano a costruire "modelli" con i quali imporre le regole uguali a realtà con andamenti economici e produttivi anche molto diversi, per difendere un ruolo che gli viene dalla tradizione più che dalle esigenze del presente; le rappresentanze sindacali unitarie elette nelle aziende non hanno lo spazio, la formazione, la capacità e gli strumenti per essere interlocutori autorevoli delle direzioni aziendali e per fare dentro ai sindacati quel che hanno fatto i rappresentanti dell'Ig Metall, cioè farsi portatori della domanda di flessibilità nell'orario che ha permesso di rivendicare e ottenere le 28 ore su richiesta di chi ne ha bisogno oltre al forte aumento salariale.
E questo non perché i tedeschi siano "più bravi", ma perché una quindicina di anni fa, dopo la crisi nazionale per i costi della riunificazione e prima della crisi mondiale, l'Ig Metall ha capito la necessità di tenere assieme politiche organizzative, politiche contrattuali e presenza nelle aziende attraverso i consigli (Organisationspolitik, Tarifpolitik und Betriebspolitik) nell'ottica del rafforzamento dell'organizzazione come chiave per rafforzare le politiche contrattuali ed impedirne l'erosione a livello aziendale. È il rafforzamento organizzativo, non il "modello contrattuale" e le sue (inutili?) riforme periodiche, o i (giusti) discorsi sul "sindacato 4.0" a permettere di fare una buona contrattazione, per gli interessi rappresentati e per il sistema paese.
Ecco perché i tedeschi ci fanno un po' paura: perché il loro esempio mette in dubbio che il modo burocratico di fare sindacato e contrattazione, l'applicazione di direttive e "modelli", o strumenti di calcolo tarati sulla moderazione nel quale è cresciuta un'intera generazione di sindacalisti sia il modo unico e senza alternative di fare politiche contrattuali. E perché dice ai sindacati che se vogliono avere il consenso e le adesioni dei lavoratori devono fare la fatica di riconvertirsi in organizzazioni capaci di rispondere alle esigenze dei rappresentati, con politiche salariali e contrattuali che non possono essere predeterminate in "modelli" concertati al centro che servono solo a perpetuare una moderazione salariale vista come destino ineluttabile.
Per fare buoni contratti bisogna far prima una buona organizzazione. E per farla, bisogna tornare a saper interrogare la propria base di riferimento e saper capire le domande che ne vengono per dare le risposte necessarie. Alla fine, i risultati potrebbero essere quelli che da anni cerchiamo di raggiungere facendo altre strade.
(Giovanni Graziani)
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