Saper vivere

LA MORTE COME CRITERIO DELLA VITA

Un testo inconsueto, un tema inconsueto. Ma riteniamo, decisamente, che sia tempo che nella nostra società opulenta  e disorientata venga rimesso l’accento sul tema del significato totale della vita umana, da cui scuola, famiglia, sistemi educativi, scienza ufficiale, economia, pubblicità, sono di fatto assenti pressochè del tutto. Gravemente e colpevolmente. No, non sono riflessioni da confinare nella coscienza individuale di ogni cittadino, come generalmente si dice e si pensa. Sono riflessioni che devono essere fatte proprie anche dai contesti sociali e comunitari. La riflessione è di Carlo Molari.
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Dovremmo riflettere insieme sulla preparazione alla morte, su quale significato ha per una vita autentica il riferimento alla morte. Voglio farvi prima alcune premesse.
Prima premessa: la finalità pratica di questa riflessione. Questa riflessione non è tanto finalizzata a rispondere alla domanda “cos’è la morte” o “come dobbiamo vivere per prepararci alla morte”; ma a prendere coscienza della responsabilità che abbiamo del tempo. Nella prospettiva evolutiva la morte non è un evento accidentale, secondario, introdotto successivamente: non c’è stata mai una umanità perfetta e la morte è costituita dal nostro esistere come creature. Credo che oggi almeno tra noi non ci sono difficoltà a capire questo: noi siamo nati per morire.
Seconda premessa: la morte sarà come noi la prepariamo. Credo che sia pacifico anche che noi vivremo la morte come la stiamo preparando: se per esempio pensiamo che la morte sia la fine di tutto, noi la vedremo come tale e certamente essa segnerà l’esaurimento della nostra vita. Se noi la viviamo come un passaggio a una vita successiva, noi renderemo possibile il passaggio alla vita successiva, perché nel frattempo maturiamo le strutture che sono necessarie per la vita successiva. Per cui è importante che ci chiediamo: come sto vivendo la morte nelle sue anticipazioni e quindi come sto preparandomi a morire? Perché noi faremo della morte quello che abbiamo deciso. Nella prospettiva evolutiva questa è una conseguenza molto chiara: noi vivremo la morte che abbiamo preparato, corrispondente al contenuto introdotto nella nostra vita.
Terza premessa: il carattere temporale della nostra esistenza. Noi come creature siamo tempo e ciascuno ha il ritmo del tempo proprio, non c’è un tempo universale. Sulla natura del tempo si sta discutendo più intensamente da un secolo almeno ed esistono molte opinioni. Adesso non possiamo esaminare questo problema, però almeno una cosa deve essere pacifica: non esiste un tempo assoluto e ciascuno di noi ha il suo tempo. Noi pensiamo al tempo come a un ritmo comune a tutte le cose, che precede la stessa realtà; ci pensiamo inseriti nel tempo come in un grande contenitore che procede e si sviluppa a ritmo costante e identico per tutte le creature. Questa visione intuitiva e immediata è infondata: in sé questo tempo assoluto non esiste. In realtà noi siamo tempo come creature perché non possiamo accogliere il dono della vita in un istante, tutta completamente.
Il fisico Carlo Rovelli in un libro intitolato “La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose” (Cortina, Milano) ha un capitolo, il settimo, intitolato proprio così: “Il tempo non esiste”. Si riferisce alla visione assoluta del tempo e sostiene appunto che il tempo è il ritmo che è legato alle singole creature, al luogo dove sono, per cui per esempio essere in montagna od essere in pianura comporta il vivere a ritmi diversi, perché il tempo scorre diversamente. Sono differenze di miliardesimi di secondo, ma il concetto è fondamentale per capire la natura del tempo e quindi la nostra condizione di creature, e per vivere pienamente.
Noi di fatto in realtà rischiamo di vivere sempre il passato. Solo nell’ambito spirituale possiamo pervenire a un presente vissuto come presente. Voglio chiarire brevemente questo punto: sono cose note ma sulle quali non riflettiamo. Per esempio, la luce del sole che ci perviene adesso non è come è il sole in questo momento, ma come era otto minuti fa. Se in questo istante il sole scomparisse noi continueremmo ancora a vederlo per diversi minuti. Così le stelle o gli eventi straordinari che capitano nel cosmo, di cui i satelliti lanciati nello spazio stanno trasmettendo foto meravigliose, noi li vediamo non come sono in questo momento ma come erano milioni o miliardi di anni fa, secondo la loro distanza.
Ma anche all’interno della nostra vita interiore noi viviamo sempre leggermente sfasati, rispetto al presente, di qualche frazione di secondo, benchè abbiamo la convinzione che sia il nostro presente. Per esempio, quando sentiamo che si avvicina una zanzara in realtà la zanzara ci ha già punto. Noi non l’avvertiamo nello stesso istante perché lo stimolo ci mette un po’ di tempo ad arrivare al cervello, che deve elaborarlo, deve capire che si tratta di una zanzara, poi mettere in moto il muscolo del nostro braccio per colpire la zanzara, ma quando noi arriviamo la zanzara non c’è più. Siamo sempre un po’ sfasati rispetto al presente perché ci vuole sempre un po’ di tempo per trasmettere il messaggio, per elaborarlo e per agire.
Ho poi sottolineato più volte che la parte del cervello istintiva precede sempre la parte del cervello relativa alla consapevolezza, c’è una differenza di un mezzo secondo e quindi c’è già un piccolo spazio. Per cui dobbiamo renderci conto del fatto che noi siamo quasi sempre nel passato: anche se si presenta come presente in realtà siamo leggermente in ritardo.
Nell’ambito spirituale questo non avviene, nel senso che se Dio è, se la forza creatrice ci alimenta e noi viviamo consapevolmente questa condizione, noi determiniamo l’istante della nostra accoglienza dell’azione di Dio. Cioè se noi viviamo consapevolmente la nostra relazione con Dio, quello è l’istante in cui l’azione ci perviene, in cui l’azione di Dio ci arricchisce. Quello è il presente che noi determiniamo ed è realmente in quell’istante che il dono di Dio ci perviene.
In questo senso l’ambito spirituale può essere – se lo viviamo e se Dio è – l’unico momento presente reale. In questo senso credo che l’esperienza spirituale sia molto significativa per cogliere il presente che ci invade, la forza creatrice che qui, ora, ci è offerta.
Quarta premessa: modelli antropologici. Le riflessioni che sto per proporvi non sono cose definitive ma vogliono essere degli stimoli; non utilizzano il modello corpo-anima. Sapete che questa concezione dell’anima e del corpo che si combinano insieme (nell’antichità c’erano diversi modi di pensare questa combinazione) è fondamentalmente di origine greca e anche di altre culture orientali, è stata molto diffusa prima nel mondo mediterraneo e poi nel nostro mondo occidentale, e ha avuto un’influenza notevole  anche nella formulazione della dottrina cristiana così come si è sviluppata lungo i secoli. Ma di per sé non è un modello assoluto. Fra l’altro non corrisponde neppure al modello biblico più diffuso. Il mondo ebraico, semita in genere, aveva una concezione più unitaria della persona, anche se distingueva nella realtà umana diversi aspetti mediante tre termini fondamentali: basar, nefesh e ruah, tradotti in italiano come ”carne” (basar), “anima” (nefesh), “spirito” (ruah), in greco con “sarx” (basar), “psichè” (nefesh), “pneuma” (ruah) e in latino con “caro” (basar), “anima” ( nefesh) e “spiritus” (ruah). Schematizzando:
  • “Basar” indica l’uomo nella sua debolezza.  Quindi non è una parte dell’uomo, è una caratteristica della sua esistenza.
  • “Nefesh” indica l’uomo in quanto vivente. Il termine indicava di per sé il collo, da cui si capiva che la persona viveva perché il sangue scorreva (noi sentiamo il polso per capire se una persona vive o no). Nella traduzione greca dell’Antico Testamento (detta dei Settanta) nefesh veniva tradotto “psichè”, che corrisponde al latino “anima”. Il Nuovo Testamento ci è pervenuto in greco ma il riferimento per tradurlo esattamente deve rimanere il mondo semita, per cui psichè deve essere tradotto con “vita” anche se a volte traduciamo “anima” (per esempio “che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde l’anima?”: riferivano l’anima precisamente al dopo morte perché nella concezione greca l’anima era immortale – anzi, secondo alcuni (ad esempio Platone e molti suoi seguaci) l’anima già esisteva prima della sua venuta sulla terra - .
  • “Ruah” indicava il respiro fisico, il soffio, che pensavano essere introdotto da Dio nell’uomo. Infatti nella Genesi si dice che Dio insufflò lo spirito di vita nel corpo modellato con fango. Il respiro veniva considerato come il mezzo con cui Dio dona la vita. Noi non dobbiamo pensare come gli antichi: ho richiamato questa terminologia per far capire le formule tradizionali.
 
Nella prospettiva evolutiva non utilizziamo questo modello, non parliamo dell’anima e del corpo, ma del divenire della persona, che crescendo sviluppa una dimensione spirituale. Secondo la fede cristiana e molte altre religioni la dimensione spirituale è in funzione della vita successiva e rende capaci di attraversare la morte da vivi. Se c’è una vita successiva occorre sviluppare le strutture necessarie per esercitarla, perché altrimenti non siamo in grado di sopravvivere e la morte rappresenterebbe la fine del tentativo che la vita ha fatto per svilupparsi in noi.
 
Portiamo l’esempio molto semplice del feto nell’utero materno: sviluppa organi e strutture (come polmoni, occhi e orecchi) che in quel momento non servono. Se il feto ragionasse pensando: “A che mi servono adesso i polmoni?”, per cui decidesse di non sviluppare i polmoni, la sua nascita corrisponderebbe all’esaurirsi della possibilità di vivere; non avrebbe creato le strutture necessarie per vivere in un’altra dimensione, per respirare all’aria aperta. Analogamente, se noi non sviluppiamo ora le strutture spirituali ci rendiamo impossibile l’attraversare la morte da vivi, perché non abbiamo le strutture necessarie per una modalità diversa di esistenza.
 
La riflessione che intendiamo fare serve per educarci a sviluppare le dimensioni interiori necessarie per attraversare la morte, cioè per pervenire ad un’altra modalità di esistenza. Sono le stesse dinamiche che ci consentono di vivere in modo pieno la nostra condizione attuale, come il feto nell’utero materno vive in modo pieno la sua condizione di feto quando sviluppa gli organi che gli serviranno nella vita successiva.
 
Il primo punto relativo alla preparazione è il rendersi conto della nostra condizione di precarietà: tutto ciò che noi viviamo è provvisorio, non c’è nulla di assoluto e definitivo nelle nostre condizioni. Noi spesso ci illudiamo che ci siano delle situazioni definitive che resteranno così come sono – certe convinzioni, sensibilità, modi di vivere le relazioni… - ma non è così: tutto ciò che viviamo è provvisorio, precario, ed è funzionale a un compimento, perché stiamo “diventando”. Questa è la convinzione che dovremo maturare pian piano, perché noi crediamo prima di tutto di essere già e quindi non abbiamo la percezione del divenire reale.
 
Secondo: crediamo che quello che siamo lo siamo per sempre, mentre in realtà la nostra condizione cambia continuamente: il nostro modo di pensare, il nostro modo di vivere i rapporti, il nostro modo di affrontare le situazioni cambiano continuamente; ma cambiano per un processo che viviamo realmente, per cui noi diventiamo; il nostro cervello cambia fisicamente, il nostro modo di rapportarci è realmente diverso da quello precedente, anche se non ne abbiamo sempre la consapevolezza. Il gesuita Padre Koyne diceva che siamo gli esseri più riciclati della terra o forse dell’universo perché gli elementi che ci costituiscono cambiano continuamente. Ogni organo si rinnova in poco tempo. E’ l’esperienza anticipatrice della morte.
 
Il cambiamento deve essere vissuto consapevolmente e per viverlo in modo consapevole dobbiamo avere dei criteri solidi. Essi ci sono indicati dalla morte che è il traguardo del nostro processo storico. Sono le condizioni richieste per attraversare la morte da vivi, in modo cioè che essa costituisca il passaggio vero l’altra modalità di esistenza. Sono i criteri per vivere pienamente tutte le situazioni, cioè per essere pieni di vita in ogni istante.
 
E’ questa la ragione per cui riflettiamo sulla morte come passaggio: proprio per essere in ogni istante pieni di vita. E’ una pienezza relativa, ma reale. Un bambino piccolo è pieno di vita quando è amato. E lo si vede quando gode la vita: non può parlare ancora, non può capire quello che avviene, ma per quanto è in grado di vivere è pieno. In questo senso quindi, almeno nella prospettiva della fede, anche un bambino piccolo che muore è in grado di continuare la vita nell’altra modalità perchè quello che è richiesto è essere pieni di vita. Questa è la condizione fondamentale. Ci sono carenze e ci sono possibilità di recuperi, però importante è vivere pienamente, intensamente. Questo ci consente di attraversare la morte. Vediamoli allora brevemente, i cinque criteri che la morte ci indica proprio per vivere intensamente, cioè per essere pieni di vita.
 
Il primo è il criterio della identità. La morte ci chiederà: “Chi sei? Chi sei diventato?”. Noi diventiamo giorno per giorno. La domanda fondamentale della fine della vita non è “che cosa hai fatto?” perché quello che noi facciamo sulla terra è sempre precario, è sempre funzionale: poi scompare tutto, non resta nulla di ciò che abbiamo fatto. Tra cinque miliardi di anni o anche meno il sole nel suo momento di espansione finale, nel rantolo della sua vita, assorbirà la terra e tutto quello che è sulla terra che gli uomini hanno costruito – anche la Grande Muraglia, anche i grattacieli – tutto diventerà polvere, tutto si ridurrà nella grande fornace agli elementi primordiali, per cui tutto riprenderà. Non sappiamo come, ma in ogni caso non resterà nulla di ciò che abbiamo fatto. La domanda è quindi “chi sei diventato?”, perché se c’è una possibilità della vita futura è per quello che noi diventiamo, cioè se sviluppiamo una dimensione spirituale; se esiste un’altra dimensione è quella che dobbiamo raggiungere.
 
Allora la domanda fondamentale è “chi sei diventato?”; attraverso quello che hai fatto, che hai pensato, che hai desiderato, chi sei diventato? Occorre pensare che possiamo anche fare le cose migliori ma non diventare. Per esempio se noi operiamo per apparire agli altri, per acquistare fama, per guadagnare o raggiungere potere, anche facendo il bene non diventiamo buoni. Abbiamo raggiunto un traguardo, abbiamo acquistato fama, denaro, potere, abbiamo forse illusoriamente anche pensato di aver raggiunto dei livelli elevati, ma poi scopriamo che tutto è insensato, che tutto è vano, tutto scompare. Se non siamo diventati viventi attraverso ciò che abbiamo compiuto tutto è vano, perché solo la dimensione del divenire ci consente di attendere una modalità nuova di esistenza.
 
Dovremmo costantemente tenere presente il criterio del divenire. Non interrogarci su “che risonanza ha avuto quello che ho fatto? Che successo ho ottenuto?”, ma su “chi sono diventato? Quali dinamiche di vita ho esercitato?”. Noi potremmo vivere anche tutti i fallimenti della nostra vita in modo sereno e pieno, cioè dire “ho fallito in questo ma sono diventato”. Se per esempio esprimiamo amore verso coloro che ci fanno del male, esprimiamo misericordia, doniamo vita, noi siamo diventati anche se non c’è stato successo. Questo è un modo per relativizzare i successi ma anche per vivere in modo positivo gli insuccessi.
 
Capire però che quello che è fondamentale è precisamente la modalità con cui viviamo tutto, il lavoro quotidiano, gli incontri, la sofferenza, la malattia, l’emarginazione, i successi: tutto possiamo vivere in modo da diventare e quindi da sviluppare la dimensione interiore, perché questa è la ragione fondamentale per cui possiamo rispondere alla domanda “chi sei?”. Gesù parlava del “nome scritto nei cieli” (Lc 10,20): “Rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”. Il nome è la realtà che noi costruiamo giorno dopo giorno. Ricordate sempre che non c’è un’identità già precostituita: noi diventiamo.
 
Nella tradizione cristiana esiste la pratica della riconciliazione che è il recupero del passato non vissuto o rifiutato. Possiamo diventare anche attraverso la memoria, sviluppare ora doni trascurati, o anche accogliere ora doni di vita rifiutati nel passato. Anche attraverso la memoria possiamo realmente diventare, perché l’azione creatrice di Dio contiene ancora i dati offerti e trascurati in altri tempi. Noi possiamo oggi fare memoria in modo da accogliere quella forza di vita che nel passato non abbiamo accolto. Anche gli aspetti negativi del passato quindi possono diventare oggetto di memoria positiva e farci crescere come persone. Dovremmo dunque ogni giorno interrogarci su “chi sono diventato oggi?”, cioè “quale sviluppo ulteriore ho avuto?”. Se ci interroghiamo semplicemente su “cosa ho fatto?” e non investighiamo sulle dinamiche vissute non siamo in grado di rispondere in modo adeguato sulla nostra condizione e sul valore della nostra attività. Possiamo fare un elenco delle esperienze compiute, dei successi o degli insuccessi, e così via, ma non tocchiamo il punto fondamentale, che è il nostro divenire reale.
 
Il secondo criterio che la morte ci indica è il distacco. La morte ci chiederà di non portare nulla con noi, nulla. Come sappiamo, nella storia ci sono stati tanti momenti illusori, per esempio i faraoni che riempivano le tombe di gioielli e di cibo, che sono diventati tesori per i musei e gli archeologi. In ogni caso il distacco necessario per morire è assoluto, non possiamo portare neppure il corpo che ci è servito.
 
La morte indica un criterio fondamentale per la vita, proprio perché se noi ci attacchiamo a qualcosa come assoluto, cioè diciamo “questo è essenziale per me, non può essere altrimenti”, di fatto cadiamo nell’idolatria e non viviamo secondo la realtà, dato che tutto è provvisorio e quindi dobbiamo viverlo come tale. Non dobbiamo rifiutarlo ma accoglierlo come provvisorio. Dobbiamo distinguere chiaramente tra la provvisorietà e la necessità: anche le cose necessarie sono provvisorie. Certo, noi dobbiamo respirare o mangiare, non possiamo farne a meno, ma tutti gli elementi che utilizziamo mangiando o respirando sono in sestessi precari, provvisori, insufficienti e dobbiamo viverli distaccandoci nello stesso momento in cui li accogliamo. Anche i rapporti: occorre sempre vivere i rapporti in modo dai introdurre la consapevolezza della provvisorietà. Sono necessari i rapporti, noi possiamo costituire dei doni necessari per gli altri, ma occorre viverli con distacco perché la vita fluisca e non venga bloccata. Allora vivere già distaccati è la condizione per vivere intensamente ogni situazione. E’ importante la componente del distacco, per non aggrapparsi a nulla come assoluto. Nella vita spirituale questo è tradotto con “solo Dio basta”, ma è un traguardo che solo nella morte saremo in grado di vivere.
 
Tutto questo noi lo viviamo sempre in un modo limitato, ma la morte ci chiederà di viverlo in modo così assoluto e radicale da non esserci compromessi. Cioè non possiamo dire “però almeno questo me lo porto con me”, “almeno il mio corpo mi serve, degli occhi ho bisogno…”. No, niente.
Quindi in questo senso noi impariamo a morire quando riusciamo a vivere tutte le situazioni pienamente ma distaccati. Questo è il punto: pienamente ma distaccati.
 
Il terzo criterio è il criterio della interiorizzazione delle persone o anche delle cose nei rapporti. Interiorizzare, cioè vivere le relazioni sapendo che ci costruiscono e quindi che sono per noi fondamentali perché ci arricchiscono, cioè diventano una dimensione interiore. Invece noi spesso viviamo le relazioni con le cose o con le persone con dinamiche possessive, cioè per costringerle a stare accanto a noi, per poterle utilizzare, non per farci diventare. La componente del divenire può sembrare espressione di egoismo ma in realtà è la legge della vita: noi diventiamo per le offerte che riceviamo continuamente. Però dobbiamo essere in grado di riconoscere che non è la persona o la cosa da possedere, ma è il dono che ci viene vivendo le relazioni. Non è la realtà in sè che ci è necessaria, è la ricchezza di vita che ci perviene attraverso il rapporto che viviamo. La fonte è Dio: questo è l’orizzonte teologale per vivere le relazioni. E’ una componente fondamentale della vita spirituale, e quella che sto sviluppando è appunto una riflessione di tipo spirituale.
 
Quindi il criterio della interiorizzazione mette in luce questo doppio dinamismo con cui dobbiamo avere rapporto con le cose e con le persone, cioè l’accoglienza interiorizzante, che lascia la libertà e che consente la partenza o il distacco. Dobbiamo però accogliere il dono, assumerlo, interiorizzarlo. Se invece noi viviamo i rapporti come se fossero indifferenti per noi (“sì, questo momento è importante, ma poi non mi interessa”), non interiorizziamo nessuna realtà e nessuna persona. Pensate il bambino piccolo: finchè non ha interiorizzato il padre, la madre, la nonna, il giocattolo, finchè non ce l’ha dentro non riesce a richiamarne l’immagine, per cui quando si trova solo piange, grida, ha bisogno di vicinanza. Non può fare altrimenti, ma man mano che sviluppa la presenza e porta dentro le persone è in grado di richiamare l’immagine, di richiamare la figura che ha interiorizzato; è in grado quindi di vivere poi le situazioni perché dice “fra poco vedrò mia madre, mio padre…”. Ma finchè non è in grado di richiamare le immagini interiori non è in grado di vivere situazioni provvisorie di assenza, perché non ha ancora la possibilità del richiamo.
 
Noi dobbiamo pervenire alla morte pieni di presenze, pieni anche di cose, perché abbiamo vissuto rapporti, perché abbiamo ricevuto doni; ma senza la possibilità di portare nessuno con noi. Possiamo anche vivere le situazioni di morte accanto agli altri proprio per completare il dono e per riempirci di presenze. Per questo la morte in casa, in famiglia, con le persone care vicine, ha un particolare significato proprio per la ricchezza dello scambio di doni, ma non per la pretesa di portarci qualcuno con noi. E’ la tentazione di coinvolgere gli altri e di morire insieme. Pensate poi le forme patologiche, anche di vita religiosa. Qualche decennio fa ci sono stati fenomeni di morti collettive, per esempio l’episodio della Guyana francese. In realtà dobbiamo essere in grado di morire pieni di presenze ma senza portarci nessuno con noi: la morte è un evento di compimento  personale.
 
Il quarto criterio fondamentale è il criterio della oblatività, perché la morte ci chiederà non solo di distaccarci ma anche di donare, di consegnare tutto agli altri: tutto torna nel ciclo cosmico e storico, anche la nostra esperienza interiore, anche la nostra cultura, nella misura in cui siamo in grado di donarli. Questo è un criterio fondamentale per la vita, perché la vita nostra si sviluppa proprio secondo la capacità di dono che siamo in grado di realizzare. Realmente si può dire che noi diventiamo il dono che facciamo: non siamo noi la fonte del dono, ma il passaggio del dono ci fa diventare viventi. Non dobbiamo neppure considerarci il principio del dono che consegniamo. Se lo offriamo con attese di ricompense, o con ricatti impliciti, inquiniamo il dono.
 
Questo Gesù l’ha espresso in ordine al dono nella preghiera che ci ha insegnato, ma questo vale per tutti gli aspetti della vita: “Perdona a noi come noi perdoniamo”, “rendici viventi come noi diventiamo donatori di vita”. C’è sempre questa circolarità: noi accogliamo quel tanto che siamo disposti a donare. Noi doniamo quel tanto che siamo in grado di accogliere. C’è una piena corrispondenza. In ogni relazione, anche nella vita matrimoniale, il dono può crescere man mano che procediamo, proprio perché diventiamo accoglienti donando e siamo in grado di offrire in una misura più profonda accogliendo. Siamo snodi nella rete profonda della vita.
 
La morte ci chiederà di essere capaci di donare tutto. Non è sufficiente il distacco, perché può essere un distacco di indifferenza (“io vivo distaccandomi da tutto, non mi interessa niente”), mentre deve essere un distacco di donazione piena: siamo chiamati ad offrire tutto quello che ci costituisce. Ci sono stati alcuni artigiani del passato che hanno conservato dei segreti del loro mestiere e questi sono stati perduti per sempre e per tutti. Noi riusciamo a vivere pienamente solo quando siamo trasparenti al dono, quando la vita non trova ostacoli nell’offrirsi in noi. Educarci alla morte significa imparare la trasparenza piena e definitiva.
 
L’ultimo criterio, che riassume e rende efficaci tutti gli altri, è il criterio della fiducia: per vivere la morte pienamente dobbiamo abbandonarci senza riserve alla vita, cioè esercitare una fiducia tale da saperla perdere. Nella sua forma radicale la fiducia nella vita la si può esercitare solo nella morte che è il momento in cui la perdiamo: perché èl’atteggiamento che ci consente di accogliere il dono nella sua pienezza. La morte deve essere l’esercizio di una fiducia senza limiti, solo in quel momento possiamo dire in piena verità “io non so, ma mi affido”. E’ in certo senso lo stesso atteggiamento del feto quando nasce: non sa nulla di quello che diventerà ma si affida, è stato educato dall’amore che l’ha condotto a quel punto e si lascia condurre dall’istinto sapendo che può fidarsi senza riserve. E’ un atteggiamento indotto dall’amore che l’ha fatto crescere giorno dopo giorno, per cui è capace di abbandonarsi all’avventura e al trauma della nascita proprio perché ha già sperimentato il significato dell’amore. Ma nella morte ci è chiesto di vivere consapevolmente – o finchè abbiamo consapevolezza – l’abbandono fiducioso: “Io non so, Tu sai, mi affido”.
 
E’ la stessa fiducia che ci consente di vivere tutte le situazioni quotidiane, perché quelli esaminati sono criteri non solo per morire in modo umano ma sono anche criteri per vivere pienamente. Il dato della fiducia è fondamentale, proprio perché ogni resistenza che noi poniamo alla vita diventa un impedimento ad accoglierla, ogni sfiducia, ogni timore, ogni paura blocca l’accoglienza della vita.
In questo senso quindi occorre imparare a fidarsi senza riserve. Certo che a questo punto la fiducia non è la fiducia nelle singole creature come tali – perché attraverso il cammino abbiamo scoperto la provvisorietà di tutto – ma è la fiducia in Dio, cioè nella Pienezza della perfezione e della vita, che conosciamo solo per lontane approssimazioni. Per cui fidarsi della vita vuol dire fidarsi dell’amore che ci ha investito, che ci ha alimentato, fidarsi così dell’azione di Dio in noi, da essere in grado di perdere tutto per giungere ad una modalità nuova di vita.
 
Io credo che comprendiamo ora perché imparare a morire è il compito di tutta la nostra vita. Di fatto quando abbiamo imparato a morire, quel giorno abbiamo imparato a vivere in pienezza.
 

                                                                                                                                             (Carlo Molari)
 

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