Quest’anno la tradizionale relazione della Banca d’Italia è caduta sotto silenzio per la coincidenza con una situazione di grave crisi politica. Eppure si tratta di una voce autorevole in grado di fornire alcuni punti fermi nella transizione in atto.
La constatazione da cui partire è che l’Italia da un quarto di secolo ha perso il passo dei principali paesi europei. Una bassa crescita economica, una elevata disoccupazione (soprattutto giovanile), nuove sacche di povertà. La causa va individuata nel prolungato ristagno della produttività, l’indicatore che misura la capacità di innovazione del sistema produttivo e dell’intera società. All’origine di questo ristagno ci sono i noti ritardi strutturali (pubblica amministrazione, giustizia, infrastrutture materiali ed immateriali) resistenti ad ogni riforma perché i grumi di interessi a loro difesa sono più forti della stessa politica.
La politica è così venuta meno all’obiettivo di accrescere il reddito ed il benessere dei cittadini, penalizzando le fasce più deboli della popolazione. Questa insoddisfazione ha portato al governo due movimenti politici (Lega, 5 Stelle) premiati da una offerta elettorale quanto mai generosa che ora dovrà fare i conti con quanto il paese può realmente permettersi in funzione delle risorse economiche attivabili e con quanto consentito dal sistema di alleanze in cui è collocato, a livello europeo ed internazionale.
Due sono i punti fermi forniti dalla relazione della Banca d’Italia che meritano di essere tenuti presenti.
Il primo è rivolto soprattutto alla nuova classe di governo: il destino dell’Italia è il destino europeo. Certo l’Unione Europea deve rivedere i suoi strumenti di intervento e crearne di nuovi perché, come avvenuto con la nascita degli stati nazionali, la sua sovranità sarà legittimata quando i suoi cittadini si riconosceranno in interessi comuni. Un obiettivo di non breve periodo che richiederà correzioni di percorso ma è illusorio pensare che un solo Paese possa raddrizzare con l’ascia il legno storto su cui si regge l’attuale Unione Europea. Non c’è alternativa ad un paziente lavoro di lima con cui risaldare quanto ci unisce e risagomare quanto ci divide.
Il secondo punto fermo è rivolto alla classe politica e alle parti sociali. Riguarda il nodo vizioso che lega bassa produttività-bassa qualità del capitale umano. Siamo di fronte alle nuove sfide dell’economia digitale, una opportunità da non perdere per recuperare capacità di crescita. I problemi che si pongono sono tanti: ricapitalizzare il lavoro dal lato delle competenze, rivitalizzare le istituzioni preposte al funzionamento del mercato del lavoro, riorientare la contrattazione collettiva verso un condiviso recupero di produttività, reinserire l’economia dei lavoretti gestiti dalle nuove piattaforme tecnologiche nel sistema di welfare e del diritto del lavoro, tutelare socialmente quanti scartati o sostituiti dai robot.
Difficile sarà far capire alle nuove forze di governo, portatrici di una concezione totalizzante del potere, che la politica in tali campi dovrà fare i conti con le parti sociali che godono di autonome prerogative sottratte all’autorità dello Stato. Così come sarà difficile richiedere alle parti sociali una riconsiderazione delle loro strategie di tutela degli interessi rappresentati da riposizionare nella nuova economia digitale. Tenendo anche conto che la natura flessibile, articolata delle nuove tecnologie richiederà la ricerca di nuovi equilibri fra i meccanismi regolativi centralizzati ed i restanti strumenti di regolazione che fanno capo alle istituzioni locali.
La Banca d’Italia, al di là del suo mandato, è una risorsa per l’intero paese, soprattutto in un momento come questo nel quale le promesse elettorali devono essere trasformate in priorità di governo, con un contestuale riposizionamento dei diversi interessi collettivi che fanno parte della realtà economica e sociale del Paese. La percezione diffusa dello stallo in cui ci troviamo esige che il cambiamento tanto evocato non affondi di nuovo nel pantano. Anche perché non c’è in vista nessun Barone di Münchausen con la capacità di uscirne con le proprie forze. Meglio così perché il paese ha bisogno di realismo, non di ulteriore illusionismo.
La constatazione da cui partire è che l’Italia da un quarto di secolo ha perso il passo dei principali paesi europei. Una bassa crescita economica, una elevata disoccupazione (soprattutto giovanile), nuove sacche di povertà. La causa va individuata nel prolungato ristagno della produttività, l’indicatore che misura la capacità di innovazione del sistema produttivo e dell’intera società. All’origine di questo ristagno ci sono i noti ritardi strutturali (pubblica amministrazione, giustizia, infrastrutture materiali ed immateriali) resistenti ad ogni riforma perché i grumi di interessi a loro difesa sono più forti della stessa politica.
La politica è così venuta meno all’obiettivo di accrescere il reddito ed il benessere dei cittadini, penalizzando le fasce più deboli della popolazione. Questa insoddisfazione ha portato al governo due movimenti politici (Lega, 5 Stelle) premiati da una offerta elettorale quanto mai generosa che ora dovrà fare i conti con quanto il paese può realmente permettersi in funzione delle risorse economiche attivabili e con quanto consentito dal sistema di alleanze in cui è collocato, a livello europeo ed internazionale.
Due sono i punti fermi forniti dalla relazione della Banca d’Italia che meritano di essere tenuti presenti.
Il primo è rivolto soprattutto alla nuova classe di governo: il destino dell’Italia è il destino europeo. Certo l’Unione Europea deve rivedere i suoi strumenti di intervento e crearne di nuovi perché, come avvenuto con la nascita degli stati nazionali, la sua sovranità sarà legittimata quando i suoi cittadini si riconosceranno in interessi comuni. Un obiettivo di non breve periodo che richiederà correzioni di percorso ma è illusorio pensare che un solo Paese possa raddrizzare con l’ascia il legno storto su cui si regge l’attuale Unione Europea. Non c’è alternativa ad un paziente lavoro di lima con cui risaldare quanto ci unisce e risagomare quanto ci divide.
Il secondo punto fermo è rivolto alla classe politica e alle parti sociali. Riguarda il nodo vizioso che lega bassa produttività-bassa qualità del capitale umano. Siamo di fronte alle nuove sfide dell’economia digitale, una opportunità da non perdere per recuperare capacità di crescita. I problemi che si pongono sono tanti: ricapitalizzare il lavoro dal lato delle competenze, rivitalizzare le istituzioni preposte al funzionamento del mercato del lavoro, riorientare la contrattazione collettiva verso un condiviso recupero di produttività, reinserire l’economia dei lavoretti gestiti dalle nuove piattaforme tecnologiche nel sistema di welfare e del diritto del lavoro, tutelare socialmente quanti scartati o sostituiti dai robot.
Difficile sarà far capire alle nuove forze di governo, portatrici di una concezione totalizzante del potere, che la politica in tali campi dovrà fare i conti con le parti sociali che godono di autonome prerogative sottratte all’autorità dello Stato. Così come sarà difficile richiedere alle parti sociali una riconsiderazione delle loro strategie di tutela degli interessi rappresentati da riposizionare nella nuova economia digitale. Tenendo anche conto che la natura flessibile, articolata delle nuove tecnologie richiederà la ricerca di nuovi equilibri fra i meccanismi regolativi centralizzati ed i restanti strumenti di regolazione che fanno capo alle istituzioni locali.
La Banca d’Italia, al di là del suo mandato, è una risorsa per l’intero paese, soprattutto in un momento come questo nel quale le promesse elettorali devono essere trasformate in priorità di governo, con un contestuale riposizionamento dei diversi interessi collettivi che fanno parte della realtà economica e sociale del Paese. La percezione diffusa dello stallo in cui ci troviamo esige che il cambiamento tanto evocato non affondi di nuovo nel pantano. Anche perché non c’è in vista nessun Barone di Münchausen con la capacità di uscirne con le proprie forze. Meglio così perché il paese ha bisogno di realismo, non di ulteriore illusionismo.
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