Cristiani e politica

IL SEME, IL LIEVITO E IL PICCOLO GREGGE

Il 5 dicembre 1998, venti ani fa, il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, offrì alla sua diocesi ed all’Italia uno dei suoi lucidi e profondi messaggi culturali e spirituali, e, derivatamente, anche politici. Era forse il vescovo più autorevole e ascoltato della Chiesa italiana, e certamente punto di riferimento stabile del collegio cardinalizio. Fra le sue esperienze culturali era stata la guida della prestigiosissima università Gregoriana, fra quelle pastorali la responsabilità della non meno prestigiosa diocesi ambrosiana: era comunque uomo con il quale si respirava orizzonte universale ed altissimo a prescindere dal ruolo. Così, i suoi messaggi pastorali restavano impressi di una particolare carica di richiamo all’impegno dei cristiani in tutti i campi della “città dell’uomo”, per dirla con una espressione cara a quel Sant’Agostino di cui il cardinale era attentissimo interprete.
 
Pubblichiamo qui, appunto, un suo discorso del dicembre 1998, particolarmente dedicato al tema dell’impegno dei cattolici italiani nella dimensione politica. Quando il cardinale teneva questo discorso, la storica Democrazia Cristiana aveva cessato di operare da sei anni e i cattolici erano già in ampia diaspora politica non priva di incertezze, che tuttora durano. E tuttora illuminante appare quella pacata e lucida riflessione sulla spiritualità del “piccolo seme” applicato alla realtà politica. Avvertiamo che si tratta di riflessione altamente intellettuale e rigorosamente consequenziale nel suo svolgersi: perciò indubbiamente impegnativa come lettura, al pari della tonalità sempre seguita dal cardinale, che mai si concedeva a retoriche facili, né laiche né clericali. Non ci si faccia rimprovero di questo riproporre un testo ben impegnativo: Studisociali non è pensato per diffondere cronaca ma piuttosto per suscitare riflessione ed impegno. (Giuseppe Ecca).
 
 
°°°°°
 
S. Ambrogio cita più volte nelle sue opere le due parabole di Luca,
sul grano di senapa e sul lievito.

Le tratta più ampiamente nel commento al terzo vangelo e le richiama
sia nelle Lettere come nel trattato sulla Penitenza.
Ricorda le diverse interpretazioni che se ne danno
ed espone una interpretazione cristologica
("Anche il Signore è un chicco di senapa... Semina anche tu Cristo nel suo orto";
Cristo è il lievito "perché fa aumentare la virtù che accoglie in sé")
 e una ecclesiologica (la Chiesa è la donna che
"nasconde il Signore Gesù nei più intimi recessi della nostra anima,
finché l'aspetto della sapienza celeste non si diffonda
nell'intimo santuario del nostro essere".
 
Come si vede, l’interesse di Ambrogio rimane in un ambito strettamente religioso e interiore.
Non sviluppa il significato che le parabole possono avere per il rapporto chiesa - mondo,
anche se vi fa un accenno nel commento a Luca dicendo:
"Nemmeno ho dubbi sull'interpretazione che certuni fanno di questa
immagine, applicandola a questo mondo, finché esso sia tutto fermentato nella Legge,
nei profeti, nel Vangelo, e così ogni lingua riconosca il Signore".
 
Non ritengo comunque contrario al pensiero di Ambrogio un allargamento del significato
delle metafore del piccolo seme e del lievito
al rapporto tra la Chiesa e la città, la Chiesa e la società.
Ambrogio infatti incarnava in sé e nella sua vicenda tale rapporto.
 
Nel tempo in cui fu chiamato alla cattedra episcopale,
la Chiesa di Milano non era certo maggioritaria nella metropoli,
e per di più era in sé divisa.
Lo stile della società era ben lontano dall'essere impregnato di cultura cristiana;
tuttavia Milano era una città percorsa da un bisogno di valori e di significati,
segnata dalla necessità di concordia tra i cittadini
e spinta da un'ansia di ripresa.
 
Queste aspirazioni dovettero essere non ultima causa del fatto
che un alto funzionario imperiale non ancora battezzato,
ma integerrimo, austero e sensibile, potesse assurgere alla cattedra episcopale.
Agli occhi del popolo lo accreditavano non soltanto virtù civiche,
bensì pure una certa carica di spiritualità, già leggibile nella sua storia e nei suoi atti di governo.
 
In ogni caso, la vicenda della sua acclamazione a vescovo dice
quanto fosse grande il bisogno di trovare un radicamento fondativo alle virtù civili
e una rassicurazione etica di tipo religioso nel degrado dei costumi sociali,
che si manifestava in particolare negli accumuli di ricchezze e nell'usura.
 
Ambrogio poteva quindi sentirsi nella città come un pezzetto di lievito
chiamato a far fermentare una massa
o come un piccolo seme da cui avrebbe dovuto germogliare
un albero capace di costituire
un punto di riferimento e di appoggio
per tanti bisogni civili e morali.

 
Fu proprio la coscienza della sua pochezza di fronte al grande compito
che lo spinse, secondo la leggenda, a fuggire errando per le campagne attorno a Milano,
per non addossarsi un peso che avvertiva superiore alle sue forze.
Immagino che in quel vagare notturno il Signore gli ispirasse
qualche parola simile a quella riportata dal vangelo secondo Luca (12,31):
"Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro di darvi il suo regno".
 
E' infatti alla piccolezza e inadeguatezza che viene offerta la grazia:
piccolissimo è il granello di senapa gettato nella terra,
poca cosa è il pugno di lievito nascosto nella pasta,
insignificante è il piccolo gregge di fronte alle mandrie sterminate.
Eppure anche la pochezza umana e l'apparente insignificanza storica,
lette alla luce della fede, possono diventare albero frondoso,
far fermentare una massa, rallegrare un pascolo.
 
Ispirandomi dunque alla figura di Ambrogio
nell'esitare di fronte a un compito più grande di lui,
nel sentirsi piccolo granello senza peso,
grumo di lievito senza colore,
pastore di un piccolo gregge,
vorrei trattare in questo discorso del rapporto tra una Chiesa cosciente della sua inadeguatezza 
e la società civile nel suo insieme.
Cercherò di rispondere a tre domande:
 
1. La Chiesa nella nostra società è oggi veramente "piccolo gregge", minuscolo seme?
 
2. Come la Chiesa deve vivere questa sua condizione di seme e di lievito?
 
3. Quali conseguenze ne derivano per il rapporto tra la Chiesa e la città e specificamente per l'impegno dei cristiani nella vita politica?
 
I. LA CHIESA E' OGGI PICCOLO GREGGE?
 
Vi sono motivi per rispondere senz'altro di no a questa domanda.
Nella nostra società è ancora alto il numero di coloro che chiedono il battesimo,
che si sposano in chiesa,
che vogliono i funerali religiosi.
Gli edifici adibiti al culto sono ben visibili e non pochi sono splendidi e prestigiosi.
Si può perciò parlare di una maggioranza cristiana e cattolica nella città.
Non dobbiamo tuttavia fermarci alle apparenze.
 
Secondo le statistiche il numero di coloro che
frequentano regolarmente la messa alla domenica è ridotto.
L'influenza pubblica dei pronunciamenti della Chiesa è scarsa,
soprattutto sul terreno morale.
Pochissimi sono i cristiani che, nelle parrocchie e nei gruppi,
si impegnano veramente a testimoniare il vangelo e a costruire la comunità.
 
Qualche anno fa parlavo di cristiani della linfa,
del tronco, della corteccia
e infine di coloro che come muschio
stanno attaccati solo esteriormente all'albero.
Ebbene, i cristiani della linfa, quelli cioè visibilmente coinvolti e partecipi
(sempre lasciando al Signore il giudizio sull'intimo dei cuori),
sono una percentuale bassa.
 
E non pochi sono oggi coloro che non cercano nel cristianesimo ma altrove
una risposta alle loro domande di senso.
Non ritengo opportuno insistere con le analisi statistiche, anche perché
queste cose non si lasciano
misurare con criteri puramente quantitativi.

Definirei in ogni caso la nostra situazione di Chiesa
Come quella di una minoranza impegnata e motivata
che porta il peso di una maggioranza che compie talvolta qualche gesto religioso
per abitudine e non per convinzione profonda e personale.
 
Se leggiamo questa situazione non tanto per le sue conseguenze nella vita interna della Chiesa,
ma per il ruolo della Chiesa nella città,
davvero possiamo dire che la Chiesa è oggi, per non pochi aspetti,
quello che Gesù chiamerebbe un piccolo gregge,

un minuscolo seme, un pugno di lievito.
E tale in realtà viene pure considerata dall'opinione pubblica.
 
Si attua così la condizione di una certa marginalità.
La Chiesa interessa poco ai mass media per ciò che è veramente la sostanza della sua vita;
interessa piuttosto per aspetti periferici, folcloristici,
o per il gusto di fantasticare su oscure dietrologie
e di presentare semplici dialettiche come penosi conflitti interni.
 
II. COME LA CHIESA DEVE VIVERE QUESTA SUA CONDIZIONE?
 
Rispetto a questo stato di cose sono possibili due reazioni opposte:
quella dell'amarezza e del lamento
e quella della lettura provvidenziale dei segni dei tempi.
 
1. La prima reazione è propria di quei cristiani che vivono con ansietà
la sensazione di essere circondati da forze ostili.

Il messaggio cristiano - lamentano - non viene magari direttamente avversato,
però a condizione che non fuoriesca nella città e non tenda a diventare costume civile;
e sottolineano come ogni manifestazione pubblica del messaggio evangelico
sia facilmente tacciata o di ingerenza o di spirito antimoderno.
Ritengono inoltre che il peso civile dei cristiani sia sottodimensionato
rispetto al merito e alla storia.
 
Da qui, talora, un linguaggio un po' incattivito e contrappositivo, "tertullianeo"
(un linguaggio di cui non ha bisogno il clima già sovreccitato della contesa politica)
o, al contrario, una depressione che dà luogo a un diffuso piagnisteo sterile,
come se il cristiano non sapesse che il messaggio evangelico sarà sempre eccedente
rispetto alle capacità dell'uomo - anche del credente - di accoglierlo nel suo cuore e nella sua città. Quindi che la legge della città sarà sempre inferiore alle attese cristiane.
 
2. A questo atteggiamento diffuso si contrappone la reazione propria di chi,
come Ambrogio al suo tempo,
legge il presente alla luce della fede.
Ambrogio, posto in una situazione di minoranza religiosa e culturale,
di fronte a un paganesimo culturalmente ancora forte
e di fronte a un arianesimo combattivo e appoggiato dal potere politico,
invita alla sobrietà composta della tolleranza,
raccomanda il "silenzio operoso",
quasi un "silenzio indaffarato" (negotiosum silentium),

richiama l'atteggiamento di Giuseppe in Egitto che tacque
"per essere difeso più dall'innocenza che dalla lingua" (Exh. virg., 88),
quello di Susanna a Babilonia, la quale in pericolo di morte,
"operò di più tacendo che se avesse parlato"
(quae plus egit tacendo quam si esset locuta: De off., I,9).
 
Una dose di non accettazione da parte della società è infatti ineludibile perché
costitutiva del cristianesimo e sempre anche un po' meritata dai cristiani.
Non per niente Giovanni Paolo II ha ripetuto
nella Bolla di indizione del Grande Giubileo "Incarnationis mysterium",
l'invito alla "purificazione della memoria",
chiedendo "a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere
le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di Cristiani" (n. 11).
 
Una situazione di una qualche marginalità sociale
e di non accettazione si può vincere non col lamento
che diventa egocentrico e infantile bisogno di rassicurazione esterna,
bensì con la sobrietà e la pazienza di chi vede in ogni tempo all'opera
le forze che mirano al bene dell'uomo
e insieme quelle che invece lo contrastano;
e confida nel Signore della storia.
Del resto non è in qualche modo la Chiesa destinata a
essere normalmente, nel suo cammino verso il Regno, in una condizione di minorità,
chiamata ad andare sempre oltre il presente,
a crescere non solo nel cuore degli uomini,
ma pure nella intelligenza di sé e del suo mistero,
e nell'apertura alla novità di un Dio sempre più grande
("Deus semper maior")?
 
Occorre perciò chinarsi con paziente magnanimità sulla nostra società
accettando l'umile missione di granello di senapa e di lievito
e la poca rilevanza del piccolo gregge.
Ciò non significa che non lottiamo con tutte le forze
in favore della libertà della persona e per il bene comune della città e della nazione,
poiché crediamo nella forza irresistibile del seme e dell'efficacia del lievito
e siamo consapevoli di avere cose essenziali
da dire e da offrire per l'intera società.
 
Porto due esempi di questo secondo atteggiamento,
uno sul terreno morale e uno sul terreno civile.
 
- Sul terreno morale è indubbio che l'enfasi sulla soggettività e sull'individuo
stia non semplicemente togliendo adesioni al messaggio, soprattutto etico, della Chiesa,
ma anche destrutturando la nostra società civile
rompendo il costitutivo senso relazionale dell'uomo a favore di una libertà individuale
sempre più fine a se stessa,
e portando così a galla i drammi dell'uomo rimasto solo con i suoi desideri.
 
Eventi attuali di cronaca confermano purtroppo tale stato di cose.
Forse da tale sensazione di solitudine nasce l'omaggio,
non solo strumentale,
che tante forze politiche di tutto il mondo esprimono al Papa e alla Chiesa,

da versanti ideologici diversi, considerando questa istituzione come capace,
nonostante le sue imperfezioni, di rigenerarsi,
di riconoscere le debolezze emergenti dell'uomo
e di chinarsi su di esse senza fini di potere.
 
Vedendola depositaria di una comprensione paziente dell'umano
molti intuiscono che nella Chiesa tutte le forze della città possono riconoscersi,
magari a prezzo di qualche selezione tra i valori che sostiene.
Infatti c'è chi ravvisa in essa il grembo che ha
custodito i valori dell'uomo singolo,
il quale, diventato centro decisionale autonomo, rimane pur bisognoso
di un grembo e di un riferimento;
e c'è chi la predilige perché custode dell'attenzione all'uomo relazionato,
che nella città ha bisogno di crescere per via di relazioni amicali
e di sostegni societari in grado di promuoverlo.
 
- Se dunque è grande l'opera che il piccolo pezzo di lievito è chiamato a compiere
sul terreno morale a favore della società,
significative sono pure le sue ricadute civili e politiche.
 
Faccio un esempio sul terreno della cultura e della scuola.
Ai cristiani sta molto a cuore il sistema educativo di una nazione
e tutto l'immenso campo dell'istruzione pubblica, statale e non statale.
La scuola costituisce infatti una risorsa primaria della nazione
e la sua qualità è specchio della maturità del paese.
Proprio per questo la Chiesa riconosce e proclama anche nel campo educativo
quel primato della libertà e della coscienza
che si esprime con la libertà scolastica e l'autonomia,
in una effettiva gestione paritaria del sistema scolastico integrato,
in un reale pluralismo di curricoli formativi
(aperti pure alle conoscenze religiose),
coinvolgendo la responsabilità delle famiglie.
 
Noi intendiamo difendere e promuovere una libertà per tutti
e un sistema veramente democratico per la formazione seria e vigorosa
della coscienza civile e sociale di una nazione;
a tale scopo siamo pronti ad affrontare volentieri qualche impopolarità
e qualche contraddizione.
E ci sentiamo anche in continuità con la
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo
che recita, all'articolo 26,3:
"I genitori hanno diritto di priorità nella scelta dell'istruzione da impartire ai propri figli".
 
III. QUALI CONSEGUENZE DERIVANO DALLA CONDIZIONE DI MINORANZA
PER IL RAPPORTO TRA LA CHIESA E LA CITTÀ
E IN PARTICOLARE PER L'IMPEGNO DEI CRISTIANI
NEL TERRENO DELLA POLITICA?
 
Dalla condizione di una certa marginalità della Chiesa rispetto all'insieme dei fatti economici, sociali e culturali che configurano la città,
derivano schematicamente due posizioni:
il voler essere a ogni costo di nuovo una forza rilevante della società;
oppure il riconoscere con serenità che il proprio compito di piccolo gregge,
in apparenza più modesto, è di fatto molto più esigente e necessario per il bene di tutti:

essere lievito nella società, piccolo seme di nuovi germogli.
Dice giustamente s. Ambrogio a proposito di granelli di senape:
"I suoi chicchi sono, in realtà, cosa semplice e di poco valore: ma se si comincia a
sminuzzarli, mandano fuori tutta la loro energia" (Commento a Luca, VII, 178).
 
- Il voler essere a ogni costo, pur nelle circostanze attuali,
una forza rilevante nel quadro politico della società,
operante sullo stesso piano delle altre forze
e in concomitanza e concorrenza con loro,
ha una sua tradizione antica di secoli,
che ha contribuito a forgiare la società europea,
con i suoi valori e le sue conquiste.
E' anche attraverso questi modi di presenza, giustificati
dalle condizioni e necessità di altre epoche,
che un certo patrimonio di valori cristiani è diventato dote civile della società.
 
Da qui potrebbe nascere oggi nei nostalgici un moto di risentita gelosia,
come un sentirsi espropriati di quello che si ritiene un proprio peculiare tesoro storico
analogamente alla parola del discepolo che diceva a Gesù:
"Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato,
perché non era dei nostri" (Mc 9,38).
E' questa la posizione di chi si sofferma a guardare il passato.
 
- Il riconoscere invece con serenità di essere piccolo gregge,
di essere seme e lievito nella città, implica un ethos preciso.
Un ethos di umiltà,
di mitezza, di misericordia, di perdono,
di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all'interno della Chiesa;

è l'ethos del Grande Giubileo indetto dal Papa per l'anno duemila.
Una Chiesa che è conscia della sua "minorità" ha più vivo il senso della testimonianza,
coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé,
è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso,
vive con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le Chiese locali,
instaura un rapporto più autentico con la Chiesa universale
in stretta comunione con il Vescovo di Roma.
 
Questo ethos interno
ha anche un influsso sul modo con cui la Chiesa si rende presente
nel quadro sociale e politico di una nazione
e sul modo con cui i singoli cristiani operano,
a nome proprio e con propria responsabilità, nel campo politico?
Certamente sì e vorrei richiamarne qui alcune conseguenze.
 
Esso:
 
1) esclude una riduzione dell'impegno dei cristiani nel campo sociale e caritativo;
 
2) induce a un "pensare politicamente" che sia veramente tale,
rifuggendo dalle soluzioni puramente settoriali;
 
3) contribuisce a creare un tessuto comune di valori;
 
4) promuove le regole del consenso dei cittadini.
 
Il percorso di un cristiano cresciuto in una chiesa "piccolo gregge",
che ha colto la sua missione di essere seme e lievito,
è dunque complesso ed esigente.
 
1. Una corretta presenza dei cristiani nella società non limita il loro impegno
al solo campo sociale e caritativo.
Infatti una conseguenza del primo atteggiamento sopra indicato
- il voler continuare a essere una forza determinante nel quadro sociale e politico –
porta con sé una voglia di autosufficienza,
che si esprime facilmente nella concentrazione su certe forme di servizio e di presenza
che hanno attinenza con la solidarietà sociale.
Si tratta pur sempre di un impegno alto per la costruzione della città:
lì si custodisce uno stile etico peculiare, con regole più comunionali che politiche,
cioè più valoriali che conflittuali, più gratificanti che partecipate.
Da tempo i cristiani hanno fatto le loro prove di cittadinanza
e si sono accreditati come cittadini degni di considerazione,
attenti custodi della gratuità e difensori dell'emarginato e del povero.
 
E' chiaro però che tale modo di presenza e di servizio non è sufficiente.
Ci si chiede quale debba essere l'atteggiamento verso la comunità politica nel suo insieme,
e quale stile assume l'impegno di chi è chiamato a costruire la casa di tutti con tutti.
Se rimanessero chiusi nell'ambito del sociale e della carità
si potrebbe pensare che i cattolici sono cittadini dimidiati.
L'ambito della politica aspira infatti a influire sull'ethos della città di tutti,
mediante una generalità di interessi e di programmi,
con la creazione di condizioni che promuovano la partecipazione di ciascuno al progresso
sociale, civile, morale e spirituale.
 
2. E' necessario dunque che chi è nutrito dagli atteggiamenti di fondo sopra indicati
si impegni a un pensare politicamente in grande,
rifuggendo da soluzioni solamente settoriali.
Di conseguenza la sua collocazione dentro questa o quella forza politica
non avverrà per via di singoli problemi o di gruppi monotematici,
bensì per un disegno di società più compiuto:
questa è l'assunzione piena di responsabilità politiche.
 
3. Forse c'è chi pensa che si dovrebbe tenere il fedele
compatto dentro la comunità ecclesiale o dentro il gruppo sociale
per poi convogliarlo in campi diversi scelti di volta in volta
secondo i problemi che si dibattono.
 
4. Ma allora il rischio è che diventi massa di manovra,
inquilino sempre più inaffidabile delle forze politiche
e, alla fine, sempre più emarginato.
Magari potrebbe far passare qualche richiesta valoriale;
ciò però avverrebbe solo per bruta forza contrattuale,
non come esito di una educazione maturante
e di un convincimento del costume di tutti.
 
Se quindi i credenti si appagassero di essere lodati da tutte le forze politiche
solo per impegni parziali,
potrebbe verificarsi una frattura indebita dell'impegno politico,
che riserverebbe spazi settoriali al cristiano,
precludendogli la visione più globale di costruzione dell'uomo e della società,
che sarebbe appannaggio di altri costruttori, più globali.
Solo una propria acquiescenza - non certo la Chiesa -
potrà costringere ora il cristiano a un volontario non expedit.

 
3. Il cristiano oggi nella città deve interpretare un alto compito storico:
creare quel tessuto comune di valori
su cui possa legittimamente trascorrere la trama di differenze non più devastanti.
E ciò sia in zone proprie di riflessione
e di traduzione antropologica dei valori di fede
sia facendo sbocciare tali valori dentro i luoghi delle diverse appartenenze,
dimostrando che ci si può occupare a pieno titolo, da cattolici, dei problemi di tutti,
non solo con una attenzione confessionale.
Un simile atteggiamento porta pure a sostenere e a promuovere quel
"patto di convivenza" su cui si basa la comune cittadinanza.
 
La semplificazione della vita politica, infatti,
è affidata soprattutto alla diffusione sempre più ampia
di una piattaforma condivisa di valori e di convergenze,
non soltanto all'ingegneria elettorale e alla riduzione del quadro partitico.
Finché non si creeranno nei partiti
dialettiche che già al loro interno sappiano far interagire le diversità culturali,
è illusorio pensare a una politica più stabile e più mite:
i partiti devono essere palestre di dialogo interculturale
prima di diventare soggetti di contrattazione politica.

 
Se assumeremo un po' di questo compito ci accorgeremo forse
che siamo meno soli di quanto temiamo:
come avvenne al profeta Elia che, angosciato di essere rimasto solo
e deciso a ritrarsi per disperazione,
trovò inaspettatamente una moltitudine di persone
risparmiate dal Signore in Israele perché non avevano piegato le ginocchia
di fronte ai falsi idoli (cfr 1Re 19,18).
 
4. Un simile atteggiamento promuove anche le condizioni
per la crescita del consenso dei cittadini.
La ricerca del bene per la città di tutti ha regole proprie,
attraverso le quali non si può non passare.
Altrimenti tale ricerca perde, agli occhi della città, la sua trasparenza:
sono le regole del consenso dei cittadini stabilite dalle modalità democratiche
e quelle della costruzione del consenso.
 
Esse non sono pure tecniche o pure metodologie,
ma sostanza stessa dell'atto libero di decisione;
passano per il convincimento e la pazienza, per la stessa graduazione dei valori,
perfino per il duro sacrificio di alcuni di essi.
Sembra invece che, nell'accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa,
come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori.
Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore,
bensì di assumersi autonomamente una responsabilità
nei confronti della crescita del costume civile di tutti,

che è il compito vero dell'etica politica.
Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare
come seme e lievito all'interno della società.
 
Il percorso del cristiano verso la sua testimonianza politica
è quindi oggi complesso, e tuttavia possibile.
Si potrebbe leggerlo - in compagnia di Ambrogio - nella storia di Giuseppe in Egitto,
modello di corretto rapporto con le persone, con le cose, con la politica.
Uomo religioso disperso dentro il mondo idolatrico e totalitario dell'Egitto;
schiavo ma più libero di colui che è libero,
perché "teme di perdere tutte le cose che ha accumulato
colui che le ha accumulate per non servirsene"
(De Jos., 21), capace prima di tutto di "governare se stesso" (De Jos., 22),
cioè di giudizio autonomo sui propri valori,
"non faceva udire la sua voce eppure parlava la sua innocenza" (De Jos., 26).
 
"Giuseppe - dice Ambrogio - avrebbe potuto donare tutte le ricchezze dell'Egitto
e distribuire i tesori del re.
Eppure non volle apparire prodigo dell'altrui
ma preferì vendere il grano agli affamati piuttosto che donarlo,
perché, se l'avesse donato a pochi, sarebbe mancato ai più.
Preferì quella liberalità per averne con tutti.
Spalancò i granai perché tutti acquistassero una razione di frumento per evitare che,
ricevendolo gratuitamente, abbandonassero la coltivazione dei campi.

Infatti chi approfitta dell'altrui, trascura il proprio...
Stabilì una tassa da versare allo stato perché tutti potessero avere
con maggior sicurezza quello che a loro serviva...
Fu un uomo grande davvero, perché non cercò la gloria mondana di una generosità superflua,
ma procurò un duraturo vantaggio con la sua previdenza.
Fece in modo che i popoli traessero giovamento dalle tasse che pagavano
e nel tempo della necessità non avessero bisogno degli aiuti esterni"
(De off., II, 79-81).
 
E' un quadro politico ed economico di grande interesse.
Ma l'accreditamento dell'uomo religioso Giuseppe agli occhi del re
e il suo merito presso il popolo
dipesero, dice s. Ambrogio, anche dal suo essere "sapiente nell'interpretazione" (De off., I, 112):
"anzitutto, interpretando con grande acutezza il sogno del re,
seppe indicare la verità" (De off., II, 82).
Il carattere della lettura dei segni dei tempi è quello grazie al quale forse
i cristiani di ogni tempo si accreditano politicamente,
sapendo interpretare il sogno del Faraone, cioè sapendo dar senso al sogno della città di tutti.
 

Questa esigenza di ancorare a un riferimento metapolitico le esigenze della città
pare avvertirsi anche oggi quando la Chiesa,
pur minoritaria nella città ancor più che al tempo di Ambrogio,
è fatta oggetto di attenzione e di attese da parte di tutti,
nel momento stesso in cui la secolarizzazione celebra
al massimo grado l’emancipazione del civile e del costume dal riferimento religioso.
 
Sicché si ha una paradossale situazione:
da una parte l’assedio a una Chiesa perché non esca dal suo perimetro
a dettar ordini a una società maggiorenne,
dall’altra il tentativo di diverse parti della società civile e politica
di accreditarsi come paladine delle istanze dei cattolici.
 
Sciogliere la contraddizione attribuendola solo a un cinico gioco di strumentalizzazione
è far torto sia alla eticità della società civile, sia alla Chiesa stessa,
la quale verrebbe così a sottostimare le ragioni della sua influenza.
D’altra parte, se tale ossequio e tale desiderio di rappresentanza
fossero soltanto interessati e strumentali,
sarebbero sproporzionati alla sempre più scarsa capacità di mobilitazione
che la Chiesa possiede in sede politica
(e purtroppo, spesso, etica).
Infatti tutto concorrerebbe a far pensare che,
 stante l’avanzato processo di secolarizzazione
e lo scollamento dell’ethos comune dalla religiosità,
un movimento politico avrebbe forse più vantaggio
a proclamare il suo distacco dalla Chiesa
che non a ostentare una vicinanza ad essa o una sua rappresentanza.
 
 

Naturalmente questa appropriazione di valori di origine ebraico - cristiana
da parte della cultura moderna non è stata senza problemi.
Succede che quando i valori insediati dalla religione nell’ethos di un popolo
diventano diritti civili, riconosciuti cioè da una società politica
e trasformati magari in leggi di una città,
essi sono già passati attraverso il filtro delle esperienze storiche di un popolo
e ne hanno assunto il colore e le tare inevitabili.
Da qui può nascere un sospetto della Chiesa nei confronti di certe conquiste civili,
perché esse saranno sempre inferiori alla esigente visione antropologica cristiana.

 
D’altra parte, la Chiesa è abituata di più a rapportare i valori-diritti all’essenza dell’uomo
e a custodirli per via profetica;
spesso perciò non prende atto del percorso storico con cui faticosamente,
 quasi sempre parzialmente e in maniera un po’ sbilanciata,
la società li scopre e li riscopre.
Così, ad esempio, non è stato facile per la Chiesa riconoscere i lati positivi
e le conquiste dell’illuminismo e tanto meno della rivoluzione francese,
mentre oggi essa accoglie con gratitudine
la dichiarazione dei diritti umani dell’ONU (10 dicembre 1948)
e stimola ad altre analoghe dichiarazioni
per i diversi soggetti della famiglia umana (la famiglia, i bambini, gli anziani ecc.).
 
Essendo le identificazioni con la Chiesa sempre parziali e selezionate,
suona strana la pretesa di rappresentare i cattolici da parte di forze politiche
che scelgono dentro il messaggio cristiano solo ciò che è utile alle proprie visioni
e lo integrano in orizzonti eterogenei di tinte non sempre compatibili.

Per questo si ingenera una certa ambiguità.
E’ vero perciò che talvolta quegli atteggiamenti
potrebbero significare un mancato riconoscimento di cittadinanza dei cattolici nella città,
quasi un tentativo di renderli corpi estranei nel momento in cui se ne assumono i valori.
 
Ma il tentativo di varie forze politiche di accreditarsi come rispettose del cristianesimo
potrebbe anche sottintendere una, magari ancora inespressa,
volontà di superamento della logica, che si sta imponendo, dell’amico-nemico.
La logica della conflittualità perenne, che avanza ai nostri giorni,
rischia di risolvere il rapporto interumano
nel rapporto esclusivo con un amico o con un nemico.

 
Solo in momenti di grave impossibilità di comunicazione dei propri valori
il cristiano può ridursi al semplice ambito del sociale.
 
                                                                       (Carlo Maria Martini)
 
 
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