Storie di vita

PIPPO L'ARISTOGATTO

6 gennaio 1943, festa dell’Epifania. Per noi bambini era la festa della Befana, la simpatica vecchina che nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, a cavallo di una scopa e con una gerla sulla schiena portava regali a tutti i bambini. In quel lontano 1943 io vivevo l’attesa della Befana in modo insolito: questa volta svegliandomi non avrei trovato vicino al letto il babbo e non avrei condiviso con lui, come sempre avevo fatto, la gioia e lo stupore per i regali ricevuti. Questa volta egli non poteva essermi vicino: era lontano per la guerra.
 
Quel mattino, quando mi sono svegliata, ho trovato come ogni anno, appesa alla spalliera del letto, una calza piena di dolcetti e sul comodino una sagoma della befana fatta con della pasta dolce. Sul letto, al posto dei giocattoli, un cestino legato con un nastro azzurro e, appeso, un biglietto dove era scritto: Ecco Pippo, un amico per sempre. Incuriosita mi sono affrettata ad aprire il cestino e dentro c’era un piccolo gatto, un bastardino con un mantello peloso bicolore, sopra maculato come un soriano e sotto, pancia e zampette, bianche: sembrava un comune gattino e non sapevamo quanto sarebbe stato speciale.
 
In quel periodo passavo molto tempo da sola, mentre mia madre continuava a lavorare in una grande fabbrica laniera. Il tessile era la caratteristica di Prato, la nostra città. Producendo soprattutto tessuti e coperte per militari, le aziende laniere lavoravano ancora a pieno ritmo: tutto si sarebbe fermato più tardi, con l’arrivo dei bombardamenti. Anch’io conti[G1] nuavo ad andare a scuola: frequentavo la seconda elementare; ma anche la scuola a breve si sarebbe fermata. Il peggio, purtroppo, doveva arrivare.
 
Sentivo molto la mancanza di mio padre, particolarmente la sera, quando mia madre aveva il turno serale e sarebbe rientrata dal lavoro alle 22,30. Il pomeriggio passava presto: noi bambini andavamo sempre all’aperto per i nostri giochi di gruppo, eravamo liberi e indipendenti, forse anche troppo indipendenti. A volte avevamo l’impressione di essere orfani: gli adulti erano distratti e affaccendati in altro di più urgente. All’ora di cena però dovevo andare nella casa di mia zia Umiltà, la sorella maggiore di mio padre, la quale abitava vicino a noi. I miei zii avevano una famiglia numerosa, cinque figli, e l’ultimo era affetto da una pesante poliomielite che lo costringeva in una sgangherata carrozzella donatagli dall’Ospedale Palagi. La loro casa era piccola, la loro miseria era grande. Lo zio Tito faceva di mestiere il muratore e in quel periodo, causa la guerra, era quasi senza lavoro. Per la preoccupazione e l’umiliazione di non riuscire a sfamare i suoi figli, egli, che era un omone buono e dolce, aveva avuto un crollo fisico (era dimagrito di 30 chili) e psicologico. La sera, invece di mettersi al tavolo con noi per la cena, si metteva in disparte seduto su una sedia e con la testa fra le mani piangeva. L’atmosfera in casa degli zii era molto pesante, troppo diversa dalle serate passate con mio padre prima della partenza per la guerra.
 
Il babbo, che prima della guerra lavorava nell’azienda del gas, aveva un turno di lavoro unico, diurno, e all’ora di cena era sempre con me e quando mia madre aveva il turno serale lui mi organizzava delle serate speciali. Forse perché ero figlia unica o forse per una sua grande sensibilità al riguardo (aveva perduto la mamma da piccolo) faceva tutto il possibile per non farmi sentire la mancanza della mamma. Le nostre serate speciali erano di due tipi: quelle “musicali” e quelle “imitative”.
 
Per le serate dedicate alla musica lui toglieva dal suo piedistallo il grammofono, un oggetto bellissimo marcato “La Voce del Padrone”, e me lo piazzava sul grande tavolo centrale; e io fin da piccolissima avevo imparato ad usarlo. In piedi su una sedia sapevo cambiare i dischi, cambiare le puntine e girare la manovella per ricaricarlo.
 
Per le serate “imitative”, in cui volevo giocare alla “mamma”, chiedevo a mio padre di togliere dalla vetrinetta i servizi di porcellana, regali di nozze che mamma aveva ricevuto dai suoi compagni di lavoro e a cui teneva moltissimo: e lui con grande azzardo me li affidava per farmi giocare a fare la padrona di casa. Fortunatamente tutto è andato sempre a buon fine e prima che lei rientrasse dal lavoro rimettevamo le cose a posto. Tutto questo ora non c’era più a causa della guerra. Io ero sempre più triste e malinconica.
 
Un maestro di vita
 
Pippo, il gattino, cresceva in fretta e ben presto cominciammo a capire che aveva qualcosa di particolare. Non miagolava quasi mai: non gli piaceva quel mezzo di comunicazione, preferiva esprimersi con gli occhi, i quali diventavano sempre più attenti ed espressivi.
 
Oggetto particolare della sua attenzione ero io: non mi perdeva mai di vista. Più cresceva e più avevo la sensazione di avere vicino qualcosa di speciale. Facendomi coraggio chiesi a mia madre di non mandarmi più dagli zii per l’ora di cena: preferivo rimanere nella nostra casa in compagnia di Pippo. All’inizio la mamma era un po’ perplessa, poi capì questa mia necessità e trovando un aggiustamento (facendo venire le mie due cugine più grandi a “darmi un’occhiata”) acconsentì a questo mio desiderio.
 
Pippo era sempre con me, era come se mi avesse preso in affidamento e, particolarmente nelle sere in cui ero sola, non usciva mai di casa. In quel tempo lontano la vita era molto diversa da quella che siamo abituati a vivere oggi. Nei paesi come il mio le case erano tutte singole, con la porta d’ingresso a pian terreno e sempre aperta. I bambini e gli animali domestici vivevano molto all’aperto, nella strada o nei campi vicini. La scelta di Pippo, di non uscire di casa la sera, lo rendeva diverso dai suoi simili: lui era sempre diverso. Tutto quello che faceva o che non voleva fare era caratterizzato da una scelta precisa sempre pensata, consapevole. Dopo ogni sua azione mi guardava e con quegli occhi intelligenti sembrava volesse dirmi: “Osserva, rifletti, usa la testa”. Oltre a darmi lezioni di consapevolezza mi faceva apprezzare anche la diversità. La vicinanza del gatto mi tranquillizzava e rendeva meno acuta la mancanza di mio padre, anche se era tanta la voglia di rivederlo!
 
La storia comunque mi stava aiutando, dato che si avvicinava una data importantissima per noi italiani: l’8 settembre del 1943, firma dell’armistizio con gli angloamericani. Circa un mese e mezzo prima, il 25 luglio, era caduto Mussolini con il suo governo e il generale Badoglio aveva preso momentaneamente il controllo del paese. Molti ingenuamente pensavano che con la firma dell’armistizio la guerra sarebbe finita. I militari che erano sui fronti di guerra cercarono di tornare a casa. Anche mio padre, che in quei giorni difficili era ricoverato a San Gallo, nell’ospedale militare di Firenze, per curarsi una ferita ad un ginocchio, riuscì con una fuga rocambolesca a tornare a casa. Anche lui, come molti, pensava che il peggio fosse passato e non poteva immaginare cosa ci aspettava. Mussolini riuscì ben presto a ricostruire il partito fascista creando la Repubblica di Salò, i tedeschi che erano sul suolo italiano occuparono le nostre città e insieme cominciarono a dare la caccia ai soldati che avevano disertato la guerra. Mio padre dovette nascondersi nella casa del nonno, ritenuta più sicura avendo delle vie di fuga.
 
Mia madre, a causa dei bombardamenti e dei sabotaggi fatti dai tedeschi alle fabbriche laniere, perse il suo lavoro. Mio padre improvvisamente si trovò dodici bocche da sfamare: gli zii con i loro cinque figli, il nonno con la seconda moglie, più noi tre. Nessuno poteva far fronte a tutte le necessità: chi era troppo vecchio, chi era troppo giovane, chi era malato. E mio padre di notte, come un animale selvatico, mettendo ogni volta a rischio la sua vita, andava a piedi attraverso i campi, da una casa all’altra dei contadini, a volte fino alla zona pistoiese: comprava qualcosa da mangiare e qualcosa da rivendere per poter assicurare la nostra sussistenza. La mamma ed io ogni sera nel tardo pomeriggio ci incamminavamo verso la casa del nonno per portare la cena al babbo. Pippo, percependo che i tempi erano cambiati e che i rischi erano aumentati, estese la sua protezione anche all’esterno e ogni sera si univa a noi formando con noi uno strano trio: faceva questo da par suo, non ci seguiva ma ci precedeva e con le sue lunghe zampe e con il suo incedere elegante, la testa fieramente eretta, guardava in faccia i rari passanti come volendo dire: “Guai a chi me le tocca!”.
 
Questa storia è andata avanti per un anno intero. Finalmente è arrivato il 6 settembre 1944, giorno della liberazione di Prato dai nazifascisti. Era il momento di riprendersi la vita; le distruzioni erano tante e tutti cercavano di tornare alla normalità, anche se i tempi erano difficili: mancava lavoro, mancavano servizi, i generi alimentari scarseggiavano ed erano molto cari. Il babbo però fortunatamente era tornato a casa e ben presto aveva ripreso a lavorare nell’Azienda del gas.
 
Ma dopo un po’ di tempo, un mattino, mi sono svegliata e non ho più trovato Pippo. Disperata ho iniziato a cercarlo e in questa mia ricerca si è unito tutto il paese, sparpagliandosi anche nei campi vicini; lo abbiamo cercato in ogni anfratto, in ogni dove, ma di Pippo nessuna traccia: sembrava svanito nel nulla.
 
I cattivi ragazzi
 
Dopo qualche tempo dalla scomparsa di Pippo mio padre una sera mi diede una bellissima notizia: casualmente, andando al lavoro, in una pasticceria aveva ritrovato il nostro gatto. Pippo si trovava in una pasticceria del centro di Prato, la Pasticceria Lai, che aveva ripreso da poco la sua attività. Dopo la chiusura a causa della guerra, i proprietari riaprendo avevano trovato la cantina, dove tenevano la farina, completamente infestata dai topi e per questo avevano chiesto al garzone di bottega di procurare un gatto. Immediatamente abbiamo capito: il garzone in questione era un ragazzo che abitava di fronte alla nostra casa.
 
Questo ragazzo era il minore di due fratelli, due ragazzi strani, asociali: non frequentavano mai nessuno, stavano sempre fra loro. Il minore era affetto da un’agitazione motoria notevole, si arrampicava sugli alberi come uno scoiattolo, e nel cortiletto a fianco della loro abitazione, con i pattini ai piedi, faceva delle piroette altissime. Il maggiore, più cupo, con gli occhi bassi, camminava vicino ai muri e sembrava voler nascondersi agli occhi altrui. Da poco qualcuno lo aveva fermato, sparandogli con una mitragliatrice ad una gamba, che poi gli avevano tagliato fino all’inguine. Qualcuno diceva che gli avevano sparato perché aveva assaltato un treno che trasportava merci alimentari. Altri dicevano che era stata una vendetta perché era stato in combutta con i repubblichini. Forse era vera la seconda versione. Pochi giorni prima di questo incidente anche un altro giovane del paese, non ancora ventenne, ea stato ucciso, colpevole di essere entrato negli ultimi mesi di guerra fra i repubblichini. Nell’immediato dopoguerra,  per una strisciante guerra civile non dichiarata, si verificarono numerosi episodi di rancori e vendette.
 
In famiglia eravamo comunque intenti a preparare al meglio la cesta per il recupero del nostro gatto. E la domenica mattina mio padre ed io con le nostre biciclette andammo alla pasticceria Lai. Entrando all’interno vidi Pippo su un alto sgabello; stava dormendo. Mio padre si diresse al banco delle proprietarie, io mi avvicinai al gatto e lui svegliandosi mi  guardò e capì tutto. Velocemente si mise seduto con il busto eretto, esprimendo il massimo della regalità: sembrava un’autentica divinità egizia. Con gli occhi socchiusi, sornioni, cercava di mettermi in soggezione per dirmi qualcosa che di regale non aveva niente. Mi stava dicendo: “Ti prego, lasciami, non portarmi via, in questa toperia mi sto divertendo da matti!”.
 
Sconcertata sono rimasta ferma per un attimo, poi mi sono voltata verso il babbo dicendogli: “Andiamo via, Pippo rimane qui”. Mestamente, a mani vuote, siamo tornati a casa. Amareggiata, delusa, non capivo come a causa del rapimento il gatto fosse caduto in un mondo di ratti. Ero troppo bambina per capire che con il ritorno a casa di mio padre e il ricomporsi della nostra famiglia forse la missione dell’animaletto era terminata. In seguito, da grande, pensando a quei giorni difficili, cruciali, ho capito che la vita mi aveva fatto un grande regalo mettendomi vicino quell’essere speciale: un angelo col mantello peloso. Indimenticabile!
                                                                      
                                                                                                      (Autrice anonima, “Premio Prato Raccontiamoci”)
 
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