Viene chiesto a Democrazia Comunitaria, da diversi amici, di esprimere una posizione anche formale in materia di “autonomie differenziate”, oggetto di crescente dibattito politico e di conseguenti polemiche, in questo periodo, fra i diversi partiti.
Si tratta di un tema sul quale Democrazia Comunitaria ha in corso una elaborazione compiuta di analisi e proposta, ma non vi sono dubbi circa la sempre confermata sua posizione sostanziale in materia generale di autonomie, da cui è in realtà facile, anzi facilissimo, desumere quella specifica in materia di “autonomie differenziate”: Democrazia Comunitaria è assolutamente contraria al principio delle autonomie differenziate.
La ragione di tale contrarietà è logica, politica e culturale insieme: in un mondo sempre più globalizzato e sempre più interconnesso, in cui dunque anche l’Italia è sempre più globalizzata e interconnessa, le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. Le autonomie differenziate in effetti frantumano, dividono, differenziano appunto, e corrompono.
In altri termini: l’autonomia non è mai la libertà di vivere una condizione di diversità normativa o economica, più favorevole o meno favorevole, fra cittadini. E’ del tutto impensabile, ad esempio, che esistano procedure e oneri diversi, per il cittadino, in materia di accesso al servizi sanitario nazionale o alla scuola; è del tutto impensabile (come invece capita) che un certificato medico valga in Toscana e non valga in Puglia; è del tutto impensabile che in un liceo della Sardegna sia previsto il voto di condotta e in un liceo del Veneto no. Il cittadino italiano ha gli stessi diritti e gli stessi oneri in qualunque regione viva. Ma in qualunque regione viva (ed in qualunque comune, per alcuni profili della cittadinanza) il cittadino attraverso gli istituti di autonomia concorre più direttamente alla gestione di diritti e oneri, e al loro miglioramento. La comune italianità solidale di tutti non è indebolita, la personalità di ciascun cittadino, come singolo e come gruppi intermedi cui appartenga, è valorizzata dovunque egli viva.
In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, perché sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, e successivamente anche Friuli Venezia Giulia). Del resto, i semplici dati storici confermano che Sicilia e Sardegna, ad esempio, si sono servite della loro autonomia speciale per accrescere corruzione e inefficienza, mentre Veneto ed Emilia, ad esempio, si sono servite della loro autonomia ordinaria per realizzare il loro grande cammino di crescita. E’ problema di cultura e di buon uso delle autonomie, non di differenziazione delle autonomie! Lo dico anche da orgogliosamente sardo, immarcescibilmente sardo, testardamente sardo, entusiasticamente sardo, e sdegnosamente deciso a non avere connivenze con la parte marcia e corrotta della mia isola, vergognosamente e vigliaccamente nascosta nella retorica dell’autonomia speciale per continuare le sue abitudini parassitarie e le sue malcondotte amministrative.
Le regioni devono piuttosto, a prescindere dalla tipologia di autonomia definita in capo ad esse, venir sottoposte (cosa che finora non è stata fatta) a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche: infatti la notevolissima, e probabilmente eccessiva, mole di risorse che la stessa autonomia ordinaria affida alle regioni attualmente si è palesata densa di effetti corruttivi e di sprechi ampi e generalizzati. Vanno ridotti questi, non differenziata l’autonomia!
Né questa affermazione può essere, come tenta di essere, una scusa per cercar di mantenere in piedi le province, che avrebbero dovuto essere abolite fin dal 1970 in quanto anche per esse sono del tutto superate le ragioni storiche della loro esistenza: le province furono la creazione di un modello di decentramento burocratico-prefettizio dovuto alle precise e limitanti condizioni storiche in cui l’Italia venne a trovarsi nell’immediato post-risorgimento. Condizioni determinate contingentemente dalla improvvisa morte di Cavour e, con lui, del suo progetto naturalmente regionale, nonché dal conseguente indebolimento ed anche smarrimento della classe dirigente politica, che dovette orientarsi a un decentramento di fatto puramente burocratico, da affidare sostanzialmente alle prefettura come emanazione del potere centrale in funzione essenzialmente di controllo dell’unità nazionale ancora non consolidata. Del resto, anche sul piano psicologico, storico e culturale, uno si sente toscano e fiorentino, non si sente “della provincia di Firenze”; si sente sardo e di Orgosolo, non si sente “della provincia di Nuoro”; si sente “lombardo e milanese”, non “della provincia di Milano”. Le provincie non hanno identità, sono solo partizioni amministrative. E, ancora, chi pensi con attenzione troverà che nel periodo del loro maggior ruolo esse non furono certo una realtà meno clientelare e corrotta e burocratizzata dei comuni e dei ministeri.
Insomma, le autonomie sono un valore vero e doveroso e grande di potere partecipativo dei cittadini, non un pretesto per frantumare ancora di più il paese né per rinforzare corporazioni e potentati locali finalizzati all’acquisizione di ulteriori privilegi o alla ulteriore evasione dagli oneri della più complessiva comunità e solidarietà nazionale.
(Giuseppe Ecca)
Si tratta di un tema sul quale Democrazia Comunitaria ha in corso una elaborazione compiuta di analisi e proposta, ma non vi sono dubbi circa la sempre confermata sua posizione sostanziale in materia generale di autonomie, da cui è in realtà facile, anzi facilissimo, desumere quella specifica in materia di “autonomie differenziate”: Democrazia Comunitaria è assolutamente contraria al principio delle autonomie differenziate.
La ragione di tale contrarietà è logica, politica e culturale insieme: in un mondo sempre più globalizzato e sempre più interconnesso, in cui dunque anche l’Italia è sempre più globalizzata e interconnessa, le autonomie sono un immenso valore di democrazia, di personalismo, di solidarietà e sussidiarietà, e proprio per questo devono essere più che mai vere, forti, sostanziali, facilmente praticabili, tali da rinforzare uguaglianza, solidarietà e potere partecipativo fra cittadini nei confronti dello Stato: non devono invece mai essere fonte e pretesto di separatezza confonditrice fra normative e condizioni di cittadinanza. Le autonomie differenziate in effetti frantumano, dividono, differenziano appunto, e corrompono.
In altri termini: l’autonomia non è mai la libertà di vivere una condizione di diversità normativa o economica, più favorevole o meno favorevole, fra cittadini. E’ del tutto impensabile, ad esempio, che esistano procedure e oneri diversi, per il cittadino, in materia di accesso al servizi sanitario nazionale o alla scuola; è del tutto impensabile (come invece capita) che un certificato medico valga in Toscana e non valga in Puglia; è del tutto impensabile che in un liceo della Sardegna sia previsto il voto di condotta e in un liceo del Veneto no. Il cittadino italiano ha gli stessi diritti e gli stessi oneri in qualunque regione viva. Ma in qualunque regione viva (ed in qualunque comune, per alcuni profili della cittadinanza) il cittadino attraverso gli istituti di autonomia concorre più direttamente alla gestione di diritti e oneri, e al loro miglioramento. La comune italianità solidale di tutti non è indebolita, la personalità di ciascun cittadino, come singolo e come gruppi intermedi cui appartenga, è valorizzata dovunque egli viva.
In questo quadro, anzi, DemocraziaComunitaria conferma anche che è ormai maturato il tempo di abolire la differenziazione storica fra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria: tutte le regioni devono essere ricondotte alla medesima autonomia ordinaria prevista dalla Costituzione repubblicana, perché sono radicalmente superate le ragioni storiche che motivarono nel 1948 la nascita delle autonomie speciali in capo ad alcune di esse (Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, e successivamente anche Friuli Venezia Giulia). Del resto, i semplici dati storici confermano che Sicilia e Sardegna, ad esempio, si sono servite della loro autonomia speciale per accrescere corruzione e inefficienza, mentre Veneto ed Emilia, ad esempio, si sono servite della loro autonomia ordinaria per realizzare il loro grande cammino di crescita. E’ problema di cultura e di buon uso delle autonomie, non di differenziazione delle autonomie! Lo dico anche da orgogliosamente sardo, immarcescibilmente sardo, testardamente sardo, entusiasticamente sardo, e sdegnosamente deciso a non avere connivenze con la parte marcia e corrotta della mia isola, vergognosamente e vigliaccamente nascosta nella retorica dell’autonomia speciale per continuare le sue abitudini parassitarie e le sue malcondotte amministrative.
Le regioni devono piuttosto, a prescindere dalla tipologia di autonomia definita in capo ad esse, venir sottoposte (cosa che finora non è stata fatta) a più efficaci ed effettivi diritti di intervento, controllo e partecipazione da parte dei Comuni e dei cittadini, e dello stesso Stato, in materia di gestione delle risorse finanziarie ed economiche: infatti la notevolissima, e probabilmente eccessiva, mole di risorse che la stessa autonomia ordinaria affida alle regioni attualmente si è palesata densa di effetti corruttivi e di sprechi ampi e generalizzati. Vanno ridotti questi, non differenziata l’autonomia!
Né questa affermazione può essere, come tenta di essere, una scusa per cercar di mantenere in piedi le province, che avrebbero dovuto essere abolite fin dal 1970 in quanto anche per esse sono del tutto superate le ragioni storiche della loro esistenza: le province furono la creazione di un modello di decentramento burocratico-prefettizio dovuto alle precise e limitanti condizioni storiche in cui l’Italia venne a trovarsi nell’immediato post-risorgimento. Condizioni determinate contingentemente dalla improvvisa morte di Cavour e, con lui, del suo progetto naturalmente regionale, nonché dal conseguente indebolimento ed anche smarrimento della classe dirigente politica, che dovette orientarsi a un decentramento di fatto puramente burocratico, da affidare sostanzialmente alle prefettura come emanazione del potere centrale in funzione essenzialmente di controllo dell’unità nazionale ancora non consolidata. Del resto, anche sul piano psicologico, storico e culturale, uno si sente toscano e fiorentino, non si sente “della provincia di Firenze”; si sente sardo e di Orgosolo, non si sente “della provincia di Nuoro”; si sente “lombardo e milanese”, non “della provincia di Milano”. Le provincie non hanno identità, sono solo partizioni amministrative. E, ancora, chi pensi con attenzione troverà che nel periodo del loro maggior ruolo esse non furono certo una realtà meno clientelare e corrotta e burocratizzata dei comuni e dei ministeri.
Insomma, le autonomie sono un valore vero e doveroso e grande di potere partecipativo dei cittadini, non un pretesto per frantumare ancora di più il paese né per rinforzare corporazioni e potentati locali finalizzati all’acquisizione di ulteriori privilegi o alla ulteriore evasione dagli oneri della più complessiva comunità e solidarietà nazionale.
(Giuseppe Ecca)
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