Giovanni Ghiselli è uno dei più autorevoli ed appassionati latinisti e classicisti in circolazione oggi in Italia. Una missione lunga nel mondo della scuola, ma anche una grande attività di conferenziere, di cui ho apprezzato più volte la straordinaria attualità. La recente riflessione che qui vi propongo va peraltro molto al di là della cultura classica e diventa una formidabile meditazione sulla vita e sui suoi valori.
Bene fanno le sardine a cantare Bella ciao invece di canzoni melense o maestre di trasgressioni disordinate; ma ora dobbiamo identificare l’invasore o gli invasori: il capitalismo senza freni, il mercato e la finanza, l’ignoranza, la volgarità, la pubblicità, la licenza di uccidere.
Oggi leggo sul quotidiano “la Repubblica”, a pagina 20:
“Gaia e Camilla uccise sul colpo. Il ragazzo alla guida rischia l’arresto.
Pietro, genovese, positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti.
Patente già sospesa due mesi fa per eccesso di velocità e sorpassi azzardati”.
Ha compiuto un atto criminale, terroristico, e “rischia l’arresto”!
Questa è licenza di uccidere.
L’invasore è la morte, l’assassinio legalizzato.
Ricordo un episodio del luglio del 1974, quando noi, trentenni di allora, avvertivamo il decadere di un ethos politico e civile che aveva acceso tante speranze qualche anno prima.
Quel pomeriggio di luglio, noi italiani superstiti della Debrecen ’66, prossimi alla soglia dei trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane: Bella Ciao, Bandiera Rossa, e altre del genere non ancora del tutto passato di moda, come i reduci di una guerra perduta: la nostra rivoluzione giovanile era invecchiata, senza lasciare ai ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi stessi eravamo variamente appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel volto e sul collo, mentre le mani erano percorse da grosse vene bluastre. Alcuni avevano perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri malamente ingrassati; insomma, noi eravamo diventati ormai gli “ospiti antichi” dell’Università estiva di Debrecen: così ci salutò il Rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e battezzati quali matricole otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi ventenni, poiché è proprio vero che noi mortali siamo come le foglie.
Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale presentava personaggi ancora giovani eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi, anche se non degradati proprio del tutto, come sosteneva a gran voce il povero Bruno Pera, del resto non senza qualche ragione.
Si erano comunque già appesantiti gli arti di tutti noi e il sogno di realizzare presto su questa terra la giustizia, l’eguaglianza, il comunismo, o cristianesimo vero che fosse, perdeva forza, forma e colore nei nostri cervelli. La borghesia e il suo dio, il denaro, la mercificazione universale che riduce tutto a lucro, compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il sopravvento. Non riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali.
Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante suggeriva i toni vocali al nostro coro di confratelli e compagni comunisti delusi un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli orribili, inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti marci e dalle tumide labbra una lingua bovina, piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a un’opera d’arte: a un quadro di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.
In quel nostro cantare, così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista e dalle braccia della ragazza romana, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire di noia.
Avevamo appena finito di cantare "Bella ciao" con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante.
Post Scriptum:
Agli amici ancora vivi di quel giorno lontano suggerisco di non mollare come stavamo facendo allora. Oggi, dopo avere studiato, ho scalato la salita di San Luca in bicicletta, poi sono andato a mangiare insalata e tonno - senza pane - all’Arci di San Lazzaro. Ero solo. Ho osservato delle bambine che giocavano rincorrendosi intorno ai tavoli, ridendo contente, e non ho potuto fare a meno di piangere pensando alla creatura che aspettavamo, la giovane donna dai capelli rossi e io, nel 1974, dopo quel mese di luglio.
Non sapevamo come fare. Io andai da lei ma non la incoraggiai a mettere al mondo la bambina, e lei abortì. E’ stato l’errore più grave della mia vita. Ma davvero in quegli anni era iniziata la decadenza morale che ci ha portato alla situazione attuale.
Ora la vita viene rifiutata, avvilita, rinnegata in mille modi.
Reagite a questo, sardine!
(Giovanni Ghiselli)
°°°°°
Bene fanno le sardine a cantare Bella ciao invece di canzoni melense o maestre di trasgressioni disordinate; ma ora dobbiamo identificare l’invasore o gli invasori: il capitalismo senza freni, il mercato e la finanza, l’ignoranza, la volgarità, la pubblicità, la licenza di uccidere.
Oggi leggo sul quotidiano “la Repubblica”, a pagina 20:
“Gaia e Camilla uccise sul colpo. Il ragazzo alla guida rischia l’arresto.
Pietro, genovese, positivo a cocaina e cannabis. Tasso alcolico oltre i limiti.
Patente già sospesa due mesi fa per eccesso di velocità e sorpassi azzardati”.
Ha compiuto un atto criminale, terroristico, e “rischia l’arresto”!
Questa è licenza di uccidere.
L’invasore è la morte, l’assassinio legalizzato.
Ricordo un episodio del luglio del 1974, quando noi, trentenni di allora, avvertivamo il decadere di un ethos politico e civile che aveva acceso tante speranze qualche anno prima.
Quel pomeriggio di luglio, noi italiani superstiti della Debrecen ’66, prossimi alla soglia dei trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane: Bella Ciao, Bandiera Rossa, e altre del genere non ancora del tutto passato di moda, come i reduci di una guerra perduta: la nostra rivoluzione giovanile era invecchiata, senza lasciare ai ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi stessi eravamo variamente appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel volto e sul collo, mentre le mani erano percorse da grosse vene bluastre. Alcuni avevano perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri malamente ingrassati; insomma, noi eravamo diventati ormai gli “ospiti antichi” dell’Università estiva di Debrecen: così ci salutò il Rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e battezzati quali matricole otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi ventenni, poiché è proprio vero che noi mortali siamo come le foglie.
Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale presentava personaggi ancora giovani eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi, anche se non degradati proprio del tutto, come sosteneva a gran voce il povero Bruno Pera, del resto non senza qualche ragione.
Si erano comunque già appesantiti gli arti di tutti noi e il sogno di realizzare presto su questa terra la giustizia, l’eguaglianza, il comunismo, o cristianesimo vero che fosse, perdeva forza, forma e colore nei nostri cervelli. La borghesia e il suo dio, il denaro, la mercificazione universale che riduce tutto a lucro, compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il sopravvento. Non riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali.
Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. Ma questo devo raccontarlo più avanti.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante suggeriva i toni vocali al nostro coro di confratelli e compagni comunisti delusi un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli orribili, inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti marci e dalle tumide labbra una lingua bovina, piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a un’opera d’arte: a un quadro di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità.
In quel nostro cantare, così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista e dalle braccia della ragazza romana, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire di noia.
Avevamo appena finito di cantare "Bella ciao" con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante.
Post Scriptum:
Agli amici ancora vivi di quel giorno lontano suggerisco di non mollare come stavamo facendo allora. Oggi, dopo avere studiato, ho scalato la salita di San Luca in bicicletta, poi sono andato a mangiare insalata e tonno - senza pane - all’Arci di San Lazzaro. Ero solo. Ho osservato delle bambine che giocavano rincorrendosi intorno ai tavoli, ridendo contente, e non ho potuto fare a meno di piangere pensando alla creatura che aspettavamo, la giovane donna dai capelli rossi e io, nel 1974, dopo quel mese di luglio.
Non sapevamo come fare. Io andai da lei ma non la incoraggiai a mettere al mondo la bambina, e lei abortì. E’ stato l’errore più grave della mia vita. Ma davvero in quegli anni era iniziata la decadenza morale che ci ha portato alla situazione attuale.
Ora la vita viene rifiutata, avvilita, rinnegata in mille modi.
Reagite a questo, sardine!
(Giovanni Ghiselli)
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